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Renzi vola dal vecchio amico Macri. In una Buenos Aires sconvolta dalle proteste

Se la lontananza è come il vento, che fa dimenticare chi non s’ama, allora tra Matteo Renzi e Mauricio Macri (in questo articolo di Left potete leggere una sua piccola bio) è vero amore. Nemmeno gli 11mila chilometri che separano Roma da Buenos Aires sono bastati ad affievolirne i rapporti. Anzi, Renzi sarà il primo leader europeo a visitare l’Argentina di Macri. E non a caso: «Con Matteo Renzi siamo amici dai tempi in cui lui era sindaco a Firenze e io a Buenos Aires», dice il presidente argentino. E adesso entrambi sono a capo dei rispettivi Paesi.

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi scende dall'aereo che lo ha condotto a La Valletta per l'incontro con il primo ministro di Malta, Joseph Muscat, e la cerimonia di inaugurazione dell'interconnettore elettrico tra Malta e Italia, 9 aprile 2015. ANSA / US PALAZZO CHIGI - TIBERIO BARCHIELLI +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

«Mi ha chiamato qualche giorno fa per chiedermi se poteva venire a trovarmi e così sarà il primo leader europeo a porgermi visita. Arriva l’8 febbraio, passeremo insieme il giorno del mio compleanno» ha annunciato il neopresidente argentino. Ma i programmi sono cambiati: il buon Matteo – alle prese con i guai del suo Continente – tra migranti, Libia, banche e i conti che non tornano – ha dovuto rinviare. E a Buenos Aires atterrerà il 16 del mese. Matteo potrà riabbracciare l’amico Mauricio, alla prese con la rottamazione del kirchnerismo all’insegna del liberismo. L’incontro se lo erano promesso già il 23 novembre, nel corso della telefonata in cui «Renzi ha formulato a Macri il proprio augurio di successo, nel segno dell’amicizia tra Italia ed Argentina, fondata su fortissimi legami storici, istituzionali, economici, scientifici e socio-culturali». Ma è tra le righe del messaggio inviato dall’ambasciata che si scorge il più bel biglietto d’amore: «Oggi ha inizio una nuova era per l’Argentina. I migliori auguri di successo vanno al Governo dell’Ingenier Maurizio Macri. Il figlio di un immigrato italiano è anche la speranza dell’intera Argentina». Del resto, tra Roma e Buenos Aires corre un ponte fatto di oltre 900mila passaporti, l’Argentina è il Paese estero che ospita il maggior numero di cittadini italiani.

Dissenso record
L’incontro avverrà in una Buenos Aires stravolta dalle proteste e dalle polemiche: contro le politiche liberiste ma anche contro un massiccio numero di licenziamenti politici e fatti di violenza istituzionale. Eletto al secondo turno con il motto “povertà zero”, nei suoi primi 30 giorni con l’arrivo di Macri sono stati licenziati almeno 24.000 dipendenti pubblici, tra cui lavoratori del Congresso, che – denunciano – hanno perso il lavoro perché la pensano diversamente da lui.
Nel cielo sopra Buenos Aires torna l’incubo della persecuzione politica e della violenza istituzionale. Già due casi hanno suscitato reazioni sdegnate: il giornalista uruguaiano Victor Hugo Morales (diventato famoso in tutto il mondo per la telecronaca del 2 a 0 di Maradona ai mondiali del 1986) è stato licenziato da un’emittente privata argentina dopo 30 anni di carriera e, ha denunciato, il motivo è politico. Poi, il 16 gennaio scorso, l’attivista indigena e vice del Parlasur (il Parlamento del Mercosur), Milagro Sala, è stata arrestata prima con l’accusa di sedizione e poi, decaduta quell’accusa, per sottrazione di fondi e presunta attività illecita, relativamente alla costruzione di alcuni alloggi con la sua organizzazione, i Tupac Amaru. In un tweet Sala non esita a scrivere: «In questo momento la polizia di Gerardo Morales mi sta arrestando, come ai tempi della dittatura»
il tweet


E ancora, il mese di febbraio per Macri comincia con gli argentini in piazza a protestare nelle strade di Bajo Flores contro un attacco delle forze dell’ordine che venerdì scorso hanno sparato dei proiettili di gomma contro i membri di una banda di strada di quartiere, lasciando undici bambini feriti compresi tra i 2 e i 16 anni.

Di cosa parleranno

Rilanciare i rapporti bilaterali. Questo il motivo ufficiale per cui Renzi vola a Buenos Aires. Relazioni che sono da sempre tradizionalmente forti.  Ma quali gli argomenti? Lotta all’inflazione e al deficit pubblico sono senz’altro i temi che stanno più a cuore a entrambi i leader. Entrambi sono alle prese con l’urgenza di risanare l’economia e questo, nell’asse Buenos Aires-Roma, si traduce in investimenti di imprese italiane nei settori dell’energia e dell’agroindustria e accelerazione dei rapporti tra il Mercosur e l’Unione europea.
L’avvicinamento delle due economie è già cominciato lo scorso dicembre, quando il ministro dell’Agricoltura italiano, Maurizio Martina, volò a Buenos Aires per sostenere le tesi del premier Renzi: sarebbe «molto interessante l’ingresso dell’Argentina nella Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico che raggruppa attualmente 34 Paesi», disse Martina in quell’occasione. L’Ocse mette insieme i Paesi sviluppati che hanno in comune un governo democratico e un’economia di mercato. Per l’argentino Macri entrare a far parte di questa organizzazione sarebbe uun gran regalo di compleanno, seppure consegnato in ritardo.

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Niente motoseghe per la foresta del Grande Orso

A White Spirit Bear (Ursus amercanus kermode). Wildlife im Great Bear Regenwald in Kanada. Ein weisser Kermoden Baer, White Spirit Bear (Ursus amercanus kermode).

Uno storico accordo per la salvaguardia della Foresta del Grande Orso del Canada, una delle più grandi foreste pluviali temperate del mondo. È quanto hanno annunciato nei giorni scorsi il governo della provincia canadese della British Columbia e i governi di oltre venti Prime Nazioni indigene.

L’accordo, sostenuto da Greenpeace, Forest Ethics, Sierra Club British Columbia e imprese forestali, sancisce la protezione di tre milioni di ettari di foresta, un territorio grande approssimativamente quanto il Belgio, nonché habitat di lupi, grizzly, uriette marmorizzate, salmoni, rane e del rarissimo orso kermode o «orso spirito», una sottospecie di orso nero che vive lungo le coste centro-settentrionali della Columbia Britannica.

Un decimo della popolazione esistente dell’orso kermode è composta da esemplari dalla pelliccia bianca o color crema. Per il loro aspetto, gli «orsi spirito» hanno un ruolo molto importante nella mitologia delle Prime Nazioni.

La lotta per la protezione della Foresta del Grande Orso è cominciata a fine anni Novanta, quando il 95 per cento del territorio era senza tutele e soggetto a deforestazione. Dopo anni di proteste, sfociate in una campagna di pressione internazionale che ha portato alla cancellazione di contratti milionari con imprese operanti nella Foresta, nel Duemila sono iniziati i negoziati, conclusi con successo proprio pochi giorni fa.

Con i suoi innovativi standard giuridici, scientifici e morali, l’accordo per la salvaguardia della Foresta del Grande Orso rappresenta un modello globale per la conservazione su larga scala delle foreste, la protezione dei diritti delle popolazioni indigene e la lotta ai cambiamenti climatici.

Ora nell’85 per cento della Foresta del Grande Orso è proibito il disboscamento: cedri millenari e imponenti pecci di Sitka non dovranno più temere le motoseghe. Ciò eviterà la liberazione nell’atmosfera di circa 640 mila tonnellate di anidride carbonica l’anno, e permetterà alle Prime Nazioni, che abitano da sempre queste territori, di vedere riconosciuti i propri diritti.

Nel restante 15 per cento del territorio – circa 550 mila ettari – sarà consentita la silvicoltura a fini commerciali, seppur soggetta a uno dei regolamenti più severi al mondo.
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Primarie a Milano: vince Sala, per la gioia di Renzi. E ora?

Vince Sala, come da pronostico. Ma, scelto quello che sarà il candidato del Pd alle prossime elezioni milanesi, il dato da commentare oggi è il risultato dei due sconfitti, Balzani e Majorino. Insieme, questo è il punto, i due avrebbero vinto. Ed è subito un gran parlare di personalismi.

Giuseppe “Beppe” Sala, mr. Expo, infatti, candidato di Matteo Renzi ed ex direttore generale del sindaco Moratti, ha superato di poco il 40 per cento. E Francesca Balzani, invece, già vicesindaco e candidata forte del supporto di Pisapia, si è fermata poco sotto il 35 per cento. A una passo da Sala, azzoppata da Pierfracesco Majorino che le ha tolto (o almeno così vuole lettura più in voga) il 23 per cento: un tandem avrebbe premiato la sinistra della coalizione, e avrebbe forse recuperato anche alcuni alleati.

E se ci si potrebbe chiedere se le primarie non debbano esser invece proprio il luogo dei personalismi, e se il problema non fosse invece la presenza di un supposto “corpo estraneo” come Sala (insomma: se tutti i candidati sono più o meno coerenti tra loro e con l’identità della coalizione non è un tragedia se vince quello meno di sinistra), si può anche notare che la candidatura di Balzani è nata proprio dopo un vertice al Nazareno, tra Pisapia, la stessa Balzani e Renzi, e che Majorino era già in campo. Per Renzi, avere due candidati contro Sala, era la condizione ideale.

Con l’esito delle primarie – sorvolando sulle polemiche riferite al voto della comunità cinese – si compone meglio il quadro delle candidature alle prossime amministrative di Milano.

Se il centrosinistra avrà dunque Sala, il centrodestra è ormai su Parisi, city manager anche lui, che ha accettato la convocazione di Berlusconi ed è dunque – la definizione è del Giornale – «un Sala di centrodestra», il ché però non vuol dire che l’altro sia proprio di sinistra. Poi c’è Corrado Passera, un terzo manager, già ministro con Monti, che è lanciatissimo e in campagna elettorale da mesi. Passera e Parisi potrebbero anche finire a fare un ticket, questo dicono le voci.

E a sinistra, a questo punto che si fa? Pare si possa ora ricomporre la frattura tra Possibile e Sinistra Italiana. È un magra consolazione ma è qualcosa. Pezzi di Sel infatti sono andati in ordine sparso alle primarie, un po’ su Balzani, compreso Vendola, un po’ su Majorino e persino un po’ su Sala, facendo imbestialire i civatiani che osservavano il fenomeno con questo stile: più si fanno male, meglio è.

Dunque: potrebbe esser proprio Civati il candidato che rilancia la sinistra cittadina?

Buona scuola, in arrivo il referendum. E questa volta è “dal basso”

Buona scuola, in arrivo il referendum. Dopo quello promosso da Possibile di Pippo Civati nel 2015 (che non raccolse le firme necessarie), nuovo tentativo, e questa volta “dal basso”. Cioè dalle associazioni dei docenti e studenti, dai sindacati e dai comitati Lip (legge di iniziativa popolare).
Ieri, domenica 7 febbraio, a Napoli è nato ufficialmente il comitato promotore del referendum. Ne fanno parte Flc Cgil, Gilda, Cobas, Unicobas, Anief e per gli studenti l’Uds, oltre a comitati e sigle minori.
Quattro quesiti in cantiere per abrogare altrettanti punti chiave della legge 107. “Due sono già definiti – dice Giovanni Cocchi docente bolognese che fa parte dei comitati Lip – e cioè uno sullo School bonus e l’altro sulla chiamata diretta dei professori da parte del dirigente scolastico, gli altri due sono da definire negli ultimi dettagli ma avranno come oggetto il comitato di valutazione e l’alternanza scuola-lavoro”. Lo School bonus, ricordiamo, è la possibilità di concedere erogazioni liberali da parte di privati ad una scuola specifica, con il rischio di creare disuguaglianze tra scuole e aree del Paese. Sull’alternanza scuola lavoro il dibattito nel comitato – il cui coordinatore tecnico è il costituzionalista Massimo Villone – è ancora in corso. Si tratta infatti di capire se porre un limite alle 200 ore (per i licei) e alle 400 (per i tecnici) da dedicare nel triennio finale agli stage in aziende, enti pubblici, musei ecc, oppure se abrogare la possibilità di svolgere l’alternanza durante il periodo estivo. «In ogni caso si tratta di tutelare i diritti degli studenti a non essere sfruttati», dice Danilo Lampis dell’Uds che ha avviato una campagna tra gli studenti proprio per far emergere situazioni anomale.«Noi vorremmo un codice etico da parte delle imprese, ma anche la Carta dei diritti degli studenti in alternanza scuola-lavoro che il ministro aveva promesso di attuare, dall’autunno scorso e che invece è ancora arenato negli uffici del ministero a Viale Trastevere», sottolinea.
Tornando ai referendum, a marzo è prevista un’altra assemblea da cui usciranno i quesiti ormai redatti e il via alla campagna referendaria. Che per il momento non vede partecipare i partiti, che, se vorranno, fa notare Cocchi, potranno creare dei comitati di sostegno. Tre mesi di tempo per raccogliere almeno 600mila firme e poi la Corte costituzionale dovrà decidere se i quesiti sono ammissibili.

Ma qual è il clima che regna nelle scuole? “C’è il fuoco sotto la cenere”, dice il rappresentante dei comitati Lip. “La legge 107 ha già fatto vedere crepe come la supplentite o la fine toccata ai docenti del potenziamento: assunzioni senza verificare i reali bisogni delle scuole”, afferma Cocchi. Per questo motivo, una campagna referendaria può riaccendere la miccia e convogliare le delusioni e l’insoddisfazione che già hanno prodotto contestazioni a macchia di leopardo. Come è accaduto nelle Marche e in un liceo di Pisa dove i docenti si sono rifiutati di votare i due rappresentanti del Comitato di valutazione che ha il compito, tra l’altro, di elargire un bonus in denaro ai meritevoli.
Ma il referendum va preparato con molta attenzione, sottolinea Lampis. “I quesiti devono essere chiari e semplici e la campagna deve coinvolgere tutti, tenendo presente comunque che il referendum non è la panacea di tutti i mali. Ma la sua forza è anche quella di stare insieme agli altri percorsi referendari”. Che sono quelli ambientali, come il No Triv e quello sul Jobs act su cui la Cgil sta sondando i suoi iscritti.

Così tra pochi mesi, verso la metà di aprile, potrebbe accadere  che, mentre il presidente del Consiglio affila le armi per la “sua” campagna sul referendum costituzionale, dal basso, arriverebbero i referendum che mettono in crisi proprio i suoi gioielli: la Buona scuola, lo Sblocca Italia e forse anche il Jobs act.

Caro Giulio, qui ti fanno scrivere da morto, mica da vivo

Giulio-Regeni-1

Dunque a questo punto cosa sappiamo di Giulio Regeni?

Di Giulio sappiamo che non riusciva a restare indifferente di fronte ad un regime fintamente democratico; sappiamo che non sopportava le ingiustizie e che si proponeva di raccontarle, studiarle e scriverne; sappiamo con sicurezza che aveva uno sguardo lucido sulle lotte dei lavoratori egiziani e sappiamo che aveva una naturale propensione per ascoltare i vinti piuttosto che lisciare i vincitori e per dare voce a chi non ne ha. Ah, sappiamo anche che, al contrario della propaganda di regime, fosse consapevole dei reali rischi che avrebbe potuto correre.

Giulio Regeni era un giornalista. Oltre a tutto il resto Giulio è uno di quelli che dà lustro a questo mestiere, come ce ne sono tanti giovani, capaci e non condizionabili che la frontiera la abitano davvero, prima di raccontarla.

Se Giulio è riuscito a spaventare il potere più di quanto facciano i potenti “per posizione” significa che Giulio, probabilmente, avesse lucidità e responsabilità. Più di quella di chi avrebbe possibilità infinitamente superiori ad una articolo inviato in Italia dal Cairo con una mail.

Giulio è anche un curioso. E i curiosi non hanno mai molta fortuna. In Egitto e in Italia. E sappiamo anche che questa è un’indagine mica solo di omicidio ma anche un’indagine su un depistaggio. E che c’è stato tutto il tempo per depistare per bene. Quindi la verità va cercata con lo stesso piglio con cui scriveva Giulio, senza badare troppo alla cortesia diplomatica.

Insomma, servirebbe un Giulio identico in missione in Egitto per scoprire la verità. Solo che qui i Giulio li pubblicano da morti, mica da vivi. E chissà se in tutto questo dolore impareremo anche questa, di lezione.

SuperBowl 50, quel che c’è da sapere (anche se trovate il football lo sport più insulso che ci sia)

Seattle Seahawks wide receiver Jermaine Kearse (15) makes a touchdown catch as Carolina Panthers cornerback Josh Norman (24) looks on during the second half of an NFL divisional playoff football game, Sunday, Jan. 17, 2016, in Charlotte, N.C. (AP Photo/Mike McCarn)

I Denver Broncos hanno vinto il SuperBowl per 21 a 10 sui Carolina Panthers, il vecchio e navigato Peyton Manning è l’unico giocatore della storia di questo sport ad aver vinto il campionato più di una volta con squadre diverse. Una partita vinta con la difesa: due touch-down (la meta) scaturiti da intercettazioni di Von Miller, contro una squadra potenzialmente più forte. Manning non ha detto se questo, come molti si aspettano, è il suo ultimo match. Che cos’è il SuperBowl in America? Proviamo a spiegarlo qui sotto

È diventato un appuntamento planetario fondamentalmente per colpa della rete. Stanotte Denver Broncos (i finalisti che hanno perso più finali nella storia) e Carolina Panthers si giocano il 50esimo Superbowl, uno spettacolo di ore, tra i più seguiti in assoluto della televisione in America e nel resto del mondo: 170 milioni in totale, 50 fuori dagli States. Diciamoci la verità, non ha senso che sia così: se si esclude qualche lancio spettacolare, i placcaggi volanti e qualche azione davvero degna di nota, lo sport americano per eccellenza è frammentato all’inverosimile e difficilmente comprensibile ai non addetti ai lavori. La sua forza, per quelli a cui non piace, è lo spettacolo nello spettacolo: gli spot agli intervalli sono i più pagati in assoluto, valgono 5 milioni di dollari per 30 secondi (e fanno spesso scuola), le riprese sono fantastiche, lo show di metà tempo vede sempre una star di primo piano….e così via. Il SuperBowl è l’americanata per eccellenza.

Uno sport violento

Members of the Carolina Panthers pose for photos inside Levi's Stadium as they gathered for a team photo in preparation for the Super Bowl 50 football game Saturday Feb. 6, 2016 in Santa Clara, Calif. (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

Se c’è uno sport violento – ma l’hockey su ghiaccio professionistico è peggio – questo è il football. I giornali sono pieni da anni di discussioni sui traumi e le morti precoci di giocatori. UN esempio tra tanti: Ken Stabler, morto lo scorso luglio, campione del ’76, soffriva di Encefalopatia traumatica cronica. In generale si fanno più male i difensori, come segnala Frontline, trasmissione della Tv pubblica Pbs, che tiene le statistiche degli incidenti. Uno studio dell’università di Boston ha monitorato i cervelli di 165 ex giocatori professionisti e non: il 91 per cento aveva una qualche forma di Encefalopatia cronica traumatica. La Nfl sta cambiando un po’ le regole dopo aver perso una causa contro 5mila ex giocatori ed aver pagato un miliardo di danni.

Delirio calorico

La notte del SuperBowl è occasione per feste e pienoni negli sport bar. Il risultato? Questo è il secondo giorno per consumo di cibo nell’anno – il primo è il Thanksgiving). Quanto? Quattro milioni di pizze, un miliardo e trecentomila ali di pollo (tre per americano!), 14.500 tonnellate di patatine e quatto volte tanto di più di guacamole. Circa un miliardo di litri di birra. Quanto ne va sprecato di questo cibo? Molto.

Carolina Panthers wide receiver Jerricho Cotchery makes a catch during practice in preparation for the Super Bowl 50 football game Thursday Feb. 4, 2016 in San Jose, Calif. (AP Photo/Marcio Jose Sanchez)

Big Data e scommesse

Se c’è uno sport tecnologico, nonostante la sua brutalità, questo è il Football: schemi, statistiche, dati in tempo reale che gli allenatori usano per descrivere le azioni sui loro tablet – un contratto da qualche centinaio di milioni di dollari tra Microsoft e National Football League (Nfl) prevede l’elaborazione dei dati della partita in tempo reale, per allenatori e commentatori Tv. I dati in tempo reale, associati alle scommesse (e la compagnia che distribuisce i dati è anche un gestore di scommesse) è un problema per tutti gli sport, come segnala questa serie di storie su vari sport scritta da James Glanz.

Denver Broncos linebacker Danny Trevathan (59) holds up his phone as he poses with teammates for photos before an NFL football walk through practice in Santa Clara, Calif., Saturday, Feb. 6, 2016. (AP Photo/Jeff Chiu)

Qualche altra curiosità (scelta tra il milione che troverete in rete)

  • La differenza tra i due quarterback (il giocatore che lancia da dietro la linea di difesa) è la più ampia della storia: Cam Newton dei Panthers ha 26 anni, Peyton Manning dei Broncos 39. Manning è figlio di Archie, a sua volta giocatore, e fratello di Eli, che ha guidato i New York Giants alla vittoria due volte, l’ultima nel 2011.
  • I giocatori della squadra che vince prenderanno 102mila dollari a testa, gli sconfitti la metà. Guadagnano molto di più in contratti e pubblicità.
  • Beyoncé canterà nell’intervallo per la seconda volta, è la prima a farlo. In questi giorni ha pubblicato un singolo a sorpresa. L’arte del marketing.
  • Nessuna partita è mai finita ai supplementari, ma negli ultimi cinque SuperBowl le ultime azioni sono state decisive.

E ora quattro degli spot che andranno in onda stanotte: la finta campagna elettorale, lo Starman di Bowie, il cantante degli Aerosmith Steven Tyler che vende caramelle e il prossimo Alice atraverso lo specchio di Tim Burton. Buon SuperBowl, a chi lo guarda e a chi non interessa se non per curiosità antropologica.

 

Calcutta, da Latina al Mainstream

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Non se lo spiega neanche lui il successo avuto con Mainstream, il suo primo album ufficiale, dopo qualche tentativo insieme ad amici musicisti. Calcutta, al secolo Edoardo D’Erme, 26 anni, crede sia tutto uno scherzo. Un tipo naïf, sicuramente poco avvezzo alle interviste. Fino a poco tempo fa, suonava nei locali dei suoi amici a Latina, città in cui è nato e ha studiato, e che neanche disprezza troppo. I trascorsi tra band punk e poi l’idea di scrivere canzoni in italiano: «Piano piano, mi piaceva sempre di più il pop ed eccomi qui». Calcutta ha scelto questo nome – «perché suona bene» – quattro anni fa. Nel progetto prima erano in due, poi da solo, voce e chitarra, e adesso sono in quattro, insieme a lui tastiera, basso e batteria.

Se gli chiedi se è il fenomeno del momento, ti dice: «Come Ronaldo? Ma no, non lo so, anche con Davide (di Bomba Dischi, la sua etichetta indipendente, ndr) ci chiediamo se sia tutto vero. Ci sembra di essere al The Truman Show, con tanta gente che collabora per prenderci in giro». Mainstream, uscito a fine novembre, è un «disco stretto» (così lo definisce lui) in cui ci regala sette brani inediti, tutti piacevoli, dove la melodia si fonde bene con le parole, mai scontate in entrambi i casi. Trovate efficaci, linguaggio puro, sarcasmo letterario, arrangiamenti e testi ricercati. Quasi quasi, verrebbe da dire che scrive senza pensare, ma non perché, a un certo punto, sbucano “Sandra e Raimondo”, una ferrea coppia televisiva e non solo, sebbene passata, ma perché è quasi geniale questa improbabile menzione. Ci sorprende in “Gaetano”, con una «svastica disegnata a Bologna solo per litigare», poi diventa romantico in “Cosa mi manchi a fare”, il brano più passato dalle radio, e non tralascia l’attualità, anche provinciale: papa Francesco e il Frosinone in serie A: «Sono due cose assurde, è cambiato il mondo, non è più come anni fa. Intendo, quando stavamo meglio, di solito si dice così (ride), ma è una parentesi che puoi riempire come ti pare. Adesso è tutto diverso, c’è questo tipo che non sembra neanche un papa e poi c’è una squadra di calcio come il Frosinone in serie A, paradossi appunto».

Poi c’è “Dal Verde”, un pezzo ancora diverso, che si fonde meravigliosamente con la melodia, è questa la qualità dell’autore, con questa notte che “ci vorrebbe” per viaggiare e ricominciare. Edoardo ride ancora. Non ha macchinato nulla, ha solo tradotto in parole, musica e rime poco ostentate l’amarezza di un pomeriggio, assalito dalla nostalgia per l’agro pontino, come nel brano “Milano”; ha riportato all’attenzione gli scontri tra residenti e immigrati, in quel di Torpignattara qualche mese fa, ancora in “Gaetano”, che poi è davvero un suo amico siciliano, il quale gli giura che la periferia romana è un ghetto.


 

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Graphic novel: quel genere di storie

Il fumetto femminile? «Non esiste». Che sia realizzato da uomini, donne o marziani, a detta delle cinque valenti autrici intervistate in occasione della recente uscita dei loro rispettivi graphic novel, conta solo che sia buono. E se c’è una cifra che lega tutti i lavori che vi raccontiamo in queste pagine, è semmai la scelta di raccontare vicende quotidiane, di volta in volta declinate nella commedia o nel diario intimista. Eppure non sono mancate le voci di disappunto dopo l’annuncio che tra i trenta candidati al premio alla carriera del prossimo Festival internazionale del fumetto di Angoulême, la Cannes del fumetto, non comparisse nemmeno una donna. Polemiche e successive defezioni, con il direttore del festival Franck Bondoux, che è riuscito a mettere una toppa peggiore del buco, aggiungendo prima alla rosa dei premiandi un contentino di sei autrici, poi annullando del tutto la selezione, lasciando scelta libera ai giurati. Alla fine ha vinto il torinese Pietro Scarnera con la biografia illustrata di Primo Levi, Una stella tranquilla, edita in Italia da Comma22. Sempre giustificandosi, Bondoux ha detto «non si può riscrivere la storia del fumetto». Dimenticando nomi importanti come Trina Robbins o Claire Bretécher, Hagio Moto o Takahashi Rumiko. In Italia, Grazia Nidasio o, come vi raccontiamo ora, tante giovani autrici.
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La trentaseienne Giulia Argnani, faentina, è la più anziana del gruppo; dopo due libri e numerose storie brevi, alla scorsa edizione del festival BilBolbul ha presentato la sua ultima fatica, Up all night, per l’unica etichetta italiana di fumetti lgbt, Renbooks. Il libro racconta la storia d’amore tra Chiara, ragazza di provincia schiacciata dalle incombenze quotidiane, e Greta, front girl di un gruppo rock, libera e indipendente. «È un impasto di vicende personali e di altre inventate: volevo che arrivassero al lettore in maniera accattivante», ci dice, «è difficile che io racconti una storia che non mi abbia toccato da vicino, perché ho bisogno che le cose mi passino attraverso». Sebbene questo sia il secondo libro a tema lgbt dopo il primo commissionato da Mondadori, Argnani non ha una particolare predilezione per l’argomento: «M’è capitato e l’ho fatto volentieri, è stata una bella esperienza. Quando si tratta di scrivere cose mie a volte parlo di amori lesbici, sì, ma non voglio fossilizzarmi. E poi, a dire il vero, Up all night tocca l’argomento ma l’omosessualità non è il fulcro della storia. Alla questione politica non penso mai: mi piace parlare della vita di tutti i giorni, che è già una cosa, mi pare, molto politica. È stato più facile essere accolti da una casa editrice di settore, ma sogno un mondo dove non ci siano differenze, almeno nel fumetto».


 

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E l’Ilva chi la compra? Caccia alla cordata

ACCIAIERIE ILVA OPERAIO FONDITORE ALTOFORNO ALTIFORNI LAVORO USURANTE INDUSTRIA SIDERURGICA

Il tempo stringe. Il 10 febbraio scade il termine per le manifestazioni d’interesse e l’acquisizione dell’Ilva non sembra un traguardo molto ambito. Non solo perché parliamo di un’area altamente inquinata che necessita di decine di milioni per riqualificazione e bonifica. O perché chi dovesse acquistare il pacchetto d’acciaio si caricherebbe di un bel po’ di debiti (ultimi i 300 milioni di aiuti di Stato che, maggiorati degli interessi, i nuovi proprietari dovranno restituire). E nemmeno perché l’area a caldo è sotto sequestro su ordine della Procura di Taranto.

Il motivo di maggiore incertezza è dato dal panorama internazionale, già caratterizzato da una crisi da sovrapproduzione. All’orizzonte, il riconoscimento – che potrebbe arrivare dalla Commissione Ue entro fine mese – dello status di economia di mercato per la Cina, Paese dai costi di produzione ridottissimi. Questo farebbe saltare gli attuali dazi doganali, mettendo in ginocchio l’industria dell’acciaio nei Paesi concorrenti. Prima tra le vittime proprio l’italica Ilva, i cui conti e la cui produzione certo non vantano numeri competitivi. Ora il governo, dopo la gittata di milioni riversata con l’ultimo decreto, è impegnato a gestire la transizione, individuando anche una nuova guida. Pochi giorni fa, a conferma delle “voci di corridoio” delle settimane scorse, è giunta tempestiva l’autocandidatura di Paolo Scaroni. «Ci penserei» ha detto l’ex ad di Eni, oggi numero due alla banca d’affari Rotschild, al microfono di Giovanni Minoli.

Ora che l’ex dg Massimo Rosini e il direttore commerciale Maurizio Munari hanno lasciato, Scaroni fa outing spiegando che certo è prematuro parlarne, ma che l’ipotesi gli è stata ventilata e lui non disdegnerebbe. Non è l’unica sul tavolo, ma potrebbe essere questa la soluzione all’affaire Ilva propiziata dal duo Renzi-Guidi. L’ex ad dell’Eni ha confermato a Mix24 di aver affrontato la questione in un recente incontro con il presidente del Consiglio, aggiungendo: «Se si creasse una cordata italiana che avesse bisogno di una persona che conosce un po’ il mondo dell’acciaio ci penserei». E Scaroni conosce sia il mercato che gli operatori di casa nostra che potrebbero imbarcarsi nell’avventura. Come la famiglia italo-argentina dei Rocca, proprietari della Techint, dove ha dato impulso alla sua carriera di manager da metà anni Ottanta e per il decennio seguente, propiziando proprio l’espansione nel settore siderurgico.

Nel 1996, Scaroni ha patteggiato una pena di un anno e quattro mesi per aver pagato, per conto della società di cui era stato vicepresidente e ad, una tangente al Psi al fine di ottenere appalti per la costruzione della centrale elettrica di Brindisi. «Se entra Techint, l’Ilva la guida Scaroni», confermano ora anche gli addetti ai lavori. Un’altra possibile candidatura, si vocifera in ambienti industriali, è quella di Lucia Morselli, attuale ad di ThyssenKrupp Ast, produttrice del 50% dell’acciaio inox italiano. Proprio Morselli era riuscita esattamente un anno fa a sedare, non senza fatica, gli scioperi che avevano causato ritardi sulle consegne e ingenti perdite, com’è avvenuto nei giorni scorsi a seguito delle proteste dei lavoratori Ilva di Cornigliano (Ge).


 

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Le primarie, le bombe, il carnevale: le foto della settimana

Cory McSweeney, 23, of Middlesborough, Mass., left, and Thomas Harrahan, 20, of Weymouth, Mass., supporters of Republican presidential candidate Donald Trump, pose in their homemade shirts while waiting for the doors to open for a Trump rally, Thursday, Feb. 4, 2016, in Portsmouth, N.H. (AP Photo/Robert F. Bukaty)

 

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immagine in evidenza: Due sostenitori di Donald Trump a Middlesborough, Michigan (AP Photo/Robert F. Bukaty)

Gallery a cura di Monica Di Brigida