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Winter is trumping, la parodia di Trump via Games of Thrones

«Non abbiamo più una frontiera, io costruirò un muro, il più alto che abbiate visto». Oppure: «Non possiamo far entrare chiunque, abbiamo un problema con l’islam radicale, un problema enorme e non possiamo più essere il Paese stupido che eravamo» spiega Donald Trump a Daenerys Targaryen, la madre dei draghi e protagonista (tra gli altri) di Games of Thrones. Il mash up che prende in giro le sparate anti immigrati di Donald Trump, mischiandole con immagini della serie Tv più famosa del momento è stato montato da un comico australiano Huw Parkinson e ha fatto 400mila visite in poche ore.
Il gioco è facile: c’è Daenerys Targaryen che chiede asilo in città e Donald le impedisce di entrare «Ma moriremo»…«Ma vi impedisco di entrare solo temporaneamente, non per sempre». E poi c’è il muro, quello che nella serie Tv è The Wall, che separa il mondo dalle remote regioni del Nord dove vive una popolazione di marginali, e che Donald promette di costruire alla frontiere con il Messico. Infine, il waterboarding, «non solo riprenderò a usarlo, ma introdurrò cose molto peggiori».
Il montaggio è di qualità e il tutto fa piuttosto ridere.

Calais, Australia, Sassonia: società civili che maltrattano minori rifugiati

Storie di rifugiati. Bambini e adolescenti, che ormai nemmeno per loro l’Europa (o la civile Australia) sembrano essere capaci di essere solidali. Da Calais alla lontana Nauru, «Dobbiamo trovare una soluzione, in particolare per i bambini. È scioccante pensare che così vicino a Londra e Parigi la gente, specialmente centinaia di bambini non accompagnati, vivano in una situazione così terribile. Due terzi del settore verranno evacuati». Così Jude Law, l’attore britannico in visita con una serie di colleghi artisti alla Jungle di Calais, che attende di essere sgomberata del suo migliaio di rifiugiati nei prossimi giorni.
Lo sgombero è stato rinviato dopo che l’organizzazione britannica Help Refugees ha diffuso la notizia che, a guardar bene, i rifugiati nel campo non sono un migliaio ma 4500, il dieci per cento circa tra questi sono bambini e minori.

Sotto il tendone del Good Chance Theatre, il teatro messo su, come molti altri servizi e un centro per le vaccinazioni, all’interno del campo, Law ha letto una lettera a David Cameron chiedendo di ospitare dei minori in Gran Bretagna e adoperarsi perché protezione venga garantita dalle autorità francesi e, garantire, che la Jungle non venga sgomberata prima di aver individuato soluzioni per le persone che la abitano.

Al suo fianco, il comico Shappi Khorsandi, l’attore di sitcom Matt Berry, Toby Jones, Tom Stoppard – il regista di “Rosencrantz e Guildenstern sono morti” – e attrici Harriet Walter e Juliet Stevenson. Nel frattempo in Gran Bretagna, la lettera ha raccolto 100mila firme, tra cui quelle di altre figure importanti di cultura e spettacolo.

Dall’Australia un’altra storia poco edificante che riguarda minori rifugiati: una bambina di un anno, figlia di richiedenti asilo giunti nel Paese vi mare e ricoverata in ospedale per ustioni, verrà spedita a Nauru, isola stato dove l’Australia tiene i richiedenti asilo in attesa di dichiararne lo status giuridico, nonostante le proteste di queste settimane: «La bambina verrà curata in un centro di detenzione e poi andrà a Nauru» ha dichiarato il ministro dell’immigrazione Dutton, aggiungendo: «Non vogliamo si pensi che essere ammessi in un ospedale sia una maniera per riuscire a rimanere legalmente nel Paese». L’Australia ha persino rifiutato la proposta neozelandese di accogliere una parte dei richiedenti asilo.
La pessima legge australiana prevede l’arresto per chi entra nel Paese, poi rispedisce le persone a Nauru o, addirittura, obbliga le barche che intercetta a tornare indietro. I morti in mare non si contano.

E per chi se lo fosse perso, in Germania nei giorni scorsi abbiamo visto scene di violenza poliziesca contro i rifugiati che non volevano scendere da un autobus mentre fuori qualche centinaio di animali urlava loro contro. Nella stessa località, Bautze, Sassonia, l’albergo che ospitava i richiedenti asilo ha preso fuoco. Tra le grida di gioia di quache locale. La vicenda ha generato grandi polemiche in Germania, i Verdi hanno chiesto al capo della polizia locale di dimettersi. La scena qui sotto, c’è un video peggiore, in cui un ragazzino viene trascinato via dalla polizia tra le grida urlanti della piccola e incivile folla. Basta descriverlo.

Undicesimo comandamento: odia i gay

Ci sono delle regole nel marketing del giornalismo e della politica poiché entrambi hanno bisogno di risultati: voti, clic, copie vendute o nella migliore delle ipotesi un po’ di branding. Si scrive e si dice provando a indovinare l’effetto che fa. E provate a pensare che autolesionismo si praticherebbe nel cominciare l’ennesima settimana che dovrebbe essere decisiva per la legge sulle unioni civili con un pezzo che rischia di confondersi con tutto il marasma vomitato addosso a questi che, appena usciti da una vita spesso passata a nascondersi, oggi si trovano cannibalizzati dal dibattito pubblico. La discussione della disegno di legge Cirinnà ha sdoganato il chiacchiericcio contro il frocismo: tutti hanno il diritto di offendere questa feccia di gay nei loro intervalli sociali dentro la compita vita da indignati specializzati. La  discussione in Senato ha dato il diritto all’omofobo peggiore di essere considerato un opinionista politico.

Ecco, punto primo: io spero, miseri inumani parlamentari, che paghiate caro e paghiate tutto questo aver oscenamente denudato una categoria. Per inficiare una legge siete scesi negli anfratti dei particolari sessuali, avete solleticato le corde più pelose dei dogmi carnali, avete pittato con vernice pornografica l’amore di alcuni. Che passi o non passi il ddl Cirinnà questo Parlamento sarà quello che ha reso un popolo di allenatori di pallone anche psicoterapeuti antigay. Ognuno ha avuto modo di esprimere con boria scientifica il proprio pregiudizio a forma di straccetto: analisi sui bimbi, battute sui culi, paradossali esperienze personali e tradizioni  rimasticate.

Ad esempio mi chiedo quanto ci metterà il “comprarsi un figlio per sfizio” coniato da qualche sconclusionato necrocattolico a cancellarsi. Sarà un modo di dire percorribile per i prossimi vent’anni, con sdegno o con ironia, per chiunque voglia buttare nel cesso la discussione sull’argomento. Una battuta a disposizione del mondo per odiare con il sorriso. Evviva. E chissà se ci ricorderemo mai per davvero le facce, i nomi e le storie di quelli che hanno sventolato una condanna che sarà dura a marcire; chissà perché la nostra memoria sociale continua a salvare solo la cattiveria contro i fragili, chissà perché gli uomini mica presi uno per uno, dico gli uomini tutti insieme, si affamano nell’esser forti con i deboli per asservirsi ai forti. È una strana persona, la gente, quando la convincono che bisogna avere paura.

Undicesimo comandamento: odia i froci. Puoi farlo a poco prezzo in questo fine febbraio dell’anno 2016, preistoria di un’etica disegnata sulle pareti delle grotte da un popolo che cerca i trans prima di tornare a casa dopo l’ufficio, comandamento scolpito da microdotati boriosi a caccia di carne fresca e minorenne, incenso dondolato dai cardinali che si assolve in nome di dio. Ogni tanto c’è qualche odio che viene liberalizzato per garantire un grado salvifico di ‘mbriacatura generale: ora tocca ai gay. Odia i gay, stai al passo dei tempi. Quando la Storia ve ne renderà conto avrete già in tasca le quattro avemarie per uscire di prigione. Come al monopoli. Beati voi.

Buon lunedì.

In Messico prosegue la strage dei giornalisti

epa05159394 Correctional officers secure alleged regional leader of the Zetas cartel osele M·rquez 'el Chichi' identified as the alleged mastermind of the murder of the journalist Anabel Salazar in Veracruz, Mexico, on 13 February 2016. EPA/STR

Città del Messico – Sono le due del mattino dell’8 febbraio. Un commando armato irrompe in casa di Anabel Flores Salazar, giornalista dello Stato di Veracruz. «Indossavano uniformi militari, portavano armi di grande calibro, casco, passamontagna e giubbotti antiproiettile», racconta Sandra Luz Morales, zia di Anabel. La giornalista non è più tornata a casa dai suoi due bambini, il secondo di appena 15 giorni. La foto del suo corpo seminudo, con le mani legate dietro la schiena, ritrovato ai bordi di un’autostrada alla periferia di Veracruz, rimbalza in ogni angolo del Paese. Assieme alla paura di quanti sono impegnati, a vario titolo, sullo stesso fronte di Anabel Flores.

Guiomar Rovida, accademica della Universidad autonoma metropolitana di Città del Messico, esperta in comunicazione e movimenti sociali, sfoga con Left la sua rabbia e la disillusione: «Non posso più andare avanti con tutto questo. Non posso più far girare la foto della giornalista assassinata, non posso più immaginare la sua terribile agonia né il dolore che avrà provato sapendo che stava per lasciare il suo bambino senza latte, senza madre. Non posso più ascoltare il report del gruppo forense argentino che smaschera il governo e le prove false che ha collezionato fino ad oggi rispetto alla scomparsa dei 43 studenti di Ayotzinapa. Non posso più leggere che ai genitori dei cinque ragazzi scomparsi a Veracruz il governo ha  inviato soltanto una cassa di cartone con poche ceneri e un pezzo di tibia». Nel 1994 Guiomar Rovida fu la prima giornalista europea a scrivere del Movimento Zapatista e delle lotta delle sue donne. Ha collaborato con il subcomandante Marcos inviando i suoi messaggi, i famosi “comunicati”, in tutti i continenti. Di lotte e trasformazioni ne ha viste tante negli ultimi venti anni, ma la realtà di oggi prosciuga tutte le parole.


 

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Dario Fo e il suo doppio. Un marinaio contro i prepotenti

Dario Fo
Il premio Nobel per la Letteratura Dario Fo nel suo appartamento durante la presentazione alla stampa del nuovo libro, "La figlia del Papa", Milano, 9 aprile 2014. The Nobel Prize in Literature, Dario Fo in his apartment during the press presentation of the new book, "The daughter of the Pope", Milano, April 9, 2014. The books tells about Lucrezia Borgia. ANSA / MATTEO BAZZI

Dario Fo è sempre stato un artista spiazzante: quando nel 1962 presenta Canzonissima ma non risparmia sketch provocatori, e dopo essere stato censurato abbandona il programma; quando nel 1970 in Morte accidentale di un anarchico si ispira al caso di Pinelli ricevendo decine di denunce; quando nel 1977 torna in Tv in prima serata con Mistero buffo raccontando il Vangelo in modo poco canonico.

E Dario Fo è spiazzante ancora oggi: quando entrando nella sua casa normale in un condominio normale in Corso di Porta Romana a Milano, troviamo la porta aperta, come se fossimo nella bottega di un artigiano che ci deve aggiustare una cinta e non di un premio Nobel, e dentro capiamo che è tutto vero, che è tutta creatività e ricerca allo stato puro, senza pause. Con poca vanità, con niente di appariscente ad arredare tra i tanti quadri; quando lo vediamo spettinato, ma vestito come in scena, mentre sposta le tele e le tavole, con la voce più afona e sofferente, un po’ infastidito dalla luce, con la fede al dito, guardando un suo nuovo dipinto, mentre saremmo lì per parlare del suo ultimo romanzo, Razza di zingaro, ma lui ha già lo sguardo orientato al futuro, alla sua nuova opera, in fase di scrittura, di cui ci vuole parlare in anteprima: i Menecmi, non di Plauto, i suoi.


 

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Trivelle, il referendum dell’assurdo

È il referendum dell’assurdo quello del 17 aprile sulle trivelle. Il governo ha deciso di boicottare la consultazione sul prolungamento “a vita” delle concessioni petrolifere in scadenza, quelle entro le 12 miglia al largo dei nostri mari, fissando una data a breve scadenza e negando l’accorpamento con il voto alle Amministrative. Significa un esborso di circa 360 milioni di euro per le casse dello Stato, ma la cifra potrebbe addirittura raddoppiare: la Corte Costituzionale, infatti, sta vagliando due conflitti di attribuzione (sulle trivelle a terra e sul coinvolgimento degli enti locali) che potrebbero diventare altrettanti quesiti, e quindi rendere necessario un nuovo appuntamento referendario sullo stesso tema. Da qui l’appello – caduto nel vuoto – al Presidente Mattarella a non controfirmare l’indizione delle consultazioni, anche per evitare un contrasto con il pronunciamento della Consulta, atteso per il 9 marzo.

Su questo tema il governo è nel pallone. Con lo Sblocca Italia ha dichiarato “strategiche” le trivellazioni, esautorando di fatto Regioni ed enti locali da ogni decisione. Lo scorso dicembre poi, complice la pendenza di sei quesiti referendari (dei quali finora è sopravvissuto soltanto quello sulle concessioni già in essere), ha introdotto con la legge di Stabilità il divieto di ricerca di idrocarburi entro le 12 miglia dalla costa (poi il Mise ha rigettato 26 progetti) e garantito maggiore partecipazione agli enti locali. Anche l’allarme sulle trivelle al largo delle Isole Tremiti è rientrato: la Petroceltic, titolare della concessione, ha annunciato che non la utilizzerà. Dopo la notizia che anche la piattaforma abruzzese di Ombrina Mare non si farà, restano in piedi i progetti in Sicilia, quelli oltre le 12 miglia e i tre grandi giacimenti dove già si estrae petrolio: il Guendalina di Eni nell’Adriatico, il  Rospo di Edison davanti alle coste abruzzesi e il  Vega, anche questo di Edison, nel canale di Sicilia davanti a Ragusa. Questi ultimi, se passa il sì, alla scadenza delle concessioni dovranno cessare le attività.

Il timore del governo è che, una volta raggiunto il quorum, la portata del referendum vada ben oltre la lettera del quesito e la vittoria del “sì” consolidi un consenso generalizzato ad arrestare l’italica “corsetta” al petrolio. D’altro canto, la mobilitazione dell’ultimo anno ha visto saldarsi le istanze di comitati locali, associazioni ambientaliste, sindaci e Regioni. E nel frattempo cadono progressivamente anche le ragioni di chi spiegava che «se non lo facciamo noi, il petrolio lo estrarranno i nostri dirimpettai». Il primo ministro croato Tihomir Orešković ha annunciato di recente una moratoria delle perforazioni, mentre i NoTriv pugliesi hanno chiesto al governo montenegrino, e a quello italiano che deve dare il consenso, di bloccare ogni attività di ricerca per gli evidenti rischi ambientali e per il pericolo di intercettare ordigni inesplosi.

Ma tornando alle acque di casa nostra, a chi giova restare attaccati al greggio? Al di là (o forse a causa) delle pressioni delle lobby, le previsioni contenute nella Strategia energetica nazionale, datata 2013, enfatizzano il potenziale delle nostre riserve, i giacimenti ancora da sfruttare. «Le risorse potenziali totali ammontano a 700 Mtep (milioni di tonnellate equivalenti di petrolio, ndr) di idrocarburi (peraltro, dato che negli ultimi 10 anni l’attività esplorativa si è ridotta al minimo, è probabile che tali dati di riserve siano definiti largamente per difetto)», recita il documento politico-programmatico. Stando alle previsioni governative, “trivellando tutto il trivellabile” copriremmo l’intero fabbisogno italiano di gas e di petrolio per oltre 5 anni, che diventano 50 mantenendo l’attuale livello di ricorso agli idrocarburi estratti in Italia. Il documento, in realtà, chiarisce che le riserve “certe” ammontano a 126 Mtep, mentre sono soltanto “probabili e possibili” le restanti 574. Per Legambiente «le nostre riserve coprirebbero soltanto 8 settimane di fabbisogno nazionale, un’inezia rispetto ai rischi e ai costi che comporterebbe estrarlo». È un’assurdità, spiegano dal movimento NoTriv, dinanzi a un tracollo del prezzo del petrolio come quello attuale.


 

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Clinton, Sanders, Trump e Rubio sono in forma: cosa è successo in Nevada e South Carolina

Democratic presidential candidate Hillary Clinton, left, speaks on stage accompanied by her husband and former President Bill Clinton during a Nevada Democratic caucus rally, Saturday, Feb. 20, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/John Locher)

Clinton e Trump escono vincenti dalla nottata di Nevada e South Carolina. Ma per entrambi i partiti la corsa non è finita.

Le notizie:
Nei caucus del Nevada Hillary Clinton vince con il 52,7% contro i 47,2% di Sanders, molto meno di quanto non fosse previsto dai sondaggi qualche settimana fa. Ma pur sempre un risultato accettabile, non il fotofinish dell’Iowa. Bernie Sanders ottiene un ottimo risultato e mantiene alcuni punti di forza notevoli. Ora tutti in South Carolina.
Nelle primarie della South Carolina, Donald Trump è avanti di dieci punti (32,5%) rispetto a Marco Rubio e Ted Cruz (22,5% e 22,3%), secondo e terzo quasi appaiati. Jeb Bush, finito quarto sotto l’8% si ritira dalla corsa. Era il superfavorito dell’estate scorsa. La dinastia Bush sembra finalmente finita. Il miliardario newyorchese, invece, è sempre più la figura da battere. A cominciare dal Nevada.

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., center, sings with musicians and actors after a rally Friday, Feb. 19, 2016, in Henderson, Nev. (AP Photo/Jae C. Hong)
Bernie Sanders e una serie di musicisti e artisti che lo sostengono. (AP Photo/Jae C. Hong)

Democratic presidential candidate Hillary Clinton, center right, poses for photos with supporters during a rally Friday, Feb. 19, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/John Locher)
Selfie con Hillary Clinton a Las Vegas (AP Photo/John Locher)

Chi ha votato per chi
Tra i democratici le donne hanno votato più per Clinton e gli uomini più per Sanders. Sette giovani su dieci si sono schierati per il senatore del Vermont e due terzi degli over 45 per Hillary. La sorpresa demografica della serata è la vittoria di Bernie tra i latinos, segno di una capacità di espandere la propria base originaria (bianca). Clinton conferma la sua forza tra gli afroamericani – e nel discorso della vittoria nomina tutti temi a loro cari (la polizia e la riforma del sistema giudiziario, l’acqua al piombo di Flint): in South Carolina, si vince con il loro voto.

Members of the crowd cheer before Republican presidential candidate, Sen. Ted Cruz, R-Texas, appears for his South Carolina primary night rally at the South Carolina State Fairgrounds in Columbia, S.C., Saturday, Feb. 20, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)
Sostenitori di Ted Cruz  a Columbia(AP Photo/Andrew Harnik)

Republican presidential candidate Donald Trump smiles during a South Carolina Republican primary night event, Saturday, Feb. 20, 2016 in Spartanburg, S.C. (AP Photo/Paul Sancya)
Tra i repubblicani è più complicata. Trump vince tra coloro, tanti, che si dicono stufi di come vanno le cose a Washington (il 40% del totale), quelli che chiedono che tutto cambi. Trump vince in quasi tutti i gruppi tranne i molto conservatori (che vanno a Cruz) e i giovani, che sono un quarto per lui e un quarto per Marco Rubio. Una costante importante nelle settimane che verranno, quando si vota in più Stati contemporaneamente e avere una base larga e un messaggio nazionale conta più dell’organizzazione. Se ha funzionato fino a oggi, potrebbe funzionare meglio dopo. Poveri e non istruiti votano Trump: una forza potenziale, anche contro i democratici In un elettorato tipico del Sud, religioso e conservatore nel 73% dei casi, l’evangelico Ted Cruz non riesce a sbancare in quella che la sua base naturale. E non la allarga.

Republican presidential candidate, former Florida Gov. Jeb Bush accompanied by his wife Columba, speaks at his South Carolina Republican presidential primary rally in Columbia, S.C., Saturday, Feb. 20, 2016, (AP Photo/Matt Rourke)
Addio Jeb Bush (AP Photo/Matt Rourke)

Cosa significa l’uscita di scena di Jeb Bush?
Che l’establishment repubblicano ha perso il suo candidato. Deve in fretta trovarne un altro e questi è quasi necessariamente Marco Rubio. L’abbandono di Jeb significa milioni di dollari di grandi donatori pronti a convergere altrove. Rubio dovrebbe approfittarne. E in termini di voti? Kasich e Rubio sono i meglio posizionati a raccogliere l’eredità di Bush, non grande ma significativa. Il primo ha puntato tutto su un paio di Stati avanti nella cors,a per rendersi credibile, ergo non mollerà subito. È la figura di buon senso della pattuglia repubblicana. Ma quanti elettori di buon senso ci sono nel 2016 tra coloro che partecipano alle primarie del partito? Qualcuno suggerisce (ma è improbabile accada) a Rubio di chiedere a Kasich di ritirarsi e offrirgli il posto da vice nel ticket repubblicano. A quel punto i due sarebbero l’alternativa di partito a Trump.

Prossime tappe?
Ora i destini dei partiti si incrociano, si va in Nevada per i repubblicani e in South Carolina per i democratici. Trump e Clinton molto favoriti. Rubio potrebbe andare forte tra gli ispanici del Nevada (ma quanti sono quelli repubblicani? Pochi forse).

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., center, poses with hotel workers at Caesars Palace hotel and casino Friday, Feb. 19, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/Jae C. Hong)
Bernie Sanders con il personale del Ceasars Palace (AP Photo/Jae C. Hong)

Cosa ci dice la scorsa notte?
In campo democratico le cose restano come erano: Sanders ha entusiasmo, milioni di piccole donazioni e molti soldi in cassa. E tanti volontari. Il suo messaggio chiaro e forte piace ai giovani. La corsa non è affatto finita, Hillary resta favorita, ma, come raccontiamo su Left in edicola, l’America di Sanders c’è, è viva e attiva e può riservare sorprese. Comunque, senza quell’entusiasmo Clinton non vince contro i repubblicani: ergo non deve e non può attaccare e distanziarsi troppo da Sanders. La forza di Trump, con tanti americani che dicono di essere stufi di Washington, ci dice che senza uno slancio alla Sanders, il rischio è che una parte del voto della working class vada a Trump, se sarà lui il candidato. Quanto a Hillary, il discorso della vittoria in Nevada, aggressivo, populista, rivolto alle minoranze, è forse la miglior cosa di questa campagna. Il primo segnale di forza, come candidata, da un paio di mesi.

Republican presidential candidate, Sen. Ted Cruz, R-Texas, speaks to a boy in the audience after speaking at his South Carolina primary night rally at the South Carolina State Fairgrounds in Columbia, S.C., Saturday, Feb. 20, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)
Ted Cruz (AP Photo/Andrew Harnik)

Tra i repubblicani Trump resta superfavorito, ma Rubio è quello che esce meglio dalla South Carolina. Ted Cruz infatti non trionfa in uno Stato a lui congeniale. Certo, se si ritirasse il neurochirurgo ultrareligioso Ben Carson, Cruz avrebbe un nuovo pezzo di elettorato su cui contare. Ma Cruz ha usato giochi sporchi contro carson in Iowa e l’afroamericnao potrebbe decidere di restare ancora un po’ in gara per fargli un dispetto. Specie al Sud, molto coinvolto nel voto del SuperTuesday, il primo marzo. E quindi crescerebbe. Rubio però sembra l’unica forza credibile e dopo un disastro in New Hampshire, ieri notte le sue azioni valgono di più. L’establishment ha disperato bisogno di un candidato sul quale puntare per fermare Trump. Probabilmente sceglierà lui. Ma alcuni grandi donatori potrebbero puntare su Trump. La corsa sembra essere diventata a tre. Saprà Rubio coalizzare i moderati senza perdere i conservatori? E saprà Cruz allargare la sua base a una parte di moderati? Il SuperTuesday, quando votano 11 Stati, una battaglia che si combatte molto stando anche sui canali nazionali. Un vantaggio per Trump, che non ha quelle che si chiamano ground operation (una campagna locale ben organizzata) e che ha fatto bene anche dove queste sembravano indispensabili.

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., pauses for a selfie as he greets hotel workers at Caesars Palace hotel and casino Friday, Feb. 19, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/Jae C. Hong)
Selfie con Bernie  (AP Photo/Jae C. Hong)

Attendees listen to a precinct captain's instructions during a Democratic caucus at the University of Nevada Saturday, Feb. 20, 2016, in Reno, Nev. (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)
Il caucus democratico a Reno (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

Supporters of Hillary Clinton cheers on their presidential candidate as people line up to enter a caucus site during the Nevada Democratic caucus, Saturday, Feb. 20, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/John Locher)
Supporters di Hillary Clinton a Las Vegas. (AP Photo/John Locher)

«Mi piace Bernie, non mente». Cosa pensano i giovani seguaci del senatore

Democratic presidential candidate Sen. Bernie Sanders, I-Vt., right, meets 3-month-old Oliver Lomas, of Venice, Calif., who was dressed as Sanders during a rally at Bonanza High School, on Sunday, Feb. 14, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/Evan Vucci)

Manchester – New Hampshire Si devono guardare le ultime tappe delle primarie americane, per capire il fenomeno Sanders. Ethel e Nancy sono arrivate in New Hampshire da Burlington, Vermont. Hanno 15 e 16 anni, non voteranno a novembre ma vogliono comunque far parte del movimento. «È la rivoluzione politica di cui l’America ha bisogno», spiega Ethel e quando le chiedi cos’è per lei “la rivoluzione politica” sorride, sussurra «quello che non c’è ora» e si volta a guardare Nancy. All’amica tocca chiudere il concetto e spiegare che «rivoluzione politica è essere fedeli a te stesso. Bernie diceva trent’anni fa le cose che dice ora».
È un venerdì sera, siamo a Manchester, New Hampshire, dove il Partito democratico ha organizzato una serata con Hillary Clinton e Bernie Sanders. L’incontro è fissato per le otto nella grande Verizon Arena ma la gente inizia ad ammassarsi alle porte già nel pomeriggio, quando il sole scende e riflette la luce dorata sui cumuli di neve. Ethel e Nancy si mettono in coda mentre i loro amici Frank, Sarah, Beth – «là, là» e fanno un segno con la mano – sistemano il sound system portato da casa e ballano e cercano di coinvolgere la gente che passa. «Si balla sempre tanto alle cose di Bernie», fa Nancy, «poi stasera si finisce da qualche parte sulla strada di casa, chissà», dice Ethel.
Dopo poco la gente inizia a entrare nell’arena. Dentro, i camerieri preparano i tavoli del parterre per la cena degli ospiti d’onore e sul palco il “New Hampshire Gay Men’s Chorus” prova God Bless America in una versione da paese, accompagnata da un organetto. Il partito ha spezzato l’arena in due, a sinistra i sostenitori della Clinton e a destra quelli di Sanders. I militanti entrano e sistemano i tavoli per le spille, le magliette e i gadget tutto sommato poveri, distribuiti gratis. In “zona Clinton” ci sono i gay della “Human Rights Campaign”, i funzionari del “New Hampshire Senate Democratic Caucus” e diverse sigle sindacali. Nel settore di Sanders non ci sono sigle o associazioni, piuttosto una folla di giovani che sembra lì per un concerto indie e che tra barbe, camicie a scacchi e capelli portati lunghi, ben oltre le spalle, fanno risaltare le poche giacche e gonne in tweed di coppie distinte e in avanti con gli anni.
«Perché Sanders attrae così tanti giovani?» chiediamo a un ragazzo, che dice di chiamarsi Scott e venire da Montreal. «Non penso che voglia attrarre i giovani», mi corregge. «Non mente», dice, «Bernie è Bernie e basta, e piace alla gente perché è quello che è…».


 

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Sulle tracce di Giulio Regeni

A signpost against the current government in Egypt during demonstration for Giulio Regeni in Rome. The piazza Santi Apostoli demonstrate to demand justice for the death of Giulio Regeni and other victims of the Al Sisi government in Egypt. Rome, Italy, on February 13, 2016. Photo by Andrea Ronchini/Pacific Press/ABACAPRESS.COM

«Sono un avvocato, conosco la legge, non faccio niente di sbagliato, puoi scrivere il mio nome. Io sono Malek Adly». È un avvocato comunista che si batte per i diritti economici e sociali dei lavoratori e ha conosciuto Giulio alla fine del 2015. «Non eravamo amici, ma chiunque si occupa di sindacati mi conosce, perché difendo i diritti dei lavoratori, sono il referente per le questioni sociali». Per parlare del caso Regeni si dovrebbe parlare delle rivendicazioni sociali degli ultimi che lui studiava, di come sono peggiorate insieme al resto delle libertà civili dall’era Mubarak fino a quella di Morsi,  all’ombra calda delle piramidi.
Mentre sulle sue sette costole rotte, tagli e percosse, scosse elettriche ai genitali indaga Roma, al Cairo indaga Khaled Shalaby, in precedenza già condannato per falso ideologico e morte inflitta per tortura. È stato scelto come capo delle investigazioni a Giza. «Non stupitevi. Hanno tutti una reputazione simile alla sua, non c’era nessuno di pulito da scegliere, sono tutti corrotti» dice Malek. Shalaby fu il primo a formulare il depistaggio sulla morte italiana parlando di incidente stradale, ma fu smentito da un altro cairota, il procuratore generale Ahmed Nagi. Intanto più si allunga l’indagine, più si allarga il cerchio delle ipotesi. Più si gettano sassi di indizi nello stagno egiziano, più si propagano le onde lontane dal nucleo della verità di quella notte di gennaio in cui Giulio è scomparso.
La settimana scorsa mentre migliaia di medici protestavano al Cairo contro la brutalità usata dalla polizia sui loro colleghi pestati in un ospedale del distretto di Matareya, veniva prosciolto da tutte le accuse Yassin Hatem Salah Eddin. Rischiava 15 anni di prigione l’agente di polizia colpevole dell’omicidio di una donna e di un simbolo, Shaimaa el Sabbagh, attivista di sinistra scesa in strada per un corteo d’anniversario, il quarto, trascorso dalla rivoluzione di piazza Tahrir. Yassin si è allontanato per le strade del Cairo da uomo libero. L’immagine di Shaimaa ormai senza vita nella braccia di un suo compagno divenne emblema della repressione di un popolo intero. Un anno fa moriva lei, quella che al Sisi definì «mia figlia, una figlia d’Egitto». Suonano per questo come campane a morto le parole di Abdel Ghaffar, ministro degli Interni egiziani, che ha ribadito che il caso Regeni verrà trattato «come se si trattasse di un egiziano».


 

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Kashmir, Kosovo e Iraq, le foto più belle della settimana

A child peeks through a classroom in a school set in the Mpoko refugee camp near the airport in Bangui, Central African Republic, Monday Feb. 15, 2016. Over 6000 children attend the school ran by a local NGO and funded by the UN. Two former prime ministers, Faustin Archange Touadera and Anicet Georges Dologuele, ran in the second round of presidential elections Sunday to end years of violence pitting Muslims against Christians in the Central African Republic. Central Africans will also vote in Legislative elections. (AP Photo/Jerome Delay)

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Immagine in evidenza: Lunedi 15 febbraio 2016. Un bambino sbircia attraverso una classe in una scuola situata nel campo profughi Mpoko nei pressi dell’aeroporto a Bangui, Repubblica Centrafricana dove si stanno tenedo le elezioni legislative. (AP Photo/Jerome Delay)