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Stefano Bollani racconta Gershwin e la musica senza confini

«Un mio commento su David Bowie e Pierre Boulez? Caschi male, non mi hanno mai attirato granché. Un’altra domanda?». Ride, Stefano Bollani. Lui è così: schietto e diretto. Come i suoi innamoramenti per alcuni musicisti che ha raccontato insieme con Alberto Riva nel libro Il monello, il guru, l’alchimista (Mondadori).Tra i suoi miti c’è anche George Gershwin, e proprio la Rapsodia in blu l’attende il 29 gennaio a Firenze con l’Orchestra musicale del Maggio diretta da Zubin Mehta. Una prima volta con la prestigiosa orchestra della sua città.

Cominciamo da Gershwin: che cosa rappresenta per te? Libertà, profondità?

Libertà, la sposo subito! Forse è un’impressione che provavo anche da bambino, ma di sicuro è quello che provo oggi. Significa sentire una musica che non ha bisogno di essere definita. Musica e contenuto non catalogabili: finalmente. Per chi fa il musicista la cosa più importante è proprio cercar di sfuggire alle catalogazioni che ti vengono date e che poi influenzano quello che fai successivamente. Gershwin è un ottimo esempio di libertà estrema nel comporre, come del resto Piazzolla e tanti altri. Non parliamo di Frank Zappa e dei Beatles… In pratica tutti quelli di cui parlo nel libro hanno tentato di essere liberi e ci sono pure riusciti.

Tu scrivi di musicisti che vogliono salvare il proprio mondo rinchiudendosi in una fortezza come Ravel e di altri, invece, che il mondo attorno lo vivono. Gershwin era tra questi ultimi?

Eh sì, lui c’era. Era lì, nel mondo, e ha fatto la colonna sonora di quegli anni, così come Scott Fitzgerald con Il Grande Gatsby ne ha scritto il libro. Anzi, mi viene il dubbio che non sia stato Gershwin a fare la fotografia di un’epoca ma che sia quell’epoca che si sia conformata alla Rapsodia in Blu!

Le categorie ti danno l’allergia, questo si è capito. Ma la distinzione tra cultura alta e bassa c’è ancora oggi…

Guarda, io penso che la distinzione tra cultura alta e cultura bassa serva per distrarci. Ed è un’operazione che viene dall’alto. Perché se parliamo del basso, dei cosiddetti strati popolari della popolazione, alla gente un film o una musica piace o non piace. Invece in alto ci si pone un sacco di problemi: decidere che “questo non è interessante, questo non è bello, questo ha un sacco di difetti” ecc. Ma tutti questi distinguo non ci fanno godere di un film o di un brano musicale per poi decidere, nel caso, se ci piace o no. È una grandissima opportunità che sprechiamo.

Mi viene in mente la cosiddetta scuola di Darmstadt che negli anni 50-60 sosteneva una musica basata su architetture molto razionali e astratte che quasi respingeva il pubblico. E magari chi si lasciava andare di più verso la melodia veniva accusato di essere un “borghese”.

Era un periodaccio, quello che racconti. Io penso semplicemente che la musica debba essere un campo libero in cui anche il pubblico può prenderla come crede. Ma se si usano – come fanno ancora molti compositori contemporanei – miliardi di parole per spiegare un brano di cinque minuti, allora significa che c’è un problema. La musica è prima di tutto linguaggio che dovrebbe portare contenuti molto più alti di quelli che porta la parola che può essere sempre travisata, mentre la musica no, parla direttamente alla pancia delle persone.

Esiste una musica che provoca più emozioni di un’altra?

Ognuno si emoziona come crede, è il bello della varietà ma è difficile parlare di musica bella o brutta, che sono categorie non definibili scientificamente. Mentre invece scientificamente è rintracciabile nella musica un tipo di suono che ci “fa bene”: è una questione tutta fisiologica. Per fare un esempio, c’è una questione aperta tra i musicisti sull’accordatura degli strumenti. Oggi per convenzione viene fatta sul La a 442 hertz ma molti vorrebbero tornare a 432, con una frequenza, cioè, più vicina alle sequenze numeriche che si ritrovano in natura. Io sono d’accordo, perché la frequenza che si alza in realtà non fa bene al nostro organismo e infatti a casa io ho un piano accordato a 432 hertz.

Nel tuo libro c’è un personaggio, la fantomatica musicista Belinda che è una convinta sostenitrice della frequenze a 432 hertz. Che mi dici?

Sì, però prima dimmi tu di Belinda…

Beh, Belinda sei tu!

Ah, sì sì. Cioè, non sono io, è un personaggio inventato. Per l’appunto mi hai beccato perché lei la pensa allo stesso modo…Ti spiego: stavo cercando un musicista che avesse trattato questi argomenti, non lo trovavo e allora l’ho inventato (ride)!

C’è stato qualcuno che ci ha creduto?

A dir la verità tutti pensano che la compositrice Belinda sia vera, finché non leggono la nota finale. Ma tu l’hai capito subito?

Nel libro riporti una intervista a Belinda piuttosto strana e poi risuonava qualcosa delle invenzioni di cui tu e David Riondino eravate maestri nel programma Dottor Djembé su Radio3.

Ecco sì, Belinda è una piccola “macchia” del dottor Djembé!

Una domanda, diciamo, di attualità: che ne pensi di Quentin Tarantino che ha paragonato Ennio Morricone a Mozart?

(ride) Innanzitutto lui sta in America e l’ha detto alla festa del Golden Globe. Forse (ride ancora) era un po’ su di giri, quindi, di conseguenza, confonde un po’… visto poi che iniziano tutti e due per la M, Morricone, Mozart… Non so, bastava dire che Morricone è un grande della musica, che va benissimo.

Il tuo programma alla Rai Sostiene Bollani? Come è andata a finire?

È andata proprio a finire. Nel senso che la prima edizione del programma me l’avevano proposta loro e c’era un grande entusiasmo. La terza, che avevo proposto io, non si fa. Perché? Non lo so. Il programma doveva iniziare a gennaio ma non c’è. È un mistero anche tentar di capire il motivo. Politico, personale? La Rai è come il Vaticano, non ti dicono niente.

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In Thailandia un villaggio per i lavoratori migranti. Fatto di container di metallo

ANSA EPA/DIEGO AZUBEL

File di container di metallo color giallo sole, che si ripetono per tre piani, come fossero case. Anzi, sono case. A Samut Prakan, periferia di Bangkok, in Thailandia, un’impresa di costruzioni ha pensato di installare una specie di villaggio a uso abitativo per i lavoratori migranti impegnati in un progetto che durerà circa tre anni, e per le loro famiglie. Lo chiamano “Container Village for Migrant Workers” e i lavoratori in questione arrivano da Cambogia, Myanmar e Laos, ma ci sono anche molti thailandesi. In totale, sono più di 400 e fanno parte dell squadra di costruzione che lavora su due siti separati, ma per lo stesso datore di lavoro.

Scale e passerelle, all’interno, collegano i grandi container. Ogni blocco di 12 metri è diviso in quattro “case”, e in alcune ci vive un’intera famiglia. La corrente elettrica, c’è. Ogni casa è dotata di prese per la corrente e spesso al loro interno c’è posto anche per una tv o un impianto per la musica. Mentre i bagni e l’acqua corrente sono in uno spazio comune, dove sono state collocate quattordici grandi vasche per i migrant workersTutto intorno: negozi di generi alimentari, una scuola e un parco giochi per i figli degli operai. Campi di pallavolo e di speck takraw.

Arrivare in Thailandia, per un migrante, non è cosa semplice. Nemmeno se chi ci prova sta scappando dai campi di prigionia nella giungla al confine con la Malaysia Le politiche migratorie di Bangkok sono durissime e prevedono anche i respingimenti in mare. E non mancano i traffici illeciti: la scorsa estate 72 persone – tra cui un alto generale dell’esercito e alti ufficiali – sono state incriminate con l’accusa di traffico di esseri umani.

A dire del reporter, la gran parte degli abitanti di questo strano villaggio sta bene, anche se le condizioni di vita potrebbero essere migliori. Perché è di lavorare in Thailandia che sono contenti, quasi tutti dicono di non voler tornare nei loro Paesi d’origine quando il lavoro del momento sarà finito. Un nuovo progetto arriverà. E allora il villaggio sarà smontato e riposizionato per continuare a essere la loro casa temporanea.

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Gallery a cura di Monica Di Brigida

La Svezia potrebbe espellere 80mila richiedenti asilo. Addio Refugees welcome

epa04961733 Anti-migration protesters attend a rally at the border town Tornio between Sweden and Finland, 03 October 2015. Several protests, both pro- and anti-migration, were organized in cities of Sweden. Opponents and supporters of refugees staged demonstrations across several cities in Finland, bringing tensions over migration policy to a head after the country saw its asylum applications skyrocket this year. Several hundred people in the northern border town of Tornio called for the border to be closed as another group of similar size conducted a counter-rally. Located on the border with Sweden, Tornio has been the main entry point for refugees and migrants to the Nordic country in recent weeks. EPA/ROBERT NYHOLM SWEDEN OUT

L’Europa ieri ha bacchettato la Grecia perché non sa tenere chiuse le proprie frontiere: se entro tre mesi non mostrerà di sapere tappare il mare, rischia di essere messa fuori da Schengen come chiedono i governi di diversi Paesi dell’est – Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia –  che in questi mesi si sono distinti per umanità e capacità di accoglienza. Stanotte nel mare Egeo una barca ha lasciato in mare 24 corpi. Diciotto erano bambini. Dieci i sopravvissuti. Qual’è il problema vero?

La notizia del giorno è che anche la Svezia, che prima della crisi, in silenzio, aveva accolto più rifugiati di chiunque altro, espellerà decine di migliaia di persone. Forse 80mila. Come la Germania, che per qualche settimana, di fronte all’ondata emotiva provocata dalla foto del cadavere del piccolo Aylan Kurdi su una spiaggia, aveva annunciato che i refugees erano welcome. Poi c’è stata Colonia. O meglio: ci sono state le pressioni furiose all’interno del partito della signora Merkel affinché il governo cambiasse politica. E c’è stata Colonia, che come scusa per cambiare atteggiamento non era male.

Ora il governo di Stoccolma, in calo di consensi, ci dice coloro la cui domanda di asilo verrà respinta saranno rimandati a casa: in Svezia sono entrate 163mila persone, le domande accettate sono state negli anni passati il 55%, quindi circa 80mila persone potrebbero vedersi respinta la domanda. Oppure spediti nel primo Paese in cui hanno messo piede entrando in Europa. È la regola di Dublino: si chiede asilo e si rimane nel Paese dove si entra. Per questo, per anni, l’Italia ha fatto passare le persone dirette altrove senza prendere le loro generalità. Per questo, oggi, lo fa la Grecia: i confini esterni di mare ce li hanno questi due Paesi, non si entra in Danimarca o in Svezia dal mare. E nemmeno da terra. E pensare di rispedire 80mila persone in Grecia (o in Eritrea, Etiopia, Sudan) è una follia. Oltre a essere difficile da fare se non con i treni piombati. Non è colpa della Svezia se a Bruxelles non si trovano accordi razionali e forti, se il piano di redistribuzione di 160mila persone non funziona per mancanza di volontà politica. E non è colpa del governo svedese se anche in quel Paese un partito xenofobo aumenta i consensi e usa un incidente – l’accoltellamento di una ragazza che lavorava in un centro di accoglienza da parte di un quindicenne – per far montare la paura. E allora ognuno per sè.

L’Europa vive una crisi di identità epocale, così come quella dei rifugiati è una crisi epocale. Sarebbe bello essere capaci di affrontarla come tale, ma non va così. I rifugiati non sono più welcome e i bambini affogati non ci scuotono più la coscienza. Qualche giorno fa Jeremy Corbyn, il leader laburista, è andato in visita nella cosiddetta giungla di Calais, il campo profughi improvvisato fuori dalla città francese. Il premier Cameron lo ha accusato di riunirsi con un branco di immigrati invece di pensare ai cittadini britannici. Ecco, il tema enorme di come affrontare la crisi dei rifugiati ci ricorda che la differenza tra destra e sinistra è viva e vegeta.

@minomazz

Google, Facebook, Amazon e le tasse che non pagano. Un accordo Ocse per evitare l’evasione

Qualche giorno fa il governo britannico ha raggiunto un accordo con Google sulle tasse da pagare nel Regno Unito: 130 milioni di arretrati dal 2005 a oggi. Una tassa del 3% hanno attaccato i laburisti mentre alcune ricerche sui profitti di Google indicano che il prezzo giusto da pagare sarebbe di 200 milioni l’anno (e non 130 per dieci). E la commissaria alla concorrenza della Commissione europea, Margharete Vestager, ha annunciato un’inchiesta. Nel frattempo Google ha scritto al Financial Times per difendersi: noi rispettiamo la legge, non evadiamo le tasse.

A loro volta Francia e Italia hanno aperto inchieste formali per verificare se e come il gigante tecnologico abbia evaso o eluso le tasse nei due Paesi. Per l’Italia si tratta di circa 300 milioni – e un possibile gettito sopra i 200. Un’inchiesta simile riguarda Apple. Amazon, Starbucks sono a loro volta nei guai o hanno raggiunto accordi. Non potrebbe essere altrimenti: negli anni i giganti tecnologici hanno usato i buchi della regolamentazione europea e mondiale sulle tasse per pagare il meno possibile agli Stati dove generano profitti piazzando le loro sedi legali in luoghi che hanno una corporate tax, una tassa sui profitti dlele imprese, più bassa che altrove. In Europa questi luoghi sono Irlanda e Lussemburgo. Il mondo è pieno di paradisi fiscali nei caraibi dove proprio non si paga nulla. Le sedi dei giganti tecnologici sono anche la.

In effetti Google, Facebook (che ha chiuso un trimestre di profitti da record) e Apple (che invece porta un segno meno nella vendita di telefoni per la prima volta in 13 anni) non hanno frodato il fisco ma approfittato dell’assenza di regole e accordi non pagando le tasse dove generano profitti, paese per paese, ma dove hanno la loro sede legale. Ora, il sistema internazionale di tassazione è quello emerso dalla Lega delle Nazioni nel 1928 – ci ricorda il Financial Times –  prevede che la maggior parte delle tase vengano pagate dove i prodotti vengono creati, costruiti, pensati. Bene, perché allora Google non paga molto nemmeno negli Stati Uniti? Perché studiando bene si riesce, appunto, a fare in modo di essere una compagnia delle Bermuda. Il sistema lo consente, le imprese lo usano.

La novità, oltre a un qualche dinamismo di governi nazionali senza un soldo che fino a ieri hanno accettato i comportamenti delle multinazionali senza dire una parola, è che i 31 Paesi Ocse hanno firmato un accordo che dovrebbe rendere più complicato evitare di pagare le tasse nel luogo dove si generano profitti. Se Facebook o Google vendono pubblicità in Italia o in Olanda, dovranno dichiarare i loro profitti e pagare le tasse nel luogo in cui vendono e non dove hanno la sede internazionale. I Paesi sono d’accordo nello scambiarsi informazioni relative alle dichiarazioni dei colossi. La pressione per Google&Co era cresciuta nel tempo, per anni le compagnie sono cresciute evitando il problea fisco o quasi. Ora il clima è cambiato e c’è l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema. Basteranno l’accordo Ocse e la crescente attenzione dei governi? Possibile, ma certo l’accordo con la Gran Bretagna, mostra anche come le grandi multinazionali siano capaci di ottenere dai governi condizioni vantaggiose comunque. La pressione e l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica su un tema importante in un mondo dove gli Stati faticano a trovare soldi per riparare i buchi nelle strade e finanziare le scuole, rimangono l’antidoto migliore.

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Ilva, quella stretta di mano è più politica di un decreto

A Genova gli operai dell’ILVA sono in strada. Niente freddo o sonno, no, ma piuttosto la disperazione stanca di un Paese in saldo. Più che una tetta di statua qui siamo di fronte all’inscatolamento continuo della  dignità del lavoro, anche senza iraniani in visita ufficiale. Anche se fa meno notizia, meno clamore, meno antipatia. Ci si abitua a tutto, figurarsi se non avremmo potuto addestrarci ad una paranza di licenziamenti che ha i numeri di uno sterminio sociale, senza colpe, al solito senza colpevoli e con la solita italica assuefazione. Quindi no, la notizia non è degli operai stremati che si arruolano come sentinelle del fracasso e del presidio fisico con la paura di essere agli sgoccioli, al canto del cigno. No. Non fa notizia questo, no.

Ogni tanto mi chiedo, chissà com’è che non abbiamo nemmeno più le parole per raccontarli, quei padri piantati come erbacce sull’asfalto dell’ingresso di qualche fabbrica, con i calli alle mani dell’usura della preoccupazione ancora più che del lavoro, con quel loro impegno così commovente e patetico di convincersi che avranno modo di dare una spiegazione o annunciare una mezza buona notizia sguincio in casa, chissà come mai non interessano più nemmeno quegli altri, i loro colleghi più giovani, con quegli occhi spenti di chi non sa più che forma abbia un progetto appena più lungo di un mese di paga, con le facce di chi ha disimparato la serenità perché cresciuto al buio, di chi ha il vezzo di regalarsi un pieno all’auto, al massimo, ogni tanto.

Eppure quegli operai dell’ILVA di Genova Cornigliano hanno messo in scena il copione stonato della preoccupazione, come tutti gli altri operai in giro per l’Italia, imbacuccati dentro qualche maglione troppo largo e smunto, con le scarpe portate a casa buttate dentro il carrello sotto la pasta e il latte di qualche supermercato con i tabelloni delle offerte scritte a pennarello e i pavimenti appiccicosi di salsa, e loro, gli operai, lì fuori con le sigarette strozzatedal freddo e dalla rabbia, con un’influenza tenuta a bada perché non c’è il tempo di pensarci e con qualche striscione sciancato che comincia a sfilarsi sui bordi per l’umidità. Gli operai che urlano il diritto di potersi ammazzare di fatica hanno gli occhi tutti uguali, in qualsiasi città, da Catanzaro ad Aosta, quegli stessi occhi impolverati eppure liquidi.

Di fronte, succede a Genova come dappertutto, quegli altri impiegati alla catena di montaggio dell’ordine pubblico, impiegati nella fabbrica della messinscena dell’ottimismo: i poliziotti. Anche loro con le loro disperazioni, con lo stesso buco in mezzo al petto ma con l’ordine di non farsi sfuggire il malcontento. Tra i poliziotti, oggi, ci sono i figli di quegli altri che occupano le fabbriche. Tra i poliziotti, oggi, c’è lo stesso senso di sfregio del lavoro. Chissà se non ci hanno mai pensato, tutti e due, quegli e quegli altri, che sono sempre loro a ritrovarsi faccia a faccia vicino a qualche fuoco acceso appena fuori nel parcheggio. Chissà che forse, guardandosi negli occhi, non abbiano pensato di essere così simili, contrapposti su comando ma impauriti allo stesso modo. Contenuti gli uni, liberamente disperati gli altri.

Chissà cos’ha pensato Maria Teresa Canessa, funzionaria di polizia, soprattutto madre di tre figli gemelli, quando ha deciso di togliersi il casco, sciogliersi da quella posa militaresca che suona sempre così goffa in mezzo ai poveri diavoli, e tendere la mano. Quella stretta di mano tra la poliziotta e l’operaio deve essere arrivata come uno schiaffo dentro gli uffici troppo caldi dove stanno quelli che di solito i presidi e i poliziotti li guardano dall’alto, con un bicchierino di caffè. Chissà che non sia successo che dandosi la mano abbiano sentito di essere la stessa parte. Perché se è successo anche solo per un secondo allora quella foto e quella stretta di mano sono l’atto più politico degli ultimi mesi. Roba da tenersi la foto in tasca. Roba che il ministro avrebbe dovuto scendere dall’ufficio, prenderli tutte due sottobraccio e chiedergli qualche buon consiglio. Oltre che porgere le scuse. Anche.

Buon giovedì.

Perché agli scienziati nazisti piaceva il codice genetico degli zingari

Ogni anno, in questa data, tanto si scrive, troppo si ripete. Che oltre allo sterminio del popolo ebraico sia avvenuta la decimazione della popolazione rom e sinti europea, è un fatto che ha – finalmente – acquisito pari dignità storica. Più di 500.000 persone annientate (gli abitanti di una città come Firenze), tanto che il popolo romaní chiama questo etnocidio “porrajmos”: il Grande Divoramento. Ciò ovviamente non toglie che gli “zingari” riscuotano, durante tutto il resto dell’anno, tuttora meno simpatie rispetto ai loro compagni di disgrazia.
Ma cosa volete che sia: un conto è la memoria di una tragedia, un conto è l’agire quotidiano.

C’è però un dettaglio, che invece non molti conoscono e che potrebbe stupire. Ovvero che gli “zingari”, per i generali e scienziati nazisti, fossero un patrimonio preziosissimo. Da preservare. Al punto da rinchiuderli in un vere e proprie riserve.

Alla base, la convinzione di studiosi della razza come Robert Ritter (psichiatra infantile e neurologo a capo del Centro di ricerche per l’Igiene e la Razza), che trattandosi di una popolazione di origine indoeuropea, e dunque ariana, il ceppo zingaro fosse l’unico a “contenere” il pacchetto genetico originario della razza tedesca.
A contaminarlo, un gene: il Wandergen (“gene del nomadismo”) insito, anche questo, negli “zingari”. Questo “istinto genetico” li aveva portati, nei secoli, a confondersi con i non ariani, facendo degenerare progressivamente la “sacra” purezza. Le mescolanze avvenute durante il secolare nomadismo dall’India, avevano perso i caratteri originali della razza, deviandola irrimediabilmente. Gli “incroci indesiderabili” andavano eliminati o lasciati “esaurire”: la sterilizzazione per tutti gli Zigeuner sopra i 12 anni fu una delle conseguenti misure raccomandate – e in parte effettivamente eseguite.

Fu questo il motivo per il quale, la legislazione sulla Zigeunerfrage (la “questione zingara”) del 1938 diede il via a un censimento e categorizzazione dei rom e sinti tedeschi in base al loro grado di purezza (A.S.Spinelli, Baro romano drom , Meltmi, 1995): fu la più estesa e costosa ricerca sulla genealogia di rom e sinti compiuta nella storia. Vennero setacciati archivi, registri comunali e parrocchiali, campagne, villaggi, prigioni e boschi. Fotografie, misurazioni antropometriche, prelievi di sangue, interrogatori. Alla fine, il dottore riesce a ricostruire fino all’ottava o decima generazione (P. Petruzzeli, Non chiamarmi zingaro, Chiarelettere, 2008). Non a caso, i criteri di Ritter per l’identificazione degli individui di sangue misto erano, nel caso del popolo rom, ancora più rigorosi di quelli per il popolo ebraico.

Gli zingari “puri” residui, il 10% circa, andavano dunque confinati e preservati in apposite riserve (per esempio sul lago di Neusiedl), dove antropologi e scienziati sarebbero potuti andare a studiarli al fine di ottenere genetiche per il popolo ariano. Gli ibridi, andavano soppressi.

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Come molti altri, Heinrich Himmler condivideva queste teorie, tanto che colpisce scoprire quanto considerasse utile lo studio della lingua e della cultura di questo popolo, laddove non si fosse contaminata. Esattamente l’opposto della logica antisemita, per cui minore era il grado di appartenenza razziale, maggiore era la speranza di salvarsi.
Nel 1938 viene emanato il primo Decreto per la lotta alla piaga zingara e la circolare diffusa dal Reichsführer delle SS l’8 dicembre, può essere considerata la dichiarazione ufficiale sulla posizione del Reich in merito alla questione:

«Le esperienze raccolte finora nel combattere la piaga degli zingari e le conoscenze ottenute dalla ricerca biologico-razziale, rendono opportuno risolvere il problema degli zingari tenendo ben presente la natura di questa razza».

Servirà dunque farli schedare dalla Polizia centrale del Reich, arrestarli preventivamente, obbligarli a sottomettersi a esami di biologia razziale, separarli se viaggiano in gruppo e soprattutto “assemblati”:

«Gli zingari che dovranno essere arrestati devono essere internati in campi di raccolta speciali fino al momento della loro definitiva evacuazione»
(«Festsetzungerlass», lettera alle autorità di polizia locale del 17 ottobre 1939)

Questi “campi di raccolta” sono: Dachau, Buchenwald, Mauthausen, Gusen, Flossemburg e Ravensbruck.

Il 16 dicembre del ’42 (“Decreto Auschwitz”) Himmler firmò l’ordine di internare ad Auschwitz-Birkenau le comunità romanès tedesche (gli “zingari ibiridi”) dando corso alla soluzione finale. La sezione a loro riservata, era denominata Zigeunerlager (il campo BIIe), dove le famiglie possono restare unite (probabilmente, questa misura fu attuata per evitare possibili reazioni dovute alla separazione delle famiglie – inaccettabile per rom e sinti – a cui avrebbe poi dovuto seguire l’inconveniente uccisione di quei ribelli che avrebbero dovuto essere invece conservati per la ricerca). La Z di Zigeuner gli verrà tatuata sul braccio. In questo settore le continue epidemie, in aggiunta alla condizione di privazione alimentari e igienica disumana, compiono una terribile falcidia. Ma non basta. In quanto ariani sono ciò che di più geneticamente simile v’è a un tedesco. Questo li rende preziosi per la ricerca medico-scientifica. Gli Zigeuner diventano le cavie umane degli esperimenti nazisti. Dalla ricerca sulla potabilità dell’acqua di mare del professor Beiglbock (con l’urgenza della guerra, ai fini di salvare piloti e aviatori nazisti, i tedeschi avevano deciso di trovare il modo di rendere potabile l’acqua del mare. “Dovevamo mangiare bene per sette o otto giorni e poi digiunare per dodici, nei quali ci veniva fatta bere unicamente acqua di mare. Divenimmo tutti molto deboli.” Testimonianza di un sopravvissuto sinto raccolta da P. Petruzzelli) agli orrori di Mengele.

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La decimazione della popolazione maschile dovuta alla guerra, necessitava di contromisure. Ai fini di ripopolare l’intero Reich una volta conquistata l’Europa, si pensò alla stimolazione della nascita dei gemelli. Joseph Mengele si trasferisce a Birkenau, e da qui, dalla pelle di bambini rom e sinti, inizia le sue sperimentazione. Indagare, sezionare, e sviscerare l’eterocromia dell’iride e gemelli zingari sarà la fonte privilegiata della scientifica perversione. Reperti anatomici, in particolare parti sezionate degli occhi, verranno spediti con regolarità a Berlino, all’Istituto di Antropologia, Eredità umana e Genetica, dal suo maestro, il professor Otmar von Verschuer.

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Nell’aprile del ’43, ai fabbricanti dell’orrore si unisce il dottor Carl Clauberg, ginecologo esperto di sterilità femminile: si occuperà della sterilizzazione di massa, senza distinguo stavolta fra zingare ed ebree. Si parte da bambine tra gli otto e dieci anni. La pratica consiste nell’iniettare un liquido corrosivo all’interno dell’utero. Due mesi dopo, Clauberg comunicherà a Himmler il suo ultimo risultato: aver scoperto un modo per sterilizzare più di mille donne al giorno.
Alle torture degli esperimenti, si aggiungerà la beffa: le orchestre zingare, volute dalle Ss, faranno da colonna sonora alla morte attuata.
Oltre allo Zigeunerlagr di Birkenau, una delle concentrazioni principali degli orrori della sperimentazione umana fu il lager di Dachau. Alla soluzione finale (conclusasi nella notte tra l’1. e il 2. agosto 1944 ad Auschwitz con l’uccisione tramite gas dei 4000 rom, che si aggiunsero alle 20.000 persone rom e sinte deportate nel campo di sterminio) vennero risparmiati solo 24 gemellini, prontamente inviati al dottor Mengele.

Finita la guerra, il dottor von Verschuer conserverà indisturbato il proprio posto all’Università di Münster. Così come accadrà per Robert Ritter, psicologo infantile all’interno della sanità pubblica. Mengele invece, condannato a Norimberga per crimini di guerra, riuscirà a fuggire grazie a un documento falso rilasciatogli dal comune di Termeno, Alto Adige.

Le memorie del comandante Rudolf Höss ci riportano la realtà della storia (“Comandante ad Auschwitz. Memoriale autobiografico di Rudolf Höss”, Einaudi, 1985):

Il terzo contingente, per numero, era rappresentato dagli zingari. Molto prima dell’inizio della guerra, durante le azioni contro gli asociali, erano stati condotti nei campi di concentramento anche gli zingari. Una sezione dell’Ufficio di Polizia criminale dl Reich si occupava esclusivamente di sorvegliare gli zingari delle quali non ricordo più la denominazione […] inoltre gli accampamenti degli zingari erano costantemente sottoposti ad esami biologici, poiché Himmler voleva che venissero assolutamente conservate le due grosse stirpi principali degli zingari. Era sua opinione infatti , che queste discendessero in linea diretta dagli antichissimi popoli indogermanici, e che si fossero conservate abbastanza pure come specie e come costumi. Questi zingari dovevano essere raccolti tutti insieme, a scopo di studio, esattamente catalogati e protetti come monumenti storici. […] Negli anni 1937-38, tutti gli zingari vagabondi furono raccolti in cosiddetti campi d’abitazione, perché fosse più facile sorvegliarli. Nel ’42 venne l’ordine di arrestare tutti gli individui di tipo zingaresco[…]Ne furono esclusi soltanto gli zingari riconosciuti puri appartenenti alle stirpi anzidette, che vennero sistemate presso il lago di Neusiedl, nel distretto di Odenburg. […]Non sono in grado di riferire quanti fossero gli zingari e i sangue-misti di Auschwitz. So benissimo però, che avevano completamente occupato il settore che era calcolato per 10.000 persone. Ma le condizioni a Birkenau erano tutt’altro che adatte a un campo per famiglie. […] Nel luglio del ’42 Himmler venne a visitare il campo. Gli feci percorrere in lungo e in largo il campo degli zingari, ed egli esaminò attentamente ogni cosa:le baracche d’abitazione sovraffollate, i malati colpiti da epidemie, vide i bambini colpiti dall’epidemia infantile Noma [tumore dovuto a malnutrizione], che non potevo mai guardare senza orrore e che mi ricordavano i lebbrosi che avevo visto a suo tempo in Palestina: i loro piccoli corpi erano consunti, e nella pelle delle guance grossi buchi permettevano addirittura di guardare da parte a parte; vivi ancora, imputridivano lentamente. Si fece le cifre della mortalità tra gli zingari.[…] Dopo aver visto tutto questo ed essersi reso conto della realtà, diede l’ordine di annientarli, dopo aver scelto gli abili al lavoro, come per gli ebrei.[…] L’operazione durò due anni. gli zingari atti al lavoro vennero trasferiti in altri campi, e alla fine rimasero da noi (era l’agosto del 1944) circa 4000 individui da mandare nelle camere a gas. […] Non fu facile farli arrivare fino alle camere a gas. Personalmente non vi assistetti, ma Schwarzhuber mi disse che, fino ad allora, nessuna operazione di sterminio degli ebrei era stata così difficile, tanto più dura per lui in quanto li conosceva benissimo quasi tutti, anzi era stato in buoni rapporti con loro. Infatti, a modo loro, erano gente straordinariamente fiduciose […]

 

L’Iran è il nuovo Eldorado dell’economia europea. Alla faccia dei diritti umani

Ostracizzato come se fosse un paria per quasi quarant’anni, ora, in soli dieci giorni, l’Iran è tornato a fare affari con Oriente e Occidente. Sabato scorso, la Repubblica islamica ha accolto il presidente cinese Xi Jinping, accompagnato – in pompa magna e con molta pubblicità – da una delegazione di tre vice primi ministri, sei ministri e un aereo pieno zeppo di dirigenti. Iran e Cina hanno così annunciato di voler resuscitare l’antica Via della Seta, quella lungo cui un tempo fioriva il commercio in tutta l’Asia. Al posto delle carovane di mercanti ci saranno quindi, nel progetto dei due governi, treni ad alta velocità. Rouhani e Xi Jinping hanno inoltre concordato un aumento degli scambi commerciali nei prossimi dieci anni che ammonta a circa 600 miliardi di dollari. Secondo il premier cinese, al suo primo viaggio ufficiale in Medio Oriente quest’incontro segna «un nuovo capitolo» nelle relazioni internazionali fra i due Stati, che, di fatto vantano due fra le più importanti economie in via di sviluppo. Non stupisce quindi che, in nome del commercio, il leader della più grande nazione atea al mondo abbia scelto non solo di incontrare il leader iraniano, ma anche la suprema guida spirituale del paese teocratico, l’Ayatollah Khamenei. Per Rouhani è stata poi la volta dell’Europa dove ha incontrato gli omologhi francesi, italiani e, ovviamente, papa Francesco, perché anche il Vaticano ha le sue relazioni da mantenere.

 

Al suo arrivo a Roma, in un Paese in cui fino a poche settimane fa era i rapporti commerciali con la teocrazia iraniana erano ridotti al minimo, Rouhani è stato accolto al Quirinale dalla guardia d’onore e ha destato non poche polemiche la decisione del premier Matteo Renzi di coprire le nudità delle statue greco-romane dei Musei capitolini. Ma a chi sosteneva che coprire le statue era uno scempio alla libertà e all’arte, è stato, questa volta non troppo velatamente, risposto con uno dei principi base del mercato e della real politik: “business is business”. E infatti le commesse in ballo per l’Italia ammontano a circa 17 miliardi e i rapporti con l’Iran si rivelano ancor più cruciali se si pensa allo stallo economico in cui ci troviamo e si dà un’occhiata alle statistiche confrontando l’entità degli scambi degli ultimi anni con quella del periodo precedenti alle sanzioni.

 

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Nonostante quindi i continui abusi di Teheran in fatti di diritti umani, i test missilistici, e legami con gruppi estremisti, accaparrarsi l’amicizia dell’Iran ha per i governi europei sembra avere le fattezze di un vero e proprio premio. Un premio per il quale l’Italia si colloca, dopo la Germania, al secondo posto sul podio.
E anche in Francia non intendono rimanere con le mani in mano visto che il governo iraniano ha già fatto trapelare l’ intenzione di acquistare più di un centinaio di aerei da passeggeri per rimodernare la flotta nazionale i cui veicoli sono fra i più vecchi al mondo visto che vennero acquistati prima della rivoluzione di Khomeini che scoppiò fra il 1978 e il ’79. Valore stimato dell’operazione 10 miliardi di dollari e sul piatto un accordo per fornire a Teheran altri 400 aerei civili nel corso dei prossimi anni.
Non è un caso quindi che un ambasciatore occidentale a Teheran abbia definito l’Iran come «l’ultima miniera d’oro esistente sulla terra»: 80 milioni di persone, infrastrutture fatiscenti da rinnovare al più presto e una disponibilità di attrarre investimenti (anche se la liquidità a causa delle sanzioni scarseggia) garantita dalle risorse petrolifere. In poche parole l’Iran è la più grande economia a tornare sul mercato dalla caduta dell’Urss.
E così ora che, come ha dichiarato lo stesso Rouhani ora che il Paese «è libero dalle catene delle sanzioni» e desideroso di costruire e crescere, in Occidente e soprattutto in Europa gli stessi stati che prima sanzionavano Teheran ora si sfregano le mani all’idea degli affari miliardari che possono concludere.
Inoltre il fatto che la Repubblica Islamica rientri nel dialogo internazionale, oltre che nel mercato mondiale, ha ovviamente conseguenze anche politiche e prospetta un riassestamento degli equilibri di potere e di profitto nell’area del Medio Oriente. In particolare nei rapporti che intercorrono fra la teocrazia sciita e le monarchie sunnite del Golfo (che insieme in termini di popolazione non coprono l’estensione iraniana).
Numeri alla mano quindi ecco spiegata la “sudditanza”, o forse “democristiana reverenza”, del governo di Matteo Renzi di fronte all’arrivo di Rouhani.
Il prezzo di tutto questo? La solita coerenza e alcuni valori che certamente non sono condivisi dalla teocrazia iraniana, ma questa è la real politik bellezza e nessuno si azzarda a lasciare quel mercato per ragioni etiche. Il resto al massimo è “solo” una polemicuccia da social network. Per ora almeno, fino a che gli investitori (quelli che dovrebbero fornire a Teheran la liquidità per raggiungere la crescita dell’8% prefissata per quest’anno e diventare una delle prime 20 economie al mondo) non si troveranno a dover fare i conti con il fatto che il Paese è ancora governato dai “rivoluzionari” del ’79 con tutte le conseguenze, i rischi e le instabilità che questo comporta.

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La fuga dei nazisti e la complicità della Chiesa. Il nuovo libro di Caldiron

Il responsabile dei più atroci esperimenti nazisti, Menghele, fu protetto da una rete di rapporti internazionali, in Argentina e Paraguay.  Ma si calcola anche che attraverso la ratline «la più grande via di contrabbando per i criminali di guerra nazisti» siano arrivati in Argentina circa 60mila colpevoli di crimini nazisti. Intanto Priebke ha vissuto fino alla morte in Italia fiero del proprio nazismo. Capò e «nazisti della porta accanto», ovvero gregari e complici della Shoah, dopo la fine della guerra, hanno fatto carriera negli Usa e in altri Paesi. Gerarchi ed ex ufficiali delle SS, colpevoli di atroci crimini contro l’umanità, celati sotto nuove identità, hanno giocato un ruolo di primo piano nella rete internazionale dello spionaggio e dell’estremismo nero nell’ultimo mezzo secolo. Complice  la Chiesa. Perché «molti esponenti della gerarchia cattolica, quando non il Vaticano stesso- scrive Guido Caldiron ne I segreti del Quarto Reich avevano sostenuto più o meno apertamente durante il conflitto regimi e movimenti fascisti, che facevano riferimento al cattolicesimo una delle proprie principali armi propagandistiche, in particolare nei Paesi dell’Europa dell’Est alleati con Hitler e Mussolini».

Ricostruisce tutte queste trame, denunciando le responsabilità anche di alleati e del Vaticano, il giornalista Caldiron in questo nuovo libro appena uscito- come il suo precedente che indagava le destre estreme- per l’editore Newton Compton. Da queste cinquecento pagine di ricostruzioni minuziose e documentate sulla fuga dei criminali nazisti e la rete che li ha protetti emergono vicende che mettono alla sbarra non solo Pio XII, di cui si conoscevano le pesantissime responsabilità, ma  anche una diffusa rete di prelati collaborazionisti.
Nel libro Caldiron riporta, fra molti documenti e testimonianze, anche quella di Simon Wiesenthal: «In molti casi la Chiesa si spinse ben oltre il tollerare la costruzione di comitati di aiuto e prese l’aspetto di un autentico favoreggiamento dei criminali» scrisse il noto cacciatore di nazisti. Sottolineando che «principale via di fuga per i nazisti si rivelò essere il cosiddetto itinerario dei conventi, tra l’Austria e l’Italia. Sacerdoti della Chiesa cattolica romana, soprattutto frati francescani dettero il loro aiuto all’Odessa nello spostare clandestinamente i fuggiaschi da un convento all’altro, sinché essi non venivano accolti a Roma, in luoghi come il convento di via Sicilia che apparteneva all’ordine francescano e che divenne un regolare centro di transito di criminali nazisti». Il fenomeno, riporta Caldiron, «si sviluppò progressivamente a partire dal 1946 e raggiunse l’apice tra il ’48 e il ’49, per assottigliarsi a partire dal 1951».  Ma interessante – fra molto altro perché questo libro è zeppo di notizie cadute in un comodo oblio per molti – sono anche i capitoli dedicati all’amnesia italiana rispetto al passato fascista, complici le mancate epurazioni in seguito all’amnistia togliattiana.

«L’assenza di una Norimberga italiana, la rapida archiviazione del capitolo dell’epurazione degli ex fascisti e le ripetute amnistie non avrebbero inciso solo , sul lungo periodo, nel formarsi di una memoria storica parziale e con ampie zone d’ombra nel nostro Paese e nel breve termine sulle sorti personali dei personaggi coinvolti ma – sottolinea Caldiron – avrebbero anche reso possibile il rapido rinserrarsi delle fila di coloro che dall’immediato dopoguerra sarebbero stati ribattezzati come neofascisti».

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Scrive Guido Caldiron nell’introduzione di Quarto Reich  Newton Compton (2016):

Caldiron, Quarto Reich«Dopo il 1945 migliaia, forse addirittura decine di migliaia, di criminali di guerra nazisti e fascisti (tedeschi, austriaci, croati, ungheresi, belgi, francesi, ucraini e di molte altre nazionalità, compresi moltissimi italiani) trovarono rifugio e si  rifecero una vita in America latina, in Medio Oriente o nella Spagna del dittatore Francisco Franco; e questo senza che nessuna indagine li riguardasse, protetti da una fitta rete di complicità, poi progressivamente rivelatasi e resa pubblica negli ultimi decenni anche grazie all’apertura degli archivi di molti Paesi e di alcune organizzazioni internazionali. Complicità e coperture che coinvolgevano settori della Chiesa cattolica e dello stesso Vaticano, dell’intelligence occidentale, a cominciare da quella statunitense, e di diversi governi sia tra le democrazie dell’Occidente sia tra i regimi autoritari di America latina e mondo arabo, con effetti più estesi e sistematici nel clima della Guerra fredda. Una fitta trama di segreti, di appoggi e di omissioni che, proprio a partire dalle ricerche condotte da Simon Wiesenthal e da quanti ne hanno proseguito l’opera fino ai giorni nostri – e dopo un’ampia consultazione delle fonti storiche e delle inchieste giornalistiche che in settant’anni sono state dedicate a questo tema –, il presente libro intende ricostruire, per illustrare le condizioni storiche e le scelte della politica che resero possibile la fuga di così tanti nazisti e collaborazionisti, nonché la lunga, se non totale, impunità di cui costoro hanno potuto godere, talvolta fino a oggi. […]

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A una perlomeno sospetta inazione avrebbe fatto seguito il tentativo di proteggere in molti casi i carnefici anziché le vittime della seconda guerra mondiale. Per esempio, la pensava così Gitta Sereny, giornalista austriaca, ma londinese d’adozione, autrice già negli anni Settanta di uno dei testi più noti e scioccanti sul nazismo e sulle protezioni di cui godettero molti suoi esponenti nel dopoguerra: In quelle tenebre. Il testo era frutto dei lunghi colloqui avuti con Franz Stangl, un ufficiale delle SS, austriaco e cattolico, che aveva dapprima partecipato al programma di eutanasia dei disabili promosso dal Terzo Reich, quindi diretto i campi di sterminio di Sobibór e di Treblinka e che, dopo il 1945, sarebbe riuscito a trovare rifugio in Brasile grazie all’aiuto di una rete di sacerdoti apertamente filofascisti14. Nelle conclusioni della sua celebre inchiesta, tradotta in tutto il mondo, Sereny si poneva un interrogativo esplicito sull’atteggiamento mostrato dal Vaticano e dai suoi vertici fin da quando il piano criminale dei nazisti, già prima dello scoppio della guerra, aveva cominciato a prendere forma. Se papa Pio XII, si chiedeva infatti la giornalista, fin dall’inizio avesse preso una decisa posizione contro l’eutanasia, contro il sistematico indebolimento per mezzo del lavoro forzato, la fame, la sterilizzazione e lo sterminio, delle popolazioni dell’Europa orientale, e infine contro lo sterminio degli ebrei, ciò non avrebbe potuto influire sulla coscienza dei singoli cattolici direttamente o indirettamente coinvolti in queste azioni al punto da indurre i nazisti a cambiare la loro politica? Altrettanto netta la risposta indicata da Sereny: Una presa di posizione inequivoca, e ampiamente pubblicizzata, assunta alle prime voci di eutanasia, e accompagnata da una minaccia di scomunica per chiunque partecipasse a qualunque volontaria azione di assassinio, avrebbe fatto del Vaticano un fattore formidabile col quale fare i conti, e avrebbe almeno in certa misura – e forse profondamente – influenzato gli eventi successivi.

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Francia, la ministra della Giustizia Taubira lascia Hollande e Valls in polemica con le leggi speciali anti-terrorismo

Il ministro della Giustizia francese Christiane Taubira si è dimesso dal suo lavoro, poco prima che il Parlamento si apprestasse a votare la legge che spoglierà le persone condannate per terrorismo della cittadinanza francese. Una delle tante misure in contrasto con i principi della democrazia e della rivoluzione francese. Taubira aveva già avanzato in forma pubblica le sue perplessità, spiegando che «Non ci aiuteranno in nessun modo a combattere il terrorismo», oggi ha deciso di lasciare annunciando la propria decisione su Twitter.


«A volte rimanendo si sta resistendo, resistendo a volte significa lasciare», ha scritto su Twitter.
Taubira è uno dei pochi esponenti politici neri di Francia, è stata sostituita da Jean-Jacques Urvoas che sostiene le riforme costituzionali di destra proposte da Hollande e Valls.
Originaria della nella Guyana francese, Taubira, è stata oggetto di insulti razzisti da parte del Front National ed è una delle anime vivaci del suo partito.
Dopo gli attentati di novembre, le sue posizioni di sinistra la hanno messa in difficoltà e isolata all’interno del governo: la sua idea è che eccedere con le misure speciali fosse sbagliato.
Proprio oggi il premier Valls presenterà le riforme all’Assemblea nazionale e ha spiegato che «fino a quando avremo a che fare con Daesh dovremo continuare a mantenere lo Stato d’emergenza». Per Hollande e Valls, e per i socialisti nel loro complesso, è un brutto colpo a sinistra: una donna, immigrata e battagliera che lascia il governo è un segnale ulteriore della rincorsa al Front National, che per adesso non ha pagato.

Visto l’acceso dibattito di questi giorni in Italia su Unioni civili vi riproponiamo anche un intervento che il ministro Taubira fece in sostegno dei matrimoni omosessuali.

Una cosa buona: manco il Family Day vuole Casapound e Forza nuova

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Mancano poche ore all’arrivo in aula al Senato della legge sulle unioni civili.
Il Pd, come previsto, ha stabilito che voterà compatto il testo, qualunque sia la forma finale che gli daranno gli emendamenti. Sul delicato passaggio della stepchild adoption, però, è ugualmente confermato, per i senatori del Pd, il voto libero secondo coscienza.

E mentre Angelino Alfano, intravedendo l’esito del voto, si dice pronto al referendum, il leghista Roberto Maroni, incredibilmente contento delle parodie scatenate dal suo Pirellone illuminato, cerca di risvegliare l’animo più battagliaro di Ncd: «Se il parlamento approverà le unioni civili con la stepchild adoption», dice il presidente lombardo, «il Nuovo centrodestra non potrà restare in quella maggioranza». Nel nuovo centrodestra, però, non la pensano proprio così.

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Come vi racconteremo sul prossimo numero di Left in edicola, mancando poche ore al dibattito in aula, mancano pochi giorni anche al terzo Family Day («È il terzo ed è sempre contro», è l’attacco dell’analisi di Chiara Saraceno, che troverete in apertura del giornale). Gli organizzatori stanno limando gli ultimi particolari. E se la piazza sarà piena di bacchettoni e pure di qualche ministro (Galletti, nello specifico), magra consolazione è il trattamento riservato a Casa Pound e Forza Nuova. «Se vengono, staranno altrove», dicono gli organizzatori ai gruppi di estrema destra: «Non li vogliamo nella nostra piazza, sia chiaro che non abbiamo nulla a che fare con Forza Nuova e con CasaPound». Almeno questo.