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Conto alla rovescia per la serata degli Oscar. I nostri preferiti: The Revenant

Inizia il conto alla rovescia per la serata degli Oscar che si terrà il 28 febbraio. In lizza anche film di grande impegno politico, storico e civile. A cominciare da Il figlio di Saul di  Nemes e da Il caso Spotlight, che ricostruisce le inchieste del Boston Globe che negli anni duemila portarno alla luce lo scandalo pedofilia nella Chiesa negli Usa.  Per l’Oscar come miglior attore protagonista sono in lizza Leonardo Di Caprio (Revenant) Bryan Cranston (Trumbo) Matt Damon  che in The Martian si cala in un ruolo al limite della sopravvivenza, Michael Fassbender, che ha incarnato il guru informatico Steve Jobs s sul maxi schermo e Eddie Redmayne (The Danish Girl). In primo piano per il premio come miglior attrice, fra le altre, c’è  Cate Blanchett (Carol), ma anche una affascinante Charlotte Rampling (45 anni) e Saorsie Ronan ( la più giovane delle candidate, interprete di Brooklyn) e poi Jennifer Lawrence (con il film sulla scalata sociale di Joy Mangan) e infine Brie Larson ( the Room) , insieme a collega Blanchett tra le grandi favorite alla vittoria.  Anche l’Italia sarà presente nella magica notte di Los Angeles,  con la presenza del maestro Ennio Morricone per la categoria Miglior colonna sonora. Che ha collaborato con il regista statunitense Quentin Tarantino per il film The Hateful Eight. Sempre dal binomio cinema-musica arriva la seconda nomination per l’Italia. Gareggia per la miglior canzone, Simple Song #3, pezzo di David Lang  per il regista italiano Paolo Sorrentino, Youth.

Per entrare nel clima della serata degli Oscar e, soprattutto per scegliere quale film andare a vedere in sala, fra quelli in lizza,  rilanciamo i nostri preferiti. A cominciare da The Revenant diretto da Alejandro Gonzalez Inarritu, recensito su Left da Daniela Ceselli:

 The Revenant di Alejandro Iñárritu,  è in lizza con 12 candidature all’Oscar e un Leonardo Di Caprio ad una prova d’attore generosa e incandescente. Il film narra la vicenda di un trapper, che guida una spedizione. Ridotto in fin di vita da un Grizzly, viene abbandonato da due suoi compagni senza viveri e assiste impotente all’uccisione del figlio amato, avuto da una indiana Pawnee. Lentamente ritorna alla vita, affronta molteplici traversie e raggiunge il fortino per compiere la sua vendetta. La vicenda si svolge alla frontiera tra Stati Uniti e Canada, nell’Ottocento, durante gli anni della prima colonizzazione dell’Ovest. E’ un cinema strutturalmente classico, a cui narrativamente siamo abituati, in cui l’America riflette sulla sue responsabilità di genocidio dei nativi e i sensi colpa nei confronti della diversità. Tuttavia la messa in scena ha una grandezza epica e una forza immersiva emotivamente toccanti. Tensione fino al ritorno dell’eroe, seppur dentro ritmi sospesi, levitazioni oniriche, rarefazioni temporali. Paesaggi mozzafiato in formato panoramico; spericolati, virtuosistici, avvolgenti movimenti della steadycam; fotografia impeccabile di Lubzeki ( luce naturale per due ore di lavorazione al giorno); sound design evocativo, a cui contribuiscono le musiche di Sakamoto e Noto. Riferimenti iconografici a Bodmer e Miller, echi di Tarkovskij, Coppola, Herzog. La macchina da presa incollata ai pori della pelle, al respiro tagliato dalla paura, alle labbra spaccate dal freddo ci fa letteralmente “sentire” il sapore amaro della terra, il gelo nelle ossa, i fruscii degli alberi e precipita lo spettatore dentro la wilderness, la lotta dell’individuo per la sopravvivenza, la solitudine e lo sconfinamento da se stessi, portando nel genere western una nota esistenziale profonda.
(Daniela Ceselli).

Non solo Sigonella: commandos francesi in segreto in Libia contro Isis

Non solo raid statunitensi da Sigonella con i droni. La notizia di oggi è che anche le forze speciali francesi e commandos di intelligence sono attive in operazioni segrete contro l’Isis in Libia, in collaborazione con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Lo scoop è di Le Monde e sebbene il ministero della Difesa non commenti – e anzi abbia ordinato un’inchiesta interna sulla fuga di notizie – la notizia pare certa.

Il presidente Francois Hollande aveva autorizzato “azioni militari non ufficiali” condotte da truppe divélite delle forze armate e dall’agenzia di intelligence.

Le Monde spiega che quella che chiama “guerra segreta della Francia in Libia” è condotta attraverso attacchi mirati e puntuali condotti sul terreno per colpire figure considerate importanti collegate allo Stato islamico. L’obbiettivo è quello contenerne la crescita.

Hollande ha detto che la Francia è in guerra con Stato islamico dopo che le stragi del 13 novembre 2015 a Parigi. E di recente Parigi aveva confermato che suoi aerei da ricognizione hanno sorvolato i cieli libici e di aver istituito una base militare al confine nel vicino Niger.

Le Monde scrive che l’intelligence francese nel novembre scorso aveva già ucciso un iracheno conosciuto con il nome di battaglia Abu Nabil, che era il più anziano capo di Stato Islamico in Libia al momento.

Le Monde riferisce che blogger specializzati avevano segnalato avvistamenti di forze speciali francesi in Libia orientale già qualche giorno fa. Un alto funzionario della difesa francese ha però dichiarato che «L’ultima cosa da fare sarebbe quella di intervenire in Libia Dobbiamo evitare qualsiasi impegno militare palese, ma agire con discrezione».

Virginia Raggi, candidata M5s a Roma. Caratteristiche? Una persona normale

Sembra normale, la nuova candidata sindaco 5 stelle che punta al Campidoglio. Nessuna stramberia visionaria, nessuno scivolone, niente fanatismo. Avvocato civilista con laurea nell’Università pubblica Roma Tre, mamma di un bimbo – 37 anni lei, 3 anni e mezzo lui -, Virginia Raggi è romana originaria di San Giovanni, zona popolare e signorile insieme ma abitante per scelta della periferia. Sportiva di quelle di buona famiglia a giudicare dalle attività (equitazione, ginnastica ritmica, ho praticato sci e attività subacquea), ma lavoratrice ambiziosa. Un po’ prima della classe, un po’ antipatica, ma competente, brillante e rigorosa, racconta chi l’ha conosciuta. Giacca, camicia e collana di perle, sempre.

E soprattutto: grillina purissima. Senza sbavature. Calma e impostata. Ambientalista (pulisce i parchi). Fedele (ha firmato il codice di comportamento voluto dalla Casaleggio Associati e che la impegna a discutere con lo staff del blog tutte le decisioni rilevanti). Discepola del volto pentastellato, Alessandro Di Battista. Questa, la sua dichiarazione di intenti:

Sono fermamente convinta che ogni buon governo debba riportare al centro delle scelte politiche il rispetto del cittadino, delle leggi e dell’ambiente. Queste sono le radici della filosofia del M5S. Privilegiare scelte a basso impatto ambientale e ad alto tasso di socialità consente di immaginare una nuova idea di città

Nel Movimento 5 stelle, sua «prima e unica esperienza politica», come racconta nel suo video di presentazione alle votazioni on-line, ci entra nel 2011; in Comune la come consigliera, nel 2013.


 

Presente assieme al marito alla prima riunione del MoVimento 5 Stelle di Roma, nato dalla fusione di precedenti Meetup territoriali, continua a essere attivissima sul territorio: cittadina frai cittadini, attivista fra gli attivisti. In Comune si è occupata, da mamma, di scuola, politiche sociali e cultura nelle rispettive Commissioni, ma anche di società partecipate e implementazione dei sistemi di partecipazione democratica. L’hanno votata in 1.764 su , pari al 45,5% delle preferenze, battendo il capogruppo uscente Marcello De Vito (che con il 35% dei voti pare sarà il candidato vice sindaco).

Mafia Capitale è l’inno della campagna Cinquestelle #RomaaiRomani – curata dallo staff Comunicazione nazionale, che si occupa delle campagne elettorali amministrative e addestra i candidati a parlare pubblicamente. Il suo primo post da candidata, invece, dal conosciuto sapore di populismo, va dritta al punto sul quale la sensibilità degli abitanti capitolini viene senz’altro toccata maggiormente rispetto alle tematiche ambientali e culturali: «Ora, lo dico da subito: con noi al governo della città, i debiti prodotti dai partiti li pagheranno i partiti». E prosegue: «Se qualcuno pensa di poter continuare a fare cassa sul sociale e quindi sulle famiglie romane, sappia che ci opporremo con ogni mezzo», tralasciando però il fatto che proprio molti cittadini romani sono complici del malaffare e dell’incuria in cui giace la Capitale. Ma si sa, queste cose in campagna elettorale, non si dicono.

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La rabbia repubblicana rende Trump invincibile, si prende anche il Nevada

Republican presidential candidate Donald Trump arrives for a caucus night rally Tuesday, Feb. 23, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/Jae C. Hong)

Qualcuno fermi Donald Trump. Tre Stati e tre vittorie per il miliardario spaccone di New York. I suoi muri contro i messicani, le parodie, le litigate con il papa, le sparate anti musulmani non lo toccano. La rabbia dell’uomo qualunque è con lui e niente che gli altri candidati competitivi provino a fare riesce a scalfire il suo vantaggio. Che a ogni tornante diventa più solido.

Republican presidential candidate Donald Trump arrives for a caucus night rally Tuesday, Feb. 23, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/Jae C. Hong)I caucus del Nevada sono stati un disastro organizzativo: lunghe code, litigi e qualche accusa di irregolarità nel voto – qui e la i volontari avevano magliette pro-Trump, ma non è vietato. La partecipazione, molto alta e inaspettata, ha fatto il resto. Ma il risultato è comunque inequivocabile: Trump prende quanto i suoi due contendenti messi assieme: Rubio e Cruz arrivano appaiati attorno al 22 e qualcosa per cento, con il primo in testa, Trump oltre il 45. Con un risultato così c’è poco da fare i conti su quali voti prenda: l’outsider che sta provocando enormi mal di testa al partito repubblicano vince in tutti i gruppi. Come dice nel video qui sotto «Abbiamo vinto tra i giovani e i vecchi, gli istruiti e i non istruiti, gli evangelici e anche i latinos». Ecco, che Trump arrivi primo tra i latinos contro due che di nome fanno Rubio e Cruz è un segno di forza. Che arrivi primo tra gli evangelici contro il superconservatore Cruz, pure è un segnale. Tanto più che il Nevada è uno di quegli Stati cosiddetti swing, pendolo, che contribuiscono a determinare il risultato finale delle presidenziali (assieme a Iowa, Ohio, Florida, New Mexico, Virginia e altri).

La rabbia degli americani repubblicani contro il mondo, Washington, i vicini di casa è alle stelle. Larghissime maggioranze degli intervistati all’uscita dai seggi dicono che non vogliono un politico a fare il presidente e che sono arrabbiati per come vanno le cose. È una costante dei sondaggi di tutti gli Stati dove si è votato fino a oggi. L’alta partecipazione ai caucus è anche un segnale che Trump sta cominciando a mobilitare e si è dotato di almeno un po’ di macchina organizzativa. In Iowa non era così e arrivò secondo. Anche questa è una novità ed un segnale di grande forza.

Voters line up outside a Republican caucus site, Tuesday, Feb. 23, 2016, in Las Vegas. (AP Photo/John Locher)
Lunghe code a Las Vegas. (AP Photo/John Locher)

A questo punto della corsa e a una settimana dal SuperTuesday, è difficile immaginare chi e cosa possa fermarlo. Tra gli undici Stati che votano il SuperMartedì ci sono anche la Florida, l’Ohio e il Texas, rispettivamente la casa di Marco Rubio, John Kasich e Ted Cruz. Questi devono vincere bene e molto a casa loro – tre Stati molto pesanti – e sperare che Trump non gli arrivi troppo vicino. A tutti questi serve almeno una vittoria fuori casa. Cruz punterà tutto sul Sud, molto conservatore e religioso, quanto a Trump, Rubio e Kasich sarà interessante vedere come andranno in Minnesota e Massachusetts, tendenzialmente democratico il primo, superdem il secondo, luoghi che possono misurare l’appeal di un moderato presso l’elettorato bianco. Intanto però c’è Trump che li guarda nello specchietto retrovisore.

La bambina afroamericana con due papà, la stepchild adoption e le barzellette anni 70 del Parlamento

CMN42D People for and against same-sex marriage demonstrate outside the Massachusetts Statehouse in Boston

Dunque in Italia dovremmo avere le unioni civili. Dunque i figli di una persona che si “unionicivilizzerà” con qualcuno dello stesso suo sesso non avranno due genitori ma uno. Avremo le unioni civili e non il resto perché senza approvare l’emendamento che riscrive il ddl Cirinnà ed elimina la stepchild adoption (steptʃaɪld əˈdɒpʃən, ma se in Parlamento non sono in grado di pronunciarlo decentemente dopo mesi di discussione, difficilmente servirà la fonetica), rischieremmo di non avere nessuna legge.

La colpa, ci spiegano dal Pd, è del Movimento 5 Stelle che fa tattica parlamentare su un tema di così grande importanza. Giammai, la colpa è di Renzi che fa le leggi sui temi etici con il ministro Alfano invece di cercare maggioranze alternative in Parlamento, ribattono gli altri.

Il problema è che stabilire di chi sia la colpa non è interessante. Il giorno dopo che la legge sarà approvata, il premier e Ivan Scalfarotto giubileranno dicendo che l’Italia entra così nel consesso dei Paesi civili, che l’Italia cambia passo. E poi a mezza bocca aggiungeranno che le adozioni da parte di coppie di persone dello stesso sesso già si fanno e che i tribunali le concedono. E il Movimento 5 Stelle ci spiegherà che la legge avrebbe potuto essere migliore se solo il Pd non avesse giochini da fare con i centristi.

Ecco, avranno quasi ragione tutti: finalmente in Italia ci sarà una legge che garantisce qualche diritto a persone che stanno insieme non potendosi sposare, la legge avrebbe potuto essere cento volte migliore. Ma nemmeno è questo il punto.

Nel 2012 vivevo negli Stati Uniti e nella casa di fronte alla mia viveva una coppia di uomini con una bambina afroamericana. Li incontravo andando al parco giochi con mia figlia neonata, io leggevo il giornale, mentre lei gattonava sul prato e la bambina adottata, sempre allegra e di buon umore, ci salutava calorosamente. Aveva due padri, per giunta bianchi, diversi da lei due volte, che la portavano al parco, la aiutavano a fare i compiti, le compravano dei bei vestitini (“ci mancherebbe, erano delle checche”, direbbe qualcuno), la portavano per mano al parco.

Sulla bacheca Facebook di un mio vecchio amico, in questi giorni, lo stesso racconta la sua storia. È stato adottato dal secondo marito della madre e, fino al 1975, sui suoi documenti, alla voce padre, c’era scritto NN. Poi hanno riformato il diritto di famiglia, ma lui racconta che da bambino viveva la cosa come uno stigma. Uno stigma burocratico. Da domani, scrive l’amico, qualche bambino con un solo padre vivrà un nuovo stigma. Lo vivrà male, bene, chissà.

Un tempo giocavo a calcio con un uomo di Roma che era passato per l’orfanatrofio. Una volta, nello spogliatoio, un medico cattolico che giocava con noi si mise a parlare di unioni gay e, essendo aperto, diceva: capisco l’unione, ma le adozioni no. «È perché non ci sei mai stato tu in istituto. Io sì, se qualcuno ti vuole bene, va bene tutto», rispose. Per lui era così.

Ecco, il primo punto è questo: sarà anche vero che i tribunali consentono l’adozione da parte di un partner dello stesso sesso del genitore naturale, ma le istituzioni politiche di questo Paese stanno decidendo che no, quel bambino, ai loro occhi, non deve godere degli stessi diritti degli altri. Anche se è felice, cresce bene, va a scuola, è amato, curato come tutti gli altri – o più, meno, meglio e peggio che le famiglie naturali e innaturali possono essere brave o non brave a esercitare il difficile ruolo che è far crescere un umano.  Per le stesse istituzioni elettive italiane, invece, le suore di un istituto vanno bene per crescere un bambino, ma due donne che si amano non sono capaci.  Per quelle di 20 Paesi europei invece sì. Non parliamo di stepchild, di figli che sono già figli “di fatto” delle coppie con le quali vivono, in Europa gli omosessuali adottano bambini e bambine. E no, a quanto consta, non li usano come Barbie da pettinare, né li vestono da orsi, camioniste e drag queen.

Il secondo punto riguarda la politica e la sua debolezza. Negli Stati Uniti c’è un’ala dell’elettorato così conservatrice che difficilmente viene in mente qualcosa di simile in Italia. C’è chi spara ai medici che praticano l’aborto. C’è chi parla dei gay come del demonio in terra. In Spagna invece la chiesa e l’Opus Dei sono potenze politiche e sociali. In entrambi i posti, le istituzioni elettive – statali, federali o centrali, a seconda dei casi – hanno deciso per conto loro, senza ascoltare frange estreme ma cospicue dell’elettorato o poteri forti. In Italia, con dieci anni di ritardo, invece no. Quel che si decide di fare, partendo da una soluzione al ribasso, è mediare con pezzi di politica che non contano nulla e che ingaggiano questa battaglia solo per mostrare al mondo di esistere.

Il terzo punto è il più triste, definiamolo: “Non chiamiamolo matrimonio”. Bene, il matrimonio è un’istituzione di diritto civile e un rito. L’idea che ad alcuni che desiderano farlo venga negato il diritto al rito è sbagliata. Non a tutti piace il matrimonio, alcuni lo ritengono un’istituzione borghese e inutile. Altri uno strumento della Chiesa per esercitare il proprio potere. Altri ancora si chiedono come mai quei trasgressivi degli omosessuali vestiti di piume al gay pride vogliano essere noiosi e borghesi come tutti gli altri. Chiedersi perché qualcuno voglia per forza fare una cosa che troviamo insensata, però, non ha senso: non mi tatuerei dalla testa ai piedi, ma non credo che lo vieterei per legge. Non tutti vogliono donare gli organi, ma qualcuno sì. E non tutti si prenderebbero un cane in casa. Eppure nessuno si sogna di negare questa possibilità ad altri. Se si tratta di consentire a qualcuno di sposarsi, beh, c’è tutta una classe politica che ci spiega che no. E qui arriviamo in fondo: in questi mesi e anni non abbiamo discusso di diritti, di quale legge sarebbe la migliore, di quali tutele per i bambini adottati in un Paese dove le adozioni funzionano male (e non perché i bambini sono giustamente molto tutelati). No, in questi mesi abbiamo discusso di froci e lesbiche e di quanto a una parte arretrata e ben rappresentata in Parlamento di questo Paese facciano schifo. Poi, siccome non si può dire, perché questo è anche un Paese ipocrita, abbiamo discusso di diritto civile, definizioni costituzionali, tutela dei minori. Premettendo sempre che, “se dico così non è per pregiudizi: il mio migliore amico è fr…..mmm.. gay”. Ricordiamoci di questo spettacolino pietoso e anni ’50 se e quando festeggeremo una legge mediocre.

I diritti umani nell’età dei rifugiati. Il rapporto di Amnesty International

L’organizzazione umanitaria Amnesty International ha diffuso il Rapporto 2015-2016 sullo stato dei diritti umani nel mondo. Secondo la onlus le vicende che si stanno svolgendo sulla scena politica internazionale rischiano di mettere sempre più a rischio il rispetto dei diritti delle persone. Nel corso dell’ultimo anno molti governi hanno sfacciatamente violato il diritto internazionale e continuano a operare volutamente per indebolire le istituzioni che sono impegnate nella tutela delle persone. Secondo Salil Shetty, segretario del movimento globale, il rischio mette in discussione gli stessi principi democratici, infatti: «Non sono solo i nostri diritti a essere minacciati – ha dichiarato – lo sono anche le leggi e il sistema che li proteggono». La protezione internazionale dei diritti umani rischia quindi di essere sempre più compromessa a causa di interessi egoistici nazionali di corto respiro e dell’adozione di misure di sicurezza che guardano poco o nulla al rispetto ai diritti e alle libertà fondamentali. Rispetto che viene indebolito anche tagliando i fondi o limitando l’azione di tutte quelle organizzazioni nazionali e internazionali che hanno il compito di monitorare per una corretta applicazione dei diritti dell’uomo. Spesso addirittura «i governi non si vergognano di descrivere la protezione dei diritti umani come una minaccia alla sicurezza, alla legge e all’ordine e ai ‘valori nazionali»– ha spiegato Shetty.

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Per Amnesty l’attuale panorama mondiale non è rassicurante: «Non sono solo i nostri diritti a essere minacciati, lo sono anche le leggi e il sistema che li proteggono. Oltre 70 anni di duro lavoro e di progresso umano sono a rischio». Gli organismi sui diritti umani delle Nazioni Unite, il Tribunale penale internazionale e meccanismi regionali come il Consiglio d’Europa e il sistema interamericano dei diritti umani sono minacciati da governi che cercano di sfuggire ai controlli sulla situazione interna dei loro paesi. Risultando di fatto molte volte impotenti e impossibilitati a far applicare le risoluzioni.
I dati pubblicati da Amnesty sono impressionanti nel 2015 oltre 122 stati hanno praticato maltrattamenti o torture e 30 paesi, se non di più, hanno rimandato illegalmente rifugiati verso paesi in cui sarebbero stati in pericolo. In almeno 19 paesi, governi o gruppi armati hanno commesso crimini di guerra o altre violazioni delle “leggi di guerra”. Non sono mancati inoltre altri abusi come gli attacchi deliberati di molti governi ad attivisti, avvocati e altre persone che difendono i diritti umani. «L’obiettivo di queste azioni è ridurre al silenzio le critiche e zittire i loro cittadini in violazione delle stesse leggi nazionali» spiega sempre Shetty. E continua: «La malconcepita reazione di molti governi alle minacce alla sicurezza nazionale si è tradotta in un attacco alla società civile, al diritto alla riservatezza e a quello alla libertà di parola. Siamo di fronte al palese tentativo di rendere i diritti umani parole sporche, di contrapporli alla sicurezza nazionale, alla legge e all’ordine, ai ‘valori nazionali’. Per far questo, i governi hanno persino violato le loro stesse leggi».

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Quello che emerge è una sostanziale debolezza delle Nazioni Unite e una forte difficoltà nel tutelare i diritti umani soprattutto di fronte all’aggravarsi dell’emergenza profughi o con l’ampliamento del conflitto in Siria. Le Nazioni Unite erano state istituite per ‘salvare le future generazioni dal flagello della guerra’ e ‘riaffermare la fiducia nei diritti umani fondamentali’, richiedono di essere ripensate alla luce delle nuove sfide che si trovano ad affrontare. E di questa necessità di ripensare l’Onu e dargli nuovo vigore si farà carico anche il prossimo segretario generale delle Nazioni Uniti che verrà eletto quest’anno per subentrare a Ban Ki Moon nel 2017 e che, potrebbe essere, per la prima volta nella storia, una donna. Chiunque sia nominato alla guida dell’Onu, rimangono chiari fronti dell’impegno che emergono dalle stesse parole di Shetty di Amnesty International: «Oggi il mondo sta affrontando molteplici sfide, create o prolungate nel tempo da governi che si perdono in giochi politici a spese delle vite umane. Milioni di rifugiati soffrono a causa della proliferazione dei conflitti e i gruppi armati attaccano deliberatamente le popolazioni civili e commettono altri gravi abusi».

Violazioni dei diritti umani nel mondo durante il 2015

Nel 2015 Amnesty International ha documentato gravi violazioni dei diritti economici, sociali, politici e civili in molti paesi. Qui sotto riportiamo un elenco che riassume la posizione di molti stati, fra le violazioni la onlus inserisce anche la chiusura delle frontiere in un Ungheria e il trattamento che qui hanno ricevuto i migranti.

Angola: uso delle leggi sulla diffamazione e sulla sicurezza per intimidire, arrestare e imprigionare persone che avevano espresso pacificamente le loro opinioni; mancato rispetto delle raccomandazioni delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani.
Arabia Saudita: brutale repressione contro chi aveva osato chiedere riforme o criticare le autorità; crimini di guerra nella campagna di bombardamenti in Yemen; ostacolo all’istituzione di una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sui crimini commessi da tutte le parti coinvolte nel conflitto dello Yemen.
Burundi: sistematiche uccisioni e uso massiccio di altre tattiche violente da parte delle forze di sicurezza; tentativo di sopprimere la comunità dei diritti umani.
Cina: aumento della repressione contro i difensori dei diritti umani; adozione di leggi indiscriminate in nome della sicurezza nazionale.
Egitto: migliaia di arresti, anche nei confronti di chi aveva espresso critiche in modo pacifico, nell’ambito della repressione in nome della sicurezza nazionale; prolungata detenzione di centinaia di persone, senza accusa né processo; centinaia di condanne a morte.
Gambia: torture, sparizioni forzate, criminalizzazione delle persone Lgbti; totale rifiuto di cooperare con le Nazioni Unite e con gli organismi regionali per i diritti umani su questioni come la libertà d’espressione, le sparizioni forzate e la pena di morte.
Israele: mantenimento del blocco militare nei confronti di Gaza e conseguente punizione collettiva ai danni di 1,8 milioni di abitanti; mancato rispetto, così come da parte della Palestina, della richiesta delle Nazioni Unite di condurre serie indagini sui crimini di guerra commessi nel conflitto di Gaza del 2014.
Kenya: esecuzioni extragiudiziali, sparizioni forzate e discriminazione contro i rifugiati nel contesto delle operazioni anti-terrorismo; tentativo di indebolire il Tribunale penale internazionale e la sua capacità di perseguire la giustizia.

Messico: grave situazione dei diritti umani, tra cui 27.000 sparizioni; dura reazione alle critiche delle Nazioni Unite sul massiccio uso della tortura, quasi completamente impunito nonostante l’aumento delle denunce.

Pakistan: risposta gravemente lesiva dei diritti umani all’orribile massacro della scuola di Peshawar della fine del 2014; uso incessante della pena di morte; sorveglianza e chiusura degli uffici delle Ong internazionali considerate “contro gli interessi” del paese.
Regno Unito: continuo uso della sorveglianza di massa in nome della lotta al terrorismo; passi indietro costituiti dal proposito di evitare lo scrutinio della Corte europea dei diritti umani.
Russia: uso repressivo di leggi sulla sicurezza nazionale e contro l’estremismo dai contenuti vaghi; azione coordinata per ridurre al silenzio la società civile; vergognoso rifiuto di riconoscere le vittime civili degli attacchi in Siria e mosse spietate per fermare l’azione del Consiglio di sicurezza sulla Siria.

Samar, wife of Fa'eq al-Mir, holding a family photograph at her home in Istanbul, Turkey. Fa’eq al-Mir(also known as Fa’eq Ali Asa’d) is long-term political activist and a leading member of the Syrian Democratic People’s Party. Fa’eq, aged 61, was detained by the government for his political activities several times since 1979. Fa’eq went missing on 7 October 2013 after leaving his house in thegovernment-controlled al-Khoussour neighbourhood of Damascus. His wife, Samar, described how she has been affected by Fa’eq’s disappearance. “I live in constant fear. I am always worried about how they are torturing him, whether he has had enough to eat,” she said. “His disappearance is unbearable for the family. We don’t know where he is, whether he is dead or alive. We don’t know. They are taking revenge on all of us." His son, Ali, added, “It’s not like my father wanted anything very huge or impossible. He just wanted freedom and the chance to vote. For this, he spends his life in prison. For this, he has disappeared. All for something so simple.” Enforced Disappearances Report - Syria
Una donna siriana mostra la foto dei cari fatti scomparire in Siria dal regime di al-Assad

Siria: uccisione di migliaia di civili in attacchi diretti e indiscriminati contro i civili mediante barili-bomba e altri armamenti nonché con l’uso della tortura in carcere; lunghi assedi contro le aree civili, blocco degli aiuti internazionali alle popolazioni alla fame.
Slovacchia: diffusa discriminazione contro i rom, nonostante anni di campagne da parte di gruppi nazionali ed europei che alla fine hanno spinto la Commissione europea ad avviare una procedura d’infrazione contro il paese.
Stati Uniti: centro di detenzione di Guantánamo – esempio delle gravi conseguenze della “guerra al terrore” – ancora aperto; assenza di procedimenti giudiziari nei confronti degli autori di torture e sparizioni forzate.
Thailandia: arresto di persone che avevano espresso critiche in modo pacifiche tra cui attori, utenti di Facebook e autori di graffiti; rifiuto da parte del governo militare delle richieste internazionali di non limitare i diritti umani e non ridurre al silenzio il dissenso in nome della sicurezza.
Ungheria: chiusura dei confini di fronte a migliaia di rifugiati in condizioni disperate; ostacolo al tentativi regionali di aiutarli.
Venezuela: perdurante assenza di giustizia per gravi violazioni dei diritti umani e costanti attacchi contro i difensori dei diritti umani; denuncia della Convenzione americana dei diritti umani dopo il precedente ritiro dalla giurisdizione della Corte interamericana dei diritti umani, che ha significato negare la giustizia alle vittime delle violazioni dei diritti umani.

Violazioni dei diritti umani in Italia

All’inizio dell’attuale legislatura Amnesty International aveva presentato un’Agenda in 10 punti sui diritti umani in Italia. Lo scopo del documento era mettere in luce i principali ostacoli – legislativi, politici, culturali – al pieno rispetto dei diritti umani in Italia e raccomandare misure finalizzate a porvi rimedio. I temi trattati si riferivano in particolare alle discriminazioni perpetrate nei confronti di persone LGBT, persone che ancora oggi, mentre il ddl Cirinnà viene smembrato in parlamento, vedono non riconosciute le Unioni civili. Alla questione hot spot e migranti, alla necessità di inserire il reato di tortura. Su tutti i temi del documento Amnesty ritiene che: «le azioni poste in essere da governo e parlamento in relazione ai 10 punti dell’Agenda presentano finora numerose insufficienze, alcune delle quali piuttosto gravi». Un’altra questione che preoccupa l’organizzazione internazionale è l’esportazione di armi. Nel corso del 2015 e dell’inizio del 2016 sono stati trasferiti bombe e sistemi militari dall’Italia all’Arabia Saudita, attualmente impegnata in un’azione militare in Yemen, nel quadro di un conflitto caratterizzato da attacchi indiscriminati contro le infrastrutture civili (a cominciare dalle strutture sanitarie e dalle scuole). Il governo dell’Arabia Saudita è responsabile di gravi violazioni dei diritti umani, circostanza che dovrebbe da sola comportare – secondo una legge italiana, la n.185 del 1990 – il divieto di “esportazione e transito di materiali di armamento”. Queste stesse armi molto spesso finiscono successivamente nelle mani dei terroristi legati a Daesh  alimentando ulteriormente il numero di violenze e abusi dei diritti umani nel mondo.

Che pena questo Parlamento parappappero

Questo che imita quella. E poi: «Avete detto una bugia! Chiedeteci scusa!». «Ah, sì? E invece voi? Cosa credete? Abbiamo ancora i messaggi nel telefonino!». «Il meno peggio è meglio di niente». «Bugiardi!». «Dai, adesso giuriamo che la votiamo…». «Non vi crediamo più!». «E certo, avete sempre fatto finta». Il riassunto della giornata politica è un gne gne polifonico di squinternati catapultati ad essere classe dirigente che litigano come nemmeno in un asilo sovraffollato: la discussione verte intorno ad un sms conservato sul telefonino e sembra in un attimo di essere tornati alla pornografia dei governi passati dove la cronaca politica si infiammava al massimo per la nazionalità di qualche giovane ballerina di lap dance.

Credo che da oggi, ogni volta che i miei figli si ritroveranno a litigare senza sputare e alzare le mani, li proporrò subito per un cavalierato della Presidenza della Repubblica o qualche posto da sottosegretario di governo. Il fatto è che questi, questa maggioranza a mattoncini lego che si sparpaglia in base alla legge che deve votare, sono gli stessi che mettono le mani alla Costituzione, sono quelli che chiedono alla comunità internazionale di sapere la verità su Giulio Regeni, sono gli stessi che lì dentro bene o male decidono i diritti. Mica dei gay soltanto: dei lavoratori, degli esodati, degli insegnanti, degli alunni, delle cure, delle famiglie, dei diritti sul lavoro, delle regole d’ingaggio per la prossima guerra, delle modalità di voto per le prossime democrazie. Quel nugolo di cocciuti, viziati e volubili parlamentari sono quelli che scrivono la drammaturgia del nostro futuro prossimo, per dire.

Ecco: la pena vera, al di là dell’ennesima legge strombazzata per propaganda e poi ridotta ad una misera poltiglia di mediocrità, è l’atteggiamento di un corpo politico che rappresenta perfettamente la parte peggiore di questo Paese: subdolo, con la costante sindrome da reality show, dissociato tra valori e comportamenti, lezioso sulle cose minime e smargiasso con i valori fondamentali, impunito nel ritenersi unica parte in scena e tutti gli altri la massimo spettatori. Non è lontana la Roma dei leoni e il colosseo: all’odore del sangue si è sostituita la bava delle baruffe ma lo scopo rimane sempre la distrazione. Un Parlamento parappapero che si ritrova in settimana per inscenare il proprio circo. E un Paese tutto intorno.

Obama prova di nuovo a chiudere Guantanamo. I repubblicani faranno di tutto per impedirlo

Demonstrators, dressed as detainees, march on Jan. 11 against the U.S. military detention facility in Guantanamo Bay, Cuba, and call for President Obama to close the facility.

«Nella lotta contro il terrorismo usiamo ogni strumento militare e di intelligence e anche la nostra idea di democrazia e di essere un modello. E poi, quando capiamo che c’è qualcosa che funziona continuiamo ad usarla. Quando invece è inefficace, la mettiamo da parte. Negli anni abbiamo imparato che Guantanamo non aumenta la nostra sicurezza nazionale ma la diminuisce». Il presidente Obama ha finalmente deciso di provare a chiudere il centro di detenzione militare tristemente noto come Guantanamo, a Cuba e lo ha annunciato così. La abbiamo vista, denunciata, è stata oggetto di film, documentari, campagne, manifestazioni. Assieme alle torture di Abu Ghraib è una macchia enorme sulla democrazia americana – con la differenza che le torture di Abu Ghraib erano il gioco di una banda di animali, quelle a Guantanamo erano “istituzionali”. Obama aveva promesso di chiudere la prigione divenuta un simbolo della violazione dei diritti delle persone negli anni di Bush durante la sua prima campagna elettorale. Ci ha in qualche modo provato in passato, ma la questione presentava e presenta, enormi problemi giuridici e non solo. Per anni c’è stato un braccio di ferro con il Congresso e un tentativo costante di trasferire prigionieri altrove. Gli Usa hanno offerto soldi, battuto pugni sul tavolo, ma quei detenuti, negli anni della guerra al terrorismo, non li voleva nessuno. Molto sono trasferiti, ma ci sono volute trattative individuali per ciascuno.

Il progetto dell’amministrazione è semplice ed è sintetizzato in un piano di 21 pagine messo a punto dal Dipartimento della Difesa: spostare alcune decine di prigionieri in luoghi di detenzione in territorio americano, probabilmente in Colorado o South Carolina. E di trasferire gli altri 35 in paesi che ne accettino di prenderli in carico. In tutto le persone che sono ancora chiuse nei recinti che tutti abbiamo visto tante volte sono 95.

L’annuncio di Obama

La frase iniziale di Obama rimanda anche ai valori: se gli Usa vogliono presentarsi come un Paese dove regna il diritto, dobbiamo chiuderlo. E invece: «Siamo ancora a difendere il mantenimento di una struttura dove nemmeno un verdetto riguardante l’11 settembre è stato emesso. E quando facevo campagna elettorale c’era un consenso sull’idea che andasse chiuso. Anche il mio predecessore Bush era d’accordo e allo stesso modo era d’accordo John McCain».

Negli anni il Congresso a maggioranza repubblicana ha fatto di tutto per impedirne la chiusura. Anche se ormai l’85% dei detenuti è stato trasferito – 147 sotto la presidenza Obama.

Obama presenta quindi un piano al Congresso spiegando, tra le altre cose, che il piano comporta anche un risparmio di centinaia di milioni. Gli altri aspetti del piano riguardano anche la revisione dei profili delle persone detenute. Dieci detenuti sono sotto processo da parte delle commissioni militari, che non funzionano – dice Obama. I processi vanno fatti nelle corti federali perché è corretto giuridicamente che sia così e questa è l’idea del presidente.

«So che sarà difficile e che la gente ha paura di ospitare terroristi nelle prigioni americane. Ma la verità è che ce ne sono già diversi di terroristi anche più pericolosi nelle carceri americane» ha concluso Obama. Non sarà facile: diversi repubblicani e tra questi sia John McCain che il senatore della South Carolina hanno già twittato che faranno di tutto per impedire che il piano venga approvato. Nel 2010 il Congresso ha votato il divieto per il trasferimento su territorio Usa, ora dovrebbe revocarlo. Usando i suoi poteri, il presidente può trasferirne alcuni, ma non tutti. Potrebbe cominciare facendo quello. Siamo nell’anno delle elezioni e la cosa aiuterà i repubblicani a fare propaganda anti-democratici: Trump ha detto più volte che lui userebbe il waterboarding e qualsiasi altra cosa contro i terroristi. Un senatore del suo partito ha invece detto che per quanto lo riguarda quei detenuti possono marcire per sempre a Cuba. I diritti e la democrazia valgono come spilletta da appuntarsi alla giacca, non come valore. Obama, che è un costituzionalista e sul tema ha pensato e ragionato anche dal punto di vista dell’accademico, promette che farà di tutto. Che ci riesca è un altro paio di maniche.

 

Zika e microcefalia, ecco perché bisogna indagare sul ruolo dei pesticidi

Milena Kaline, 17, who is three months pregnant, center, holds Angelica Pereira's daughter Luiza, who was born with microcephaly, as they talk in Santa Cruz do Capibaribe, Pernambuco state, Brazil, Saturday, Feb. 6, 2016. The Zika virus, spread by the Aedes aegypti mosquito, thrives in people's homes and can breed in even a bottle cap's-worth of stagnant water. The virus is suspected to be linked with occurrences of microcephaly in new born babies, but no link has been proven yet. (AP Photo/Felipe Dana)

Il virus Zika è trasmesso dalla Aedes aegypti, una specie di zanzara che vive in pozze di acqua stagnante. Come la malaria, la dengue e la chikungunya, questo virus ha sintomi quali febbre, dolori articolari ed eruzioni cutanee. I casi di microcefalia sembrano essere collegati a un focolaio dello Zika, isolato per la prima volta in Uganda nel 1940.

Tuttavia, Margaret Chan, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha suggerito cautela. «Anche se un nesso causale tra l’infezione Zika durante la gravidanza e la microcefalia non è stata stabilito con certezza, le prove indiziarie sono molte ed estremamente preoccupanti» ha detto Chan. Il parere del direttore dell’Oms ha fatto eco a quello di Patricia Pestana Garcez, esperta di sviluppo neurologico che studia la microcefalia presso l’Università Federale di Rio de Janeiro: «Non vi è alcuna prova diretta che il virus provochi la microcefalia». Tuttavia, ha aggiunto che prove circostanziali erano abbastanza forte da consigliare a tutti di non correre rischi.

A municipal health worker sprays insecticide to combat the Aedes aegypti mosquito that transmits the Zika virus, in Campina Grande, Paraiba state, Brazil, Friday, Feb. 12, 2016. The Zika virus, spread by the Aedes aegypti mosquito, thrives in people's homes and can breed in even a bottle cap's-worth of stagnant water. The virus is suspected to be linked with occurrences of microcephaly in new born babies, but no link has been proven yet. (AP Photo/Felipe Dana)
 (AP Photo/Felipe Dana)

Molti esperti e attivisti ambientali hanno messo in guardia su come alcune sostanze chimiche utilizzate in agricoltura – come il paraquat, che è stato classificato come “altamente tossico” negli Stati Uniti – pur essendo vietate nei principali Paesi industrializzati continuino ad essere ampiamente utilizzate in molti Paesi in via di sviluppo, compreso il Brasile. Sono particolarmente utilizzati nel nord-est, l’area del Paese dove si sono verificati quasi un terzo dei casi di microcefalia.

Negli ultimi anni, il Brasile è diventato uno dei principali esportatori di succo d’arancia, zucchero, caffè, carne, pollame e semi di soia. Il boom nella produzione del Brasile di queste derrate alimentari è probabilmente dovuto, in parte, all’ampio uso di pesticidi, molti dei quali molto tossici per gli esseri umani. L’esposizione ad alcuni pesticidi può causare una vasta gamma di problemi di salute, come la perdita di memoria, di coordinazione, effetti sul comportamento e capacità motorie ridotte. Inoltre, certi pesticidi possono causare asma, allergie, cancro, disturbi ormonali e problemi di riproduzione e di sviluppo fetale, come appunto la microcefalia. I bambini sono a maggior rischio di esposizione ai pesticidi perché il loro sistema immunitario non è completamente sviluppato.

Alla luce di questi effetti tossici dei pesticidi, non è irragionevole pensare che la microcefalia possa essere dovuto ad un uso eccessivo di queste sostanze e che questi effetti sono stati smascherati dalla infezione da virus Zika. È anche possibile pensare che la microcefalia nei bambini possa avere un’origine multifattoriale.

Questa situazione pone la necessità di indagare con urgenza e più a fondo gli effetti sia del virus Zika sia dei pesticidi nel causare la microcefalia nei bambini in un ambiente di vita e di lavoro, e per le autorità sanitarie pubbliche dei Paesi più minacciati da questo virus di coordinare le azioni per il controllo più efficace dell’epidemia, partendo dalla messa al bando dei pesticidi che sono già stati vietati in altre parti del mondo.

Il livello dei mari sale più in fretta oggi che negli ultimi 3mila anni

Le acque salgono molto più in fretta oggi che negli ultimi ventisette secoli. Non anni, secoli. Un gruppo di scienziati afferma di aver ricostruito la storia del livello dei mari che coprono la gran parte della superficie del pianeta degli ultimi tremila anni e le conclusioni che hanno tratto sono che «con il 95 per cento di probabilità che l’aumento del XX° secolo è stato più veloce di uno qualsiasi degli ultimi 27 secoli». Così ha detto Bob Kopp in conferenza stampa, climatologo presso la Rutgers University, che ha condotto la ricerca con nove colleghi provenienti da diverse università statunitensi e del resto del mondo.

Gli scienziati spiegano di non essere in grado di fare valutazioni sui periodi precedenti, ma che con ogni probabilità, l’andamento osservabile è simile a quello che loro sono riusciti a misurare. Più lento cioè di quello del ‘900.

Lo studio è stato pubblicato nei Proceedings della National Academy of Sciences.

Secondo le misurazioni del team di scienziati, il livello del mare è aumentato di circa 14 centimetri tra il 1900 e il 2000, una media di 1,4 millimetri all’anno. Il tasso attuale, secondo la NASA, è di 3,4 millimetri all’anno, il che suggerisce che l’aumento del livello del mare è in fase di accelerazione ulteriore.

Lo studio attribuisce l’aumento anomalo al riscaldamento globale. Gli scienziati ipotizzano che senza l’intervento dell’uomo – o meglio, un intervento dell’uomo tanto massiccio – il livello dei mari avrebbe potuto essere in una forbice tra i 3 centimetri più basso o al massimo di 7 più alto (invece che 14).