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Cosa dice la bozza di accordo sui rifugiati tra Europa e Turchia e perché non funzionerà

epa05199234 A refugee child sits behind barbed wire in the refugee camp at the Greek-Macedonian border near Idomeni, Greece, 07 March 2016. Media and humanitarian organizations estimate that the number of migrants stuck at the Greek-Macedonian border crossing has swelled to 14,000. Macedonia has closed its borders to the wave of refugees wanting to pass through its territory to reach richer nations in western and northern Europe, straining bilateral ties with Greece. The Greek Foreign Ministry has threatened Macedonia with unspecified serious consequences if it does not let the refugees pass through. EPA/KAY NIETFELD

Ogni giorno in Europa arrivano circa 2mila persone da Siria, Iraq e Afghanistan. Lo scorso ottobre l’Europa aveva stabilito che 160mila tra i rifugiati arrivati in questi mesi sarebbero stati ricollocati in diversi Paesi, una quota ciascuno. Quattro mesi dopo, ne sono stati ricollocati 700 e a Idomeni, come altrove, c’è la situazione che vedete ogni giorno nelle foto e nei filmati dei telegiornali e nella foto qui sopra: bambini, donne e uomini vivono così perché non ci sono risorse o volontà di dare loro una stufa, un tetto, una scuola.
Se c’è una cosa da ricordare di fronte all’accordo di principio (così lo definiscono, qui il testo in italiano) tra Europa e Turchia raggiunto la scorsa notte è proprio questa. Sarebbe difficile da implementare se ci fossero quell’unità d’intenti, partecipazione, volontà che invece mancano. Figuriamoci nella situazione data. Europa e Turchia hanno dieci giorni per limare l’accordo e discutere dei particolari, un nuovo summit è infatti fissato per il 17 e 18 marzo.

Cosa dice l’accordo
L’Europa ha accettato di raddoppiare la cifra destinata al governo di Ankara (6 miliardi di euro invece di 3), un programma più snello di visti di ingresso per i cittadini turchi e, questo il punto importante, l‘introduzione di un sistema di scambio di rifugiati: le persone che sbarcheranno illegalmente in Grecia, rifugiati o meno, torneranno forzatamente in Turchia, da dove, per ogni persona rispedita oltre l’Egeo, verrà ammesso un rifugiato siriano. L’idea di fondo dell’accordo è mandare un segnale: non si entra più se non si è rifugiati siriani e, anche se lo si è, occorre fare domanda da un Paese terzo e non prendere una barca. Così, dicono a Bruxelles, si disincentiva la migrazione economica, finiscono i morti in mare e la si finisce con le emergenze umanitarie come quella a cui assistiamo in queste ore a Idomeni. Infine c’è l’annuncio dell’accelerazione del processo di valutazione relativo all’ingresso della Turchia nell’Unione europea.

Qui cominciano i problemi.
Il primo è proprio riferito all’accordo dello scorso ottobre: perché stavolta i Paesi che hanno fatto di tutto per evitare di implementare l’accordo sulla redistribuzione dei rifugiati in base a quote stabilite (e assistenza economica) dovrebbero accettare di farsi carico dei rifugiati provenienti regolarmente dalla Turchia? Il premier britannico Cameron ha già detto che Londra non ci pensa nemmeno. Quello ungherese Orban – che ha diversi simpatici alleati – ha invece annunciato il veto. Insomma rimane difficile capire se in 4 mesi si sono mosse 700 persone già presenti in Europa, cosa dovrebbe rendere il nuovo sistema di accoglienza più efficace.

Non solo: l’accordo è in contrasto con le leggi internazionali. Se io rifugiato sbarco in Grecia e chiedo asilo, sono le autorità greche che devono valutare la mia posizione. Espellere – per quanto in un Paese terzo – è probabilmente una violazione della convenzione di Ginevra (1951). Rispedire persone in un Paese che viola pesantemente i diritti umani è poi una violazione certa: come verranno trattate le persone rispedite in Turchia? I curdi, gli iracheni, gli afgani, che fine faranno?

Infine, se l’Europa decide di accogliere una persona rifugiata dalla Turchia per ogni persona che dalla Grecia viene riammessa in territorio turco, più persone passeranno il mare, più persone lasceranno la Turchia. Ankara, insomma, ha un incentivo a far partire le barche. Quanto poi al problema di gestire la riammissione verso i Paesi terzi – ovvero quelli di origine dei migranti o richiedenti asilo che non avranno i requisiti per tornare verso l’Europa – la Turchia avrà a sua volta un problema enorme. Oppure no: rispedirà la gente a casaccio, che i diritti e l’incolumità di quelle persone sia garantita o meno (il problema di rimandare le persone in un Paese che non rispetta i diritti umani è anche questo).

La debolezza dell’Europa
Ieri a Bruxelles erano 28 contro 1 e sembra proprio che Ankara abbia avuto risposte positive su quasi ogni cosa che chiedeva. C’era un accordo quasi scritto prima di ieri, ma al suo arrivo a Bruxelles, il premier Davutoglu ha spiegato che le richieste erano altre, ha alzato il prezzo e i 28 hanno più o meno deciso di pagare. L’Europa è così debole, divisa al suo interno e in preda al panico per la crisi dei rifugiati e le sue conseguenze politiche – la crescita dei partiti xenofobi, l’impopolarità dei governi – che ha alzato le mani di fronte alle richieste di Ankara. Non è un problema di dignità o nazionalismo europeo, ma un segnale di debolezza. Nello stesso momento esatto in cui Ankara accelera nel suo attacco ai diritti umani in Kurdistan e alla libertà di stampa – oggi un’altra irruzione in un’agenzia di stampa di opposizione – l’Europa non trova di meglio che cedere alle richieste di Erdogan su tutta la linea. Certo, ci sono i richiami ai diritti umani. E certo, il premier Davutoglu a Bruxelles ha giurato di essere un difensore della libertà di espressione.

Ma la verità è un’altra: la Germania voleva un accordo a tutti i costi e la Commissione vede la cooperazione con la Turchia come l’unica strada possibile per uscire in qualche modo dalla crisi dei rifugiati. Le altre strade – come anche le quote interne – sono fallite e il clima politico è tale che non sembrano esserci altre vie. Di fronte a una crisi vera l’Europa è divisa più che mai. E così la bozza di accordo – vedremo tra dieci giorni se se ne troverà uno – è debole in ogni senso: è una sconfitta politica, segna un precedente (chi gioca scorretto vince) e, quanto ai rifugiati, non affronta il problema vero: garantire un’accoglienza decente a queste migliaia di persone e lavorare per restituire loro un futuro.

Come si vive a Idomeni in questi giorni: le foto

epa05192938 Refugees have gathered around a campfire between railway tracks in a refugee camp in Idomeni located at the border between Greece and Macedonia, 03 March 2016. Macedonia is allowing restricted entry to refugees. At the border crossing in Idomeni a large camp with thousands of refugees has been established and new arrivals keep coming. EPA/MICHAEL KAPPELER

Voto alle donne, 70 anni fa la prima volta. Ecco come andò

Nel ’44 l’Italia era ancora spaccata in due, con i nazistifascisti al Nord e i partigiani e gli alleati che avanzavano città dopo città. Ma il vento della liberazione soffiava forte e il pensiero correva già al domani. Ecco cosa si legge in un decreto legislativo luogotenenziale del 24 giugno 1944: “Le forme istituzionali saranno scelte dal popolo italiano che a tal fine eleggerà a suffragio universale diretto e segreto una Assemblea costituente”. Suffragio universale. Qui è già contenuto il voto alle donne, che venne specificato poi con un altro decreto, quello del 31 gennaio 1945. Solo che – per distrazione? calcolo politico? – si dimenticò di prevedere l’eleggibilità delle donne. Togliatti e De Gasperi, erano le due “menti” che guidavano il dopo liberazione. Possibile che entrambi avessero timore di una partecipazione attiva delle donne nella vita politica? Mirella Serri in un articolo uscito il 2 marzo su la Stampa racconta che il liberale Manlio Lupinacci “con una specie di voce dal sen fuggita, dava corpo ai timori maschili: «Ho una certa diffidenza istintiva, tradizionale verso la partecipazione della donna alla vita politica. È questa l’ unica vera base di ogni opposizione di noi uomini». Poi però dichiarava di voler battere la strada della ragione. La quale comunque appariva ricca di trappole. «Le donne pencolano verso il passato reazionario», si lamentava Togliatti”.

Insomma, l’ arretratezza dell’Italia rispetto agli altri Paesi europei era una realtà. E’ vero, il fascismo aveva tolto ogni speranza di suffragio universale, tanto più che per il Duce la donna aveva valore solo come “Madre e sposa esemplare” , (dal titolo di un bel saggio di Piero Meldini del 1975, Guaraldi). Le speranze delle suffragette italiane guidate da donne come Anna Maria Mozzoni o Anna Kuliscioff si erano infrante nel 1919, quando venne approvata alla Camera una legge sul suffragio femminile ma poi, prima di passare al Senato, le camere vennero sciolte e non se ne fece nulla. Anna Maria Mazzoni era una “suffragetta” determinata, che non esitava a denunciare i “poteri forti”. Nel 1881 aveva detto: “Vi è il Quirinale, il Vaticano, Montecitorio e Palazzo Madama, vi è il pergamo e il confessionale, il catechismo nelle scuole e … la democrazia opportunista!“. Mussolini prima di affondare il colpo sulle donne con il mito della maternità, le illuse con la legge Acerbo che venne anche chiamata “voto alle signore”. Cioè avrebbero potuto votare alcune categorie di donne, donne “speciali”: quelle decorate, le madri di caduti in guerra, quelle che avevano studiato… Insomma, una bella prova di uguaglianza. Comunque, questa legge, prevista naturalmente solo per elezioni più “innocue”, quelle amministrative, cadde ugualmente nel vuoto. Anche perché le elezioni vennero cancellate dal fascismo…

Tanto per ricordare la differenza con gli altri Paesi. In Europa la prima fu la Finlandia nel 1906, poi venne la Norvegia nel 1913, poi ancora Danimarca e Islanda e nel 1918 l’Irlanda, e negli anni seguenti Paesi Bassi, Germania e Svezia, Stati Uniti e Canada, la Gran Bretagna nel 1928 e la Spagna nel 1931. Pecora nera la Svizzera che estese il voto alle donne solo nel 1971. Mentre in Nuova Zelanda si votava già dal 1893…

donne costituente

Il 10 marzo 1946 fu la prima occasione di voto alle donne. Quel giorno venne anche rimediato il “lapsus” della eleggibilità, con un altro provvedimento che la contemplava. Le elezioni amministrative riguardavano 436 comuni e alla fine vennero elette nei consigli comunali circa duemila donne. C’è una testimone particolare di quel giorno: è Teresa Mattei, una giovanissima donna di sinistra, partigiana, la più giovane eletta all’Assemblea Costituente, espulsa nel 1955 dal Pci per le sue critiche allo stalinismo. “Rammento solo una grande emozione, avevamo lottato per avere il diritto di votare: c’era entusiasmo e partecipazione e c’erano state, all’epoca, pressioni per indirizzare il voto femminile. Nelle case venivano fatti passare i facsimili delle schede”. Sono le parole di Teresa tratte da una intervista del 2006 che viene riportata da Patrizia Pacini nel libro La Costituente, storia di Teresa Mattei (Altreconomia). La partecipazione femminile fu elevata ed entusiasta. E i partiti dovettero far fronte all’ondata che spazzava via decenni di silenzio e di rassegnazione. Le donne che donavano le loro fedi al regime, le donne che sfilavano davanti al Duce con nidiate di bambini, le donne che piangevano i loro figli e mariti nelle guerre fasciste, ecco, tutte queste donne non c’erano più.

E probabilmente la reazione fu più vasta e consapevole di quanto pensassero gli stessi De Gasperi e Togliatti. Certo, ancora tanti passi dovevano essere compiuti per garantire uguali diritti.

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Teresa Mattei (unica donna nella foto qui sopra) nel suo discorso alla Costituente ci teneva a sottolineare che le donne non dovevano diventare mascoline, ma che la tutela dei diritti dell’una servivano anche all’altro. Cioè, dalla emancipazione delle donne ci avrebbe guadagnato tutta la società, uomini compresi.
Per rileggerlo, qui.

 

Un omicidio e Mario Adinolfi, tutti e due per vedere «l’effetto che fa»

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Ci sono questi due assassini deficienti che hanno pensato bene di uccidere Luca Varani per scherzo. Dopo essersi ingolfati di cocaina, Manuel Foffo e Marco Prato hanno pensato che non ci sarebbe stato niente di più eccitante che uccidere un ragazzo 23 anni dopo averlo torturato con coltello e martellate. Succede a Roma e subito ci si spinge a raccontare l’orrore con il suo vestito peggiore, quello dell’idiozia diventata gioco e spalmato su un omicidio. Davvero non so nemmeno cosa sarebbe giusto scrivere di fronte alla bestialità; quando mi hanno chiesto un articolo sono rimasto per diverso tempo a leggere tutti gli editoriali che gocciolavano in giro e mi sembrava di non avere il vocabolario per scrivere di quelle cose lì.

Di fronte alla bestialità ci vuole una lucidità senza rabbia né vendetta per scrivere parole che abbiano senso. Bisogna trovare davvero l’ingresso giusto per non cadere nel trombonismo e ogni tanto, quando non se ne trova l’intonazione, conviene fermarsi. Per questo mi ero ripromesso di non scriverne: perché ogni tanto ho il terrore di essere anch’io un ingranaggio cretino dell’effetto che fa. Dice Goffo che ha ucciso “per vedere l’effetto che fa”. Ha detto così ai carabinieri che l’hanno arrestato. Iniettandoci tutti nel gioco omicida: che sdegno che fa, gli editoriali che fa, il luogocomunismo che fa un omicidio del genere.

Poi però ho letto Mario Adinolfi. Fermi tutti: non leggo abitualmente Adinolfi per una questione di ecologia intellettuale ma ci sono capitato per caso. Del resto Adinolfi è uno di quelli che ha parole straboccanti che rischi sempre che ti finisca un suo schizzo quando meno te lo aspetti. Scrive Adinolfi sul suo profilo Facebook:

Repubblica riesce a raccontare l’orrore della morte di Luca Varani senza mai scrivere la parola “gay”. Eppure Manuel Foffo, l’omicida, a Roma era notissimo insieme all’amico Marco Prato come organizzatore di eventi per la galassia omosessuale. E Varani secondo l’ipotesi accreditata è stato ucciso per aver rifiutato un rapporto con Foffo ed il suo amico, in maniera infinitamente crudele. Come la professoressa Rosboch, vittima di altri due gay impazziti. Anche lì, la morbosità si concentra sulla povera donna strangolata e poi gettata forse ancora viva in un pozzo di acqua gelida, niente titoli sul rapporto omosessuale tra i due assassini, che pure forse ha puntellato il delirio omicida della coppia di amanti con un dislivello d’età di 34 anni. La lobby Lgbt nella comunicazione è molto forte, riesce a occultare i particolari per sé fastidiosi.

E quando leggi una stronzata del genere, mentre francescanamente frughi per trovare un buon buongiorno da scrivere, ti accorgi che la stupidità è bestiale in tutte le sue diverse forme, con la cocaina avanzata per terra impiastricciata col sangue ma anche in giacca e cravatta, oppure in 140 caratteri o in forma di partito, congregazione o ammucchiata. Insomma c’è una bestialità inquinante che a volte non porta risultati eclatanti ma raccoglie i cadaveri in giro per fare propaganda. Come Salvini. Come Adinolfi.

Buon martedì.

Idomeni, l’Europa che non c’è più

Children watch a cartoon movie in a field at the northern Greek border station of Idomeni, Saturday, March 5, 2016. The regional governor of the Greek region of Central Macedonia called on the Greek government Saturday to declare a state of emergency for the area surrounding the Idomeni border crossing saying that up to 14,000 people are trapped in Idomeni, while another 6,000-7,000 are being housed in refugee camps around the region, meaning the area was handling about 60 percent of the total number in the country. (AP Photo/Vadim Ghirda)

Tre ore di fila per un panino e un uovo sodo. Tredicimila persone, tra cui molte donne e bambini, sono ferme da giorni al confine tra Grecia e Macedonia nella speranza di riuscire a passare. Mentre a Bruxelles i capi di Stato europei discutono del loro destino, loro aspettano. «Impossibile convincerli ad andarsene, sono qui, vicini al confine nella speranza che si apra una finestra, anche per pochi minuti» dice un medico di Medici senza frontiere a Deutsche Welle. Prevedendo nuovi arrivi l’organizzazione ha montato nuovi tendoni e bagni pubblici.  «Siamo a un passo da una nuova crisi umanitaria» ha spiegato ai media una funzionaria Unhcr. I funzionari al confine verificano i loro documenti per controllare che non abbiano soggiornato più di 30 giorni in Turchia o Grecia – in caso contrario non li faranno passare. Allo stesso media tedesco un traduttore greco-arabo ha raccontato di aver assistito al sequestro dei documenti a un gruppo di siriani, che sono stati anche picchiati e spediti indietro dalle guardie macedoni, oggi assistite da quelle austriache e ceche. Su Left in edicola un reportage da Idomeni di Nicola Zolin

(le foto sono Ap e Ansa)

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Slovacchia, niente maggioranza per Robert Fico. In arrivo un’alleanza con la destra xenofoba?

A man gestures as he prepares to cast his vote during general elections in Trnava, Slovakia, Saturday, March 5, 2016. Polls opened on Saturday in Slovakia's parliamentary election with the ruling party of Prime Minister Robert Fico campaigning on an anti-migrant ticket. The leftist Smer-Social Democracy party is a clear favorite but analysts say Fico may have misjudged the public mood by focusing too much on Europe's migration crisis and not enough on Slovakia's own issues. (AP Photo/Petr David Josek)

Gli slovacchi hanno votato. E hanno scelto Robert Fico, il premier anche detto “l’Orbán slovacco” (pochi giorni fa, su Left.it, abbiamo delineato un breve profilo del leader). Anche se con quel 28,3% raggiunto dal suo Smer-Sd (molto meno del 34% annunciato dai sondaggi) il premier uscente non ha i numeri per assicurarsi il governo del Paese. Adesso l’ex comunista cecoslovacco dovrà trovarsi una maggioranza in un Parlamento pieno di forze di destra: il centrodestra del Sas (Libertà e Solidarietà), i conservatori di Oľano Nova, i nazionalisti dell’Sns e persino l’estrema destra di ĽS Naše Slovensko (Nostra Slovacchia) che con l’8% e 14 deputati entra per la prima volta nel Parlamento slovacco. Mentre il Siet di Radoslav Procházka, dato dai sondaggi come il principale competitor di Fico (con una previsione del 14,5%), si è fermato al 5,6%.

All’orizzonte si prospetta una nuova alleanza con le destre del Paese. Il che non sarebbe una novità per Fico che, per essersi alleato con la destra, nel 2006, venne sospeso dal Pse. E la (ulteriore) virata a destra della Slovacchia riguarda il gruppo di Visegrád (del quale la Slovacchia fa parte insieme a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria), che riguarda le politiche migratorie di quell’area e quindi dell’Unione. Del resto, la questione migranti è stata al centro della campagna elettorale e ha influenzato non poco il risultato slovacco, con il partito di Fico fermo sulla posizione di gestire la crisi con mezzi più severi in sintonia con il primo ministro ungherese Orbán. No alle quote obbligatorie di accoglienza dei migranti – un “sopruso dell’Unione europea”, secondo il governo slovacco, perché impone a un paese di ospitare un numero definito di migranti senza il consenso della popolazione. Poi, la questione della sicurezza nazionale al centro della propaganda di Fico che lega le migrazioni di massa al terrorismo internazionale.

Nel Paese permangono gli squilibri territoriali (con le zone nord-orientali più arretrate e meno beneficiate dagli investimenti) e la crescita economica registrata negli ultimi anni continua a non tradursi in benessere diffuso. Insomma, il disagio sociale resta. E la xenofobia lo cavalca.
Ultima nota. Smentiti i sondaggi anche per quanto riguarda la previsione di astensionismo (alle scorse elezioni europee ha raggiunto quota 87%). Questa volta, il 60% degli slovacchi si è recato alle urne.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Commercio internazionale: la minaccia cinese e le contraddizioni europee

A worker labors on the assembly line of minivans at a SAIC-GM joint venture in Qingdao in eastern China's Shandong province Tuesday March 1, 2016. China's manufacturing lost momentum again last month, according to two surveys of factory activity released Tuesday that highlighted sluggish conditions in the world's second biggest economy.(Chinatopix Via AP) CHINA OUT

Il 15 febbraio scorso, a Bruxelles, è andata in scena una manifestazione piuttosto insolita. Mentre si ripristinano confini che si credevano ormai dimenticati, le associazioni di impresa e i sindacati europei hanno trovato un’inconsueta unità per rivendicare la protezione dei loro interessi dalla ‘concorrenza sleale cinese’. E, come non capita di frequente, la Commissione è apparsa sensibile alle richieste della parti sociali annunciando di voler ergersi a paladina dell’equità commerciale violata.
Cosa ha messo sul piede di guerra le imprese europee? Il detonatore è stato il probabile riconoscimento alla Cina dello status di ‘economia di mercato’ così come previsto dagli accordi che sancirono, nel 2001, l’ingresso cinese nel Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio. Un ingresso fortemente voluto da Stati Uniti ed Unione europea quando gli stessi intravedevano la possibilità di sfruttare il lavoro cinese a basso costo, delocalizzando lì le loro produzioni, o ambivano ad accaparrarsi una parte di quello che sarebbe diventato uno dei mercati più vasti del mondo.
Oggi, il riconoscimento di questo status alla Cina imporrebbe la rimozione, o la sensibile riduzione, dei dazi sulle importazioni provenienti dal Celeste Impero. Uno scenario da brividi per un’industria, quella europea, che continua ad arrancare da quando è esplosa la crisi nel 2008 e che teme di venire ulteriormente sommersa da un mare di beni e materie prime a prezzi stracciati. A Pechino, tuttavia, non la pensano così. ‘Pacta sunt servanda’ ha tuonato il portavoce del ministro degli esteri cinese Lu Kang.
A ritrovarsi nel Parco del Cinquantenario, sono stati i rappresentanti dell’industria dell’alluminio, delle parti auto, dei semiconduttori, del vetro, della ceramica, dei pannelli solari. I sindacati europei rappresentati dalla Ces e numerose Ong. I manifestanti hanno riportato con preoccupazione i risultati di uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington. Lo studio prevede che, a seguito del riconoscimento, ci sarebbe un aumento dell’import di manufatti tra i 72 e i 143 miliardi di euro per anno, una riduzione del Pil europeo del 2% annuo ed una perdita di posti di lavoro che potrebbe raggiungere i 3.5 milioni di unità. La manifestazione ha ricevuto la solidarietà di quasi tutti i ministri dell’industria europei e segnali di condivisione da parte della Commissaria al commercio Malmstrom.
Finalmente un sussulto unitario dell’Europa, dunque? Un’Europa che si decide a tutelare l’occupazione ed a rivendicare il rispetto delle regole, a partire dal rispetto dei diritti dei lavoratori, nelle relazioni economiche internazionali? Ci sono molte ragioni per dubitarne. Al contrario, quanto sta avvenendo attorno a questa vicenda rivela la presenza di contraddizioni profonde in seno all’Europa. Rivela l’assenza di strategia e di coerenza nell’assumere scelte di politica economica. E rivela incongruenze con quanto i dati mostrano circa l’evoluzione delle relazioni economiche sino-europee.
I dati

Il commercio tra la Cina e UE ha visto un fortissimo incremento dal 2000 in poi. La Cina ha costruito il suo poderoso, e ben noto, surplus commerciale esportando beni, in larga parte ma non solo, ad elevata intensità di lavoro. L’Europa ha esportato ed esporta in Cina beni ad alta tecnologia e di alta gamma. Queste esportazioni hanno consentito, ad esempio, alla Germania di attenuare l’impatto della crisi sulle sue imprese dal 2008 in avanti (le esportazioni verso la Cina sono salite dal 3.1 al 5.4% sul totale dell’export tedesco nel periodo 2008-2015). La composizione dei flussi commerciali dalla Cina si è trasformata, nel tempo, in modo rilevante. L’incremento dell’export cinese è andato di pari passo con l’avanzamento tecnologico del paese. La politica del governo cinese ha consentito di beneficiare dell’ingresso dei capitali stranieri favorendo, al contempo, un costante trasferimento di tecnologia che ha arricchito e rafforzato le attività economiche locali. La crescita cinese si è dispiegata in un contesto di crescenti disuguaglianze, bassi salari e flussi migratori senza precedenti. Questo schema, tuttavia, è sembrato soddisfare vicendevolmente capitalisti europei e cinesi, almeno fino all’esplosione della crisi. Una soddisfazione che rendeva rumori di sottofondo le denunce delle condizioni di lavoro nella Repubblica Popolare.

Le contraddizioni

L’ingresso della Cina nel Wto ha rappresentato la possibilità, per le imprese europee, di realizzare profitti enormi producendo a basso costo in Cina e vendendo a prezzi occidentali in patria. L’immenso surplus commerciale cinese, brandito oggi come elemento probante per denunciare le slealtà cinesi ha coinciso con un altrettanto intensa accumulazione di profitti per le imprese occidentali. Una novità, tuttavia, emerge ed è forse proprio questa a preoccupare alcuni pezzi del capitalismo europeo. La forza, economica e tecnologica, delle imprese cinesi cresce rapidamente. E cresce anche la domanda interna, rendendo il paese asiatico sempre meno dipendente dall’occidente. La Cina, inoltre, si sta dimostrando abile nell’utilizzare uno strumento cruciale ma ormai pressoché sconosciuto in Europa: la politica industriale.
Ma le contraddizioni non sono finite qui. Gli strali lanciati da Bruxelles contro le slealtà cinesi stridono, da un lato, con quanto avviene all’interno di un’eurozona polarizzata tra Germania e paesi del Sud eternamente in crisi. Dall’altro, con il dibattito sull’accordo di libero scambio Europa-Usa, il TTIP.
Nel primo caso, fa effetto vedere come in prima fila nelle dimostrazioni vi siano i rappresentati dell’industria manifatturiera tedesca. Quella stessa industria che, grazie al contenimento del costo del lavoro in Germania e nei paesi dell’Est europeo, ha accumulato un surplus paragonabile, per dimensioni e velocità di accrescimento, a quello cinese. Accumulato, in particolare, nei confronti di paesi del sud Europa come l’Italia che, non sorprendentemente, han sperimentato un ridimensionamento della base produttiva. Proprio ciò che oggi l’Europa e la Germania vorrebbero scongiurare mantenendo i dazi contro le ‘slealtà cinesi’.
L’ultima contraddizione che è opportuno menzionare riguarda il TTIP, l’accordo che vorrebbe liberalizzare definitivamente gli scambi tra gli Stati Uniti e la Ue. Il TTIP è supportato dalle associazioni di impresa Ue e dalla Commissione. I principali argomenti a favore del Trattato rimandano alle supposte virtù salvifiche del libero mercato e alla possibilità di diffondere i benefici della libera concorrenza rimuovendo le barriere agli scambi internazionali. Esattamente gli stessi argomenti adotti quando l’ingresso cinese nel Wto era propagandato come ‘un’occasione storica da non perdere’. Ma c’è di più. Chi oggi si oppone all’approvazione del TTIP lo fa mettendo in luce i rischi a cui l’occupazione, la salute e l’ambiente europei verrebbero esposti se le rimanenti barriere al commercio transatlantico venissero abbattute. Preoccupazioni sostenute da autorevoli studi internazionali. In questo caso, però, le conseguenze economiche e sociali del TTIP non han destato la stessa preoccupazione nelle associazioni industriali e nella Commissione, differentemente da quanto sta accadendo rispetto alla ‘minaccia cinese’.
L’agire politico europeo è sempre più intriso di contraddizioni e l’attuale scontro con la Cina ne sta dando l’ennesima riprova. Se quel che si intende salvaguardare fossero realmente l’occupazione, le condizioni di lavoro e l’ambiente questo dovrebbe essere il faro guida di tutte le azioni politiche europee. Ad oggi questo faro sembra accendersi in modo fiacco e intermittente o, come in questo caso, per ragioni che paiono essere strumentali a specifici interessi economici più che a una visione strategica generale.

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L’evoluzione delle relazione economiche UE-Cina

L’Unione Europea e la Cina hanno delle strette relazioni economiche, con la Ue che è il principale partner commerciale del paese asiatico (429 miliardi di euro, il 13.4% del commercio con l’estero cinese). Per la Ue la Cina rappresenta invece il secondo partner dopo gli Stati Uniti con 428 milioni euro, il 12.5% del commercio estero europeo. Il commercio tra la Cina e l’Europa è aumentato dal 2008 al 2013, con la Ue che ha esportato, nel 2013, l’80% in più rispetto al 2009 e la Cina che ha visto, nel medesimo arco temporale, un aumento delle proprie esportazioni verso l’Europa del 30%. Il grafico che segue riporta il saldo commerciale europeo nei confronti della Cina, ovvero la differenza, in euro, tra esportazioni di beni e servizi verso la Cina ed importazioni dallo stesso paese verso l’Europa.

scambi commerciali Usa Ue

Fonte dati: elaborazione su dati Eurostat

La figura mostra il crescente approfondimento del deficit europeo nei confronti della Cina nel periodo 2006-2013. Questo dato, tuttavia, va considerato tenendo conto del fatto che nei dati lordi dell’import-export non è possibile identificare dove il valore aggiunto – ovvero il reddito vero e proprio che quei flussi hanno generato e che è legato alle diverse componenti costituenti un prodotto – viene geograficamente distribuito. Si pensi all’I-phone e a tutte le fasi di produzione, materiale ed immateriale, che vengono realizzate nei paesi occidentali prima di giungere in Cina per l’assemblaggio e la riesportazione verso i mercati del resto del mondo.

I dati dell’Ocse (Tiva-Database) mostrano come sul totale del reddito generato dalle esportazioni cinesi, in media, il 32% venga distribuito fuori dal paese asiatico. Il dato del settore dei beni legati all’elettronica (quello in cui vengono computate ed analizzate le esportazioni cinesi della catena del valore dell’I-phone) è, in questo senso, il più significativo: nel 1995 le il 74% dell’export lordo cinese rappresentava valore aggiunto distribuito all’estero; nel 2011 questo dato è sceso al 54%. Una misura del rafforzamento tecnologico della Cina di oggi.
I settori che hanno visto, nel periodo 2011-2014, un incremento sostanziale delle esportazioni europee verso la Cina sono stati i prodotti chimici (da 11.430 a 14.746 miliardi di euro) ed i manufatti legati all’industria dei trasporti (da 30.762 a 43.768 miliardi di euro). Tra le esportazioni cinesi l’incremento maggiore si è avuto nel settore dei macchinari (137.800 a 140.699 miliardi di euro), dei manufatti ottici e di precisione (7.373 a 9.049 miliardi di euro) e in quello delle calzature (9.690 a 10.260 miliardi di euro).
Di particolare interesse è la dinamica degli investimenti. Gli investimenti europei in Cina, spesso legati all’attività di multinazionali europee con controllate o partecipate operanti nella Repubblica Popolare, sono aumentati significativamente negli ultimi anni. I dati disponibili per gli anni 2011 e 2012 parlano, rispettivamente, di 20 e 15 miliardi di euro di investimenti diretti effettuati da imprese europee in Cina (Fonte dati: Eurostat e Tiva-Oecd).

Al sudafricano Santu Mofokeng il Premio Internazionale per la Fotografia 2016

Fondazione Fotografia e Sky Arte Hd hanno annunciato, questa mattina, il vincitore del Premio Internazionale per la Fotografia 2016: Santu Mofokeng.

Il prestigioso premio, il cui tema quest’anno era l’Identità, viene conferito ogni due anni ad un fotografo vivente che con la sua ricerca abbia contribuito in maniera significativa allo sviluppo della cultura legata all’immagine contemporanea e alle sue molteplici declinazioni.

«Non un riconoscimento celebrativo fra tanti, né tantomeno un premio alla carriera, ma un esempio di qualità. Santu Mofokeng è un autore che ha fatto della riservatezza uno stile di vita; non appartiene a nessun sistema e questa libertà gli ha permesso di creare immagini clamorose. La sua è una creatività totalmente aperta, che non si riferisce a un soggetto specifico ma ruota attorno al tema dell’affermazione di un’identità. La varietà di soggetti e la capacità di riuscire ad accostarsi ad essi con lucidità e ragionata asprezza contraddistinguono il suo lavoro”. »: queste le motivazioni della giuria presieduta da Filippo Maggia (direttore di Fondazione Fotografia Modena), e composta da eminenti curatori e direttori di musei: Christine Frisinghelli (fondatrice Camera Austria), Shinji Kohmoto (fondatore Parasophia Festival Kyoto), Simon Njami (co-fondatore Revue Noir) e Thyago Nogueira (capo dipartimento di Fotografia Instituto Moreira Salles, Brasile).

Santu Mofokeng, nato nel 1956 a Johannesburg, è il primo artista a ricevere questo riconoscimento ed è stato scelto tra una rosa di 6 finalisti finalisti che comprendeva Claudia Andujar (Svizzera), Rineke Dijkstra (Paesi Bassi), Jim Goldberg (Stati Uniti), Yasumasa Morimura (Giappone) e Zanele Muholi (Sudafrica).“
A lui vanno un premio in denaro del valore di 70 mila euro e una mostra personale presso il Foro Boario di Modena, ‘Santu Mofokeng, una solitudine silenziosa. Fotografie 1982 – 2011‘. L’esposizione, a cura di Simon Njami, è stata inaugurata domenica 6 marzo, e rimarrà allestita fino all’8 maggio 2016.

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Immagine in evidenza: Santu Mofokeng, Buddhist retreat near Pietermaritzburg Kwazulu Natal (2003) dalla serie ‘Chasing Shadows’, stampa ai pigmenti © The Santu Mofokeng Foundation. Images courtesy Lunetta Bartz, MAKER, Johannesburg

(a cura di Monica Di Brigida)

E ora una lista alternativa a Giachetti

La scheda per le primarie nel gazebo di via Donna Olimpia 6 Marzo 2016 a Roma ANSA/MASSIMO PERCOSSI

L’orso di Gianfranco Mascia è arrivato ultimo, restando sotto l’un per cento. Ha preso lo 0,8 ma si dice contento: «Siamo felici del risultato», dice il candidato dei Verdi che evidentemente continua a parlare anche a nome del peluche: «la partecipazione è andata meglio di quanto si credesse, questa coalizione può realmente combattere contro gli altri candidati e vincere».

Primo è invece Roberto Giachetti, come da pronostico. Il candidato di Matteo Renzi (che a Roma vuol dire Paolo Gentiloni) e Matteo Orfini ha staccato Roberto Morassut, arrivando a circa il 64 per cento dei voti. Può dunque esser contento quel pezzo di Pd che ha condotto la cacciata di Ignazio Marino, anche se i voti non sono tanti in assoluto: 50mila romani sono andati nei gazebo del Pd, ed è la metà di quanti se ne misero in coda per votare l’ex sindaco.

E così mentre Matteo Orfini minimizza («l’altra volta erano truppe cammellate dei capibastone», dice), il dato sull’affluenza fa crescere la tentazione di Massimo Bray che ad ore potrebbe dare una sua disponibilità per allargare così il progetto di una lista a sinistra del Pd già avviato dalla candidatura di Stefano Fassina.

La partita più importante per la sinistra resterebbe comunque quella di Napoli – dove l’uscente Luigi de Magistris si troverà contro una Valeria Valente che ha vinto le primarie staccando di neanche 500 voti Antonio Bassolino – ma le elezioni romane avrebbero così anche un altro respiro nazionale. Un impegno di Bray, infatti, permetterebbe di allargare ai civatiani e a un’altra fetta di forze civiche la corsa cominciata da Sinistra italiana.

Addio porte aperte: l’Europa chiude la rotta balcanica ai rifugiati

A refugee child standing at the border fence at the Greek-Macedonian border near Idomeni, Greece, 06 March 2016. Only a few refugees from Syria and Iraq are being let over the border into Macedonia each day. Photo: KAY NIETFELD/dpa

Aggiornamento delle 19: Durante la giornata la Turchia ha alzato la posta, chiedendo 6 miliardi invece dei 3 promessi dall’Europa lo scorso anno in cambio della riammissione dei migranti. Non solo: Ankara chiede anche più visti di ingresso per i cittadini turchi e l’accelerazione dei negoziati per la adesione all’Unione europea e un sistema di ritorno dei rifugiati in Europa – ovvero: noi riprendiamo i migranti espulsi ma l’Europa si deve fare carico di una parte dei rifugiati siriani.

Se a questo si accostano le perplessità di Angela Merkel sul linguaggio usato nel testo di risoluzione di cui si parla qui sotto, quelle di Martin Schulz e molti altri sulle trattative con la Turchia in materia di membership europea (la crisi dei rifugiati e l’ingresso della Turchia in Europa non possono essere parte della stessa trattativa, dice il presidente socialdemocratico del Parlamento Ue), la cena di stasera si presenta densa di questioni da risolvere. Molti leader europei di centrodestra sono infatti per mantenere il linguaggio che parla di chiusura della rotta balcanica – che di fatto è già chiusa, come Idomeni ci mostra bene – e di membership turca non vogliono sentire parlare. La giornata si è arricchita anche del discorso fatto da Erdogan, che ha criticato l’Europa per non aver versato i soldi promessi. Il problema dell’Europa, specie della commissione e della Germania, che vogliono risolvere la crisi in maniera europea. E in questo senso le alleanze tradizionali dei giorni della crisi dell’euro sembrano saltate: Berlino oggi è più vicina a Roma e Atene che non a Londra o Parigi.

 

Aggiornamento delle 13: da Bruxelles arrivano voci su una possibile revisione del testo finale diffuso questa mattina. Angela Merkel sarebbe contraria alla formulazione relativa alla chiusura della rotta balcanica che potete leggere qui sotto, il suo portavoce ha detto che il testo circolato è frutto di speculazioni e la stessa premier tedesca ha spiegato che «non si tratta di parlare di chiusura». È in corso un braccio di ferro, il vertice si è aperto e mezzogiorno con la presenza turca, i leader europei si riuniranno di nuovo nel pomeriggio (senza il turco Davutoglu) per scrivere il comunicato finale. Vedremo quale sarà la versione finale. Intanto pare di capire che la Turchia abbia alzato il prezzo finale per la propria collaborazione. Cosa chiede in cambio dell’aiuto Davutoglu? Solo più soldi o anche mano libera in Kurdistan (in Siria non può).

 

 

 

Chiudere la rotta balcanica a migranti e rifugiati e rispedire più gente possibile in Turchia in cambio di soldi (3 miliardi di eruo) e due occhi chiusi in materia di diritti umani. Se vogliamo fare una sintesi un po’ facilona di quanto sta per accadere al vertice straordinario europeo sull’immigrazione (con Turchia presente) convocato per oggi a Bruxelles, il concetto è questo.
Dopo una settimana di viaggi nelle capitale europee e ad Ankara, il piano individuato dal presidente del Consiglio europeo, il polacco Donald Tusk, è semplice a dirsi e difficile (e brutto) a farsi. Fermare i flussi irregolari attraverso i Balcani e in ingresso in Grecia, accelerare la redistribuzione delle persone che hanno diritto all’asilo e il rinvio a casa, passando per la Turchia, di quelle che non ce l’hanno. Obbiettivo finale: scoraggiare i flussi migratori verso l’Europa, far capire al mondo che la politica delle porte aperte è finita e tornare lentamente alla normalità in materia di controllo dei confini all’interno dell’Europa – ovvero tornare alla normalità di Schengen.
Questo almeno è quel che si evince dalla copia della dichiarazione finale del vertice di oggi ottenuta da Politico Europe sulla quale, scrive Jacopo Barigazzi citando una fonte diplomatica anonima «non ci sono controversie».
Il testo della dichiarazione citato da Barigazzi recita: «I flussi irregolari di migranti lungo la rotta dei Balcani stanno volgendo al termine; questa strada è chiusa» e che l’obbiettivo è quello di applicare la road map della Commissione europea. Il percorso stabilito prevede un ritorno alla normalità di Schengen a dicembre, dopo che la Grecia avrà risposto alle 50 raccomandazioni avanzae da Bruxelles, l’Europa avrà monitorato i comportamenti di Atene, Frontex sarà stata rafforzata, le navi da guerra Nato e Frontex che monitorano il mare davanti alla Grecia avranno determinato una riduzione dei flussi – lotta al contrabbando di esserei umani, lo chiamano – e così via.
Il testo riconosce che di strade ce ne sono altre: non è difficile infatti pensare a una strada che dalla Grecia porti in Albania e dalle coste albanesi in Puglia – o anche più semplicemente facendo un viaggio per mare più lungo e più rischioso.

A oggi un terzo delle persone che arrivano sulle isole greche sono siriani, ma molti altri sono iracheni (c’è l’Isis e ieri a Baghdad sono morti in molti a causa di un’autobomba) o afghani. Che destino avranno? E gli attivisti politici curdi turchi sui quali in queste settimane? Il tema non è secondario, mentre Ankara negoziava gli accordi con Bruxelles, aumentava la repressione interna in Kurdistan e sulla stampa di opposizione: l’ultimo atto clamoroso è l’occupazione manu militari della redazione di Zaman, giornale critico nei confronti di Erdogan e del suo AKP. La reazione europea è di sdegno moderato: Mogherini collega l’ingresso in Europa della Turchia al record sui diritti umani, ma a dire il vero il tema non è a llordine del giorno, la discussione è su chi si riprende i rifugiati in maniera che Austria, Germania, Danimarca, Francia la smettano con i controlli di frontiera. Del destino dei rifugiati e di quello degli oppositori in Turchia, a Bruxelles non sembrano preoccuparsi troppo.

Il piano Ue ha anche un altro problema: il diritto internazionale richiede che le domande di asilo vengano valutate prima di respingere le persone. L’asilo è una questione individuale: sei tu che sei in pericolo o perseguitato, non un popolo. Per questo le Nazioni Unite mettono in dubbio l’idea di respingimenti di massa. Il piano, insomma, potrebbe non rispondere alle norme del diritto internazionale.

La prossima settimana è previsto un altro vertice che dovrebbe anche riscrivere le norme degli accordi di Dublino (che prevedono che un richiedente asilo debba fare domanda nel primo Paese dove mette piede, lasciando, in questa fase, il grosso degli oneri a Italia e Grecia). Un’ipotesi allo studio – anticipata dal Financial Times – prevede la revisione totale degli accordi e l’introduzione di un sistema di quote per i richiedenti asilo. A ciascuno un po’. È lo stesso tipo si ipotesi approvata mesi fa durante il punto più alto dell’emergenza. E che non è stata messa in pratica per disfunzioni e scarsa collaborazione dei Paesi dell’est (e non solo).

Ieri intanto 25 persone sono morte in mare – ne arrivano ancora 2mila al giorni sulle costre greche –  e in Slovacchia ha vinto l’estrema destra nonostante il premier Fico la avesse rincorsa sul terreno di immigrazione e rifugiati. E al confine greco macedone la situazione resta catastrofica: entrano in Europa solo i siriani che dimostrano di venire da aree dove si combatte.

 

Le primarie delle pulci. E del Pd

Innanzitutto il rispetto. Rispetto mica per delle primarie che a Roma vengono strombazzate fanfaronamente da un Orfini che si scioglie come neve al sole ma rispetto per le persone (e quelle sono sempre straordinariamente tante e straordinariamente motivate) che nonostante tutto si sono alzate presto, hanno montato i gazebo, preparato i tavoli, i materiali informativi, hanno lasciato un sorriso che non tradisse delusione o rancore, hanno passato un giorno a Roma tra il vento e la pioggia, hanno provato a fare delle macerie il concime davvero per qualcosa di nuovo. Ecco, io credo che Orfini o Giachetti che esultano bluffando sui numeri dovrebbero stamattina provare a sedersi con loro, quelli che le hanno fatte le primarie, con k-way e berretto a contare le schede rovesciate sul tavolo.

Perché il capitale che stiamo buttando, nel centrosinistra, è questa rete di persone capaci di mantenere un ottimismo della ragione come se fosse una missione. Perché se queste primarie avessero dovuto apparecchiarle i dirigenti, i quadri del Partito di Renzi, coloro che da ieri sera appaiono distesi nelle interviste di rito, ecco se avessero dovuto rimboccarsi le maniche loro, i Guerini, gli Orfini, le Boschi eccetera,  queste primarie fatte da loro sarebbero state a forma della delusione quando a Natale la pista dei trenini appena scartata si scopre che non si accende. Una cosa così.

Quando si comincia ad interpretare i numeri significa che si ha una bassissima opinione dei propri lettori: giocare a convincerci che la metà rispetto alla volta precedente sia comunque molti di più dei votanti alle primarie di un altro partito è la prova che la politica si fa pollaio, gli ideali diventano adesivi catarifrangenti e la serietà è una scena da mimi. Io, davvero, ammetto che mi piacerebbe riuscire a sedermi con i dirigenti del PD, davanti a una birra e almeno scoprire che le dichiarazioni di soddisfazione per delle primarie a Roma vinte da colui che le aveva già definite “un circo” siano semplicemente strategia. Mi tranquillizzerebbe sentirlo, mi sentirei almeno meno alieno.

Il Partito Democratico ha dissanguato in pochi anni un patrimonio di energie (oltre che di elettori) per abbeverare il suo leader. Lui, Renzi, imperversa bullo con ospitate nazionalpopolari. Fosse stato Pertini avrebbe preteso di portarsi a casa il pallone, ai mondiali del 1982. E mentre il leader continua instancabile nel suo percorso di presidenza del consiglio neomelodica ci vorrebbero convincere che le primarie siano state un successo. Le primarie che sono state partecipate la metà di quelle che elessero Marino. E per non perdere la memoria andate a rileggervi le prime pagine di quel lunedì 8 aprile 2013: «flop primarie» intitolavano i quotidiani. E la metà del flop oggi è un successo.

Il confine tra la politica e la propaganda è un filo sottile che si tiene in un equilibrio precario tra il bordo di una costruttiva autoreferenzialità e la millanteria. Se in un deserto i giganti appaiono giganti per il nanismo generale si rischia di perdere il giusto peso delle cose, dei numeri, delle situazione e di sprecare le emozioni. Queste primarie romane sono state il “mercatino delle pulci” da cui dovrebbero convincerci di avere partorito dei leader. E mentre il PD si rinsecchisce il suo leader è sempre più sorridente è più satollo. Come i vampiri.