Home Blog Pagina 1215

Pensioni e migranti, le sfide di Tsipras

epa05116646 Greece's Prime Minister Alexis Tsipras (L) shakes hands with the Managing Director of the International Monetary Fund (IMF), Christine Lagarde (R), during a bilateral meeting at the 46th Annual Meeting of the World Economic Forum, WEF, in Davos, Switzerland, 21 January 2016. The overarching theme of the meeting, which is expected to gather some 2,500 leading politicians, UN executives, heads of major corporations, NGO leaders and artists at the annual four-day gathering taking place from 20 to 23 January, is 'Mastering the Fourth Industrial Revolution'. EPA/JEAN-CHRISTOPHE BOTT

Come un equilibrista Alexis Tsipras cerca di muoversi nelle pieghe del nuovo memorandum firmato con i creditori nel tentativo di rimanere il più possibile fedele alle promesse. Ecco la prima, pesantissima, sfida: le pensioni, che pesano sulle casse dello Stato per ben 8,6 miliardi (circa il 4 per cento del Pil). Tanto, ma sempre la metà rispetto al 2010 quando il costo per l’erario ammontava a quasi 19 miliardi.

Il problema di Tsipras è che il sistema pensionistico non è sostenibile, le casse sono state sistematicamente saccheggiate fin dall’indomani della guerra civile. Corruzione e cattiva amministrazione. Poi scelte azzardate, come nel 1999, quando l’allora premier socialista Kostas Simitis ha incoraggiato i fondi pensionistici a investire in Borsa, proprio alla vigilia del crollo. A crisi già conclamata, nel 2012, c’è stato il disastroso haircut dei titoli pubblici in mani private a terminare l’opera. Si calcola che, in tutto, alle casse pensionistiche tra azzardi e investimenti sbagliati siano stati sottratti più di 80 miliardi, di cui 35 nell’ultimo ventennio. La Troika non se ne cura e replica sempre la stessa ricetta: tagliare, tagliare e di nuovo tagliare. Al contrario il governo vuole evitare tagli, come si dice, orizzontali: e non tagliare le prestazioni essenziali. Va bene unificare le attuali settanta casse pensionistiche. D’accordo abolire definitivamente i baby pensionati e introdurre una pensione sociale di 385 euro. Sì ad andare in pensione a 67 anni e con almeno 40 anni di contributi. Ma poi, secondo pilastro della riforma, bisogna rinnovare il sistema dei contributi sia per il datore di lavoro che per il lavoratore. Le unioni di commercianti e industriali hanno accettato la logica, discutendo sulle aliquote, se dovessero esser dell’1 o dello 0,5 per cento. Molto più pesanti saranno i contributi degli agricoltori, già colpiti dall’obbligo, a cui non erano avvezzi, di dover pagare le tasse: dal 7 per cento, quanto pagavano per le pensioni, passeranno al 10 entro l’anno e al 20 nel 2019. Una terapia d’urto che genera proteste e manifestazioni nella provincia greca, con trattori a bloccare le strade. Ma la Cassa degli agricoltori è quella con il maggior passivo, accumulato dalla vecchia politica per evidenti ragioni clientelari.

Il governo di Syriza ha comunque mantenuto l’impegno di evitare un dodicesimo taglio alle pensioni, almeno differendolo nel tempo. 2,7 milioni di greci attualmente in pensione possono sentirsi sollevati, meno i  3,6 milioni di greci attivi.


 

Continua sul n. 4 di Left in edicola dal 23 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 
 

Roma città chiusa

Roma non è mai stata una metropoli internazionale, lo stesso concetto ampio di mondo le appartiene assai relativamente, retorica di una Hollywood sul Tevere compresa. Roma infatti è innanzitutto un aggregato di quartieri accostati (dai palazzinari) irregolarmente gli uni agli altri, dove, nonostante le “disparità” sociali, c’è comunque il comune denominatore antropologico a tenere ogni cosa insieme, un sentire piccolo borghese, inossidabile, forte come il bostik. Lo stesso sentire cui il fascismo donò un’uniforme, da “capofabbricato”, per cominciare, ma pur sempre un segno distintivo gerarchico. Roma probabilmente non conquisterà mai un respiro internazionale, se è vero che i suoi pensieri non vanno oltre il rione, lo strapaese sebbene monumentale.
Che si tratti poi di una città, anzi, di un “bacillario”, o se preferite un laboratorio politico ottimale per il fiorire della subcultura fascio-qualunquista non c’è che l’imbarazzo della contemplazione dei bar o delle sale-corse di molti suoi quartieri “residenziali”, poco importa se destinati ai primari o piuttosto ai semplici medici o addirittura agli infermieri e ai portantini: questa tripartizione ha un valore metaforico, ma spero restituisca agilmente la percezione diacronica di chi scrive.
Potrà sembrare un dettaglio più o meno insignificante, ma ci sarà pure una ragione profonda se la koinè sub-linguistica nazionale (o se preferite dialettale) che, cominciando dai social network, governa un pensiero assertivo permeato di qualunquismo è proprio il cosiddetto “romanesco”, nella sua forma degradata da trattoria “Cencio La Parolaccia”? Una “lingua” che ha tuttavia la capacità di farsi perfino manifesto politico: ricorderete il “Daje!” che ha accompagnato l’avventura elettorale e le giornate successive micro-epocali di un ex sindaco della città in questione, o sbaglio? Così come, benché alcuni attestino che si tratti di puro italiano presente addirittura nel Tommaseo, il continuo uso “dialettico” dell’espressione “rosicare” (o “rosicone”) nel dibattito politico sia ad ampio sia a minor spettro. Ci sarà insomma una ragione se ogni tentativo di dare vita a una riflessione viene infine costretta ad arrendersi davanti a battute pronunciate con assertività rionale e insieme cosmica?
Per quanto possa sembrare paradossale, il portato profondo del “cinismo” romano si è fatto globale nel linguaggio quotidiano della politica, cancellando così il “discorso” e il metodo.


 

Continua sul n. 4 di Left in edicola dal 23 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Contratto finale

Per il contratto dei metalmeccanici è giunto il momento del rinnovo. Anzi, del “rinnovamento”. Cgil, Cisl e Uil hanno accettato la sfida di Federmeccanica con un documento unitario, cosa rara di questi tempi. D’altra parte, è ormai diffusa la consapevolezza che non si possa andare avanti con declaratorie delle categorie e delle mansioni ferme al 1973. Il prossimo confronto è fissato per il 28 gennaio. L’obiettivo dei sindacati è mantenere la struttura del contratto nazionale (che tutela l’85% dei lavoratori), stabilire regole più chiare e avere la garanzia di poter effettivamente partecipare alle scelte delle singole aziende.

Davanti, però, si trovano il battipista di Federmeccanica che, anch’essa, ha preparato un documento, proponendo una concezione nuova e diversa delle relazioni industriali. In estrema sintesi, l’organizzazione delle imprese meccaniche vuole che il Contratto resti solo per fissare il minimo salariale sindacale e per concertare alcuni strumenti di garanzia formativa e assistenziale. Tutto il resto si contratti azienda per azienda, tenendo conto dei margini, se ci sono, di concessioni salariali e stringendo la cinghia per evitare che l’azienda soffra.


 

Continua sul n. 4 di Left in edicola dal 23 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

L’idraulico cantastorie

Tania ha un appartamento in centro a Palermo e si inventa albergatrice. Giulio, un’auto e si offre come conducente. Rodolfo, invece, lavora in una delle fabbriche della Meccatronica, dalle parti di Reggio Emilia: mette da parte qualifica, rigidità dell’orario, permessi e ferie come la famiglia vorrebbe, per produrre quel che serve quando serve, e tenersi il lavoro in una delle imprese che stanno ancora nel mercato. Giulia, poco più a Nord, ha rinunciato alla sua formazione non pagata in un grosso studio legale: ora fai i conti del mutuo a chi lo paga e se scopre che la banca ha imposto tassi cravattari promuove la causa per strozzinaggio contro l’istituto di credito, in cambio del 20% di quel che il truffato riavrà. Walter tutti i week end cura con le sue mani, mani sottili aduse a scrivere o ad accompagnare col gesto elegante un pensiero espresso con la voce, cura frutti antichi, perfeziona gli innesti, dosa fertilizzanti, forse porta la terra alla bocca – come facevano i contadini negli anni 50 – per capire cosa seminare.
Manfredi consegna le pizze, col suo motorino e spera che non gli capiti un incidente perché l’assicurazione non paga se usi il due ruote per guadagnare. Natasha fa l’infermiera del turno di notte e l’insegnante di russo due giorni la settimana. Ma il nostro preferito – e Pronostico gli ha dedicato la copertina – è Giulio, un talento da cantastorie e l’hobby dell’antiquariato: gira di casa in casa a far l’idraulico e l’aggiustatutto, gratis incanta signore e bambini.

Il lavoro sta cambiando, qui a casa nostra, anzi è già cambiato. Sotto l’impulso di cause molteplici. La divisione internazionale del lavoro che ha delocalizzato la classe operaia di un tempo in altri continenti. L’automazione e la quarta rivoluzione industriale che un rapporto commissariato dal World Economic Forum prevede che farà perdere 7 milioni di posti di lavoro. Poi il boom dell’informatica che mette a disposizione dati complessi, delle comunicazioni digitali che consentono di lavorare allo stesso tempo al medesimo pezzo ai due estremi del globo. Il rinculo dello stato e del welfare, che fanno la reverenza ai mercati e al denaro. Left, liberté, egalité,fraternité e trasformazione non può certo ignorare un tale cambiamento, o fare spallucce e rifugiarsi nel rimpianto del bel tempo che fu. Gli stessi sindacati, per storia intrisi di una cultura vetero-lavorista, non fanno orecchie da mercante e Landini, in queste pagine, sembra pronto a condurre la Fiom su sentieri sconosciuti. Ma c’è un ma. Anzi ce ne sono due.
Il primo è che l’elogio all’innovazione non si può cantare a pezzi. Dire viva il lavoro che cambia e poi raccontare la favola che sta arrivando, forse che è già arrivata, una ripresa impetuosa simile a quelle che accompagnavano nel dopo guerra i cicli positivi dell’economia. Eh no, quella ripresa non verrà. Non vedremo cantieri in ogni dove e milioni di persone correre a laurearsi ingegneri, medici e avvocati. Né le famiglie comprare a rate tutto quel che l’industria propone. Al contrario, se non sapremo scegliere cosa produrre per quale piccola fetta del mercato mondiale, se non sapremo riconvertire città e campagne, la ripresa si spegnerà subito come un fuoco fatuo.
Il secondo lo illustra plasticamente il rapporto Oxfam. Ha misurato che 62 – appena 62 – miliardari hanno per le mani, in borsa o nei caveaux dove rinchiudono le opere d’arte, l’equivalente della ricchezza posseduta dalla metà meno fortunata della popolazione mondiale. Un rapporto che forse valeva nell’Egitto dei faraoni, modo di produzione destinato alla stagnazione e a un lento declino. Già ora queste disuguaglianze hanno rotto il giocattolo dell’american dream, spaventato il ceto medio che teme l’abisso della caduta, depresso i consumi e la dinamica dei prezzi – per quanto faccia un miliardario non sa consumare come centomila piccolo borghesi – e hanno ispirato e alimentato una svalutazione del lavoro salariato che si porta dietro a catena la svalutazione dei nuovi lavori, Non solo, ridotti i margini di guadagno, la disuguaglianza crea in basso illegalità, elusione ed evasione delle tasse, servizi meno efficienti e più costosi che producono nuova insicurezza. Come avrebbe detto un vecchio studioso. I rapporti sociali di produzione – oggi segnati da queste abissali disuguaglianze – deprimono lo sviluppo delle forze produttive. Che avesse ragione?

Trovi questo editoriale sul n. 4 di Left in edicola dal 23 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Meno dieci all’Iowa, Sanders è di nuovo in vantaggio su Clinton

Democratic presidential candidate, Sen. Bernie Sanders, I-Vt. meets with attendees during a campaign stop, Thursday, Jan. 21, 2016, in Peterborough, N.H. (AP Photo/Matt Rourke)

Mancano 10 giorni al voto in Iowa e gli ultimi sondaggi fanno tremare Hillary Clinton. Bernie Sanders è tornato in vantaggio nello Stato delle pianure congelate ed è in vantaggio da mesi – era scontato – nel “suo” New Hampshire. I sondaggi e la partecipazione ai comizi galvanizzano la base giovane e liberal del senatore del Vermont, dando entusiasmo e voglia di darsi più da fare per riscrivere un libro già scritto, quello della nomination di Hillary Clinton. L’incertezza della nomination repubblicana, dove in testa rimangono due candidati outsider, contribuisce all’ottimismo dello staff di Bernie. La speranza è di ripetere la sorpresa Obama del 2008. Sarebbe un miracolo ma due vittorie nei primi Stati in cui si vota cambiano il ritmo delle cose e il giorno dopo il New Hampshire nei quartieri alti democratici si comincerà a chiedersi se c’è la possibilità di lanciare un terzo candidato forte nella contesa (il ritorno di Joe Biden? La paladina liberal Elizabeth Warren?).

Che comunque vada ha già cambiato la dinamica delle primarie democratiche: se si parla di regole per le banche, tasse ai ricchi, diritti del lavoro è merito suo. Ma non solo: l’America di questi anni è cambiata, i movimenti e le grandi campagne per il salario minimo, per i diritti omosessuali, Black Lives Matter, gli immigrati organizzati che chiedono diritti sono tutte basi e persone da cui partire. I democratici, insomma, si scoprono alla loro sinistra nonostante se stessi. E Bernie, che in un tempo passato sarebbe stato marginale, oggi è al centro della scena politica. Interessante da notare: sul canale Youtube di Hillary ci sono decine di spot web anti repubblicani. Ieri c’è il primo (o il secondo) anti-Sanders.
160121160815-gop-iowa-poll-cnn-orc-gfx-exlarge-169

160121160814-dem-iowa-poll-cnn-orc-gfx-exlarge-169

 

Il matrimonio gay per il papa è un “oggettivo errore”. Siete pregati di sprecare meno inchiostro sulla “rivoluzione” di Francesco

papa francesco matrimonio gay

Uno le cose le sa, le scrive da un decennio, le studia da più di vent’anni. Poi però la vita ti costringe ad ascoltare una pletora di gente sbandata (pure a sinistra) che quotidianamente si esercita a immaginare una presunta divisione tra Chiesa buona e chiesa cattiva, moderna o antiquata, chiusa o aperta. O peggio, talvolta la vita ti costringe a “convivere” con gente che ti guarda impietosita (perché tu non puoi capire la portata della rivoluzione…) che si esercita ad immaginare un Bagnasco cattivo e un Francesco buono. Una Chiesa che abbraccia tutti, il famoso “ospedale da campo” (in effetti simile alla nostra sinistra!) e una che le rema contro, che erge muri. Andrebbe Francesco al Family day? Aprirebbe Francesco ai matrimoni tra omosessuali? Banalmente equiparerebbe le unioni civili ai matrimoni? Quante ne avete lette? Da Melloni a Scalfari… quante?
NO. Ve lo dice di persona, papa Francesco. Senza grandi fronzoli, lapalissiamo come lo è la dottrina. Da secoli. Anzi dalle sue origini. «Non può esserci confusione tra la famiglia voluta da Dio e ogni altro tipo di unione». Il “mitico” Francesco nell’udienza alla Rota Romana per l’inaugurazione dell’anno giudiziario ha ribadito che «la famiglia, fondata sul matrimonio indissolubile, unitivo e procreativo, appartiene al sogno di Dio e della sua Chiesa per la salvezza dell’umanità» ma che «coloro che per libera scelta o per infelici circostanze della vita, vivono in uno stato oggettivo di errore, continuano ad essere oggetto dell’amore misericordioso di Cristo e perciò della Chiesa stessa”.
Allora poche constatazioni, c’è una marea di gente che, per la Chiesa, vive in un stato di “oggettivo errore” che comunque è oggetto di amore misericordioso di Cristo, ma che però non è «famiglia voluta da Dio, indissolubile, unitiva e procreativa», e non è sogno di Dio e non salverà l’umanità. Punto e basta. Siete pregati di sprecare meno inchiostro sulla “rivoluzione” di Francesco.

Saul Leiter il fotografo che inventò il colore

Saul Leiter: Taxi, ca. 1957.

«(…) Ho sempre fotografato in modo molto libero, senza avere in testa nessuna particolare immagine, fotografia o dipinto, che sia. Chi vede i miei dipinti pensa che esiste una relazione tra l’uso del colore nei miei quadri e nelle fotografie. … Cerco di rispettare determinate nozioni di bellezza anche se per qualcuno si tratta di concetti vecchio stile. Certi fotografi pensano che fotografando la miseria umana, puntano i riflettori su problemi seri. Io non penso che la miseria sia più profonda della felicità».

– Saul Leiter, fotografo (1923-2013)

 

Il ruolo pioneristico che Saul Leiter ebbe nella storia della nascita della fotografia a colori è stato riconosciuto solo recentemente. Pittore autodidatta e successivamente fotografo di moda, fu tra i primi, già nel 1946, ad utilizzare le storiche pellicole a colori Kodachrome, per i suoi scatti.  Dal 22 gennaio fino al 3 aprile il suo lavoro viene celebrato con una bella retrospettiva alla Photographers’ Gallery di Londra: oltre 100 opere tra fotografie a colori e bianco e nero, quaderni di appunti e schizzi.

 

(in apertura © Saul Leiter, Taxi, ca. 1957)

 

[huge_it_gallery id=”101″]

(gallery a cura di Monica di Brigida)

Open Migration, per parlare di rifugiati e immigrati con il cervello

È possibile fare informazione su rifugiati e migranti senza il cadavere di un bambino sulla spiaggia greca, senza le drammatiche storie dalla “Giungla” di Calais o dalla rotta balcanica? C’è un nuovo sito, nato pochi giorni fa, che crede di sì. Che si possa sfidare il populismo, il razzismo e gli stereotipi, anche attraverso dati e infografiche. Si chiama Open Migration ed è un progetto con cui CILD, la Coalizione italiana libertà e diritti civili, vuole migliorare la qualità dell’informazione sull’immigrazione.

Guardando al microscopio della statistica si scoprono molte cose. Per esempio che gli eritrei sono arrivati in massa in Italia nel 2015 ma che pochissimi hanno scelto il nostro paese come destinazione finale. È in questo grafico il fallimento del Regolamento di Dublino, che impone la presentazione della domanda d’asilo nel paese d’approdo in Europa. La battaglia che si sta combattendo a Bruxelles sulla pelle dei migranti emerge dai numeri se sono interrogati nel verso giusto. Angela Merkel sbandierava a fine dicembre un milione di rifugiati giunti in Germania 2015. Ma da dove viene quel numero? È vero? Su cosa si fonda?

A Matteo Salvini piacerebbe selezionare i rifugiati per religione. Ma è possibile? No, di certo, diremmo tutti. Ma su quali basi giuridiche si fonda questo divieto? La risposta su Open Migration è affidata al giurista. Si deve credere a chi parla di “invasione musulmana” in Italia? Andando a vedere i numeri la risposta è no, perché la percentuale di islamici nel nostro paese è costante (un terzo degli stranieri) da più di vent’anni a questa parte e perché la nazionalità più presente è quella romena, bianca e cristiana.

Oltre ai numeri ci sono le idee. E nella sezione dedicata sono ospitate le opinioni di Zygmunt Bauman (“la sospensione della democrazia verso i migranti è una vittoria del terrorismo”) e di Nando Sigona, sociologo a Birmingham, sul fallimento della politica di relocation europea.

Ecco, Open Migration vuole essere uno strumento attraverso cui comprendere al meglio un fenomeno come quello delle grandi migrazioni e al tempo stesso che possa aiutare a ripulire l’informazione e, soprattutto, la disinformazione che circola intorno a migranti e rifugiati.

 

Due esempi di cosa fa Open Migration con numeri e grafiche qui sotto. Sono grafici utili a discutere, ragionare, pensare a politiche e riportare le cose, i fatti dove sono, lontano dal rumore che ci frastorna.

In Italia si parla molto di invasione islamica, eppure tra il 2003 e oggi la percentuale di immigrati musulmani è diminuita ovunque, come si evince dalla infografica qui sotto (l’articolo qui)


La seconda grafica riguarda ancora l’Italia e ci segnala come, nonostante tutto, l’ondata di rifugiati abbia cambiato la nostra percezione delle cose. Il dato riguarda le ricerche effettuate su Google negli anni passati: quest’anno abbiamo cercato meno clandestini e più rifugiati (qui l’articolo). IT_Google-search-trend-year

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”” ][/social_link]  @LeftAvvenimenti

Il mondo dei robot: cos’è la quarta rivoluzione industriale e che impatto avrà sul lavoro

Sota è un piccolo robot Made in Japan, parla, e muove le braccia. Di mestiere fa l’aiuto infermiere: è in grado di misurare la pressione, ricordare ai pazienti quali medicine prendere e a che ora, svolgere altre piccole funzioni accessorie nell’assistenza di routine ai pazienti di una casa di cura per anziani. Palro invece dimostra gli esercizi di ginnastica ai pazienti, può leggere loro le notizie da un tablet e cantare delle canzoncine. I video dimostrativi, le foto dei robot sono carine, divertenti e simpatiche. Il fatto che siano condite dall’estetica giapponese ce li rende divertenti. Sota e Palro sono l’esemplificazione alta 50 centimetri del mondo che verrà. Non sappiamo come sarà, ma sappiamo per certo che il progresso tecnologico prodigioso di questi anni sta cambiando le nostre vite, la società e il modo in cui ci relazioniamo tra noi e con le cose. E che nei prossimi anni assisteremo ad altre novità.

Nel freddo di Davos, in questi giorni, si discute anche e soprattutto di questo. Certo, c’è la preoccupazione enorme per la frenata dell’economia cinese, la caduta del petrolio, il rischio che le paure degli investitori rendano difficile trovare fondi con cui avviare le start-up della Silicon Valley – anche i titoli di giganti in buona salute come Netflix e Facebook hanno perso molto nei giorni passati. Ma un tema su cui gli appartenenti alle elites mondiali di ogni ambito possibile discuteranno è quello che gli organizzatori del World Economic Forum definiscono, in un rapporto titolato The future of Jobs, la “Quarta rivoluzione industriale”. Si tratta di un tema grande, e sia Foreign Affairs, la più importante rivista di questioni internazionali del pianeta, che il Financial Times, dedicano degli speciali alla questione proprio in questi giorni di Davos.

Di che parliamo? La quarta rivoluzione industriale è tale, come l’introduzione del vapore, dell’elettricità e dei computer nella produzione perché, scrive Klaus Schwab, direttore esecutivo del WEF su Foreign Affairs, il progresso tecnologico è veloce ed esponenziale come mai in passato, l’impatto della trasformazione riguarda ogni settore industriale e ogni Paese e la portata delle trasformazioni riguarda la produzione, il management, la governance. Il progresso tecnologico, inoltre, abbatte le barriere tra la sfera fisica, digitale e biologica. Ci sono aspetti positivi e negativi in questa quarta rivoluzione industriale: «gli scenari più pessimistici dicono che abbia il potenziale di robottizzare l’umanità, ma potrebbe anche portare l’umanità a una nuova e collettiva coscienza basata su un senso di destino comune. Molto dipende da noi e dai governi», scrive Schwab.

westworld-poster-cropped

Robot e questioni etiche

Come quando passammo dalle campagne alle fabriche o da queste all’automazione e all’economia dei servizi, le questioni che la Quarta rivoluzione industriale apre sono enormi, di ordine economico, sociale e persino etico. Nel nostro banale quotidiano. Se persone come Elon Musk, il padrone di Tesla che vive e guadagna con tecnologie avanzate, mette in guardia sul fatto che l’intelligenza artificiale è «potenzialmente pericolosa più del nucleare», come ci ricorda il Financial Times, c’è di che osservare, studiare, capire e inventare politiche e regole. Facciamo un esempio etico che è quello dell’articolo del FT in cui si parla di Musk: l’auto senza pilota, qualcosa che è molto vicino dal diventare un prodotto di consumo. Mettiamo che un auto senza conducente si trovi di fronte alla scelta di fare un incidente andandosi a schiantare contro un muro, colpendo una bicicletta con a bordo un bambino, scontrandosi con un auto.

Il pilota umano avrà un millesimo di secondo per decidere quale opzione vagliare e si baserà sull’istinto di sopravvivenza o sulla compassione umana (o magari sulla propria età e stato di salute). Cosa farà il computer? Chi lo programma per compiere una scelta del genere? Se il programma compierà sempre la scelta razionale (salvare il contenuto dell’auto che guida), potrebbe fare scelte etiche sbagliate. Dove, come e fino a che punto l’intelligenza artificiale (o la medicina bionica o l’invasione della privacy) deve, può andare? E chi impone regole su temi così enormi? Al momento i governi sembrano più interessati a incentivare qualsiasi cosa sia investimento su un terreno che diventerà di competizione internazionale. Enormi pericoli riguardano  il possibile uso aggressivo o malevolo di queste tecnologie: ci sono voluti anni di diplomazia per trovare un accordo sul nucleare civile iraniano che evitasse la possibilità per Teheran di dotarsi di una bomba, decine di questioni simili si porranno su molti dei progressi portati dalla Quarta rivoluzione industriale: dall’uso dei Big Data alla questione dei rischi legati alla dipendenza dalle macchine. (continua sotto la scheda)

Come cambierà il lavoro da qui al 2020? Cosa dice “The future of jobs”

  • Il rapporto è il frutto di una ricerca che ha interpellato manager di imprese che impiegano 15 milioni di persone, nelle 15 economie più importanti del Pianeta e nove settori industriali, sostiene che i cambiamenti legati all’intelligenza artificiale, nanotecnologie, stampanti 3D, genetica e biotecnologia determineranno da qui al 2020 la perdita di 5 milioni di posti di lavoro.
  • Anzi, per la precisione i posti persi saranno 7,1 milioni, ma in alcuni settori industriali (computer, ingegneria, matematica, architettura, servizi professionali, Media & Entertainement) se ne guadagneranno 2,1 milioni.
  • I posti persi saranno in ambienti white collar: banche, finanza, sanità.
  • Le donne subiranno il contraccolpo peggiore perché più spesso impiegate nelle occupazioni destinate a essere rimpiazzate dalla Quarta rivoluzione industriale e soprattutto dalla poca presenza nei settori destinati a crescere (notoriamente nella silicon valley non ci sono donne o quasi).
  • Dal punto di vista geografico, i Paesi in cui l’occupazione aumenterà sono quelli dell’Asean, Messico, Stati Uniti e Regno Unito, dove, sostengono i ricercatori, per ragioni ovviamente diverse e in stadi di sviluppo diversi, la formazione dei lavoratori sui settori destinati a produrre nuova occupazione è più avanzata. Turchia, Cina, India e Italia sono tra le grandi economie che richiederanno un maggiore re-training per la forza lavoro inadeguata.

E cosa succederà al lavoro?

Nella scheda qui sopra ci sono le previsioni per i prossimi anni contenute nel rapporto del World Economic Forum. Torniamo ai due piccoli robot giapponesi: quante assistenti infermiere e assistenti domiciliari smetteranno di lavorare per causa loro? E quanti autisti di autobus, camion, treno, hostess e steward di aerei verranno rispediti a casa? La digitalizzazione dei servizi finanziari e bancari ha già reso desuete le agenzie bancarie alle quali siamo abituati. E un’enorme massa di bancari.

Le analisi sul futuro del lavoro divergono. Chi è più sereno su questi temi ci spiega che grida di dolore e spavento sul futuro del lavoro si sono ascoltate ad ogni passaggio tecnologico epocale, dalla spinning jenny – la spoletta meccanica che ha cambiato il modo di produrre nel tessile – alla robotizzazione dei primi anni 80. Eppure l’occupazione non è crollata. Altri, come gli economisti del Massachusetts Institute of Technology, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, autori di Race against the machine e The second machine age, restano ottimisti, ma ci ricordano che la rivoluzione tecnologica produrrà anche un aumento potenziale delle diseguaglianze, renderà desuete molte mansioni oggi affidate ai colletti bianchi stravolgendo il mercato del lavoro e, come ha scritto Martin Wolf, «creare una divisione tra coloro che possiedono i robot e gli altri, qualcosa di simile a quanto capitò tra proprietari terrieri e i contadini senza terra». Una lettura confermata in un libro bianco di UBS pubblicato anch’esso in occasione di Davos: che prevede una probabile polarizzazione della forza lavoro, nella quale i più ricchi e connessi diventeranno rapidamente più ricchi. «Coloro nella posizione migliore dal punto di vista delle competenze per sfruttare l’automazione e la connettività, che in genere hanno già elevati tassi di risparmio, potranno beneficiare del fatto di possedere più beni il cui valore sarà spinto verso l’alto dalla quarta rivoluzione industriale», si dice nel rapporto.

Gli anni seguiti alla crisi finanziaria del 2008 hanno contribuito ad un aumento delle diseguaglianze nel pianeta e nelle società a capitalismo avanzato. Le tecnologie – che pure possono essere strumenti di avanzamento su mille fronti, a partire dal cambiamento climatico – accompagnano e accelerano questo processo aumentando la ricchezza di investitori e portatori di saperi collocati nei gradini alti del mercato del lavoro e tutti gli altri. In altre rivoluzioni industriali i cambiamenti hanno prodotto sconquassi nella società e generato risposte politiche (i sindacati, il welfare, le regole). In passato ci sono voluti decenni e passaggi traumatici non da poco. Stavolta le cose sono andate a una velocità enorme e sarà il caso di ragionare, osservare e governare questi processi. Si tratta di una delle grandi sfide dei prossimi anni. Non dei prossimi decenni.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz