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Siria, perché il nuovo cessate il fuoco ha poche speranze

La notizia è di quelle che dovrebbe dare qualche speranza, ma a guardarla bene c’è di che essere scettici.
Russia e Stati Uniti hanno annunciato che da venerdì entrerà in vigore una tregua in Siria. Bene. La tregua verrà osservata da coloro che la osservano. Che vuol dire? Vediamo.
A differenza dello stop alle ostilità annunciato una decina di giorni fa, questo nuovo accordo presente due novità: saranno Russia e Stati Uniti a monitorare e garantire che davvero non si spari; si continua a combattere contro l’Isis e le brigate al Nusra, l’ala qaedista della rivolta anti Assad. Il dittatore, intanto, ha fissato la data di nuove elezioni parlamentari (e questo fa quasi sorridere).
Il coordinamento americano-russo segnalerà quali gruppi violano la tregua e, dunque, chi è soggetto a essere attaccato perché non rispetta gli accordi. Un meccanismo che richiederà uno stretto coordinamento e scambio di informazioni tra Mosca e Washington.
Tutte le parti coinvolte si impegnano a lasciare passare i convogli umanitari. E questa è forse la parte facile da implementare. L’inviato Onu Staffan De Mistura ha annunciato che con il cessate il fuoco potrebbero riprendere i colloqui sulla transizione in Siria. La divisione tra Russia (e Assad) e Stati Uniti, resta la solita: il destino del regime e del dittatore.

I problemi da risolvere restano molti. Il primo, più macroscopico, si chiama Aleppo. Qui le brigate al Nusra e gli altri gruppi ribelli anti Assad, compresi quelli che rientrano nell’accordo di cessate il fuoco, si coordinano e combattono assieme contro le forze di Damasco. Cosa farà l’esercito siriano? Colpirà solo i piani dei palazzi dove sono nascosti i cecchini di al Nusra e non gli altri piani? Oppure si fermerà per un po’ attaccando al Nusra solo in zone controllate esclusivamente dai qaedisti come Idlib? O invece proseguirà, magari in maniera più accorta, l’offensiva contro la città che ha circondato su quasi tutti i fronti? Discorso simile vale per altre zone del Paese, Damasco compresa. Da qui a venerdì, poi, l’esercito siriano, sostenuto dagli aerei russi, potrà cercare di chiudere il cerchio attorno alla città divenuta simbolo di questa guerra. Ban Ki-moon nei giorni scorsi ha accusato Mosca di rendere, con i suoi raid, impraticabile ogni tentativo diplomatico. In effetti l’offensiva aerea russa è violentissima: quasi 450 raid in meno di una settimana, raid che continuano in queste ore nel tentativo di rendere la situazione sul campo migliore per Assad. Una strategia che ha funzionato in varie zone del Paese, non solo ad Aleppo.
Le opposizioni sostenute dagli americani puntano il dito contro questa falla: il Free Syrian Army, un gruppo ombrello che raccoglie molte sigle, chiede un monitoraggio molto attento e sostiene però che così la Russia e l’esercito di Assad potranno continuare a colpire in zone dove sono presenti anche gruppi non legati ad al Qaeda o Daesh.
E i curdi? Smetteranno di combattere mentre Ankara li cannoneggia dal confine? O anche la Turchia verrà convinta a raffreddare per qualche giorno la propria politica? In questo momento Ankara è coinvolta in una guerra di dichiarazioni con Mosca e, allo stesso tempo, ha rapporti molto tiepidi con gli Stati Uniti, a cui non perdona il sostegno ai curdi dell’YPG.
In conclusione: il cessate il fuoco è mezza buona notizia, porterà qualche momento di pace in alcune zone del Paese, ma dipende completamente dalla volontà di Assad, di Putin e un po’ dell’Iran ed Hezbollah. Gli Stati Uniti possono premere, minacciare e poco più. Se questi decideranno che vale la pena rispettarlo, terrà. Altrimenti tutto resterà come prima.

Stepchild. Perché è traballante la difesa dei renziani con il loro “Meglio poco che niente”

renzi alfano stepchild

Ci sono alcune cose che non tornano nelle parole con cui i renziani e i dem in generale difendono il maxi emendamento con cui Matteo Renzi si appresta a riscrivere la legge Cirinnà, stralciando la stepchild adoption che – è sempre bene ricordare in premessa – è l’adozione del figlio biologico o adottivo del partner e non la vera e propria adozione, che sarebbe rimasta comunque privilegio di coppie e sposi eterosessuali.

Ciò che dicono in sostanza dal Pd (dove per mesi hanno assicurato che la stepchild sarebbe rimasta, in quanto fondamentale per la legge), lo sintetizza perfettamente Mario Lavia nel suo pezzo su l’Unita: «Meglio meno ma meglio, come diceva Lenin». È questo il succo di quando scrive anche la senatrice Francesca Puglisi (già bersaniana, poi renzianissima): «Mi ha convinto nel ritrarci dalla battaglia parlamentare», dice, «il timore di azzardare, di peggiorare la situazione delle famiglie arcobaleno se solo uno dei tanti emendamenti pessimi presentati fosse passato nel voto segreto».

Hanno fatto propria, insomma, Puglisi e colleghi una preoccupazione che si è fatta strada in effetti anche del movimento Lgbt, nelle ultime ore: siccome i tribunali già stanno riconoscendo la stepchild a colpi di sentenze, approfittando del vuoto normativo, una legge che fosse più restrittiva di quanto già riconoscono i giudici (in alcuni casi non è neanche la sola adozione speciale, tipica della stepchild, ma quella piena) avrebbe spinto o obbligato i giudici a cambiare direzione. Anche quelli della Cassazione che devono esprimersi proprio nei prossimi giorni su un caso di una coppia rientrata dagli States con un figlio. Pensate – dicono dal Pd e non solo – a cosa sarebbe successo se il parlamento avesse approvato uno degli emendamenti sulla gestazione per altri che si proponevano di punire fino a togliere i minori a chi fosse ricorso all’«utero in affitto» anche nei Paesi in cui è perfettamente legale.

Ho risposto ad un post di Dario Ballini D’Amato e con lui rispondo a chi mi sta scrivendo la propria delusione per lo…

Pubblicato da Francesca Puglisi su Lunedì 22 febbraio 2016

E detta così la preoccupazione è sensata. Il punto è che in Parlamento i numeri, sulla carta, se il Pd avesse tenuto fermo il suo gruppo, ci sarebbero stati per fare una legge senza mortificazioni di sorta (senza ulteriori mortificazioni, visto che come abbiamo detto all’inizio, la stessa stepchild è un compromesso rispetto alle adozioni, e le stesse unioni sono un compromesso ipocrita rispetto al matrimonio egualitario).

Lo spiega bene Roberta Carlini, condirettrice di Pagina99. Che scrive: «È vero che se il M5S avesse tenuto fede alle sue promesse, la legge sarebbe potuta passare rapidamente e senza modifiche, anche senza i voti dell’Ncd e di quella parte degli stessi democratici contrari alla parificazione delle coppie gay a quelle etero nella possibilità di adottare il figlio del partner. Però, anche dopo il voltafaccia dei grillini (motivato su basi di tecnica parlamentare, non nel merito), si poteva andare al voto articolo per articolo, emendamento per emendamento, e giocarsi la partita punto su punto». Troppo rischioso? Però funziona così: «Ciascuno in parlamento si sarebbe preso la responsabilità di quel che votava, e di qua, nel mondo fuori, avremmo saputo chi ringraziare, o incolpare, per il proprio voto o il proprio ostruzionismo».

Quello che omette la difesa dei dem, dunque, e che omette Matteo Renzi è che è il Pd che non ha voluto (con la vittoria del fronte cattodem) la stepchild. Così come è il Pd che avrebbe voluto la temutissima stretta sull’«utero in affitto». È stato Matteo Renzi a dire che lo avrebbe voluto rendere «reato universale». È stata Anna Finocchiaro ha presentare una mozione in questo senso. Non i 5 stelle, non Alfano da solo. Se il Pd avesse imposto al suo gruppo la disciplina chiesta su altri volti sensibili (sono veramente più “etici” i voti sulle unioni del voto sull’articolo 18 o sulla riforma costituzionale?), tutto sarebbe andato per il meglio, o tutto comunque sarebbe andato come il Parlamento avrebbe deciso. E poi gli elettori avrebbero potuto regolarsi per i loro prossimi voti. Cosa che invece la mossa del Pd rende difficile: la legge più conservatrice d’Europa porterà la loro firma, ma diranno che è colpa degli altri.

Come Facebook e i social rischiano di renderci più stupidi

Scie chimiche, catene di Sant’Antonio e teorie del complotto, nell’era della rete navigare fra le bufale sembra ormai essere la norma. E soprattutto i social network, quelli che secondo una delle ultime dichiarazioni di Umberto Eco «hanno dato la parola a legioni di imbecilli», si trasformano spesso in dei megafoni per la stupidità. Ma come si diffonde la disinformazione online? E soprattutto perché le false notizie diventano così virali, dilagando in tempi rapidi fra migliaia e migliaia di persone in rete senza venire smentite? La risposta ce la può dare un recente studio internazionale, ma dall’animo italiano visto che a condurlo è stata Michela del Vicario del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT Alti Studi Lucca, insieme ad altri colleghi provenienti da altre università, fra le quali spicca anche la Boston University. I dati analizzati sono stati raccolti in 5 anni di ricerche (dal 2010 al 2014) e monitoraggio continuo di 69 fan page facebook, 32 delle quali impegnate per lo più a diffondere teorie cospirative, 2 animate da quelli che nel gergo della rete vengono definiti “troll” e altre 35 dedicate alla pubblicazione di notizie scientifiche e verificate. Le persone coinvolte, con gradi di interazione e partecipazione diversa (si va dal semplice like fino al commento e alla condivisione dei post bufala), sono oltre 1 milione  in termini di commenti e circa 5 milioni in termini di like. Da questa mole impressionate di informazioni Del Vicario e compagni hanno ricavato una costante nel comportamento dei vari utenti e capito che su facebook si preferisce ricercare informazioni che confermino le proprie convinzioni. Gli utenti infatti preferiscono trincerarsi all’interno di frequentazioni online e comunità social che condividono con loro le stesse vedute ristrette e riducano al minimo il rischio di mettersi in discussione. Una bufala quindi si propaga rapidissimamente proprio perché viene diffusa tra persone che hanno un pregiudizio e che sono portati ad assumere la notizia come veritiera senza soffermarsi anche solo per un attimo a valutare le fonti.
«Le persone per lo più tendono a selezionare e condividere i contenuti  sui social network in base ad una narrazione specifica che sentono affine alle proprie idee e ad ignorare il resto» spiega Michela Del Vicario. Il risultato su facebook è la formazione di una grande quantità di comunità omogenee all’interno delle quali le nuove informazioni che confermano le idee del gruppo si diffondono rapidamente, generando una sorta di “stupidità virale” nella quale dominano voci infondate, sfiducia e paranoia.
Con l’avvento del web 2.0, sì è parlato di “intelligenze collettive”, ovvero di quella capacità degli utenti di aggregarsi dal basso e collaborare per risolvere problemi e inventare soluzioni. La ricerca di Del Vicario e colleghi però sembra frenare gli entusiasti e mettere in evidenza anche un lato negativi di questa tendenza aggregativa del web, soprattutto su social come Facebook, dove appunto non sempre il “lavoro di gruppo” produce intelligenza. «Internet amplifica le nostre tendenze, e di sicuro sui social avviene ancora di più. Da quanto abbiamo osservato, sembra proprio che non si possa parlare di collective intelligence ma proprio del contrario. Nel “mondo piccolo” di Facebook infatti le abitudini e le credenze sbagliate infatti finiscono per rafforzarsi ulteriormente».
Sulla diffusione di stupidaggini influisce anche lo stesso algoritmo su cui si basa la piattaforma di Zuckerberg. «L’algoritmo – spiega Del Vicario – incide nella misura in cui acuisce l’effetto di queste camere d’eco che si creano all’interno di Facebook. Non abbiamo idea con precisione della formula applicata da Zuckerberg, ma in generale possiamo dire che tende a non mettere in discussione gli utenti e a mostrare loro contenuti che apprezza, che può commentare e condividere. Questo però non è l’unico fattore, nell’amplificazione delle bufale incidono in maniera importante anche le scelte personali dell’utente e quelle del suo background culturale. In poche parole facebook e stupidità degli utenti finiscono per essere due fattori che si autoalimentano».
Per frenare il dilagare delle bufale in rete sono anche nati dei siti, impegnati a smascherare le false informazioni e a diffondere la pratica del fact checking. Ma a quanto pare anche questo non è sufficiente. Spesso infatti questi “disinnescatori di bufale” però falliscono perché, come evidenzia lo studio, l’utente anche messo di fronte all’informazione corretta, continuerà ad attingere alle fonti che trova in linea con la sua identità anche se si tratta di siti cospirativi e poco attendibili.
«In realtà – spiega Del Vicario – sarebbe molto semplice entrare in contatto con informazioni affidabili e corrette, basterebbe cercare la notizia e verificare le fonti, anche se nella pratica nessuno lo fa perché richiede una serie di competenze e un impegno maggiore da parte dell’utente per valutare le informazioni». Umberto Eco insomma non aveva tutti i torti quando si scagliava contro il popolo del web. I social non ci rendendo scemi, ma fanno da megafono, nel bene e nel male, a quello che siamo. E infatti probabilmente è lì che dovremmo trovare una soluzione a tutto questo sviluppando anche percorsi educativi diversi e più consapevoli. Percosi che non insegnino verità dogmatiche ma forniscano strumenti concreti, come il ragionamento, per orientarsi nella mole enorme di informazioni che abbiamo a disposizione grazie alla rete.

@GioGolightly

È che le speranze che passano poi diventano ferite

Non so cosa darei per avere i cacciaviti del cofano sopra agli ingranaggi delle emozioni. Mi piacerebbe ad esempio ascoltare il rumore che fanno le molle mentre mettono in moto la speranza. Penso che sia il suono violentemente dolce di una montagna che si sposta senza comunque fare male a nessuno, una cosa così. Perché se ci fosse il prodotto interno lordo della speranza, se fosse quello a sancire lo stato di salute di una nazione credo che avremmo delle sorprese da farci girare la testa: non sapete quanto la speranza si attacchi ai muri dei vicoli più bui, tra le fogne delle disperazioni più puzzolenti e tra le fragilità più invisibili.

Se ci fosse una Borsa della speranza, ad esempio, qui di fianco a me vive una donnetta anziana che sarebbe Ministro dell’Intelligenza Felice per come commenta con il sorriso i suoi ultimi acciacchi, i nomi ciancicati delle pillole che si prende e i prossimi sintomi che le verranno. La mia anziana vicina sarebbe una multinazionale della voglia di vivere, se ci fosse la Borsa della speranza. Per dire.

Per questo se c’è una cosa che mi spaventa per il carico enorme di responsabilità che si porta dietro è il “concorso in accensione di una speranza”. Essere tra quelli che si prendono la briga di associare una certa speranza addormentata ad una promessa, una promessa a forma di esca che si fa abboccare dalle bocche di tutti gli speranzosi di quel sogno lì.

Forse i meccanismi, quando la speranza inciampa per caso in una promessa e tutte e due si guardano in faccia e poi si piacciono da subito, forse in quel momento lì i bulloni e gli assi e le cinghie cominciano davvero ad andare su di giri fino a produrre il rumore consolante del moto, la sensazione che davvero ci si sposta, la tentazione di credere che ci si avvicini per davvero. Il figlio adottivo della speranza e della promessa, che nasce subito appena subito dopo che loro due si sono piaciute, è il progetto. Altra parola da volare via il progetto: in una parola sono riusciti a mettere insieme tutte le diverse declinazioni dello stesso proposito. Il progetto. È una parola da abitarci un mese per visitarla per bene.

Solo che poi quando le speranze cominciano a pedalare sul serio, con tutti quelli che ci soffiano sopra per appuntarsele sul petto, diventano un moto. E con i moti non si scherza. Chi decide di dare il calcetto per iniziare il rotolamento deve avere ben chiaro che tutti gli altri lo fissano per bene, mentre se ne sta fisso all’inizio della discesa come la braccia conserte e il sorriso sornione. Se ci pensate bene ve li ricordate per bene tutti quelli che vi hanno spinto. Che abbiate cinque anni o duecentocinque. Ve li ricordate tutti. E vi ricordate bene anche tutti quelli vi hanno convinto ad aprire la porta ad una speranza che bussa. Perché non c’è uomo più vicino al cielo dell’uomo quando spera. E se poi passano, le speranze, se della polvere bieca o uno strappo o tonfo stracciano i bulloni del meccanismo, allora diventano ferite. E non c’è niente di peggio di una speranza ferita. È come un stupro perpetrato al cuore. Anche se non è mica fuorilegge.

Ognuno tenga conto della responsabilità delle speranze e le loro ferite. Ognuno.

Buon martedì.

Sessant’anni fa Norma Jeane Mortenson diventava Marilyn Monroe

A handout picture provided by Julien's Auctions in Beverly Hills, California, USA, on 29 March 2012 shows a photograph of US actress Marylin Monroe by Romanian-born photographer Andre de Dienes in 1955. ANSA/ANDRE DE DIENES / JULIEN'S AUCTIONS / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Il 23 febbraio 1956 Norma Jeane Mortenson, la bambina qui sotto, cambiò legalmente nome, diventando Marilyn Monroe. Era nata nel 1926 e il nome d’arte era già famoso in tutto il mondo per Niagara, Gli uomini preferiscono le bionde (o parti minori in Giungla d’asfalto e altri film a partire dai primi anni del Dopoguerra).

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Nell’immagine in evidenza: Marylin Monroe fotografata da Andre de Dienes nel 1955. Ansa /Andre De Dienes / Julien Aste

Due anni di governo, le slide che Renzi non vi mostrerà

Ci sono delle slide che Matteo Renzi non vi farà certamente vedere per celebrare i due anni del suo governo. Sono le slide che testimoniano la crisi del Paese e l’inefficacia delle politiche del suo governo. Un Paese che non esce dalle difficoltà sociali e dalla drammatica mancanza di lavoro e che assiste al degrado del suo sistema sanitario e scolastico. Quello che non mancano sono la propaganda e gli spot di un governo che non riesce a far uscire dalla stagnazione l’economia nazionale (che sopravvive grazie agli aiuti esterni del calo del prezzo del petrolio e del quantitative easing di Draghi), che continua a regalare inutilmente una barca di soldi alle imprese e che ne spende tanti per le armi. Un governo che non ha riformato il mercato del lavoro, ma ha creato un inedito “mercato dei lavoratori”, senza diritti e sotto ricatto.

Visto che Renzi queste slide non ve le farà vedere, ve le proponiamo. Renzi dice che ha rafforzato in questi due anni gli investimenti per la scuola e la sanità. Fantasie. Con l’ex sindaco di Firenze a Palazzo Chigi, la spesa pubblica per l’istruzione (in percentuale sul Pil) è passata dal 3,9% al 3,7% (e intanto si riducono le iscrizioni all’università) e quella per la salute dal 7% al 6,8%. Renzi dice che ha fatto crescere nel 2016 di un miliardo gli stanziamenti per la sanità. Non è vero. La (sua) ministra Beatrice Lorenzin il 14 luglio del 2014 (c’era Renzi, allora, no?) firma a nome del governo il Patto della Salute con le regioni che prevede l’ammontare della spesa pubblica per la sanità nel 2016 (con la crescita di fabbisogni e l’evoluzione naturale dei costi) a 115,4 miliardi. E quanto c’è nella legge di stabilità del 2016? Solo 111 miliardi, cioè oltre 4 miliardi in meno. Dice Renzi che ha fatto tanto per il sociale. Ma per il servizio civile (così importante per il nostro welfare) nel 2016 ha stanziato 215 milioni a fronte dei 300 milioni spesi nel 2015: significa 10mila giovani in meno per quest’anno. Ma non lesina i soldi per gli F35. Due anni fa nella legge di stabilità i fondi per gli F35 erano 500 milioni, mentre nel 2016 quasi 750 milioni: +50%. Un aumento percentuale così alto il “sociale” se lo sogna. Renzi davanti agli Scout a San Rossore aveva detto: ‘La più grande arma per costruire la pace non sono gli Eurofighter o gli F35, ma la scuola. Quando fai delle spese che sono inutili, per il gusto di buttare via i soldi, ti senti piangere il cuore”. Solo chiacchiere: invece diminuiscono i soldi per la scuola e aumentano quelli per gli F35.

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Ma a questo governo mancano i fondamentali dell’economia. Anche queste slide Renzi non ve le farà vedere. Intanto il debito pubblico negli anni del renzismo (nonostante i tagli drammatici agli enti locali e alla sanità) aumenta di ben quattro punti percentuali (siamo al 132,5%). E poi diminuiscono negli ultimi anni -e radicalmente- sia gli investimenti pubblici (che sono quelli che servirebbero per far ripartire l’economia), sia gli investimenti privati (quelli privilegiati dal governo, subalterno all’ideologia neoliberista), nonostante la valanga di soldi e di sgravi dati da Renzi a Confindustria e alle imprese private nelle ultime due leggi di stabilità.  Ci sono altre slide che Renzi non vi farà vedere e sono quelle che riguardano le tasse. Pavoneggiandosi come Giulio Tremonti (il taglio delle tasse era il suo pallino fisso), il nostro premier ha detto che questo è il primo governo che riduce le tasse, come quelle sulla casa (anche ai privilegiati e a chi non ne avrebbe bisogno). Peccato che l’ultimo DEF (Documento di Economia e Finanza) ci dica che la pressione fiscale nei due anni del suo governo sia passata dal 43,4% al 44,1% e che la Corte dei Conti ci informi che la pressione fiscale locale (a causa dei tagli del governo agli enti locali, che si vedono costretti ad alzare la tassazione locale per continuare ad erogare i servizi) è salita di oltre il 20%. Gli 80 euro vengono confermati, ma non per i precari, i disoccupati e i pensionati al minimo.

Con una mano ti danno e con l’altra ti tolgono (di più). Delle tasse Renzi comunque le ha tagliate: quelle sui panfili e mega yacht. Voi continuere a pagare la tassa di proprietà sulla vostra utilitaria e i miliardari non pagheranno un’ero di tassa sul loro panfilo da due milioni di euro. Quando si dice: l’equità fiscale! E poi c’è il lavoro. I dati di questi mesi sono contrastanti, ma quello che è certo è che molti dei nuovi contratti sono precari e sostitutivi (per avere le agevolazioni della decontribuzione) di quelli precedenti. Non sono più di 186mila i contratti a tempo indeterminato nuovi con il cui costo (circa 1,8 miliardi) si sarebbero creati molti posti in più se ci fosse stato un vero piano del lavoro, come da noi proposto.  Ma una slide che Renzi non vi fa vedere, ve la mostriamo noi. Nel gennaio del 2015 le ore di cassa di integrazione erano state 50milioni e nel gennaio 2016 quasi 57milioni (dati INPS): testimonianza che le fabbriche continuano a chiudere e gli operai a perdere il lavoro. Anche di più di un anno fa.

Guardate le nostre slide e capirete che quelle di Renzi sono in parte sbagliate o furbescamente artefatte, mentre molte altre mancano del tutto. Dalle slide di Renzi emerge molta propaganda e marketing. Ma questo paese ha bisogno di cambiare rotta, di abbandonare le politiche neoliberiste dell’austerità e di mettere al centro il lavoro, i diritti e la giustizia sociale. Proprio quello che Renzi e il PD non fanno: anzi fanno il contrario. E’ un cattivo compleanno questo del governo. Speriamo sia l’ultimo.

#ventiquattro, slide e social. Così festeggia Matteo

(A cura della redazione di Left)

Qui sotto invece potete invece vedere le slide autocelebrative che ha sfoggiato il governo per festeggiare i #ventiquattro mesi di vita.

 

Ma per celebrare il grande evento, il premier Matteo Renzi non si è accontentato di utilizzare il solito power point, ha voluto anche sbarcare su Facebook con la pagina dedicata a palazzo Chigi, i fan sono ancora pochi (circa 3mila e 500) ma già lo staff del governo ha postato un video celebrativo che ha suscitato al momento più critiche che plausi:

 

#ventiquattro Due anni di Governo RenziDue anni di Governo Renzi in immagini #ventiquattro

Pubblicato da Palazzo Chigi – Presidenza del Consiglio dei Ministri su Lunedì 22 febbraio 2016

#Obiettiamolasanzione, tweetbombing contro la multa alle donne che abortisono clandestinamente

Un appello e un tweetbombing contro le sanzioni per le donne che abortiscono clandestinamente. Come se fossero loro a volerlo. Qui l’inizio e la fine dell’appello pubblicato qui che invita al mailbombing stamane e anche questo pomeriggio e sera.

Lo scorso 15 gennaio 2016 il Governo ha approvato un decreto che depenalizza per la donna il reato di aborto clandestino ma al contempo prevede un innalzamento delle sanzioni: non più “fino a 51 euro”, ma “fino a 10.000 euro”.
Questo provvedimento non evidenzia le cause a monte di un ritorno preoccupante agli aborti clandestini tra cui innanzitutto un abnorme numero di obiettori di coscienza, la cui media nazionale del 70%, raggiunge in alcune regioni anche quote superiori al 90%.
Invece di incrementare l’educazione ad una contraccezione diffusa e di assicurare un servizio di IVG certo ed efficiente si sceglie di colpire economicamente le donne.
L’elevato numero di obiettori si traduce in enormi difficoltà di accesso ad un iter sicuro e celere, con tante donne costrette ad andare in altre regioni per poter interrompere la gravidanza. Il problema è tanto acuito dal fenomeno dell’obiezione di struttura, a causa della quale interi reparti ospedalieri non praticano le IVG e non applicano la legge, che persino i giornali esteri ne scrivono. poste adeguate contro gli aborti clandestini e non aumenti di sanzioni economiche, e quindi rivendichiamo la concreta applicazione della 194, nata per salvaguardare la salute delle donne ma ad oggi svuotata di reali tutele a causa dell’obiezione di coscienza. (….) L’invito è quello a twittare #ObiettiamoLaSanzione No all’aggravio delle sanzioni per l’aborto clandestino @matteorenzi @bealorenzin con allegata la vignetta postata qui sopra.

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Il tema dell’obiezione è quello cruciale e, naturalmente, non riguarda solo la coscienza. Qui sopra alcune slide sulla questione a Roma e, in basso, “Obiezione vostro onore”, il documentario sull’obiezione di coscienza alla pratica dell’aborto da parte dei dei medici nella Capitale, premio Morrione e realizzato da un gruppo di giovani giornalisti della scuola di giornalismo Lelio Basso.


Breve sintesi della tre giorni di Cosmopolitica

Partiamo dai fatti.

È stato annunciato da Nicola Fratoianni il congresso fondativo di quello che dovrebbe essere il nuovo partito della sinistra: sarà il 2/4 dicembre 2016. È stata poi lanciata la piattaforma online – ancora in fase di sviluppo – che si chiama Commo: dovrebbe esser strumento fondamentale del processo. Oltre a discutere, si potranno lì votare dirigenti, programma e simbolo. Notevole – almeno nelle intenzioni – è il fatto che la piattaforma online non sarà solo a disposizione degli iscritti al partito ma anzi avrà una sorta di doppio livello, offrendo a tutti, dalle associazioni nazionali e ai sindacati, così come ai comitati di quartieri, una piattaforma per organizzarsi e fare delle loro votazioni senza che questo implichi obbligatoriamente l’adesione al partito. Vedremo come funzionerà veramente. Per ora si registra una piccola polemica sui costi dell’operazione: si parla di 100mila euro.
Per arrivare al congresso è stato varato (non votato) un comitato promotore di quasi 150 membri, distribuiti con il bilancino (forse è inevitabile): Sel ne ha il 50 per cento, gli altri il resto.
Tutti comunque parlano di «partito» – e a sinistra, tra «movimenti», «soggetti» e «associazioni», è una bella novità.

Leadership e regole.

Con Vendola che completa il suo passo di lato (e manda solo un video, registrato giorni prima), non si è ancora parlato – non pubblicamente – di modalità di selezione della leadership: è evidente che Fratoianni è però lanciato (un sondaggio Hp dice che il 23 per cento vuole lui, e Fassina per dire il 13). C’è però un 30 per cento che vuole un altro nome, nuovo. Tra gli interventi più applauditi si segnala a tal proposito quello di Paola Natalicchio, sindaco di Molfetta. 

Intervento di Paola Natalicchio a Cosmopolitica- Roma 21 Febbr…
Dirò poche semplici cose. Non me ne frega niente del dibattito sulle alleanze se questo dibattito è un altro referendum che ci tiene al palo e ci divide. Io faccio il sindaco di un comune di 60mila abitanti e governo insieme al Partito Democratico. Sono sindaco di un centrosinistra biodiverso anche se forse in via di estinzione. Non mi accanisco sulle prossime amministrative e sulla maionese impazzita tra Roma e Milano. Anche se sono tra chi si tormenta ancora sul centrosinistra nazionale. Dico solo che stare contro Renzi non basta a costruire un’idea diversa di Paese. L’idea diversa di Paese, tema per tema, con gli argomenti e l’autorevolezza, dobbiamo disegnarla noi. Senza metterci sugli spalti di qualche inutile tribuna a fare i raccattapalle di chi tira fuori dalla porta. Noi dobbiamo fare con le mani un Paese felice per tutti.La Cosmopolitica non si fa nello spazio. Bisogna andare sui marciapiedi d’Italia, a suonare ai citofoni di chi non crede più che ne valga la pena. Suonare forte.#cosmopolitica

Pubblicato da Paola Natalicchio Sindaco su Domenica 21 febbraio 2016

Alfredo D’Attore nel suo intervento è quello che più si è soffermato, tra i big, su questioni pratiche. Evidentemente bruciato da Renzi ha ad esempio chiesto che il nuovo partito separi i ruoli nel partito da quelli istituzionali, a tutti i livelli.

Ferrero e Civati.

I due restano ancora fuori. Ferrero però è intervenuto a Roma e ha chiesto che il progetto prenda la forma di una federazione. Lo fa nel nome del «pluralismo», Ferrero, a cui hanno risposto direttamente sia Fassina che Fratoianni. Entrambi hanno detto picche, pur lasciando aperta la porta. Il senso della replica è: «Il pluralismo non c’entra nulla con la sopravvivenza di partitini dallo zero virgola». Si suggerisce a Rifondazione (ed è probabile che alla fine così finisca) di trasformarsi in un’associazione, aderendo però al progetto. C’è un anno di tempo. Tutto comunque dipende dalle amministrative. Con Civati la vicenda è più complicata: ci si parla ormai pochissimo, e il caso Milano continua ad alimentare tensioni.

Amministrative.

Se ne è parlato poco (salvo Cofferati, si veda il tweet), per evitare il tasto dolente. Pisapia è venuto a Cosmopolitica ma non ha parlato (erano pronti i fischi). Civati su Milano resiste alle lusinghe di Cofferati e dice di avere un candidato: così però non è. Nella ricerca si sondano giornalisti, soprattutto (Maso Notarianni potrebbe esser un’ipotesi, già direttore di PeaceReporter). Fratoianni vorrebbe invece riprovare con Cecilia Strada.
È per questo abbastanza evidente che l’unico candidato su cui punta Sì è Luigi de Magistris, che si è preso un sacco di applausi con un intervento «zapatista in salsa partenopea» (sono sue parole).

A margine.

Si segnala l’adesione al gruppo parlamentare di Giovanna Martelli, già consigliera (inutile) di Renzi per le pari opportunità. Aveva lasciato il Pd un paio di mesi fa.
La platea del week end era molto piena (3500 presenze solo nella mattinata di domenica) e soprattutto variegata. Un giusto mix di giovani (lascito ancora delle fabbriche di Nichi, ma soprattutto pezzi young della Cgil organizzati da Act) e militanti storici.
Luciana Castellina sembra lanciata nel ruolo di garante. Sergio Cofferati al suo fianco.

Aumentano le guerre, cresce l’export di armi: +14% nel mondo in cinque anni

Sono anni di guerre e alta tensione in varie aree del mondo questi. Bastava guardare al commercio di armi, a chi comprava, per capire che c’erano Paesi che preparavano politiche di potenza o si preoccupavano di potenziare il proprio materiale bellico per poi lanciarsi in politiche più aggressive o quanto meno assertive nei confronti dei vicini (o delle popolazioni interne). Gli scambi internazionali di armi, una merce più che speciale, sono cresciuti del 14% nel periodo 2011-2015 rispetto al periodo 2006-2010. È questo quanto rilevato dagli esperti del Sipri, lo Stockholm international peace research institute, che da decenni raccoglie ed elabora questi dati e ogni anno pubblica un rapporto che è la bibbia in materia.

Chi vende
I cinque esportatori maggiori assieme fanno il 74% del commercio totale e sono più o meno gli stessi di sempre: Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Germania. Con la novità che le esportazioni americane e russe sono cresciute del 27 e 28% mentre quelle cinesi dell’88%, mentre le vendite all’estero di francesi e tedeschi sono diminuite. La Cina non era nel quintetto e oggi supera i grandi esportatori europei.

Chi compra
I cinque principali importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Australia. Da un punto di vista delle regioni del mondo, il Medio Oriente ha conosciuto un boom, con il 61% in più, poi Asia e Oceania e infine Africa. Altri grandi acquirenti di sistemi d’arma sono Turchia e Pakistan, Egitto, tutti Paesi coinvolti in conflitti armati (Siria, Afghanistan) o violenta repressione del dissenso interno (in Kurdistan o in tutto il Paese, per quanto riguarda il regime di al Sisi).

E l’Italia?
L’Italia è sempre ben piazzata: ottavo posto e 2,7% del commercio internazionale, un bel salto in avanti visto che nel periodo precedente la percentuale era del 2,1%. I nostri principali acquirenti sono gli Emirati, l’India e la Turchia. Siamo l’ottavo esportatore mondiale e con Spagna e Gran Bretagna siamo anche tra gli europei che in questi anni hanno visto crescere il proprio volume di affari – Olanda, Francia e Germania sono in territorio negativo. Tra i nostri clienti del quinquennio ci sono, oltre al terzetto di testa, anche Messico, Nigeria, Egitto, Pakistan, Kuwait, Oman, Arabia Saudita. Una collezione di democrazie mature. È legale questo export per un Paese che ha una buona legge in materia e che prevede una serie di restrizioni quali il divieto di vendere armi a Paesi in stato di conflitto armato, a Paesi la cui politica contrasti col ripudio della guerra sancito dalla nostra Costituzione, a Paesi sotto embargo delle forniture belliche da parte delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, a Paesi responsabili di accertate gravi violazioni alle Convenzioni sui diritti umani? Probabilmente no. Ma la legge 185 del 1990, che fu il prodotto di una grande mobilitazione delle organizzazioni pacifiste, è stata svuotata negli anni. La legge prevede un sistema di autorizzazioni e, poi, l’invio alle Camere di una relazione che contenga tutte le informazioni necessarie a ricostruire i passaggi (spesso si usa la triangolazione per aggirare i divieti, vendendo a un Paese, che vende a un terzo). Bene, queste informazioni, nelle relazioni annuali al Parlamento, sono sempre più vaghe. Il caso delle bombe partite a più riprese dalla Sardegna con destinazione Arabia Saudita, che è in guerra in Yemen e che per questo non dovrebbe poter ricevere armi, è di poche settimane fa.

La poesia dà il ritmo al presente. La scommessa del neonato Umbria poesia festival

Nannucci, The missing poem

Nasce Umbria poesia, una nuova rassegna, con lo sguardo rivolto non solo alla poesia italiana e che ha l’ambizione di coinvolgere il pubblico più giovane . Nata all’interno dell’ambito universitario, per iniziativa di Maria Borio, Costanza Lindi, Marco Paone, Carlo Pulsoni e Francesca Regina, ha un obiettivo forte: raggiungere lettori e appassionati fuori dall’ambito specialistico. Per capire in che modo abbiamo rivolto qualche domanda a uno degli organizzatori, Carlo Pulsoni,docente di filologia romanza all’università di Perugia.

A distanza da molti anni dalla prima edizione uscita nel 1975, Castelvecchi ha da poco ripubblicato Il pubblico della poesia, curato da Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli. Oggi in Italia esiste un pubblico per questo affascinante genere di espressione artistica, considerato elitario da gran parte degli editori?

Sì a nostro avviso esiste un pubblico della poesia molto più eterogeneo e diffuso che magari non si alimenta più attraverso i canali tradizionali, ma fa spesso riferimento alla blogosfera poetica. Grazie ad essa più persone si possono accostare oggi alla poesia, anche nel loro ambito più intimo e privato. Tuttavia la capacità di dialogo che può offrire un incontro reale, dal vivo, permette a nostro avviso di creare un rapporto più forte con un “nuovo” pubblico, più abituato all’aspetto performativo della cultura.

Entrando nello specifico del festival, quali sono le maggiori novità di Umbria poesia?

Crediamo che la novità maggiore sia proprio nel modello che proponiamo. In Galizia per esempio si è creata una iniziativa simile denominata Picaversos, ovvero “spizzicaversi”. L’idea è quella di abbinare la poesia con un accompagnamento musicale, in un orario d’aperitivo, dando l’opportunità agli autori non solo di parlare dei loro testi di riferimento, sulla base delle tematiche indicate, ma anche di descrivere i motivi del loro atto creativo, così come fa Dante nella Vita nova. Siamo certi che in questo modo il pubblico potrà condividere l’emozione che traspare dalle letture e al contempo godere di un momento d’intrattenimento che anche la poesia contemporanea può offrire, come certe serie tv, alla stessa stregua di un film o di uno spettacolo teatrale.

Nella presentazione del progetto annunciate autori noti e voci emergenti di ambito nazionale ed internazionale. Il dialogo generazionale e quello transnazionale sono due fili rossi della rassegna?

Ci interessa mostrare la possibilità che gli autori possano dialogare tra loro, incontrarsi su un tema a prescindere dalle barriere generazionali o nazionali. Offriamo infatti a tutti gli autori lo stesso tempo in modo che anche le voci meno note possano avere l’opportunità e il giusto spazio per essere riconoscibili nella loro individualità creativa.

Giorgio Manacorda dice che in Italia l’avanguardia in poesia è stata un grande equivoco e che certo sperimentalismo, lucido e combinatorio, ha prodotto una stagione auto referenziale. Proprio nella nuova prefazione a il pubblico della poesia Aba Donati stigmatizza il tono inutilmente snob di una pratica poetica che tende «a distanziare il linguaggio da chi lo usa». Cosa ne pensa?

Non è il linguaggio che si distanzia da chi lo usa ma è l’atteggiamento con cui lo si presenta. Come dicevamo, la necessità è quella di creare degli spazi di incontro proprio per far capire che quella fase di incomunicabilità di parte delle avanguardie si è conclusa. Molte delle nuove voci scelgono di tornare alla colloquialità e all’uso di un linguaggio che appartiene alla quotidianità. Ciò non esclude l’uso di artifici metrico-retorici raffinati, anzi queste componenti tendono a esaltarsi nella loro espressione orale. Proprio per questo motivo diviene fondamentale l’ascolto a viva voce di un’esperienza che nell’atto performativo completa il processo di creazione della poesia stessa.

La forma poetica, spesso più incisiva e icastica della prosa, più sintetica e densa di senso, è un’arte antichissima ma insieme – potremmo azzardare – particolarmente consona alla contemporaneità?

La poesia si attaglia particolarmente alla contemporaneità per via della sua “portabilità”. Non a caso abbiamo deciso di intitolare il primo incontro “Poesia e viaggio”. Già dai suoi esordi la poesia nasce e si lega all’idea del viaggio, come spostamento e contaminazione fra popoli e generazioni a livello geografico e temporale, ma anche nella formazione della sfera interiore. Oggi il genere poetico si rende disponibile a una lettura che si adegua al ritmo del presente.

Il festival Umbria poesia: martedì 23 febbraio alle ore 19 a Perugia, negli spazi di Umbrò in via Sant’Ercolano 2, parte Umbria poesia, un’iniziativa che vuole essere uno spazio di dialogo, incontro, intrattenimento fra poeti, poesia e pubblico. Con cadenza mensile, gli appuntamenti si svolgeranno nell’unione della poesia a un tema specifico: “Poesia e frontiera”, “Poesia e medicina”, “Poesia e danza”, “Poesia e social network”. Ogni serata, dalla durata di un’ora circa, prevede la presenza di un autore già noto al quale saranno affiancate voci emergenti della più recente poesia italiana e straniera. Il primo incontro, dedicato alla relazione tra poesia e viaggio, vedrà la presenza di Antonella Anedda, Maria Borio e Lorenzo Chiuchiù.

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