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Ad Alessio Zemoz il “Premio Fotografia Italiana” under 40

È stato Alessio Zemoz, trentunenne di Aosta, ad aggiudicarsi il Premio Fotografia Italiana under 40 promosso da Fondazione Fotografia, Sky Arte e UniCredit e riservato ad artisti emergenti italiani che operano attraverso i molteplici linguaggi dell’immagine, promosso in parallelo al Premio Internazionale.

Zemoz si è imposto grazie al progetto ‘lo vàco – il vuoto’, un’indagine sui paesaggi abbandonati della Valle d’Aosta. “Tra documentazione, produzione artistica nell’ambito della fotografia contemporanea e ricerca scientifica di matrice antropologica, il lavoro di Zemoz restituisce uno spaccato dell’identità del suo territorio d’origine. Partendo dalla constatazione che non è possibile fotografare il vuoto, l’artista ha cercato di evocarlo attraverso una narrazione che unisce fotografie di paesaggio a fotografie di famiglia, evidenziando la relazione inscindibile tra luoghi e persone che caratterizza i territori alpini della regione. Zemoz, al tempo stesso oggetto e soggetto della ricerca, non cade mai in una rievocazione nostalgica, ma ci indica piuttosto come la progressiva scomparsa del passato conduca anche alla perdita del suo senso”: queste le motivazioni della giuria, la stessa del Premio Internazionale.
Ad Alessio Zemoz, scelto tra una rosa di 10 finalisti, vanno un premio in denaro del valore di 15 mila euro e una mostra personale al Foro Boario di Modena, ‘Alessio Zemoz. Lo vàco – il vuoto’, a cura di Christine Frisinghelli, allestita in parallelo a quella di Santu Mofokeng, fino all’8 maggio 2016.

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In evidenza: Alessio Zemoz, Lo Vaco / Il Vuoto, 2012-2014, Immagine dalla serie, dittici e trittici, 50×40 cm ciascuna fotografia, stampa inkjet © Alessio Zemoz
(a cura di Monica Di Brigida)

La Francia si mobilita contro la riforma del lavoro. Hollande e Valls in difficoltà

A student holds a placard reading: "Labour law. No Thanks" during a protest in Paris, Wednesday, March 9, 2016. Angry unions and youth have entered a show of force with French President Francois Hollande in a day of protests against the government's effort to tamper with the country's 35-hour workweek to create new jobs. Several union and student organizations called protests across France on Wednesday to try to kill the bill which has even divided Hollande's Socialists. (AP Photo/Christophe Ena)

Gli studenti francesi e i sindacati sono scesi in strada contro la riforma del lavoro proposta dal governo Valls. I sindacati dei trasporti hanno invece scioperato contro le condizioni di lavoro che giudicano intollerabili. Un pessimo segnale per il presidente in carica, che si vede contestato a sinistra e da un pezzo del suo partito.
Una riforma simile a quella definita Macron-Khomri (i ministri di economia e lavoro) venne proposta nel 2006 durante la presidenza Chirac (Sarkozy era all’Interno) e venne ritirata dopo una enorme mobilitazione degli studenti.
Manifestazioni si sono svolte a Parigi, Tolosa, Grenoble, Lile e molte altre città. Secondo i sindacati nelle strade del Paese c’erano mezzo milione di persone, un quinto dei quali studenti, la polizia fornisce numeri più bassi, ma comunque cospicui: in Francia i sindacati sono deboli e, in questo caso, manifestano contro il governo socialista. Molti licei sono occupati e la manifestazione di Parigi raccoglieva diverse decine di migliaia di persone (100mila secondo la Cgt).

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Cosa prevede la riforma Macron-Khomri:

  • La riduzione agli ostacoli per il licenziamento del personale
  • Facilitare il lavoro straordinario e, comunque, consentire di lavorare molto di più che non le 35 ore stabilite dalla legge
  • Dare alle imprese maggiori flessibilità per tagliare le ore di lavoro e ridurre la retribuzione di conseguenza

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Sia Hollande che il premier Valls sono in grande difficoltà: una petizione online contro la riforma ha raccolto un milione di firme, mentre i sondaggi indicano come la riforma sia impopolare. La cosa ha senso: la destra del Front National che vola nei sondaggi – oltre che un pezzo cospicuo dell’elettorato di sinistra e centrosinistra – è anti-liberista e caratterizza il suo essere a destra per le parole d’ordine razziste e nazionaliste. Ieri il primo ministro ha affrontato una riunione del gruppo parlamentare del suo partito che preme per ottenere modifiche del testo di legge proposto. Il premier, hanno riferito diversi parlamentari, sembra aperto a introdurre modifiche, mentre il ministro dell’economia Macron sembra inflessibile.

Difficile però individuare, al momento, un’alternativa politica seria: Aubry ha perso le ultime primarie proprio contro Hollande ed è il vecchio e altre figure con la sua statura non se ne vedono. Il prossimo 17 marzo, prima che la legge vada in discussione all’Assemblea nazionale il 24, gli studenti hanno lanciato una nuova mobilitazione.

Employes, workers and students demonstrate in Marseille, southern France, Wednesday, March, 9, 2016. France's transport unions and youth organizations hold strikes, amid anger over proposed labor law changes that take aim at the 35-hour workweek and make layoffs easier. Large banner being held at the front of the demonstration translates to " No to the scrapping and diminishing of labour rights"  .(AP Photo/Claude Paris)

(AP Photo/Claude Paris)

Rifugiati, Slovenia e Croazia chiudono i confini. E a Idomeni piove

epa05202583 Refugees gather in a camp at the border between Greece and the Former Yugoslav Republic of Macedonia (FYROM), near Idomeni, northern Greece, 09 March 2016. Greece estimates that more than 25,000 migrants are presently on its territory, with more than half stuck at the makeshift camp Idomeni, on the border with Macedonia. The EU and Ankara are negotiating a scheme to return migrants from Greece to Turkey and directly resettle legitimate Syrian refugees across the bloc directly from Turkey. The deal would likely only apply to new arrivals, making the future of those already in Greece unclear. EPA/VALDRIN XHEMAJ

Slovenia e Croazia da oggi rifiutano il transito alla maggior parte dei migranti attraverso il loro territorio, nel tentativo di isolare la rotta dei Balcani. Una scelta, quella dei due stati ex jugoslavi che implicherà una scelta simile da parte della Serbia, che chiuderà le frontiere con Bulgaria e Macedonia.

A Idomeni – e probabilmente in tutti gli altri luoghi in cui ci sono sacche di rifugiati e migranti fermi alle frontiere – fa freddo e piove, come vedete nel video qui sotto. E i rifugiati, che cominciano ad aver chiaro che il confine non verrà aperto, protestano pacificamente da due giorni.

I rifugiati protestano, scavano trincee e raccontano le loro storie ai cronisti che si aggirano per il campo. Per fortuna Medici Senza Frontiere e molte altre organizzazioni umanitarie sono sul terreno e portano aiuto. Tra le nuove cose arrivate la tenda qui sotto di Msf «affollata ma almeno asciutta» come recita questo tweet.

Intanto, come già scrivevamo nei giorni scorsi, i dubbi sulla legalità della bozza di accordo tra Europa e Turchia sono sempre di più: le agenzie Onu, giuristi e le Ong ne contestano la ratio giuridica. Lo ha detto Amnesty International con un comunicato molto duro e lo ha detto, anche se in forma più diplomatica, parlando al Parlamento europeo Filippo Grandi, Alto commissario per i rifugiati delle Nazioni Unite: «Come prima reazione sono profondamente preoccupato per qualsiasi accordo che comportasse il rientro forzato o il trasferimento da un Paese all’altro di chiunque senza avere garanzie di protezione dei rifugiati in base al diritto internazionale”, ha detto all’aula di Strasburgo.

Infine, come hanno spiegato molti rifugiati siriani all’inviato di The Guardian a Istanbul, l’accordo non cambierà le cose: le persone fuggono dalla guerra e non hanno nessuna intenzione di rimanere in Turchia: «Se il viaggio è comunque illegale, perché dovremmo smettere di farlo? Noi siriani stiamo cercando comunque la nostra strada aggirando le regole» dice una ragazza di 23 anni. Quasi tutti gli intervistati, salvo quelli che non aspettano altro che non tornare a casa a guerra finita, ripetono: se la Grecia è chiusa, cercheremo un’altra strada.

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(foto Ap e Ansa)

#Parliamone, i video bloggers contro i pregiudizi sull’immigrazione

Sono tutti musulmani, ci rubano il lavoro e ci stanno invadendo. Pregiudizi e voci contro numeri, è questo l’intento di un bel progetto nato dall’idea di una laureanda, Noemi Biasetton (è la sua tesi di laurea) e che ha coinvolto valigiablu e openmigration, grafici e una serie di youtubers italiani, gente che normalmente non fa necessariamente campagne sociali e che con ogni probabilità parla a un pubblico diverso da quello dei media tradizionali. #Parliamoneproject è esattamente questo: prendere pregiudizi e sciocchezze che circolano sull’immigrazione e smontarli attraverso i numeri utilizzando un mezzo efficace per parlare a chi non è necessariamente informato o non si informa ma ascolta il rumore di fondo che propaga un messaggio a volte razzista a volte falso. Risultato del progetto sono una serie di brevi video realizzati con lo stile di ciascun youtuber, più o meno seri, montati o realizzati semplicemente parlando alla propria webcam nei quali si prende un cliché e lo si smonta.

Eccone un paio qui sotto, assieme al video di presentazione di tutto il progetto. Un bel progetto.

Giovani e opposizione ai trattati di commercio: Sanders si prende il Michigan

Hillary Clinton contava su una cosa per vincere in Michigan: il No di Berne Sanders al salvataggio dell’industria dell’auto. Non ne aveva considerate due: la sua posizione sui trattati di commercio internazionale e una altissima partecipazione dei giovani alle primarie. E così, sebbene per un soffio – 50% a 48% e quindi non con un grande salto in avanti in termini di delegati – Bernie Sanders si è preso lo Stato dell’auto.

Il segnale per Hillary è forte: i sondaggi le assegnavano un vantaggio netto. Erano sbagliati anche quelli, proprio perché nessun sondaggista aveva previsto che la campagna Sanders sarebbe riuscita a motivare i giovani in maniera tale da farli diventare il 20% degli elettori totali. Quanto i senior over 60, una cosa inaudita alle primarie, dove sono le fasce di meno giovani, più avvezze alla politica, che fanno la parte del leone.

Un successo e una buona notizia per i democratici: gli exit poll dicono anche che la larghissima maggioranza degli elettori è soddisfatta di entrambi i candidati. La preoccupazione per Clinton, che però ha vinto il Mississippi 80% a 20% – prendendosi quindi la maggior parte dei delegati – è che nella Rust Belt, l’enorme zona che un tempo fu il cuore pulsante dell’America industriale, Sanders potrebbe andare forte e lei avere difficoltà. I trattati del commercio, il TTP e il TTIP (che coinvolge l’Europa) preoccupano operai ed ex operai ce hanno visto le fabbriche volare in Messico con il Nafta e in Cina con il Wto. In Michigan sanno che rischi si corrono a liberalizzare il commercio e a togliere regole. E non vogliono nuovi trattati. Ora, Clinton ha detto di essere contraria – il suo punto di distanza maggiore da Obama – ma lo ha fatto in questa campagna elettorale, cambiando opinione rispetto al passato. E Sanders lo ha ricordato agli elettori. Ciò detto, entrambi i candidati, hanno parlato con rispetto gli uni degli altri e attaccato gli avversari. Tutto sommato un segno di unità se paragonato alla guerra interna senza esclusione di colpi a cui si assiste all’interno del partito repubblicano (i discorsi qui sotto in un montaggio del Washington Post).

Nel discorso alla stampa prima di ripartire Sanders ha spiegato tre cose: ci davano per morti, siamo vivi e abiamo vinto tre caucuses e uno Stato; abbiamo le risorse e i volontari che danno una grande spinta alla campagna; nel midwest e nella costa ovest faremo molto bene. Probabile abbia ragione, e anche se no riuscirà a ottenere la nomination, avrà contribuito in maniera netta a posizionare e cambiare la linea politica del partito democratico. Se dovesse vincere Hillary, e volesse che i giovani di Sanders le diano una mano dal punto di vista organizzativo e si presentino ai seggi a novembre, alcune posizioni di Bernie dovranno per forza essere prese in considerazione. (qui sotto 30 secondi sulla storia e le battaglie che hanno portato alla creazione dei sindacati in Michigan)

Sul fronte repubblicano le notizie sono due: il muro contro Trump non ha funzionato e Rubio, la speranza repubblicana, uno che appena giunto sulla scena nazionale sembrava destinato alla Casa Bianca, la risposta ispanica e repubblicana a Obama, è fuori dai giochi. Non sono serviti  i sostegni, i soldi, l’appoggio di Romney: Trump ha vinto tre Stati su quattro con almeno dieci punti di vantaggio, al Sud come al Nord, Cruz ha vinto nell’ultraconservatore Idaho e Rubio è spesso arrivato terzo dopo il governatore dell’Ohio Kasich, che vincerà il suo importante Stato e in Michigan è arrivato a un millimetro da Cruz. Il senatore texano continua ad accumulare delegati e a inseguire, ma se il miliardario newyorchese dovesse vincere la Florida e l’Ohio i giochi sarebbero fatti, le trincee del partito repubblicano travolte e il partito sarebbe cambiato per sempre – difficile prevedere cosa diventerà.

E no cari, è troppo facile essere ignoranti

«Viva gli ignoranti!» urla Donald Trump in una campagna elettorale di primarie Usa che dopo avere tracimato i bordi del buon senso si avvia a superare il buongusto. Gli ignoranti intesi come quelli che si vogliono permettere di non dover rispondere all’etica comune, quelli che si cullano di un cuore dentato come se fosse la normale evoluzione di un’umanità così guardinga da dimenticarsi di essere umana. «Viva le persone semplici!» urlava Silvio Berlusconi mentre si ingegnava per iniettare una giustizia direttamente proporzionale alla popolarità: più una cosa è condivisa più è giusta ci diceva e così pagare le tasse alla fine è diventato un vezzo da coglioni. «Io credo che la gente…»: inizia sempre così le sue frasi Salvini, l’ultimo figlioccio dell’utero in affitto alla sciocchezza pop. Lui crede che la gente debba credere per forza che ci sia da credere che quello che dice lui sia il pensiero più in voga e per fortuna che c’è lui a levarci i freni per poterlo dire: “io non sono razzista ma basta negri, io rispetto quelli che lavorano ma non rispetto i rom se non lavorano, io rispetto italiani e stranieri ma prima lavorino gli italiani, io sono per la libertà di tutti basta che non disturbi la mia ed è la mia a dettare i confini a tutti gli altri”.

Guardando da fuori questa nuova moda che propone gli ignoranti come moderna categoria cool verrebbe da dire che si tratti di una sparuta minoranza di cretini che ha avuto occasione di essere classe dirigente. E invece no: l’ignoranza è moda perché concede a tutti di stare un po’ meno attenti, di dover pesare meno le parole, di permettersi stizze giustificate, di non vergognarsi di essere invidiosi o beceri o inumani. È un giardino comodissimo e incustodito quello dell’ignoranza: ci si pascola indisturbati in attesta del prossimo litigio televisivo, della miccia del prossimo sdegno o del vomito contro qualcuno. Se decidi di concederti la libertà di essere ignorante diventa terribilmente semplice mostrare la tua parte peggiore. Te ne vanti pure. Chiunque sia troppo educato è solo uno “snob”. E chiusa così.

Non c’è differenza tra Andreotti che si compra l’anziana elettrice mentre esce dal suo ufficio con il pacco di pasta sotto il braccio e qualche cartamoneta in lire e piuttosto questa nuova liberalizzazione della superficialità: tutti identicamente schiavi della stessa elemosina che costa poco al donatore ma gli garantisce una delega piena. Fare gli ignoranti oggi è il portamento elegante dei disinteressati. Eppure chi è disinteressato alla politica è nemico della democrazia. Ne parlava anche un certo Pericle. Che però non ha più spazio in tivù. E non funziona più.

Buon mercoledì.

Le chiamavano primarie

Bassolino si dice disgustato e annuncia ricorsi. A Roma la minoranza Dem spiega l’affluenza bassissima, e quelle migliaia di schede bianche spuntate sotto un cavolo, con il doppio incarico. Renzi troppo impegnato a Palazzo Chigi non potrebbe fare pure il segretario. Perciò tanta gente diserta le urne e qualcuno, invece, offre un euro per un voto.
Non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere. Le primarie sono finte e non servono solo a regolare i conti tra le correnti. I cittadini non si appassionano alla scelta del sindaco se mancano i programmi e le personalità, a parte qualche sempre verde, sempre di ritorno. I candidati di Renzi e dell’apparato alla fine prevalgono perché il Pd è di Renzi e dell’apparato. Anche chi vuole ricostruire il centrosinistra, anche chi si è scottato le mani con la tendenza della sinistra a scindersi come la fissione nucleare, dovrebbe aver capito che serve prima dire una cosa di sinistra, poi proporla agli elettori e infine cercare convergenze e alleanze.

Nuovo round di primarie Usa, funzionerà il muro anti-Trump?

Republican presidential candidate Donald Trump and Republican presidential candidate Sen. Ted Cruz, R-Texas, greet each other on stage during a rally organized by Tea Party Patriots in on Capitol Hill in Washington, Wednesday, Sept. 9, 2015, to oppose the Iran nuclear agreement. (AP Photo/Carolyn Kaster)

Oggi si sta votando in diversi Stati, la infinita vicenda delle primarie, che Hillary Clinton e l’establishment repubblicano speravano di chiudere entro il SuperTuesday, stavolta passa per il Michigan, il posto più importante dove si vota, il Mississippi, l’Iowa e le Hawaii – i democratici votano solo nei primi due, in Iowa non ci sono primarie ma un caucus. Il test è cruciale per i repubblicani, che sperano e pregano di avere cominciato a costruire un muro attorno a Donald Trump. Certo è che Rubio sembra finito e senza un’ottima prova stanotte non gli basterà vincere in Florida – dove pure è incalzato da Trump.
Cruz spera di emergere come l’alternativa a TheDonald, ma questo preoccupa i moderati del suo partito. Possibile piccola sorpresa il governatore dell’Ohio Kasich, che punta a fare decentemente, vincere l’Ohio e presentarsi come l’unico volto ragionevole del partito repubblicano – il suo disegno è arrivare a una convention dove non ci siano vincitori. Un sondaggio del Washington Post pubblicato oggi rileva che Trump resta in netto vantaggio su tutti ma che il suo vantaggio si è assottigliato. Stanotte ci dirà se è un trend, un caso o, comunque, un dato non abbastanza forte da cambiare la dinamica della corsa. Un sondaggio sull’Illinois indica che anche nello Stato il miliardario di New York è in testa con dieci punti di vantaggio su Cruz e Rubio appaiati attorno al 20%.
In campo democratico l’attenzione è per il Michigan, lo Stato dell’industria dell’auto, di tanti operai bianchi ed ex operai di quelli che potrebbero votare Sanders – ma anche di tanti afroamericani, che nella Detroit dei tempi d’oro hanno creato musica che ha fatto epoca. Sanders e Clinton hanno litigato proprio sull’industria dell’auto: nell’ultimo dibattito Tv l’ex first lady ha accusato il senatore socialista di non aver votato il piano di salvataggio dell’industria dell’auto voluto da Obama. Un bel colpo, perché parla proprio agli operai dell’industria dell’auto che non hanno perso il lavoro. I due hanno discusso molto anche della crisi dell’acqua al piombo di Flint, la città di Michael Moore. Ancora una volta il messaggio è comunque: siamo più uniti dei nostri avversari, discutiamo di cose, non ci insultiamo. In Mississippi vincerà Clinton al 99%.

Qui sotto invece (attivate i sottotitoli italiano con il tasto CC) trovate un video che racconta come funziona un caucus, una cosa di cui sentiamo parlare per mesi senza avere chiaro cosa sia. Siamo in Kansas, vediamo la gente registrarsi, dividersi in schieramenti e poi cercare di convincere gli altri. È un po’ un gioco, un po’ un’assemblea, ma tutto con regolamenti chiari, meccanismi oleati e risultati sicuri. Non esattamente come le primarie del Pd a Napoli.

Carpe DiEM. Dopo Parigi, Berlino e Madrid, Varoufakis arriva a Roma il 23 marzo

Roma ospita DiEM25, il movimento per la democrazia in Europa di Yanis Varoufakis. Dopo Parigi (autunno 2015), Berlino (febbraio 2016) e il Matadero di Madrid (19, 20 e 21 febbraio scorsi) il cammino anti austerity prosegue. Questa volta, l’“Appello contro la austerità e per un’Europa democratica” fa tappa a Roma. Il 23 marzo sarà una giornata di lavori e dibattiti. Saranno presenti – oltre all’ex ministro delle Finanze greco -,  la portoghese Marisa Matias del Blocco di Esquerda, il filosofo croato Srecko Horvat, l’italiana Marica Di Pierri per aSud, la scrittrice Igiaba Scego, il presidente di Emergency Cecilia Strada e Lorenzo Marsili per il movimento European Alternatives. Questi sono solo alcuni nomi dei partecipanti al 23 marzo, annunciati sul sito internet dedicato democraziaineuropa.eu

 

«Troppo spesso siamo posti di fronte a una falsa scelta: abbandonare il progetto europeo o accettare uno status quo fallimentare», scrivono gli organizzatori. «Noi rifiutiamo questa dicotomia perché sappiamo che un’alternativa esiste». Per costruirla, si terrà un’assemblea aperta alle 10 del mattino con movimenti, associazioni, attivisti e partiti. Poi, la discussione riprenderà alle 19 con un grande evento pubblico, speakers eccezionali e un’orchestra. Il programma è ancora in costruzione, vi aggiorneremo nei prossimi giorni. Intanto, l’appuntamento è per il 23 marzo alla Casa dell’Architettura di Roma, per chiedere Trasparenza in Europa. Anche a Roma, Left ci saràPer sostenere la realizzazione dell’evento e DiEM25 è possibile partecipare al crowdfunding su produzionidalbasso.com

Zimbabwe, Mugabe si prende le miniere di diamanti

FILE - This is a Wednesday, Nov. 1, 2006 file photo of miners as they dig for diamonds in Marange, eastern Zimbabwe, Wednesday, Nov. 1, 2006. Zimbabwe began selling millions of carats of rough diamonds Wednesday Aug. 11, 2010, that were mined from an area where human rights groups say soldiers killed 200 people, raped women and forced children into hard labor. Abbey Chikane, Zimbabwe monitor of the world diamond control body, certified the diamonds ready for sale on Wednesday, having said controversy-plagued diamonds from eastern Zimbabwe met minimum international standards. (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi-File)

Robert Mugabe, eterno presidente dello Zimbabwe lo ha annunciato senza peli sulla lingua: il governo nazionalizzerà tutte le miniere di diamanti del Paese. Monopolizzerà, dunque, «per impedire che le imprese straniere trafughino le gemme». Il grande vecchio Mugabe, 92 anni compiuti lo scorso 21 febbraio, è presidente del suo Paese sin dal 1987. Anticolonialista prima, marxista leninista poi, ha instaurato un regime dittatoriale, perciò il suo Zimbabwe è stato escluso dal Commonwealth, e lui è considerato “persona non grata”, uno status che gli nega l’ingresso nell’Unione europea e negli Stati Uniti. Ma di mollare lo scettro non se lo sogna nemmeno. A un giornalista che osato porgergli questa domanda ha risposto: «Vuole che le dia un pugno per accorgersi che sono ancora qui?». Anzi, sarà lui il candidato presidenziale alle elezioni del 2018 e, se vincerà, completerà il nuovo mandato a 99 anni.

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il presidente Robert Mugabe

«Non abbiamo ricavato molti soldi dall’industria di diamanti. Il nostro popolo non è stato in grado di vedere quello che stava accadendo, attraverso i furti e il contrabbando perpetrati dalle compagnie minerarie che ci hanno derubato della nostra ricchezza», ha detto Mugabe intervistato dalla Tv di Stato. Già lo scorso mese, il ministro per l’attività mineraria, Walter Chidhakwa, aveva annunciato il sequestro delle miniere di diamanti del distretto di Chiadzwa. Ma è Marange la principale delle miniere di diamanti del Paese. Situata al confine con il Mozambico e gestita in joint venture con i cinesi, la miniera è stata scoperta nel 2006. Fino ad allora erano solo due le miniere conosciute (River Branch al sud, la più antica, gestita per qualche anno da compagnie canadesi e australiane e poi venduta per la sua scarsa redditività, e Murowa al centro, sfruttata dal colosso minerario australiano Rio Tinto), in quell’anno vengono scoperti i diamanti a Marange, nell’area est del Paese, al confine con il Mozambico: diamanti disseminati in una grande area, lungo i corsi d’acqua, diamanti che si possono recuperare anche scavando con il piccone e la pala. In poche settimane la zona si riempie di cercatori di diamanti e Marange diventa un far west: militari e poliziotti contro cercatori e scavatori.

lavoratrici nella miniera di Marange
Lavoratori nella miniera di Marange

Massacri, uccisioni sommarie, torture, lavoro forzato, sfruttamento minorile: sono questi i tasselli dell’industria diamantifera zimbabwese. Nel 2009, un rapporto di Human Rights Watch ha denunciato l’immenso giro di prostituzione, contrabbando e corruzione a Marane. A seguito delle denunce, tra il 2009 e il 2011, la miniera di Marange ha subìto dal Kimberly Process (un sistema di certificazione concordato dai governi dei paesi esportatori e importatori di diamanti, con la collaborazione esterna dell’industria dei diamanti e delle Ong) un divieto internazionale di esportazione dei diamanti, al fine di escludere dal commercio mondiale i diamanti estratti in zone di conflitto e di grave violazione dei diritti umani. Gli emissari del Kimberley Process hanno constatato anche che i militari hanno già il controllo quasi totale dei campi diamantiferi di Marange, e che sono loro a manovrare la rete di contrabbandieri. Le vittime morte in questi anni nell’inferno di Marange sono ufficialmente più di 200, ma le cifre reali sarebbero nell’ordine di alcune migliaia, considerando il fatto che bambini e uomini sono costretti con la forza dall’esercito a lavorare nelle miniere, patendo fame e sete.

Harare, donne e bambini prendono l'acqua da un pozzo non protetto
Harare, donne e bambini prendono l’acqua da un pozzo non protetto

La miniera, scoperta dalla sudafricana De Beers, (che però non ha fiutato l’affare del secolo e ha rinunciato alla concessione) è stata trasferita dal governo alla britannica African Consolidated Resources. Fino al momento in cui il governo di Harare decide di prendere per sé quello che è uno dei più ricchi depositi di diamanti del mondo. Mugabe decide di non rispettare il diritto commerciale, si appella ad alcuni vizi di forma nel contratto ed espropria forzatamente l’impresa inglese. Intanto, lo Zimbabwe – rimane uno dei Paesi più poveri al mondo. Con un debito (stimato nel 2013) di 132 milioni di dollari nei confronti del Poverty Reduction and Growth Facility (Prfg), un’agenzie del Fondo monetario internazionale che sostiene i Paesi poveri e di 1,5 miliardi con la Banca mondiale e la Banca africana di sviluppo. Nonostante la ricca miniera. E la produzione di diamanti – scrive Bloomberg – non aumenta: nei primi 5 mesi del 2015 è scesa da 660 mila a 420 mila carati, e i proventi finiscono in gran parte nei paradisi fiscali. Dai diamanti, in Zimbabwe, non nasce nemmeno il letame.

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