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Per Iglesias ahora podemos: la Spagna merita un governo del cambiamento

Il re Felipe VI di Spagna sta per chiudere il giro di consultazioni con le tre principali forze politiche del suo Paese per dare l’incarico al governo. Mentre Mariano Rajoy, leader dei popolari, ha fatto sapere nelle ultime ore che è pronto per assumere il ruolo di primo ministro, il Psoe e Podemos, guidato da Pablo Iglesias, cercano di mettere insieme una coalizione con Izquierda Unida a il partito nazionalista basco per dar vita a un governo di sinistra. Crescono dunque le quotazioni per il leader socialista Pedro Sànchez che con il sostegno di Podemos potrebbe diventare il prossimo premier spagnolo. Secondo Iglesias i tempi sono maturi, «Serve un governo di cambiamento» ha dichiarato durante le consultazioni con Felipe VI. Ecco cosa scrive a proposito del possibile accordo proprio Iglesias sul quotidiano spagnolo El Pais:

 

Il risultato delle ultime elezioni in Spagna apre la possibilità storica per il nostro paese di avere un governo non dominato esclusivamente dalle vecchie macchine di partito che negli ultimi decenni hanno spartito il potere. Per la prima volta possiamo formare un governo plurale e progressista che sia sufficientemente lontano dalle pratiche che avevano dominato in passato la politica spagnola e che garantisca l’attuazione già nei primi 100 giorni di un programma di sostegno e assistenza sociale. Un governo che guidi il paese verso quei cambiamenti costituzionali che gli spagnoli chiedono e si aspettano, che fornisca soluzioni democratiche e nuove formule per contrastare la crisi territoriale e immettere nuove energie nelle istituzioni.
[…] Dopo aver raggiunto un accordo con il Psoe, abbiamo fatto una proposta chiara. I 5 milioni di elettori che hanno dato fiducia al partito socialista e i 6 che hanno creduto nelle istanze di Podemos e degli altri partiti confluiti nell’alleanza possono finalmente vedere concretizzare la speranza di mettere in piedi un governo progressista e composito. Non possiamo deludere quei 11 milioni di elettori […]. Questo governo di cambiamento sarebbe uno dei governi con maggiore base e sostegno elettorale della storia della Spagna. Soprattutto farebbe propria una delle tradizioni più diffuse in Europa: quella del governo di coalizione. Ci sono enormi pressioni da parte dei gruppi di potere per mantenere lo status quo […] ma di fronte a questo immobilismo, abbiamo la possibilità storica di dare il via invece a un avanzamento sociale e democratico che deve farsi strada per modificare gli equilibri di potere in Europa e limitare gli eccessi dell’ ordoliberalismo tedesco.
Lo abbiamo detto molte volte e continuiamo a pensarlo: non confidiamo nell’apparato del Psoe, ma ammiriamo la sua base, i suoi militanti e i suoi elettori.
[…] Questi infatti simpatizzano con noi e sanno che la nostra presenza nel Governo, dalla vicepresidenza fino ai ministeri strategici che più possono corrispondere, è la migliore garanzia affinché il loro stesso partito non tradisca il mandato che con il voto gli hanno affidato.
[…] Non c’è tempo da perdere o da regalare a tutti quelli che sono pronti a suggerire che si potrebbe dar vita a un governo delle larghe intese fra il Partito Pololare di Sanchez, il Psoe di Rajoy e Ciudadanos. Di fronte a un piano del genere, di fronte al piano restauratore degli “immobilisti”, il momento richiede di essere “audaci, audaci e ancora audaci” come disse Danton con una frase che passò alla storia. Siamo in un particolare momento storico in cui quell’intuizione storica che Isaiah Berlin ha chiamato “senso della realtà” dovrebbe spingerci a interpretare un ruolo sulla scena politica che sappia dare risposta alle aspirazioni e alle aspettative della maggioranza degli spagnoli. È per questo che siamo pronti a formare un governo. […] Ho parlato con i leader di altri partiti che sono aperti al dialogo e che non vogliono che a governare sia il partito popolare. Questa domenica ho parlato con Sanchez e mi auguro di cuore che questo governo insieme possa vedere la luce.

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«Muos abusivo». La Cassazione rigetta il ricorso e conferma il sequestro

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso del ministero della Difesa confermando il sequestro del Muos, il sistema militare di comunicazioni satellitari Usa realizzato nella riserva del Sughereto di Niscemi (Caltanissetta), secondo procura e Tribunale del riesame sottoposta a vincolo di assoluta inedificabilità. Per l’impianto di telecomunicazioni ad alta frequenza arriva dunque un nuovo stop dopo le polemiche dei giorni scorsi relative alle verifiche sull’impatto delle onde elettromagnetiche emesse dall’impianto. Verifiche rinviate perché dopo un rimpallo di comunicazioni tra prefetto nisseno e autorità locali è risultato impossibile garantire misure di tutela tali da prevenire eventuali danni alla salute dei cittadini di Niscemi nel corso dei test.

Resta dunque in vigore il fermo dei lavori di ultimazione dell’impianto, disposto con ordinanza il primo aprile dello scorso anno dal Gip di Caltagirone, che aveva giudicato illegittime le autorizzazioni concesse dalla Regione Siciliana, e confermato dal Tribunale del Riesame di Catania. Nei giorni scorsi il Comitato NoMuos ha confermato la preoccupazione per le procedure di verificazione disposte dal Consiglio di Giustizia amministrativa (Cga) per la Regione Siciliana, che dovrebbe pronunciarsi entro il 3 febbraio alla luce della relazione di cinque esperti le cui verifiche, però, sono state rinviate.

L’attenzione del comitato si appunta, tra l’altro, sulla documentazione antisismica relativa all’impianto, sugli strumenti di misurazione dell’Arpa «inviati per taratura alla ditta» e sulle incertezze relative alla sua potenza massima: inizialmente i documenti prodotti dalla Difesa Usa parlavano di 1.600 watt, ma l’ambasciata statunitense ha poi fatto sapere che la potenza «da considerare» è di 200 watt. Il combinato disposto di questi dati non chiari e dell’impossibilità di proteggere la popolazione – spiega i NoMuos – rende evidente un dato: nessuno può misurare l’impatto dell’impianto. A sostegno della loro tesi, i comitati ricordano le conclusioni dell’Istituto superiore di sanità nel rapporto del settembre 2013, che ha negato l’impatto negativo dell’opera ma auspicando una «costante sorveglianza sanitaria» sulla popolazione residente attorno all’impianto «in considerazione della natura necessariamente teorica delle valutazioni effettuate».

Rifugiati, l’Europa discute l’addio a Schengen. Anche stavolta è tutta colpa della Grecia

Un attivista di Amnesty International in barca su un canale di Amsterdam: «Leader d'Europa, non è una questione di sondaggi ma di libri di storia»

Oggi i ministri degli Interni dell’area Schengen si riuniscono ad Amsterdam per discutere se, come e quando introdurre dei limiti alla circolazione di persone all’interno dell’Unione europea. Non è una bella notizia.

Mentre da Berlino e Bruxelles giungono toni allarmati e allarmanti sul rischio di collasso dell’area senza frontiere che è una delle grandi conquiste percepite da tutti dell’Europa unita, i governi sembrano non aver la volontà o la forza politica di affrontare la questione rifugiati in maniera collettiva. La stessa Germania, con Svezia, Francia, Austria, Danimarca e Norvegia (non nell’Unione ma dentro Schengen) ha già reintrodotto controlli alle frontiere.

Secondo Schengen i controlli temporanei alle frontiere possono essere prorogati per un periodo complessivo non superiore a due anni. Perché ciò avvenga, i leader europei devono accettare che «carenze gravi e persistenti» alle frontiere esterne ne mettono a rischio l’esistenza. «Non abbiamo ancora introdotto questo meccanismo … (ma) esiste questa possibilità e la Commissione è pronta a usarla se necessario», ha dichiarato un portavoce dell’esecutivo europeo.

Tra le proposte sul tavolo quella del primo ministro sloveno Miro Cerar, che ha suggerito di chiudere le frontiere a nord della Grecia (escludere insomma Atene da Schengen) per impedire che il flusso in arrivo entri in centro Europa. La proposta ovviamente è bene accolta dai governi ungherese, polacco e della Repubblica Ceca, tra i più aggressivi nel loro furore anti-rifugiati. L’idea è semplice: i rifugiati arrivano in Grecia e la Grecia se ne deve occupare. Il governo greco ha ovviamente bocciato la proposta: «Non è facile per intercettare i richiedenti asilo e non abbiamo intenzione di diventare un cimitero. Non riusciamo a capire che tipo di politica è quella di un Paese che chiude i suoi confini con la Grecia », ha detto il ministro dell’immigrazione greco Ioannis Mouzalas che ha spiegato che non saranno le frontiere chiuse a fermare la gente che fugge dalla guerra. L’Austria ha invece protestato con Atene sostenendo che debba fare di più per controllare le sue frontiere. Sembra di rivivere la vicenda italiana, che per anni ha protestato con l’Europa per gli sbarchi e, a sua volta, è stata accusata di lasciar passare gli immigrati senza registrarli come previsto dal sistema di Dublino.

Refugees walk towards the border with Serbia, from the transit center for refugees near northern Macedonian village of Tabanovce, on Sunday, Jan. 24, 2016. Macedonia, Serbia and Croatia, the countries on the so-called Balkan migrant corridor that starts in Greece, are only letting in people whose stated final destination is Germany or Austria. (AP Photo/Boris Grdanoski)
Rifugiati lungo il confine della Macedonia (AP Photo/Boris Grdanoski)

Italia e Germania vogliono un meccanismo per il quale la reintroduzione dei controlli di frontiera venga concordata a livello europeo e non sia una scelta dei singoli Paesi. Roma chiede anche da tempo una revisione del meccanismo di Dublino, che determina, specie se le frontiere rimangono chiuse, un aggravio sui Paesi di frontiera, che dovrebbero registrare e gestire i richiedenti asilo al loro ingresso. Gli hot spot e il meccanismo di redistribuzione approvato da mesi doveva proprio servire ad alleviare la pressione sulla Grecia e altri Paesi, ma per adesso non ha funzionato. O meglio, non è stato messo in piedi davvero. I rifugiati “redistribuiti” sono circa 350 sui 160mila promessi.

Il coro di premier e politici di alto profilo che nei giorni scorsi hanno lanciato strali contro le frontiere aperte annovera il premier francese Valls che ha spiegato da Davos alla Bbc che senza una più grande capacità europea di proteggere le frontiere esterne «è il progetto di Europa che rischia di naufragare». Il socialista sostiene che occorra agire in fretta, trovare risorse e mezzi. Quel che a oggi, nonostante gli impegni presi a varie mandate (hotspot, redistribuzione dei rifugiati), non è all’ordine del giorno. Il ministro delle Finanze tedesco Schauble, che ha parlato di più impegno in Medio Oriente e di una politica coordinata con la Russia per la Siria, un cambio di strategia e l’assunzione di un ruolo più importante in politica estera da parte tedesca. Il potente ministro tedesco propone anche di tagliare i benefici di welfare per i rifugiati per disincentivare gli arrivi.

Chi non è d’accordo con questa tesi è il nuovo Alto commissario per i rifugiati, l’italiano Filippo Grandi, che ha sostenuto che l’Europa, se lavorasse assieme e in maniera coordinata potrebbe riuscire a fare di più senza entrare in crisi.

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Norvegia e Gran Bretagna: “piccole” violazioni dei diritti umani

Due crisi locali segnalano invece una situazione per gli essere umani in fuga dalla guerra che rimane catastrofica. La Norvegia ha deciso di deportare centinaia di richiedenti asilo verso la Russia, perché sostengono a Oslo, il Paese è un posto sicuro dove inviare rifugiati. La scelta ha generato proteste, specie dopo la segnalazione del caso di uno yemenita che ha cercato di richiedere asilo ed è finito arrestato, multato per 5mila rubli ed espulso. Ha dieci giorni per fare ricorso ma i casi segnalati di persone rispedite a casa, anche in Siria, nonostante i pericoli, sono molti. Società civile e chiese hanno protestato contro il governo, che è in grave imbarazzo.

In Gran Bretagna, invece, una società privata che gestisce un centro di accoglienza a Cardiff ha costretto i suoi ospiti a vestire un braccialetto rosso identificativo – senza il quale non si veniva ammessi alla distribuzione dei pasti. L’essere identificati per strada come rifugiati non piaceva alle persone ospiti del centro. E dopo che la notizia è apparsa sui media e un’inchiesta è stata aperta, il centro ha fatto marcia indietro. Pochi giorni fa a Middlesbrough era successo che alcune case che ospitavano rifugiati, le cui porte erano state dipinte di rosso, erano state oggetto di lanci di pietre e uova.

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Diffidate di chi vi dice che «non c’è alternativa»

C’è un metodo semplice semplice che funziona da secoli sia nelle famiglie più anguste fino ai macro sistemi sociali per domare la speranza, ammansirla senza traumi e spingerci a scambiare l’accontentarsi con il cedere al ribasso continuo: escludere le alternative. Disegnare tutto ciò che è come potenzialmente nuovo e pericolosamente in arrivo come un sicuro terremoto delle nostre consuetudini sociali ed economiche. Niente di nuovo: è il manuale delle giovani marmotte tradizionaliste e conservatici che vengono allevate laddove si cela il dubbio di avere avuto dalla vita più di quanto si è meritato e quindi si finisce per difendersi per autopreservarsi, illusi che il merito si erediti. Farebbe sorridere se non fosse che qui da noi poi spesso funziona davvero.

Diceva Bukowski: “avrei potuto anche accontentarmi, ma è così che si diventa infelici”. E invece oggi chi non si accontenta è un “signor no”, un “gufo”, un “mistificatore”, un “antipolitico”, un “blablabla” o peggio ancora un “buonista”. Che poi “buonista” di solito si pronuncia tutto duro duro quasi sputacchiante e con l’immancabile riferimento all’organo sessuale maschile. Solo così si pronuncia. E quindi accontentiamoci perché potrebbe andare peggio, perché comunque “è già un piccolo passo” e perché “non c’è di meglio in giro”. La tiritera della mancanza di alternativa (il  “There is no alternative” che la Thatcher sventolava con la stessa gioia di chi ha scoperto una sconosciuta formula chimica, nonostante sia una bestiale banalità) ha abbassato la libido della speranza, è il ciproterone acetato per tarpare visioni, ambizioni e obiettivi. Anzi, ultimamente la speranza è diventata una delega politica: diamo il nostro benestare ad un rappresentante delle nostre speranze lasciandole tutte a lui, troppo presi, noi, a sbarcare il lunario e racimolare diritti.

Il “non c’è un’alternativa” è diventata una fede. Ci affidiamo (sia nel campo materiale che nel campo spirituale) a chi ci giura che potrebbe solo andare peggio. E così siamo in un Paese in cui abbiamo già messo la carta igienica del lunedì negli zaini dei nostri figli per i cessi della scuola, inizieremo fideisti una settimana lavorativa con la solita gratitudine per avere avuto il diritto di avere il diritto di avere un lavoro, leggeremo partecipi le novità del reality finanziario dei ricchi del mondo, avremo la nostra sana occasione quotidiana di una bella indignazione come bromuro contro l’insoddisfazione, assisteremo con garbo alle ramanzine etiche dei bauscia e dei ricattatori e dei corrotti e corruttori e dei pluridivorziati e dei pervertiti ognuno con la sua tavola dei suoi comandamenti, ci dispiaceremo (ma con mitezza) dei prossimi rifugiati caduti a picco in fondo al mare, reciteremo la farsa di essere contemporaneamente piccoli imprenditori a partita iva (nei diritti) e minatori d’altri tempi (nei doveri), ci berremo qualche marchetta televisiva come storico primo passo di qualche riforma per poi dirci che insomma “questo c’è, per ora”.

Strano zibaldone la vita: i nuovi che invecchiano appena arrivano al comando da nuovi diventano i migliori prosecutori degli altri. E poi loro, i nuovi, dopo avere concimato l’illusione del cambiamento ci dicono che basta, che non è più ora di progettare, è ora di fare. Meglio: di lasciarli fare. Ecco io una cosa che insegnerò ai miei figli, una delle poche cose che ho imparato e mi sono appuntato un po’ dappertutto, è di diffidare di chi ci dice che “non c’è alternativa”. Perché di solito, lui, quello che cerca di convincerci, la conosce già e ha imparato ad averne paura. Buon lunedì.

Jobs act senza miracoli

Anno 2015, era Jobs act. Per la prima volta i lavoratori italiani sono stati privati della “tutela reale” nei confronti dei licenziamenti ingiustificati, ovvero il diritto al reintegro. È l’anno in cui, nel mezzo di continui tagli alla spesa pubblica, sono state destinate – sotto forma di decontribuzioni per le imprese – ingenti risorse per stimolare le nuove assunzioni “a tutele crescenti”. Ed è anche l’anno in cui si è deciso di allentare i vincoli per l’uso di strumenti contrattuali precari come il contratto a tempo determinato e il voucher. Sin dall’approvazione del Jobs act, legge cardine tra gli interventi governativi del 2015, è andata in scena una “battaglia dei dati”, condotta dal governo per difendere la bontà delle sue riforme del lavoro. La testardaggine delle rilevazioni statistiche, tuttavia, ha costituito una barriera contro cui l’ottimismo della volontà renziano è sembrato cozzare inesorabilmente.

Uno studio condotto dal sottoscritto, con Marta Fana e Valeria Cirillo (Jobs act: cronaca di un fallimento annunciato), ha messo in luce l’incapacità delle misure del governo Renzi di raggiungere i loro stessi obiettivi. E un’ulteriore evidenza arriva pure dall’Istat, con i dati occupazionali relativi al periodo gennaio-novembre 2015: con una quota di occupati pari al 56,4%, l’Italia continua a detenere una delle maglie nere d’Europa. E il dato sull’inattività è ancora più preoccupante: il 35,7% dei disoccupati diviene inattivo tra il primo e il secondo trimestre del 2015, contro una media europea del 16,8%. Al contrario, la transizione verso l’occupazione rimane sotto la media Ue (16,1 contro il 18,1%).

Qual è stato l’impatto sulla stabilità dell’occupazione? I lavoratori a tempo indeterminato sono aumentati di 62mila unità, mentre quelli a temine più del doppio (125mila unità). Inoltre, la dinamica del tempo indeterminato si è mostrata debole fino al novembre 2015, quando ha visto arrivare una fiammata (40mila nuove attivazioni). Ma, proprio a novembre, il governo aveva annunciato che all’inizio del 2016 avrebbe dimezzato l’ammontare delle sgravio. Più che il sintomo di una ripresa dell’occupazione, perciò, la fiammata di contratti a tempo indeterminato sembra la corsa delle imprese ad accaparrarsi l’intero sussidio. Come dimostra anche il fatto che gran parte dei nuovi tempi indeterminati sono trasformazioni di contratti a tempo determinato già in essere. Nessuna nuova occupazione, dunque, ma solo costi più leggeri per le imprese.

Infine il dato più preoccupante, quello che riguarda i giovani italiani. I maggiori beneficiari del timido incremento occupazionale del 2015 sono gli over 50 (l’incremento è di 233mila a fronte di soli 33mila nuovi occupati tra i 25 e i 34 anni). I giovani, invece, restano ancora intrappolati nelle maglie di una precarietà asfissiante. In questo senso, l’intervento del governo sui vouchers ha favorito il proliferare di uno strumento che, da eccezionale, sta divenendo consuetudine per molti giovani lavoratori. Non garantendo alcuna tutela in termini di previdenza, malattia o maternità i vouchers, cugini dei tedeschi mini-jobs, sono la nuova frontiera del precariato per gli italiani. Una frontiera che sembra essere l’unica ad avanzare effettivamente, a dispetto dell’ottimismo profuso da Palazzo Chigi.

*economista, Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa


 

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Scrivere è viaggiare in una terra sconosciuta

Jhumpa Lahiri premio pulitzer

Nel mondo a parte dell’ambasciata italiana a Teheran la piccola Chiara vive un’estate piena di scoperte. È il 1981, e fuori da quel giardino incantato l’ayatollah Khomeini impone il terrore. Tra la luce brillante delle miniature antiche e il buio del regime teocratico prende vita il racconto di Chiara Mezzalama ne Il giardino persiano (Edizioni e/o), in cui riaffiorano memorie d’infanzia. Il 23 gennaio a Roma la scrittrice romana ne parla con una interlocutrice d’eccezione, il premio Pulitzer Jhumpa Lahiri, che dopo best seller come L’interprete dei malanni, L’omonimo, e Una nuova terra, nel 2015 ha pubblicato il suo primo libro scritto in italiano: un affascinante memoir pubblicato da Guanda e intitolato In altre parole. Per dedicarsi interamente alla scrittura, Mezzalama se n’è andata da Roma. La città che invece Lahiri ha scelto per un nuovo inizio come scrittrice, in italiano. L’esigenza di viaggiare, imparare più lingue, sperimentare senza ormeggi caratterizza i loro differenti percorsi. Offrendoci lo spunto per questo dialogo.

Per scrivere Il giardino persiano serviva una distanza da Roma?
Chiara: Avevo iniziato a scriverlo prima di partire per la Francia, poi ripercorrendo il mio passato è riemerso questo bisogno profondo di cambiare, di rimettersi in gioco. Nel romanzo,  il “me”bambina dice di voler andare in Francia per conoscere i luoghi dove ha vissuto un autore a me caro, Romain Gary. Scrivere mi ha dato voglia di realizzare quel desiderio antico, seguire un innamoramento, ritrovare delle radici culturali. È stato proprio in quel momento che ho conosciuto Jhumpa Lahiri; era arrivata da poco a Roma. La sua scelta coraggiosa di venire a scrivere in Italia ha dato anche a me il coraggio di partire.

Dopo aver raggiunto un grande successo, Jhumpa ha avuto il coraggio di mettersi in crisi, e di rinascere, scrivendo in un’altra lingua.
Chiara: Provo una stima profonda per lei. Non credo di conoscere una persona che viva più dentro il mondo delle parole di lei. È una questione di vita o di morte nel suo caso. Lei stessa ha descritto questa urgenza, questo bisogno di appropriarsi delle parole come di respirare, nutrirsi. Mi commuove la cura con cui parla l’italiano. Come fosse la cosa più preziosa al mondo.
A farti innamorare dell’italiano è stato il suono delle parole, la musicalità, o piuttosto l’ampiezza semantica e lessicale?
Jhumpa: Me lo chiedono in molti, è una domanda giusta, ma resta fuori dal campo dello spiegabile per me. Ciò che posso dire è che vi ho riconosciuto subito qualcosa. L’italiano mi sembra naturale, nonostante faccia un sacco di errori e il mio il parlare non sia mai pulito, perfetto. Mi sento a casa in questa lingua, così come a Roma, anche se in fin dei conti la conosco poco. Ho studiato altre lingue, il russo, il francese, ma l’italiano resta speciale, forse anche per il legame che ha con una lingua antica come il latino che ho studiato per cinque anni all’università. Tutte le parole italiane mi interessano… non so, non è qualcosa di razionale.

Da figlia di diplomatici hai viaggiato molto, l’infanzia in Marocco, poi in Iran. Sei cresciuta ascoltando molte lingue, in che modo sono entrate nella tua scrittura?
Chiara: Sono cresciuta parlando italiano e francese e ascoltando l’arabo e il farsi che non conoscevo. Non so che guazzabuglio tutto questo abbia prodotto nella mia mente di bambina. In casa abbiamo sempre parlato italiano che è perciò, a giusto titolo, la mia lingua materna, il francese è stato invece la porta per la letteratura. A scuola usavo il francese ma quando scrivevo per me, lo facevo in italiano. Le altre lingue erano come una musica di sottofondo, estranea e familiare al tempo stesso: un coro polifonico, voci intrecciate che l’italiano ha racchiuso in sé. Un fumetto di un’autrice libanese trapiantata in Francia, Zeina Abirached, descrive il rapporto tra due lingue con un’immagine molto efficace: è come lavorare a maglia con due fili diversi che producono un’unica sciarpa. Le due lingue diventano inestricabili.

Il suono delle parole è molto importante per te?
Chiara: Quando non conosci una lingua, non puoi che ascoltarne il suono. Da piccola devo aver sviluppato inconsapevolmente una forma di orecchio musicale riguardo alle parole. Per questo amo leggere la poesia e ascoltare altre lingue. Nella metropolitana di Parigi mi capita di sentire lingue di cui ignoro persino le origini. Provo sempre a immaginare cosa si stiano dicendo le persone. C’è la dimensione musicale delle parole e c’è il gioco. La letteratura ha a che fare con queste due dimensioni. Per capire se una frase o un dialogo funzionano basta leggerli ad alta voce. […]


 

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In panne: le immagini della east coast Usa sotto la neve

People pitch in to get a DC Metro police car moving again on 18th Street NW, Saturday, Jan. 23, 2016 in Washington. A blizzard with hurricane-force winds brought much of the East Coast to a standstill Saturday, dumping as much as 3 feet of snow, stranding tens of thousands of travelers and shutting down the nation's capital and its largest city. (AP Photo/Alex Brandon)

Città paralizzate su tutta la East Coast, stato d’emergenza, servizi in tilt e anche molti pupazzi e palle di neve. Così si presentano New York, Washington, Philadelphia e le altre città colpite dalla tempesta dell’anno. I metereologi si aspettavano fenomeni di freddo intenso dopo l’anno più caldo di sempre. Da qualche anno a questa parte negli States i fenomeni di tempo estremo, che si tratti di uragani, tempeste di neve o siccità si verificano con maggior frequenza.

A group of travel advisors from across the country pass the New York Stock Exchange while touring lower Manhattan during a snowstorm, Saturday, Jan. 23, 2016, in New York. (AP Photo/Julie Jacobson)Wall Street, la borsa sotto la neve (AP)

Travelers navigate snow covered steps at the Union Turnpike subway station in the Queens borough of New York during a snowstorm Saturday, Jan. 23, 2016. New York Gov. Andrew Cuomo has announced a travel ban in New York City and on Long Island, saying all non-emergency vehicles should be off New York City's roads after 2:30 p.m. Saturday. (AP Photo/Frank Franklin II)Metropolitane chiuse (AP)

L’atrio di Grand Central a New York, normalmente uno dei posti più affollati della città, deserto

Il ponte di Brooklyn a piedi sotto la neve

 Un Amish affronta la tempesta con il suo carro 

Pedestrians walk in New York, Saturday, Jan. 23, 2016. A massive winter storm buried much of the U.S. East Coast in a foot or more of snow by Saturday, shutting down transit in major cities, stranding drivers on snowbound highways, knocking out power to tens of thousands of people. (AP Photo/Craig Ruttle)

Una strada di New York (AP)

 Pupazzi di neve a Times Square, New York (AP)

Snow covers the bridge over the Yellow Breaches Creek in New Cumberland, Pa., Saturday, Jan. 23, 2016. A massive winter storm buried much of the U.S. East Coast in a foot or more of snow by Saturday, shutting down transit in major cities, stranding drivers on snowbound highways, knocking out power to tens of thousands of people. (James Robinson/PennLive.com via AP) MANDATORY CREDIT; MAGS OUT

Yellow Breaches Creek, Pennsylvania (AP)

Ian Wright, left, leaps into a snow bank as his wife Rebecca, center, watches on their street in the Columbia Heights neighborhood of in Washington, Saturday, Jan. 23, 2016. Millions of people awoke Saturday to heavy snow outside their doorsteps, strong winds that threatened to increase through the weekend, and largely empty roads as residents from the South to the Northeast heeded warnings to hunker down inside while a mammoth storm barreled across a large swath of the country. (AP Photo/Pablo Martinez Monsivais)

Un’immagine di una strada di Brooklyn a 360 gradi

A man uses cross country skies as he goes down M Street NW in the snow, Saturday, Jan. 23, 2016 in the Georgetown area of Washington. A blizzard with hurricane-force winds brought much of the East Coast to a standstill Saturday, dumping as much as 3 feet of snow, stranding tens of thousands of travelers and shutting down the nation's capital and its largest city. (AP Photo/Alex Brandon)

 

Il gran rifiuto di Pisapia e la sua eredità in saldo

Sono passati meno di cinque anni ma è un’era politica. Il 28 maggio 2011 Milano, con l’elezione del sindaco Giuliano Pisapia, sembrava essere l’avamposto di un centrosinistra finalmente convincente, unito perché capace di cogliere l’occasione anche delle differenze interne e, soprattutto, credibile nel governare. Cinque anni dopo sicuramente la sfida dell’amministrazione è vinta: Milano è tornata davvero la città viva con un ruolo europeo, moderna nella mobilità e nelle politiche sociali, addirittura dirompente sul piano dei diritti (mentre il Governo si impantana per l’ennesima volta sulle unioni civili) e credibile. Non ci avrebbe scommesso nessuno che Pisapia e la sua giunta sarebbero arrivati alla fine del loro mandato con la richiesta pressante da più parti di continuare la partita. Ma questi cinque anni sono un’era politica e quando il sindaco ha annunciato di non volersi ricandidare, la città, sbiadito il fondotinta dell’unità, si è risvegliata convulsa e frammentata. Potranno ripeterlo centinaia di volte nei comizi, potranno scriverlo a caratteri cubitali nei programmi elettorali ma la “Milano di Pisapia” si ferma qui. Inutile negarlo.
In questi cinque anni il sindaco (che non ha tessere di partito, anche se Pd e Sel più volte hanno cercato di rivendicarne la paternità) è riuscito nell’impresa di tenere coesa la propria squadra di giunta e la maggioranza in Consiglio comunale fuori dal mare mosso della politica nazionale: i quattro governi che si sono succeduti (Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi) non hanno condizionato gli equilibri politici cittadini e nonostante le naturali difficoltà di una maggioranza che tiene insieme la sinistra radicale con i piddini più centristi, il sindaco ha avuto sempre la maggioranza in consiglio su ogni decisione (escluso il recente progetto di riqualificazione delle stazioni cittadine, ma questo è il risultato di una campagna elettorale già iniziata). La sua squadra, poi, è sempre stata evidentemente fuori dalle logiche della spartizione politica, folta di giovani assessori (come la scommessa, vinta, di Pierfrancesco Maran ai trasporti) e costruita più su un reale rapporto fiduciario che su calcoli da segreterie di partito. E non è un caso che alcuni assessori (tra cui anche l’ex vicesindaca Ada Lucia De Cesaris) siano “indipendenti”, non tesserati per nessun partito. […]


 

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Storie di ordinario on-demand

Driver 8 una volta guidava un taxi giallo nella Bay Area a San Francisco. Era fiero del suo lavoro. Fin quando sono arrivate le auto con i baffoni di Lyft e i suv neri di Uber. «Ogni volta che rifiutiamo una carta di credito creiamo nuovi clienti per loro», dice Driver 8, che una sera è stato fregato da un cliente con la solita scusa di andare a prendere i contanti in hotel. Non era certo la prima volta, ma ha giurato a se stesso che quella sarebbe stata l’ultima: «Non sarebbe accaduto a un autista di Uber», si disse. Così Driver 8 (pseudonimo di Jon Kessler), decide di diventare un tassista on-demand e passa a Lyft, la compagnia concorrente di Uber negli Stati Uniti.
Leggo la storia di Driver 8, per la serie On-Demand Diaries, sul mio smartphone, e mi trovo su un taxi di Barcellona che mi sta portando in aeroporto. I sedili tappezzati di pubblicità suggeriscono di scaricare un’app per pagare la corsa con la carta di credito. Il mio tassista ha trent’anni, la felpa con il cappuccio, le polaroid dei figli sul cruscotto e un paio di occhiali da sole con cui sarebbe stato possibile guidare anche sotto il sole del deserto. Gli chiedo se avrebbe mai lasciato il suo taxi per Uber. «Mai, per la questione della licenza», risponde. «Anche se mi piacerebbe non dovere sprecare benzina per andare a cercare i clienti».
Troppa solitudine nel lavoro online da casa. Aubrie Abeno, a lungo lavoratrice freelance on-demand, ha deciso di smettere. Dopo una laurea in giornalismo al college e un paio di delusioni nel mondo del lavoro, Aubrie si iscrive alla piattaforma Elance. «Potevo lavorare quando e come volevo. I miei esorbitanti costi da pendolare si erano ridotti e stavo raggiungendo una media di 900 dollari a settimana, per appena 40 ore di lavoro», racconta. Per fare cosa? «Il cliente che pagava meglio era uno che aveva richiesto delle trascrizioni di contenuti video e audio. Un altro voleva un articolo clickbait con questo titolo: “Un gatto gioca con una palla, non crederai mai a quello che è successo dopo”». Per i primi tre mesi Aubrie lavora a tempo pieno: «Era affascinante come immaginavo, digitavo in pigiama sul patio, baciata dal sole, con il gatto in grembo e un mimosa in mano; digitavo nella sala da pranzo in una domenica pomeriggio, con una playlist Spotify ottimista e un goccio di Baileys in una tazza di caffè fatto in casa; digitavo nel mio bar preferito, sorseggiando un bicchiere di vino. Potevo farlo, perché non c’era nessuno a dirmi di non farlo». Eppure decide di mollare: «È un lavoro solitario. Anche per un’introversa come me, i rapporti umani valgono ancora più dei soldi». […]


 

Continua sul n. 4 di Left in edicola dal 23 gennaio 2016

 

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