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Noi, la generazione dei dispersi con i paninari al governo

Siamo tra i trenta e i quarant’anni. Siamo quelli che hanno un ricordo del mondo senza internet. E poi dei primi modem che facevano quel suono extraterrestre per connettersi di toni alti e bassi come una sirena scarica e disturbata. Abbiamo vissuto l’euforia degli anni ’80 in cui l’impegno era diventato démodé, tutti ad inseguirci su nuovi mondi futuribili che, ci assicuravano, ci avrebbero per forza portato a stare meglio. Poca politica. Poca nel senso che davvero sembrava possibile stare senza politica: basta l’economia. Avresti detto, per quelli della mia generazione, che ce l’avremmo fatta semplicemente stando in scia, inseriti bene nella corrente, spediti e trasportati, attenti a non scendere sotto la soglia minima del divertimento.

Abbiamo avuto padri che hanno lavorato, fatica vera, e poi si sono imborghesiti sclerotizzando la speranza. “Abbiamo fatto tutto questo per voi” ci dicevano. E non lo dicevano con sicumera o bausceria, no, erano convinti per davvero che ci fosse un serbatoio pieno di opportunità, che tutto quel stare bene (o bene essere) sarebbe bastato per generazioni. È così che siamo stati paninari: convinti di avere il diritto di decidere il nostro “giusto” che non contava fosse “giusto” per gli altri, con una visione egocentrica del mondo instillata da una comunicazione che “ehi, dice a me!” e sempre pronti a contestare i servizi a disposizione, molto meno ad offrirne, ma ci perdonavamo lo stesso. Ah: ci perdonavamo da soli. Ovviamente.

Poi quando semplicemente le cose hanno cominciato a non andare come pretendevamo abbiamo cercato di salvarci. Ma noi, uno a testa. Ognuno per sé. Se c’è meno posto per “paninare” non significa mica che dobbiamo “paninare” meno tutti: significa che qualcuno dovrà smettere. E non certo io. La generazione degli “io”. Abbiamo pensato che la crisi fosse una falce che avrebbe preso solo quelli già sostanzialmente pericolanti e anche se abbiamo finto una preoccupazione di plastica giusto per solidarietà abbiamo pensato fino all’ultimo minuto che “figurati, mica viene a me”.

E poi è venuta a noi. E ci siamo costretti a fingere di essere ancora in sella. Se mi convinco io convinco anche gli altri. E così tutti con l’ottimismo al litro come anabolizzante per “rimanere in pista”. Abbiamo deriso gli sconfitti chiamandoli perdenti, abbiamo riso smargiassi delle sfide degli altri. Altro che Sarri e Mancini: da paninari era finocchio chi tirava troppo debole il pallone, chi aveva i pantaloni di flanella, chi arrossiva, chi non aveva il walkman, chi non partecipava all’autogestione e anche chi all’autogestione ci credeva troppo e per davvero, chi non aveva la risposta pronta, chi non era bello, chi aveva solo amici brutti, chi aspettava da solo il treno, chi non era d’accordo, chi non la pensava come noi, chi aveva i denti gialli, chi non aveva mai bigiato la scuola almeno una volta e anche chi faceva sempre il biglietto del treno. Forse davvero noi, quelli della mia generazione, siamo stati i primi ad essere fieri della propria superficialità, a curare la narrazione.

Poi, quando davvero il mondo è cambiato, eravamo così poco allenati che siamo stati i nuovi “dispersi”. Arrabattati a cercare una sponda. Ma soli. Dispersi tutti nello stesso Paese ma dispersi tra di noi. Incapaci di una socializzazione che non fosse concentrica. Come la storia della cicala e della formica: noi siamo le cicale. Ma dopo un corso di individualismo spinto. E così oggi dobbiamo correre, studiare di notte, per imparare in fretta e furia a diventare “blocco sociale”. Pensa te, che parola da sfigati.

E al governo abbiamo i paninari. Che la storia non succede mica per niente. Già.

Daniele Silvestri nel nuovo video canta del «governo non votato e di terza mano» di Matteo Renzi

Le foto dal set del videoclip

È online “Quali alibi”, il nuovo video di Daniele Silvestri, che presto sarà anche in tour. Un video che, non ve lo dobbiamo dire noi, è piuttosto critico con i tempi che viviamo e – indirettamente – con il governo “che non votiamo”. La stessa idea di un quotidiano che ha per testata La voce del megafono è un messaggio esplicito. Silvestri, come del resto ha fatto in maniera costante durante la sua carriera, osserva la realtà con piglio critico e ironia.

Abbiamo messo in fila alcuni fotogrammi del video in cui Silvestri sembra essere piuttosto critico nei confronti del governo Renzi. In particolare nella parte in cui si dice:

Mi era sembrato di notare un fatto poco chiaro
come una specie di governo ma di terza mano
con un programma mai approvato che però seguiamo
e neanche posso non votare
perché non votiamo

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Tutte le date del tour di Daniele Silvestri

27 febbraio FOLIGNO (Auditorium San Domenico (sold-out)

10 marzo GENOVA (Teatro Politeama)

11 marzo AOSTA (Teatro Splendor @ Saison Culturelle)

12 marzo  SENIGALLIA (An) (Teatro la Fenice)

18 marzo ISERNIA (Auditorium Unità d’Italia)

19 marzo PESCARA (Teatro Massimo)

21 marzo BARI (Teatro Petruzzelli)

22 marzo NAPOLI (Teatro Augusteo)

23 marzo LECCE (Teatro Politeama Greco)

24 marzo MATERA (Teatro Duni)

1 aprile PADOVA (Gran Teatro Geox)

2-3 aprile MILANO (Teatro Arcimboldi)

5 aprile REGGIO EMILIA (Teatro Valli)

7-8-9 aprile ROMA (Auditorium Conciliazione)

14 aprile Udine (Teatro Nuovo Giovanni da Udine)

15 aprile TRENTO (Auditorium Santa Chiara)

16 aprile CESENA (Nuovo Teatro Carisport)

18 aprile TORINO (Teatro Colosseo)

19 aprile Firenze (Teatro Verdi)

6 maggio CAGLIARI (Auditorium del Conservatorio)

7 maggio SASSARI (Teatro Comunale)

12 maggio COSENZA (Teatro Rendano)

13 maggio CATANIA (Teatro Metropolitan)

14 maggio PALERMO (Teatro Golden).

Danimarca alla guerra della salsiccia anti-rifugiato: una città rende obbligatorio il maiale nelle mense

In Danimarca i maiali sono importanti. Come il latte: grazie alle quote e a una tradizione rurale questi due prodotti – che di alberi da frutto nelle pianure dello Jutland non ne crescono – sono colonne portanti dell’economia agricola danese. Del resto, in Danimarca vivono molti più maiali che uomini e il 77% degli allevamenti e 15mila persone che ci lavorano sono proprio in Jutland. E l’export agricolo del Paese è cruciale per il settore agricolo e per l’economia.

I maiali sono anche l’ultimo strumento adottato da qualche politico della destra danese per mostrare di fare di tutto per opporsi all’arrivo di rifugiati. Il consiglio municipale di Randers, città di 61mila abitanti nel nord dello Jutland, la penisola collegata all’Europa che confina con la Germania, ha infatti deciso di dichiarare la guerra delle salsicce e delle polpette.

Il voto di lunedì scorso ha reso obbligatorio per le istituzioni pubbliche, tra cui mense di asili e asili nido, si servire piatti di carne di maiale nei loro menu. La ragione è dichiarata: preservare l’identità e la cultura danese.

Ora, chiunque abbia messo piede in un supermercato, in un ristorante o in una mensa danese è a conoscenza del fatto che pancetta, polpette, wurstel, arrosto di maiale ti guardano da ogni vetrina, vassoio, menu. L’idea di questo regolamento comunale è evidentemente una manovra politica parte di una campagna più grande anti rifugiati e anti-Islam.

Come spesso avviene in questi casi, i promotori dell’iniziativa hanno spiegato che non vogliono forzare nella maniera assoluta nessuno – ebrei e musulmani – a mangiare carne contro le loro convinzioni religiose.

Eppure, sulla sua pagina Facebook, Martin Henriksen, leader del Partito del popolo danese, ha scritto: «Dovrebbe essere inutile dire che è inaccettabile vietare gli elementi che contraddistinguono la cultura alimentare danese…cosa viene dopo?! Il nostro partito si batte, a livello nazionale e locale per la cultura danese … e, di conseguenza, lottiamo contro le regole islamiche che pretendono di dettare ai bambini danesi quel che dovrebbero mangiare».

L’ex ministro all’integrazione Manu Sareen, ha detto a The Independent che il tentativo è quello «di imporre un’ideologia… in questo caso sui bambini». Il New York Times cita invece la pagina Facebook

La socialdemocratica di Raven, Fatma Cetinkaya, si dice preoccupata e spiega al New York Times che la città non ha avuto mai problemi di integrazione o di criminalità e che questa misura rischia di alimentare tensioni. Sempre sul quotidiano newyorchese si cita l’archeologa e conduttrice radiofonica Ayse Dudu Tepe, che scherza: «In un Paese che conta più maiali che essere umani è perfettamente sensato che ci sia un partito che si occupi di maiali»· Del resto, grazie al partito del popolo danese è anche stata approvata la legge che prevede il sequestro dei beni ai rifugiati per pagarsi le spese. Farebbe ridere se non fosse tragico.

 

Turchia, Giulietti: «Sterminio del dissenso. L’Europa si muova»

«Quando si tratta di far rispettare i parametri monetari e finanziari, come è accaduto per la Grecia, gli interventi sono visibili, clamorosi e a piedi uniti, quando invece si tratta di far rispettare i diritti della libertà all’interno della comunità europea e anche con i Paesi alleati, gli interventi sono silenziosi, sottobanco e sussurrati». Giuseppe Giulietti, presidente della Fnsi, denuncia l’assenza di una politica dei governanti europei nei confronti della libertà d’informazione. Oggi Giulietti insieme ai colleghi di Articolo 21 e ai rappresentanti di Amnesty è andato a protestare davanti all’ambasciata turca a Roma. La richiesta è semplice: libertà per i giornalisti turchi incarcerati. Proprio oggi comincia il processo alla giornalista Ceyda Karan, del giornale Cumhuriyet, «un quotidiano che dà voce a tutte le opposizioni», dice Giulietti. Qual è la colpa della giornalista? Aver pubblicato la vignetta che Charlie Hebdo aveva pubblicato dopo la strage nella redazione. Questo avrebbe offeso il sentimento religioso del popolo turco.

Come riporta Articolo 21 tra i querelanti ci sono nomi eccellenti e vicini al premier Erdogan: Mustafa Varank (il suo braccio destro), Bilal Erdoğan (suo figlio), Berat Albayrak (suo genero), Sümeyye Erdoğan e Esra Albayrak (sue figlie).

Nelle carceri turche da 40 giorni inoltre, sono imprigionati sia il direttore che il caporedattore di Cumhuriyet. Can Dündar, il direttore, aveva scritto una lettera a Le Monde in cui rivolgeva «una richiesta d’aiuto dall’inferno», quello riservato alla stampa dal premier turco. Il14 gennaio La Repubblica ha pubblicato una lettera di Dundar diretta al premier Renzi (vedi sotto) in cui il giornalista ricordava i valori fondativi dell’Europa. Che in Turchia non vengono rispettati.

«Tutti i rapporti internazionali – l’ultimo è quello di Reporters sans frontières, dimostrano che la Turchia è un Paese che ha una situazione drammatica per quanto riguarda l’informazione. È uno dei Paesi dove c’è uno dei più alti numeri di giornalisti in carcere e la situazione si è particolarmente aggravata dopo le recenti elezioni. Erdogan si è sentito investito di un potere assoluto e soprattutto cinicamente sta utilizzando la necessità che ha l’Europa di un supporto nei confronti del contenimento del fenomeno migratorio», afferma Giuseppe Giulietti. «Erdogan sta cinicamente sta utilizzando quest’alleanza raggiunta con l’Europa per procedere allo sterminio di ogni forma di dissenso e di opposizione». Il premier turco si sente “sciolto” da ogni vincolo rispetto ai principi del diritto internazionale sui diritti civili.

Nel pomeriggio una delegazione di Fnsi, Articolo 21 e Amnesty andrà al Ministero degli Esteri dove ci sarà ad attenderla il sottosegretario Benedetto Dalla Vedova. «Noi andremo a dire una cosa banale: sì, comprendiamo tutte le ragioni della politica estera, delle alleanze internazionali, però questo non può portare in Turchia come in Arabia Saudita a chiudere gli occhi sulle violazioni dei diritti, a pensare che questi siano un optional. Bisogna con sapienza diplomatica pensare sia alle alleanze ma anche alla rivendicazione e al rispetto dei diritti nei trattati internazionali tra l’altro sottoscritti anche dalla Turchia», aggiunge Giulietti. E non c’è solo la Turchia, ma anche l’Arabia Saudita, salita agli onori delle cronache anche negli ultimi giorni per la vicenda del poeta palestinese Asrhaf Fayadh condannato a morte per apostasia. «Purtroppo è una marea. Non solo Reporters sans frontières ma anche Freedom House rivela che ci sono violazioni in Yemen, Iran, Cina. Un lungo elenco. Sta diventando un’abitudine la repressione del dissenso. Nel caso del poeta palestinese ospite dell’Arabia ha solo espresso le sue opinioni attraverso le sue poesie. Ci sono moltissimi giornalisti musulmani che stanno sotto regimi oppressivi».

E cosa può fare la stampa in Italia? «Bisognerebbe essere capaci di battersi per la libertà di espressione non solo dei colleghi bianchi e occidentali, ma anche quando sono di altro colore, o religione; la nostra capacità di metterci in rete con loro sarebbe un contributo importante per le loro battaglie. Mentre invece soffriamo molto quando veniamo sfiorati nelle nostre capitali soffriamo quasi zero quando si tratta del poeta palestinese».

Articolo 21 ha aderito alla campagna di Amnesty per Asrhaf Fayadh e ha raccolto centinaia di migliaia di firme. Il problema però sempre lo stesso: costringere i governi a rivedere le loro trattative e gli accordi diplomatici con i Paesi che violano i diritti umani. E anche fuori i confini europei, visto che Giulietti, racconta, ha avuto «qualche manifestazione di dissenso con dei rappresentanti della commissione europea a proposito delle posizioni che noi assumiamo sulla Polonia e l’Ungheria».

I problemi dell’informazione in Europa devono poi riguardare tutti i giornalisti, anche in Italia. «Mi dicono: ma perché ci dobbiamo occupare dei turchi, degli arabi, occupiamoci delle vertenze dei freelance italiani. Ebbene, questo è un tipico atteggiamento che porta dritto dritto alla sconfitta. Se sei in grado di far sentire che sei una grande organizzazione che si occupa della difesa dei diritti ovunque, a prescindere dal contesto, sei più forte ad affrontare anche le vertenze del tuo Paese. Non c’è una contraddizione a difendere l’ultimo precario e la dignità dei giornalisti nel mondo».

Turchia: lettera dal carcere “Non svendete la libertà in nome della lotta all’Isis”

di Can Dündar – direttore del quotidiano Cumhuriyet, detenuto nella prigione di Silivri –
Rispettabile Presidente del Consiglio Matteo Renzi, Le scrissi una lettera quando venni incarcerato a fine novembre per un articolo che avevo pubblicato come direttore del quotidiano Cumhuriyet. In quei giorni era in programma un suo incontro con il primo ministro turco sulla situazione dei rifugiati siriani. Era in corso la trattativa perché la Turchia non inviasse i rifugiati in Europa e li ospitasse sul suo territorio in cambio di un aiuto di tre miliardi di euro. Nella mia lettera la pregavo di non dimenticare i valori fondativi dell’Europa in nome dell’accordo.
Quei valori, che anche noi da anni difendiamo con determinazione, erano libertà, diritti umani e democrazia. Ideali da lungo tempo calpestati dal regime del Presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Ci auguravamo che l’avvicinamento tra l’Unione Europea e la Turchia legato alla crisi dei migranti facesse da freno a questo comportamento, ci auguravamo che avrebbe avvicinato la Turchia alla democrazia.
Lo scorso novembre, ai giornalisti presenti a Bruxelles al vertice Ue-Turchia, lei disse: “Come gli altri miei colleghi, anche io ho con me la lettera di due giornalisti turchi arrestati”. E sottolineò: “Nel dialogo con la Turchia, per l’Italia hanno grande importanza i diritti umani, la democrazia e il primato della legge”. Può immaginare quanto paradossale suoni questa dichiarazione dalla cella dove siamo stati gettati.
Se i cittadini turchi sostengono il processo di avvicinamento alla Ue è perché considerano i valori europei un’àncora per una Repubblica laica, democratica e moderna le cui fondamenta vennero gettate da Mustafa Kemal Atatürk. Siamo consapevoli che questi ideali sono così preziosi da non poter essere sacrificati in nome di un negoziato. Se oggi siamo tenuti in isolamento da oltre 40 giorni in Turchia, considerata dai media internazionali “la più grande prigione al mondo per i giornalisti”, è perché, con quella consapevolezza, ci siamo schierati contro la deriva del Paese verso un regime autoritario. Siamo in carcere perché abbiamo provato che tir dell’intelligence turca portavano armi ai gruppi jihadisti in Siria.
All’origine della crisi dei rifugiati c’è anche la guerra civile in Siria alimentata pure con l’appoggio dell’Occidente. Ora seguiamo con interesse il tentativo di placare l’incendio da parte di coloro che si sono travestiti da pompieri dopo averlo appiccato. Purtroppo, dato che Erdogan ha assunto il controllo di gran parte dei media, è sempre più difficile darne notizia. Chi ha il coraggio di farlo è vittima di attacchi, aggressioni, minacce, processi e carcere.
Anche se gli interessi attuali dell’Europa rendono necessario ignorare temporaneamente le violazioni dei diritti umani, noi continueremo a chiedere il loro rispetto a qualsiasi prezzo. Se rinunciamo all’umanità davanti alla scelta “rifugiati o libertà”, perderemo infatti tutti e tre quei valori. Can Dundar
(pubblicato da La Repubblica il 14 gennaio 2016)

Lavoro di fantasia. Cosa trovate nel nuovo Left

left lavoro maurizio landini

Il contratto nazionale scade e al tavolo del rinnovo si siedono dopo tanto tempo uniti Cgil Cisl e Uil, dall’altro lato Federmeccanica. In palio il superamento del contratto nazionale in una ottica aziendale. Su Left la parola a Maurizio Landini, leader Fiom e a Stefano Franchi, dg di Federmeccanica. Mentre crescono i lavoratori autonomi e on demand che di tutele non ne hanno ancora mai viste.
Prosegue poi il viaggio di Left nelle città dove si andrà al voto per le amministrative: la contesa a Roma sempre più “città chiusa” mentre i candidati di Milano devono fare i conti con l’eredità pesante del sindaco Pisapia. Tra economia e cultura, un dialogo tra Maurizio Pallante e Filippo La Porta sulla decrescita, e per la cronaca giudiziaria, la storia del “suicidio assistito” di un medico che aveva curato il boss Provenzano. Negli Esteri un’inchiesta sul potente figlio di Erdogan, mentre dalla Russia una nuova morte di un dissidente accende i sospetti. Dalla Grecia l’impegno di Tsipras sulle pensioni e sull’accoglienza ai migranti, mentre avvocati e agricoltori sfilano in piazza contro la riforma.
Apre la cultura un confronto fra due scrittrici che hanno scelto di vivere all’estero e cimentarsi su una lingua diversa dalla loro: Chiara Mezzalama a Parigi e Jhumpa Lahiri a Roma. Per la scienza, la ricerca delle onde gravitazionali che, se rilevate, daranno ragione ad Einstein. Infine, negli spettacoli, Stefano Bollani si racconta attraverso i suoi musicisti-mito.

Cara sanità, aumentano gli italiani che rinunciano a curarsi o chiedono un prestito

sanità tagli

Prestiti per la macchina nuova, per il cellulare nuovo, per le spese pazze. E, nel 4% dei casi, prestiti per la salute: impianti di ortodonzia per sé o per i figli gestione di terapie di lunga durata fino, anche, ai trattamenti di bellezza e operazioni di chirurgia estetica. Sono sempre di più gli italiani che, non avendo contanti, scelgono la strada del prestito personale per curarsi. Ce lo dice uno studio di Facile.it che, in collaborazione con Prestiti.it, ha esaminato più di 20mila richieste di finanziamento, presentate da giugno a novembre 2015.

La voce “spese mediche” raggiunge quasi il 3,82% delle motivazioni nelle richieste di finanziamento. Nello stesso periodo sono stati erogati più di 28mila prestiti a sostegno di pratiche estetiche o sanitarie, per oltre 340mila euro. Mediamente si tratta di un dipendente del settore privato, di 44 anni, che richiede un prestito personale di 6.600 euro, da restituire in 58 mesi, quasi 5 anni. e che può contare su uno stipendio medio di 1.500 euro. Una buona fetta, però, l’11% sono pensionati. Da evidenziare l’aumento sostanziale delle richieste da parte delle donne: normalmente circa il 75% delle richieste di prestito arrivano da uomini, quando parliamo di finanziamenti per le spese mediche il gap si riduce di parecchio e le donne rappresentano ben il 39% del campione analizzato. Le donne? Puntano a una cifra inferiore, 6.100 euro contro 6.900 euro, anche perché possono contare su uno stipendio medio di 1.200 euro mensili, contro i 1.700 degli uomini. Ovviamente, i numeri cambiano cambiando regione: in testa la Toscana e il Friuli Venezia Giulia (che superano il 6%), in coda Campania e Puglia dove la percentuale si assesta attorno al 2%.

A settembre il ministero della Salute, guidato da Beatrice Lorenzin, ha stilato la lista dei 208 esami “inutili”: estrazione e ricostruzione dei denti, radiologia diagnostica (incluse risonanze e tomografie), prestazioni di laboratorio (esame del colesterolo,  medicina nucleare) esami di genetica. Che costano ogni anno al Servizio sanitario nazionale circa 13 miliardi di euro. Questo è l’elenco:

E poi ci sono i tagli alla sanità e la legge di stabilità. Tagliando 4 miliardi  di budget alle Regioni, di fatto, li toglie alle strutture ospedaliere e alla salute, dal momento in cui oltre il 70% del bilancio delle Regioni è destinato alla sanità.

Intanto, aumenta il tasso di rinuncia a cure e prevenzione da parte dei cittadini. Rilancia l’allarme Federconsumatori: una parte crescente della nostra popolazione non sia più in grado di sostenere le spese per la salute. Le liste di attesa si fanno sempre più lunghe, i ticket e super ticket sempre più cari. Morale della favola: 15 cittadini su cento rinunciano a curarsi, si apprende dall’Ufficio Parlamentare di bilancio. Non rimane che rifugiarsi nella sanità privata, per chi può. E per chi non può ci sono sempre i prestiti personali.

[social_link type=”twitter” url=” Barillà (@TizianaBarilla) su Twitter” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Riforme e Pa, Renzi passa all’incasso e inaugura una lunga campagna elettorale

Missione compiuta: Matteo Renzi ha condotto in porto la “mutazione genetica” del suo partito e ora può inaugurare la campagna elettorale 2016-2018. Ieri il premier ha chiuso la partita della riforma costituzionale incassando anche l’ok della minoranza Pd al Senato (meno Walter Tocci, più verdiniani e affini) e ha aperto quella del referendum confermativo, invocando il sostegno del “popolo” e garantendo che se non arriva ne trarrà le conseguenze. Meglio dunque lavorare a pancia bassa per “vendere” i risultati di quasi due anni di governo.

«Io non so quanti di voi due anni fa avrebbero scommesso su quello che sta accadendo» ha detto stamattina il presidente del Consiglio mentre presentava i decreti attuativi della riforma della Pubblica amministrazione con i ministri Madia e Giannini. Poi scarica sul Parlamento la patata bollente delle unioni civili e giù con l’elenco degli obiettivi centrati: «Se ci avessero detto che la legge elettorale veniva fatta, che i senatori per tre volte votavano la loro abrogazione, che la pubblica amministrazione avrebbe fatto uno sforzo di questo tipo» nessuno ci avrebbe creduto.

È un Renzi fiero di aver inglobato il Corpo forestale nell’Arma dei carabinieri, dell’abbassamento delle tasse e del «recupero di ruolo dell’Italia», quello che risponde ai giornalisti prima di partire per Losanna, dove i “prodi” Malagò e Montezemolo conducono la battaglia per portare le Olimpiadi a Roma. «Questo è un Paese che è ripartito: l’Italia ha smesso di essere quella che si lamenta soltanto – annuncia – Se poi prendessimo anche le Olimpiadi… sarà dura ma ci proviamo».

Un altro fiore all’occhiello? «L’annuncio di Cisco e di Apple di voler investire da noi: due grandi multinazionali che vengono qua e non altrove». E poi le norme sui «furbetti del cartellino». Nell’annunciarle, questa mattina, il presidente del Consiglio ha indugiato a lungo sull’impiegato che timbrava il cartellino in mutande a Sanremo, spiegando che d’ora in poi (o meglio da aprile, quando il decreto avrà passato il vaglio delle Camere) non ci sarà più alcuna discrezionalità dei dirigenti, che dovranno intervenire “senza se e senza ma”: «Noi diciamo: se non lo licenzi, licenziamo anche te», ha spiegato.

Se a questo si aggiunge l’imminente rimpasto di governo – finalizzato ad assecondare soprattutto le scalpitanti attese degli alfaniani – la mutazione può dirsi compiuta. E il premier e leader del Pd “neocentrista” può affrontare con nuovo slancio i prossimi appuntamenti elettorali, dai referendum (c’è anche quello sulle trivelle) alle amministrative, fino alle politiche del 2018.

Renzi sulla stepchild non si spende: per una volta «decide il parlamento»

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi interviene in Senato durante il voto finale del Ddl Riforme Costituzionali (seconda deliberazione del Senato), Roma, 20 Gennaio 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Intervenendo alla conferenza stampa di presentazione degli undici decreti sulla pubblica amministrazione varati mercoledì notte dal consiglio dei ministri (tra cui c’è la stretta sui “furbetti” del badge), e prima di volare a Losanna per sostenere la candidatura di Roma per le Olimpiadi 2024, Matteo Renzi ha ribadito la sua posizione sulle unioni civili.

In particolare, rispetto alle ultime notizie sul dibattito parlamentare, il premier ha detto: «Il governo in questa vicenda non interviene ma rispetta il dibattito parlamentare». Dice «in questa vicenda», Renzi, perché sa bene che il suo governo ha abituato giornalisti e parlamentari a ben altri standard di interventismo. Non si spende dunque Renzi sul destino delle adozioni. Dice «una legge ci deve essere» e poi però aggiunge «ci sono dei punti delicati su cui le divisioni sono trasversali».

È notizia di queste ore, però, che sono i senatori cattolici del Pd ad aver proposto una nuova pena per chi ricorre alla gestazione per altri all’estero. Sarebbe così punito il genitore fino a 12 anni di carcere. Ma Renzi si dice «contento della qualità del dibattito», per lui «non si sono alzati muri».

Quanto costa essere donne? Almeno 1000€ in più all’anno rispetto ai consumatori uomini

Recentemente è esplosa la querelle sulla cosiddetta “tampon tax”, ne hanno scritto, e ci hanno riso in tanti, compresa Luciana Littizzetto a Che tempo che fa. Tutto è iniziato quando il deputato di Possibile Pippo Civati ha depositato in parlamento una proposta di legge per ridurre l’Iva sugli assorbenti dal 22 al 4% in quanto articoli che una donna è costretta ad usare durante quasi tutta la propria vita. Se da un lato la proposta ha suscitato da un lato risolini e battute sessiste (cosa piuttosto scontato in un Paese come l’Italia dove non siamo certo dei campioni in fatto di parità di genere), dall’altro c’è chi ha preso la proposta seriamente facendo notare quanto il tema fosse già in agenda o discusso da molti stimati governi internazionali, uno fra tutti quello del presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Nel corso di un anno il risparmio che una donna avrebbe con un’iva agevolata sugli assorbenti non andrebbe oltre qualche decina d’euro, ma la questione si fa interessante se si allarga lo sguardo a tutti i prodotti e ci si pongono alcune domande come: quanto sono sessisti i consumi? E soprattutto quanto costa essere donna? La risposta basta a far capire quanto il tema sia più serio del previsto: molto di più che essere uomo. Per esempio da un recente studio condotto nella città di New York dal Dca (il dipartimento per i “Consumer Affairs” che ha il compito di favorire il mantenimento di un mercato equo e vivace)  emerge che il genere incide sul prezzo finale di un prodotto e che la disparità fra quelli dedicati agli uomini e quelli dedicati alle donne è notevole. Nel rapporto pubblicato sono stati studiati svariati tipi di prodotti, dai giocattoli e all’abbigliamento per bambini, passando per i prodotti per la cura personale o per la salute dedicati agli adulti e agli anziani. Nel report quindi vengono paragonati i consumi durante un ciclo di vita medio di un uomo e di una donna. Quello che emerge dall’analisi del Dca di circa 800 diversi prodotti è piuttosto evidente: in media i prodotti dedicati al “gentil sesso” costano circa il 7 per cento in più rispetto a prodotti analoghi dedicati ai maschi. In particolare le donne pagano:

• 7 per cento in più per i giocattoli e gli accessori

• 4 per cento in più per i vestiti dei bambini

• 8 per cento in più per l’abbigliamento per adulti

• 13 per cento in più per i prodotti per la cura personale

• 8 per cento in più sui prodotti per la casa di assistenza sanitaria

Da tutti i casi analizzati è emerso inoltre che le donne pagano un prodotto più degli uomini in circa il 42% dei casi, agli uomini capita invece di spendere di più solo nel 18% dei casi. Questo vuol dire che nel corso della vita di una donna, l’impatto finanziario di queste disparità di prezzo di genere è significativo.  E lo è ancora di più se si considerano le disparità di salario per cui una donna in media guadagna solo 0.77 centesimi per ogni dollaro guadagnato da un collega uomo. Già nel lontano 1994, lo Stato della California aveva calcolato che le consumatrici grazie al sovrapprezzo pagavano una sorta di “tassa di genere” che consisteva in una spesa annuale di circa 1.351 dollari in più rispetto al normale.  E proprio per questo nel 1996 per legge è stata abolita ogni differenza di prezzo sulla base del genere.
A testare invece il sessismo del mercato italiano ci ha pensato invece la rivista il Salvagente. In uno studio condotto nel novembre 2014 infatti si spiega che la “tassa rosa” costerebbe alle donne del Belpaese circa 1000€ in più l’anno. L’aumento anche qui, come negli Stati Uniti, si ripercuote fin dall’infanzia visto che le differenze di prezzo vengono rilevata già dai primi anni di vita sui prodotti di abbigliamento intimo così come su quelli per scuola. «Su un profumo  – spiegano i giornalisti del Salvagentela differenza sfiora anche i 20 euro, mentre le mutandine da bambina possono costare quasi il doppio di quelle da bambino, sul bagnoschiuma non cambia il prezzo ma la versione “for man” contiene 50 ml di prodotto in più».  Insomma essere uomini conviene. Eppure, come spiega Anna Usleghi, docente di marketing alla Bocconi: «Potrebbe esserci un effetto boomerang» perché, se è vero che «il differenziale di prezzo di un prodotto legato al genere esiste. In molti casi non si può constatare una differenza produttiva tale da giustificare un prezzo maggiore. Ci sono invece alcuni servizi, penso all’acconciatura ad esempio, dove è invece legittimo attendersi dei listini ‘separati’. Detto ciò le consumatrici hanno sempre una via d’uscita per non pagare la tassa rosa: scegliere un prodotto diverso, magari di un’azienda che non differenzia in base al sesso». Visti i dati non ci sembra quindi così strano e ridicolo chiedere che il Parlamento si occupi di una questione che ha a che fare con l’equità e la parità di diritti. Ma a quanto pare, su questo fronte, al momento in Italia non ci resta che sognare la California.

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link] @GioGolightly

Lo scoop de L’Espresso su Crocetta e Borsellino? Mai esistito

Ci avevano fatto un’apertura in grande stile. C’era anche il video in appoggio di Lirio Abbate che chiedeva di gran carriera a Rosario Crocetta di dimettersi. C’era anche il piccolo “giallo” delle firme sotto l’articolo che cambiavano per uno strano mimetismo. Eppure che Rosario Crocetta avesse ascoltato l’amico (e medico) Matteo Tutino pronunciare la frase «la Borsellino va fatta fuori come suo padre» riferendosi alla Borsellino Lucia, figlia di Paolo e assessore nella giunta regionale siciliana ne erano sicuri tutti. O quasi.

Quando la Procura di Palermo confezionò tanto di comunicato stampa per dire che quella frase non risultava dai controlli fatti sulle intercettazioni gli amici de L’Espresso fecero gli offesi. Ma come. Ma certo. Ma se non ci credete ci offendete. Intanto le “grandi firme” cominciavano ad eclissarsi: Piero Messina e Maurizio Zoppi furono i giornalisti rimasti con il cerino in mano. E tutti a pensare “ora quelli de L’Espresso tirano fuori l’intercettazione e la chiudiamo qui” e invece niente. Ma l’intercettazione non ce l’abbiamo fisicamente ma l’abbiamo ascoltata. Ah. Quindi sarà da qualche parte. Forse.

Intanto il Governatore Crocetta, sempre scenograficamente iperbolico nel suo agire, raccontava di avere pensato al suicidio e anche autorevoli associazioni antimafia gridarono allo scandalo. Invece. Invece non è vero niente. Dice la Procura di Palermo, che ha appena chiuso le indagini, che quella frase non è mai esistita. E i giornalisti si beccano un processo per calunnia e pubblicazione di notizie false.

È malafede? No. L’Espresso è un settimanale che ha allevato le firme che hanno insegnato l’inchiesta in questo Paese ma oltre alla consueta cautela forse sarebbe il caso di imparare (tutta la categoria) ogni tanto a dire “scusate” o “ci siamo sbagliati”. Almeno per sanare quest’aria di sicumera che gocciola dal Governo fino a quaggiù. È un gesto rotondo e profumatissimo chiedere scusa perché garantisce l’onestà intellettuale di chi se ne prende il peso. Qualcuno che chiede scusa è sicuramente qualcuno con più esperienza rispetto ad un minuto prima. È una presa di coscienza e anche un atto di coraggio. Alleniamoci tutti. Ci farà bene.

(A proposito: forse sulla squadra a 5 femminile di Locri la ‘ndrangheta non c’entra proprio niente. Lo dicono le prime indagini. E quindi su quello forse avrò sbagliato anch’io.)