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A voi che oggi fingete di ricordare: la memoria non si commemora, si esercita.

giorno della memoria filo spinato rifugiati

Ma esattamente dove sono le istruzioni per festeggiare una “giornata della memoria” come quella di questo 27 gennaio dell’anno 2016 facendo finta di niente? Ma davvero oggi risulta potabile e possibile citare Primo Levi fingendo di non sapere quanto sia tradito nelle chiacchiere da bar, tra i commenti che galleggiano nel web, nei giudizi immorali passati come scherno? Esattamente oggi cosa insegnerete ai vostri figli voi che non vi siete ancora puliti della bava sputata contro qualcuno? Davvero riuscirete a dirgli che un tempo è successo che un popolo sia stato giudicato per la razza, la provenienza e la cultura e sia stato dichiarato colpevole di esserci, di esistere, di occupare spazio geografico, economico e sociale?

december-1938

Un sondaggio tra gli studenti Usa del ’38: Dovremmo accogliere i rifugiati ebrei? No 68,8%

 

Spiegherete ai vostri figli che, coperti dall’indifferenza vigliacca della maggioranza, pochi sono riusciti ad ambire alla cancellazione di un intero popolo? Esattamente, oggi, per questa giornata della memoria che è diventata un traino per la cinematografia e letteratura del settore, chi ci promettiamo di ricordare? Gli ebrei ammazzati perché ebrei, i siriani perseguitati perché infedeli, gli annegati annegati perché non europei, i palestinesi perché palestinesi? Chi tra questi? Ma che differenze troverete per evitare ai vostri figli l’occasione di un’associazione di idee tra una deportazione su ferro e una deportazione via mare? Chi sono gli aguzzini? Chi sono gli indifferenti? Chi sono i politicamente vigliacchi?

La memoria non si commemora. La memoria si esercita. E ci vuole il fisico per esercitarla: una mente allenata a nuotare controcorrente, un cuore duro abbastanza per essere buono, braccia forti, schiena diritta e un olfatto pronto ad annusare. “Auschwitz è fuori di noi, ma è intorno a noi, è nell’aria” scriveva Primo Levi. Leggendolo davvero vi sentite assolti?

La demolizione di un uomo è un cantiere sempre aperto che ripropone gli stessi errori in tutte le epoche in cui ritorna: la ghettizzazione di un popolo su basi razziali; l’insensibilità se non il fastidio per il lamento di qualcuno, raccontandolo come lagna inutile perché senza soluzioni a disposizione; la ferocia condonata in nome dell’autopreservazione; una calcolata sciatteria nel dare le informazioni; il convincimento generale di attraversare un periodo critico che richieda soluzioni estreme e che blandisca gli egoismi; la costruzione quotidiana di un fastidio, una sgradevolezza da non celare verso qualcuno, tutti i giorni, tutto il giorno, sempre lui; un’iperbolica apprensione per le disgrazie della nostra razza per sembrarci e sembrare comunque abili alla solidarietà; l’accettazione di una scala di priorità basata non sui bisogni ma su chi ne ha bisogno; una generalizzata convergenza nel ritenere prioritari i più vicini, primo germe di un familismo spacciato per federalismo oppure lo sdoganamento della formula “erano altri tempi” per tragedie che sono umane, mica temporali.

Ognuno è ebreo di qualcuno. Oggi il camino, addirittura, sono riusciti a farlo sotto il mare.

Buona giornata della memoria. E buona memoria applicata, se ci riesce.

Il Parto delle nuvole pesanti è tornato. Quattro chiacchiere con Salvatore De Siena

«Quando le nuvole sono pesanti, vuol dire che sono piene e devono buttar giù qualcosa». Quasi si spazientisce a spiegarlo per l’ennesima volta Salvatore De Siena, che insieme ad Amerigo Sirianni, Emanuela Timpano, Enzo Ziparo (e altri ancora) è il Parto delle nuvole pesanti: «Il nostro nome indica l’urgenza della creatività che non vuole sottostare ai limiti e vincoli del mercato». Per questo nuovo video hanno scelto il singolo “La nave dei veleni”- tratto dall’album Che aria tira (Ala Bianca/Warner, 2013) – , in cui raccontano il disastro ambientale, l’ecomafia, la Calabria e l’umanità introvabile nell’uomo contemporaneo. Con un’ironia pungente che alleggerisce l’ascolto senza sminuire il tema.

Nel 2001 abbiamo scoperto che 637 navi sono scomparse in mare con il loro carico di rifiuti tossici e radioattivi, 52 solo nel Mediterraneo. E Legambiente dice che sono 88 le “navi dei veleni” che giacciono nei nostri fondali. Perché avete scelto di puntare su questo tema e su questo singolo?

“La nave dei veleni” è abbastanza centrale nel nostro progetto, perché è anche diventata la colonna sonora del movimento “Crotone ci mette la faccia”, nato per denunciare i troppi casi di tumore in città. E questo album è profondamente legato al nostro progetto “Terre di musica”, un viaggio tra i beni confiscati alla mafia (se volete saperne di più, potete cliccare sul titolo).

Ispirato al libro Navi a perdere di Carlo Lucarelli, il brano prende spunto da un fatto di cronaca: il ritrovamento, sulla spiaggia di Cetraro (Cs), del relitto noto come “nave dei veleni”. Il videoclip, diretto da Angelo Resta, è scritto dallo stesso Resta insieme a De Siena.

Alla fine nel videoclip affondate voi, gli strumenti, i santini dei mafiosi, tutto. Poi brucia la nave e tutto prende fuoco, anche il mare… E voi cantate «la nave dei veleni non è una fantasia, ti prego amore mio prendi i figli e andiamo via». È rassegnazione?

Sai che la moglie di Natale De Grazia (il capitano di corvetta morto in circostanze misteriose il 12 dicembre 1995, ndr), dopo aver visto il video mi ha fatto la stessa domanda? Perché, ha detto, tante volte con il marito ha sentito questo sconforto e si dicevano che volevano andar via. Devo dire che ha colpito anche me quando l’ho scritta. Ma ho voluto questo concetto nella canzone, perché rappresenta il momento dello sconforto, e non della rassegnazione. È un momento emozionale, una sorta di cruna dell’ago dalla quale devi passare se vivi qui, devi toccare il fondo per svegliarti. Ma sia chiaro: è una provocazione. È evidente che in quello che facciamo con il Parto non c’è traccia di rassegnazione o fuga.

Infatti suonava strano! Insomma, il Parto delle nuvole pesanti rappresenta chi ci torna in Calabria, non chi scappa. 

Esattamente. Ce ne siamo andati da ragazzi, per studiare ma anche per scoprire e prendere coscienza. Sai, ad abitarci qui finisce che non vedi più niente, i colori si uniformano e andando via la distanza e il tempo ti restituiscono anche la bellezza che invece si era assopita e nascosta. Questo passaggio per noi è stato molto importante. È questo che cerchiamo di dire quando parliamo di emigrazione…

Via quella coltre da emigrati disperati, quindi?

Certo, quasi tutti partiamo per necessità. Ma anche queste partenze  sono occasioni di scoperta e di nuove relazioni. L’“andare” lo renderei obbligatorio, renderei obbligatorio il viaggio: uno deve andar via dal suo luogo, per capire che posto è senza di lui.

Il video di “Onda calabra”, diretto da Giuseppe Gagliardi, è la colonna sonora del film Qualunquemente di Antonio Albanese

L’ambiente, l’emigrazione, l’umanità. La “militanza” ha assunto un’accezione negativa negli ultimi tempi… Non temete di essere fuori moda?

Ti ringrazio per l’eufemismo “fuori moda” (ride), ma è molto peggio di così. È quasi come avere la lebbra, come essere qualcosa di vecchio, disperato o comunque di negativo, perché non hai quelle caratteristiche moderne che vogliono non dico il disimpegno, ma quantomeno un impegno che non faccia male a nessuno, che resti in superficie. Tacitamente, è questo l’accordo sociale. Tanto che un giorno un giornalista me l’ha proprio chiesto: “Ha senso ancora fare musica con queste motivazioni e finalità sociali?”.

Tu che gli hai risposto?

Gli ho detto: “Scusa ma la stessa domanda la vorrei fare al contrario: ha senso fare musica senza una motivazione sociale?”. Penso all’autenticità del mio percorso e della mia interiorità, e spero che ogni artista faccia questo. Qualunque artista – tranne gli irrecuperabili – a un certo punto si chiede che senso abbia quello che sta facendo. La musica tende sempre al messaggio, anche nelle sue forme espressive più leggere. È difficile che non dica niente, contiene sempre un’emozione. Perciò, sì, militanza può essere un termine desueto se si riferisce al fanatismo o all’adesione cieca a qualcosa, ma inteso come difesa e comunicazione dei propri ideali e delle proprie emozioni, no. Anzi, è una parola bellissima.

Il videoclip del brano “Fuori la mafia dentro la Musica”, diretto Salvatore De Siena, è la colonna sonora del film-documentario Terre di Musica-viaggio tra i beni confiscati alla mafia. Il coro dei bambini che appare nel video è diretto da Gabriella Corsaro

Veniamo alla musica. Evocate il rebetiko, sembrate in cerca di qualcos’altro, ma alla fine il vostro sound resta in modo inconfondibile.

La dimensione vuole essere onirica e ci sono molte influenze turche e greche. Nel live accentuiamo molto l’influenza greca, è diventata una sorta di zorba tarantellata (Salvatore ci canta al telefono il ritmo greco che si intreccia con quello della tarantella, ndr).

Ci sono sicuramente più tensioni musicali, negli ultimi dischi soprattutto dalla Magna Grecia. Quest’ultimo lavoro, poi, è stato molto influenzato non proprio dall’elettronica, ma da giochini elettronici… ci siamo molto divertiti. Però sì, sotto questo gioco, rimane sempre una struttura portante che è quella del ritmo mediterraneo.

Siete sempre pieni di sorprese e progetti. Cos’altro state combinando in questo momento?

Una versione inedita di Bella Ciao, che è quasi una tarantella. Siamo intervenuti solo sulla musica, il testo è sempre perfetto. La dedichiamo ai partigiani di oggi, che sono quelli capaci di difendere la bellezza.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

La Danimarca ha votato la legge che prevede il sequestro dei beni ai rifugiati

Il parlamento danese non ha ascoltato le critiche provenienti dalle organizzazioni per i diritti umani e dall’Unhcr e ha approvato la controversa proposta di legge che prevede la confisca degli oggetti di valore dei richiedenti asilo per pagare per il loro mantenimento.
Il governo danese sostiene che il testo approvato mette i rifugiati sullo stesso piano dei disoccupati danesi, che per ricevere alcuni benefici di welfare devono vendere i beni al di sopra di un certa somma. Il tetto fissato è 10mila corone, meno di 1500 euro, cifra aumentata dalle originali 3mila corone previste. Le fedi nuziali e altri oggetti dal valore sentimentale non verranno sequestrati. Bontà dei parlamentari danesi.

I richiedenti asilo nei Paesi Ocse

Il Parlamento danese non si è limitato a votare questa legge controversa, ma anche a complicare e ritardare la procedura per il ricongiungimento familiare dei richiedenti asilo. Il portavoce dell’Unhcr Adrian Edwards ha dichiarato «La decisione di dare alla polizia danese l’autorità di perquisire le persone in cerca di asilo e confiscare loro gli oggetti di valore è un messaggio dannoso e corre il rischio di alimentare sentimenti di paura e discriminazione, piuttosto che promuovere la solidarietà con le persone bisognose di protezione». Già.

L’account Twitter Save Denmark ha commentato con diversi tweet ironici. «Adesso che la legge è passata assicuratevi di dare una pacca sui rifugiati quando li incontrate nel caso vi fossero sfuggiti oggetti di valore»

Piketty: «La sinistra non faccia promesse che non mantiene». Le proposte per far ripartire la sinistra

Thomas Piketty, l’economista francese divenuto famoso per aver restituito centralità al tema delle diseguaglianze con il suo Capitale, ha scritto questo editoriale per Liberation, molto critico con il governo socialista. Lo abbiamo tradotto quasi tutto perché parla anche della sinistra italiana e della sua capacità di immaginare.

Sì, è possibile combattere le disuguaglianze in Francia e in Europa, qui e ora. Contrariamente alle affermazioni dei conservatori, ci sono sempre delle alternative, tra destra e sinistra, naturalmente, ma anche tra molte politiche di sinistra, tutte rispettabili, ma tra le quali si deve scegliere. Per ridefinire una alternativa di sinistra di fronte alla marea montante di destra, dobbiamo discutere apertamente, in forma esigente e rigorosa: è l’unico modo per evitare che le decisioni vengano poi assunte altrove.

Per affrontare le disuguaglianze, si serve prendere assieme due strade: imporre un riorientamento della politica europea che ci consenta di uscire dall’austerità e dal dumping fiscale e sociale, e, in Francia, adottare le riforme progressiste necessarie, senza utilizzare l’inazione europea come una cattiva scusa.
Partiamo dalla questione europea. Si possono immaginare tre grandi ambiti su cui intervenire con un’ampia gamma di possibilità: la ricerca di politiche migliori nel contesto delle istituzioni esistenti; la rifondazione democratica e sociale di queste istituzioni; l’uscita di sicurezza. Alcuni pensano sia possibile stimolare la crescita, rilanciare l’occupazione e migliorare gradualmente la situazione economica e sociale nel quadro delle attuali istituzioni europee. Questa è la tesi del governo in carica dal 2012 e i risultati si commentano da soli. Tuttavia, si può sostenere che sia possibile fare meglio in futuro e che riformare i trattati non sarebbe cosa facile. La seconda posizione, che difendo, è che rinegoziare il trattato fiscale del 2012 sia possibile e necessario, se si vuole perseguire politiche di progresso sociale in Europa. A quel testo vanno aggiunte la democrazia e la giustizia. La scelta del livello di deficit e la politica di stimolo dovrebbero essere decisa dalla maggioranza di un Parlamento della zona euro, che rappresenti i cittadini in maniera egualitaria e non essere l’applicazione di criteri di bilancio indiscriminati. E dobbiamo superare la regola dell’unanimità per stabilire una tassa comune sulle grandi società e un minimo di giustizia fiscale. Se Francia, Italia e Spagna (che insieme rappresentano il 50% del Pil e della popolazione della zona euro), proponessero un progetto specifico, poi la Germania (poco più del 25%) dovrebbe accettare un compromesso. (…)

La terza posizione, è la via d’uscita: si riconosce il fallimento della zona euro e si immagina uno scenario per il recupero della sovranità monetaria e fiscale. Questa posizione mi pare prematura, penso che dovremmo prima dare una reale possibilità alla ricostruzione democratica e sociale alla zona euro e all’idea di Europa. Ma capisco la frustrazione. Questo dibattito non dovrebbe essere tabù a sinistra (…)
Passiamo alle riforme progressiste per la Francia. Ci sono molte cose che possono essere prese immediatamente, a prescindere dall’esito dei negoziati europei. Come molti cittadini, continuo a pensare che è possibile implementare una imposta progressiva su tutti i redditi, raccolta alla fonte per una maggiore efficienza e personalizzata per promuovere la parità di genere e l’autonomia. Questa nuova tassa potrebbe aiutare a ricostruire un modello di finanziamento della nostra protezione sociale, che si regge troppo sui contributi salariali e il settore privato. La misura potrebbe essere completata da un grande imposta patrimoniale progressiva, dalla fusione della tassa sugli immobili e sulla ricchezza, per alleviare l’onere di chi tenta di accedere alla proprietà e non coloro che hanno già molto.

Ma ancora una volta, ci sono diverse posizioni possibili (…) tutte rispettabili a priori, a condizione però di enunciarle con precisione prima delle elezioni. E non per scoprire, dopo che gli elettori hanno parlato, che le riforme promesse sono impossibili da realizzare e che si deve deliberare l’aumento dell’Iva senza averlo mai nominato in precedenza. Queste menzogne uccidono l’idea stessa di democrazia. Oltre alla fiscalità, si possono fare molte cose in altri settori: istruzione, pensioni, sanità, democrazia sociale. Il sistema di istruzione superiore francese è tra i più diseguali: è il momento di investire pesantemente nelle università e riformare profondamente, conciliando uguaglianza e libertà. Sulle pensioni, è possibile unificare i sistemi pubblici e privati al fine di garantire meglio i diritti delle nuove generazioni e adattare il sistema alla complessità della loro carriera. I dipendenti dovrebbero essere maggiormente coinvolti nelle strategie aziendali: è la strada scelta da Svezia e Germania, funziona meglio di qui e potrebbe ancora essere migliorata. Su tutti questi temi servono dibattito, chiarezza, democrazia. Questa è la condizione di ricreare speranza.

Ritratto di famiglia. Lettera di un padre gay ai partecipanti del “Family day”

family day cirinnà

Sul suo blog, un padre gay, felicemente sposato, cerca di spiegare con una lunga lettera indirizzata ai partecipanti del Family day che non esistono famiglie tradizionali o famiglie arcobaleno. Di famiglia ce ne è una sola ed è quella fatta di inclusione, condivisione, evoluzione.
Ecco il testo completo che potete trovare anche qui

Dedicato a chiunque prenderà parte al Family Day il 30 gennaio a Roma:

Guardate questa foto.
Vi presento tutti.
Partendo da quello pelato (io) che sembra sussurrare qualcosa nell’orecchio dell’uomo che ha appena sposato, in senso orario, Nonna Mimí (mia madre), Nonno Peppe (mio padre), Massimo, il mio migliore amico e testimone di nozze, Giunero, miglior amico di mio marito e suo testimone volato da NY per l’occasione, mio cognato Jude, mia nipote Lauren (ormai ha 20 anni, in foto ne aveva 8) che ha sparpagliato petali di rosa di fronte a noi durante la cerimonia, mia cognata Angela, mio suocero Bill, mio marito Steven.
Quella che vedete è una famiglia raccolta intorno ad un tavolo per festeggiare il nostro matrimonio.
La stessa famiglia che si sarebbe poi raccolta per celebrare la nascita di nostro figlio Gabriel, 5 anni più tardi.
Guardateci tutti in faccia.
Siamo una famiglia.
Celebriamo i nostri reciproci successi, soffriamo per i nostri problemi, ci supportiamo a vicenda, perché una famiglia fa questo.
La famiglia che volete colpire, ostacolare, escludere, disconoscere, è tutta lí.
Vi guarda sorridente da una foto.
È fatta di genitori, figli, nonni, zii, amici intimi.
È la famiglia in cui è nato nostro figlio.
È la famiglia su cui possiamo contare nei momenti difficili.
Opponendovi al giusto riconoscimento di una coppia come la nostra ed alla sacrosanta protezione giuridica dei nostri figli, non solo private i genitori dei propri bambini, ma private i figli dei propri genitori, che li amano, crescono, proteggono, educano ogni giorno.
Private i nonni dei loro nipotini, i nipoti degli zii, i cugini dei cugini, i fratelli dei fratelli.
Non potete proteggere la famiglia, smembrandone una.
La famiglia tradizionale non esiste.
La famiglia arcobaleno non esiste.
Esiste una sola famiglia: è inclusione, condivisione, evoluzione.

Esiste una sola famiglia, in cui nessuno è lasciato solo, in cui tutti, genitori e parenti, si adoperano in diverse misure per il benessere dei più piccoli.
Esiste una sola famiglia, di cui si entra a far parte con impegno, serietà ed amore.
Esiste una sola famiglia, che si crea con rispetto, sacrificio e responsabilità.
Esiste UNA SOLA FAMIGLIA, fatta di persone vere, fatta di persone tra loro diverse, ma legate da sangue e sentimenti, fatta di vite investite nell’amore reciproco.
Oltre i decreti.
Oltre la fede.
Oltre le manifestazioni e le proteste.

Il vero nemico è il distinguo, la staccionata, la cecità di fronte all’universalità dei sentimenti, di fronte all’umanità del cuore.
Conosciate bene i motivi per cui andate a manifestare al Family Day.
Rendetevi conto che se questo fosse un festeggiamento in onore della famiglia, allora noi saremmo tutti lí con voi!
Sappiate però che non è cosí
.
Non festeggiate nulla.
Create solo una trincea più profonda.
Per questo vi chiedo di guardare bene questa foto.
È una foto di famiglia.
La nostra famiglia.
Voglio che vi venga in mente domenica, quando assisterete alle arringhe dei portavoce della discriminazione.
Pensate alla famiglia.
Che è solo una.
Abbiatene rispetto.
Rendetevi conto che la famiglia che intendete proteggere, quella famiglia preziosa, importante, fondamento della società e dell’ordine delle cose, È ANCHE LA MIA e delle persone che amo.

Pensateci.

TQF

Renzi fa coprire le statue di nudi per non scandalizzare il premier iraniano Rouhani

ROHANI A ROMA, 'RAFFORZARE RELAZIONI, ESPLORARE OPPORTUNITA''
Statue coperte ai Musei Capitoli in occasione della visita del presidente iraniano Hassan Rohani, Roma, 25 gennaio 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Pecunia non olet, ma il nudo potrebbe offendere il premier iraniano Rouhani e così, per non mandare in fumo affari tra l’Italia e il governo di Teheran per circa 17 miliardi, Matteo Renzi ha dato ordine di coprire le statue dei Musei Capitolini. Subito si è scatenata tra l’ironico e lo sbigottito la reazione del popolo del web, ecco qualche tweet:


Obama: «Basta celle di isolamento per i minori»

L’America ha un problema con il carcere: una popolazione carceraria enorme, un sistema giudiziario che penalizza i meno abbienti e i marginali (un problema che si ripete un po’ ovunque nel mondo), un sistema spesso razzista. Potrebbe bastare, ma ci sono anche le violenze in carcere e la privatizzazione, che costa soldi alle casse pubbliche e rende il sistema più punitivo del dovuto: più galeotti dietro le sbarre, più soldi alle compagnie private.

È su questo sistema che interviene la scelta di Barack Obama di modificare le norme relativa all’isolamento in carcere, che, spiega il presidente in un articolo pubblicato dal Washington Post, è usato in maniera eccessiva, anche con i carcerati più giovani.

Una ricerca pubblicata da Yale che ha posto domande sulla questione a tutte le amministrazioni carcerarie degli Stati Uniti, ricevendo risposte per circa l’80% del totale della poplazione carceraria (attorno al milione e mezzo di persone)  e citata dallo stesso presidente valuta una popolazione carceraria in isolamento tra le 80 e le 100mila persone. La stessa ricerca segnala come le ragioni per cui una persona finisce in cella sono le più diverse e spesso futili. E come non ci siano normative, procedure chiare: è il direttore del carcere che decide, sostanzialmente a sua discrezione.

Per questo l’amministrazione Obama ha ordinato una revisione del sistema e ha deciso di riformare la normativa per le prigioi federali (quelle su cui ha giurisdizione), abolendo l’isolamento per i giovani e limitandolo in altri casi. Per spiegare le sue ragioni, Obama ha scritto un articolo di cui abbiamo tradotto ampi stralci qui sotto. Questa scelta, come altre fatte durante l’ultimo anno, segnala una volontà del presidente di intervenire in alcune aree oscure del sistema americano. Quelle stesse aree che tendono a penalizzare, marginalizzare alcune parti della popolazione. Spesso le minoranze o la popolazione immigrata. E a lasciarle ai margini dove sono. Anche la battaglia ingaggiata sulle armi rientra a modo suo in questo ambito: molte armi significa stragi commesse dallo squilibrato di turno che fanno notizia, certo, ma anche decine di morti ammazzati nei ghetti neri, dove la cultura delle armi e quella gangsta, assieme, hanno fatto disastri. Specie nella sua Chicago.

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I numeri del carcere negli Stati Uniti

Le persone sottoposte a limitazioni della libertà di qualche forma (compresi i detenuti in attesa di giudizio, le persone agli arresti domiciliari o fuori su cauzione) negli Stati Uniti erano circa 6 milioni e 800mila nel 2014. Le persone dietro le sbarre erano 2 milioni e 200mila.

A essere sottoposto a limiti della libertà personale è il 2,8% della popolazione, il tasso più basso dal 1996. La popolazione carceraria è diminuita dell’1% l’anno dal 2007.

Nel 2010 i carcerati erano al 39% bianchi (64% della popolazione), al 19% ispanici (14%) e al 40% afroamericani (13%).

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L’articolo di Obama

Nel 2010, Kalief Browder , 16 anni del Bronx è stato accusato di aver rubato uno zainetto. Fu spedito nel carcere di Rikers Island in attesa del processo, qui ha subito violenza indicibili per mano dei detenuti e delle guardie – e qui ha trascorso quasi due anni in isolamento.

Nel 2013, Kalief è stato rilasciato, senza essere stato processato. Ha completato con successo un semestre al Bronx Community College. Ma la sua vita è stata una lotta costante per riprendersi dal trauma di essere rimasto mesi rinchiuso da solo per 23 ore al giorno. Un sabato, si è suicidato tra le mura di casa sua. Aveva solo 22 anni.

Negli Stati Uniti l’isolamento in cella è cresciuto in popolarità nei primi anni dell’800, e le motivazioni per il suo utilizzo sono cambiate nel corso del tempo. Oggi questa pratica è sempre più abusata su persone come Kalief.  Con risultati strazianti. Per questo la mia amministrazione ha deciso di prendere provvedimenti per affrontare il problema.

Ci sono ben 100mila persone detenute in isolamento nelle carceri statunitensi – compresi minori e persone con malattie mentali. Ben 25.000 detenuti stanno scontando mesi e anni da soli in una cella minuscola, con quasi nessun contatto umano.

La ricerca suggerisce che l’isolamento ha il potenziale di produrre conseguenze psicologiche devastanti e durature. È stata collegata alla depressione, all’alienazione, riduce la capacità di interagire con gli altri e aumenta la possibilità di comportamenti violenti. Alcuni studi indicano che può peggiorare malattie mentali esistenti e generarne  di nuove. I prigionieri in isolamento sono più propensi a suicidarsi, soprattutto se giovani e con disturbi psichiatrici.

Gli Stati Uniti sono il Paese della seconda chance, ma l’esperienza di isolamento rischia di eliminarla.

In qualità di presidente, il mio compito più importante è quello di mantenere il popolo americano al sicuro. E da quando ho assunto l’incarico, il tasso di criminalità è sceso di oltre il 15 per cento. Nel nostro sistema di giustizia penale, la pena dovrebbe essere adeguata al crimine e coloro che hanno passato il loro tempo in carcere dovrebbero uscirne pronti a diventare membri attivi della società. Come possono esserlo i prigionieri sottoposti a isolamento inutile? L’isolamento non ci rende più sicuri ed è un affronto alla nostra umanità. (…)

 

 

Family Day, non è cecità: è egoismo.

José Saramago, penna nobile portoghese con tanto di nobel in bacheca, nel suo romanzo “Cecità” immaginava un mondo al buio, sparso tra l’incapacità di vedere dei propri cittadini, spenti negli occhi quanto nell’etica, nell’animo e nella speranza. È un romanzo che richiede uno stomaco forte e poca immaginazione per essere pensato come metafora di un tempo in cui la cecità è la bile animale e pelosa di una specie dedita all’autopreservazione, convinta che il mancato progresso degli altri sia la migliore manutenzione dei propri diritti acquisiti.

La battaglia becera e misera contro i diritti civili (degli altri) spera di essere banalmente scambiata per la cecità di un pezzo di Paese impreparato alle novità e tradizionalista per vigliaccheria che chiede a gran voce il diritto di essere arretrato come se fosse una debolezza perdonabile. E invece no. Questi non difendono nessuna famiglia. Questi odiano i gay fingendo di difendere un modello di natura (spesso incapaci loro stessi di mantenere) e rientrano perfettamente nella definizione del saggista Elvio Facchinelli che già nel 1973 (pensa te) scriveva sulla rivista “L’erba”: «Ma che cosa c’è alla radice del rifiuto dell’omosessualità maschile (giacché quella femminile propone un discorso, per ora, e per ragioni connesse alla condizione storica della donna molto diverso e meno significativo)? C’è sostanzialmente, da parte del maschio eterosessuale, la paura di perdere, nel contatto con l’omosessuale, la propria virilità, intesa qui molto profondamente come identità personale. Di fronte all’omosessuale, è come se ciascuno sentisse messa in discussione la sua posizione stessa di maschio e ciò che lo differenzia come individuo; come se quella posizione si rivelasse improvvisamente precaria, o incerta, più di quanto succede di solito. Di qui le reazioni di rifiuto e disprezzo; di qui anche i vari e ben noti comportamenti di ipervirilità aggressiva…».

Non sono ciechi i bigotti armati che flettono in preparazione del Family Day. A loro piacerebbe (e ci sperano) di passare come gli ultimi giapponesi in difesa di una dottrina smentita dalla natura ancora prima dalla storia; se riescono a passarsi come “fuori dal tempo” gli verrà concessa la grazia che si concede ai lenti. Ma non sono lenti, no: sono egoisti. E non sono egoisti di valori, no, perché la maggior parte di loro è incapace di realizzarli, praticarli e li cita semplicemente per abitudine al sentito dire, per allenamento al luogo comune mentre il loro segno distintivo sta tutto nel terrore di essere inadeguati: sperano in un mondo fermo perché sicuri di sbagliarsi a muoversi.

Qui non si tratta, in questi giorni convulsi di miserie declamate, di perdonare una generazione incapace di stare al passo del nostro tempo: questi sono ferocia in abito talare, infimi travestiti da giganti, ignoranti fieri, proiettori ognuno di un proprio dio prêt-à-porter, collezionisti di scalpi, disadattati morali e borghesi incapaci. Qui è la parte peggiore di un Paese che ha elevato l’egoismo a pratica divina in nome della tradizione. Per questo ora la questione dei diritti civili assume un significato che tracima gli omosessuali: ci si gioca l’occasione di scrollarsi di dosso questa crosta di benpensanti che hanno le chiavi della tratta dei nuovi schiavi. Semplicemente più deboli, nemmeno negri.

Non è cecità: è egoismo. Semplicemente.

Buon martedì.

A Roma sotto il parco di Tor Fiscale scoperti rifiuti industriali

Sei acquedotti romani e uno rinascimentale, sepolcri e ville romane, il tracciato dell’antica via Latia. E sotto, grotte e cunicoli di rilevante interesse storico-archeologico trasformate in discariche di rifiuti speciali. Accade a Roma, nella parte “nascosta” del Parco di Tor Fiscale, tra Appia e Tuscolana, territorio tutelato per la sua storia e noto per essere un esempio ben riuscito di paesaggio rappresentativo della “campagna romana”.

Sotto casali agricoli, orti e frutteti, imprenditori senza scrupoli hanno scaricato olii usati e altri scarti di lavorazione e rifiuti pericolosi. A seguito di indagini effettuate anche grazie all’ausilio di droni, la Polizia locale di Roma ha messo i sigilli all’intero sottosuolo di Tor Fiscale, il cui nome deriva dalla torre alta 30 metri che sovrasta l’area verde, eretta nel XIII secolo e dal XVII denominata “del fiscale” in quanto facente parte della tenuta del tesoriere pontificio.

L’area tutelata ospita anche esempi di catacombe risalenti al II secolo dopo Cristo. Nell’effettuare i rilievi con l’ausilio del personale dell’Arpa Lazio, gli agenti della Polizia locale diretti dal comandane Antonio Di Maggio hanno accertato che alcune aziende della zona utilizzavano cavità e cunicoli come sversatoio illegale, creando accessi diretti al sottosuolo in prossimità dei siti produttivi, in modo da scaricare direttamente i rifiuti che producevano, violando le norme in materia ambientale e fiscale.

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«Io sono arrivato in barca»: una campagna australiana per i rifugiati

«Io sono arrivato su una barca». Un messaggio chiaro e diretto rivolto agli australiani, che anche dalle loro parti la retorica anti-rifugiato ha fatto molti adepti ed aperto molte ferite. I came by boat è una campagna lanciata lo scorso novembre che cerca di spiegare nel modo più semplice possibile come mai i rifugiati e gli immigrati non sono un pericolo. Specie in un Paese che, aborigeni esclusi, è fatto esclusivamente da persone i cui antenati sono arrivati in barca.

Negli anni appena passati è capitato in più di un’occasione che navi e barche piene di rifugiati venissero respinte in mare dalla marina australiana o venissero spedite in Malesia e Indonesia. Anche nel lungo tratto di mare che separa alcune isole australiane dall’Indonesia sono morti in tanti.

La campagna è semplice, come spiega la promotrice Blanka Dudas nel video qui sotto, si fotografano persone che sono davvero arrivate in barca, come rifugiati, e che sono arrivati al successo o alla normalità: un chirurgo ortopedico iracheno, una dentista di origine vietnamita e una afghana che lavora nelle associazioni di advocacy per rifugiati. Tre storie diverse, come quella di Blank Dudas, rifugiata bosniaca, e art-director che ha ideato la campagna. Storie eroiche e normali di persone che hanno rischiato la vita per fuggire da guerra o persecuzione politica e che si sono integrate nel migliore dei modi. Il gruppo promotore della campagna, oltre a fare advocacy fa anche formazione a immigrati e rifugiati e in queste settimane ha raccolto i fondi per produrre altri manifesti (una quindicina di persone diverse) e comprare gli spazi pubblicitari dove affiggerli in tutta l’Australia. Una bella idea per un problema serio. In Europa e anche in Australia.