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Il colore degli Academy Awards (e della disuguaglianza). Anche Clooney contro #OscarSoWhite

Anche George Clooney si scaglia contro l’Academy “dei bianchi” per l’esclusione dalle nomination di attori e registi neri e più in generale delle minoranze. A rappresentare i Latini per esempio c’è solo il solito Alejandro González Iñárritu. Contro gli #OscarSoWhite (questo l’hashtag di protesta lanciato dal raggiata Spike Lee) anche la giovane attrice Lupita Nyong’o, protagonista di Star Wars, e vincitrice dell’Academy nel 2014 come attrice non protagonista per 12 anni schiavo. Al magazine Variety Clooney, vincitore di cinque Golden Globe e due Oscar, ha dichiarato: «Dieci anni fa si faceva un lavoro migliore. Pensate solo a quanti afro-americani venivano nominati. Credo che la questione da porre adesso sia: quante possibilità esistono oggi per le minoranze di lavorare in film di qualità?». La risposta sembra essere: molto poche.
A infiammare la polemica anche i dati, risalenti al 2012, di una ricerca fatta dal Los Angeles Times che ha rivelato che lo squilibrio fra bianchi e neri è presente fra gli stessi membri dell’Academy che votano le nominations. Ecco l’infografica.

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(innografia realizzata da Giorgia Furlan)

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link] @GioGolightly

La vita nelle miniere di diamanti del Brasile (e i bambini minatori della Repubblica Democratica del Congo)

In this Nov. 19, 2015 photo, an artisanal miner shows the diamonds he and his group found in an abandoned mine in Areinha, Minas Gerais state, Brazil. The area has been explored for the precious stone since the time of slavery, and up to a couple of years ago, multinational mining companies extracted the stone without care for the land or the Jequitinhonha river that crosses the region. (AP Photo/Felipe Dana)

Le foto che vedete qui sotto riguardano una miniera di diamanti del Brasile. Condizioni di lavoro spaventose come quelle in molte altre miniere a cielo aperto del pianeta. Ci sono luoghi in cui il commercio di diamanti ha, come noto, generato guerre. In teoria oggi i commercianti internazionali hanno firmato un protocollo e aderito al cosiddetto Kimberley process, un processo di certificazione che indica la provenienza delle pietre da zone non di guerra, ma secondo un rapporto Onu del 2014, l’anno precedente sono state contrabbandate pietre per 140mila carati dalla Repubblica Centrafricana. Da zone di guerra in Africa viene una parte consistente di quel 65% del totale di diamanti che proviene dal continente.

A proposito di vita nelle miniere, in questi giorni Amnesty International e Afrewatch hanno denunciato le condizioni di lavoro nelle miniere di cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo. Il rapporto ricostruisce il percorso del cobalto estratto nella Repubblica Democratica del Congo: attraverso la Congo Dongfang Mining (Cdm), interamente controllata dal gigante minerario cinese Zheijang Huayou Cobalt Ltd (Huayou Cobalt), il cobalto lavorato viene venduto a tre aziende che producono batterie per smart phone e automobili: Ningbo Shanshan e Tianjin Bamo in Cina e L&F Materials in Corea del Sud. Queste ultime riforniscono le aziende che vendono prodotti elettronici e automobili.

Ai fini della stesura del rapporto, Amnesty International ha contattato 16 multinazionali che risultano clienti delle tre aziende che producono batterie utilizzando il cobalto proveniente dalla Huayou Cobalt o da altri fornitori della Repubblica Democratica del Congo: Ahong, Apple, BYD, Daimler, Dell, HP, Huawei, Inventec, Lenovo, LG, Microsoft, Samsung, Sony, Vodafone, Volkswagen e ZTE.

Una ha ammesso la relazione, quattro hanno risposto che non lo sapevano, cinque hanno negato di usare cobalto della Huayou Cobalt, due hanno respinto l’evidenza di rifornirsi di cobalto della Repubblica Democratica del Congo e sei hanno promesso indagini. Mentre le aziende produttrici di apparecchi elettronici o batterie automobilistiche fanno lucrosissimi profitti, calcolabili in 125 miliardi di dollari l’anno, e non riescono a dire da dove si procurano le materie prime, nella Repubblica Democratica del Congo i bambini minatori – senza protezioni fondamentali come guanti e mascherine – perdono la vita: almeno 80, solo nel sud del paese, tra settembre 2014 e dicembre 2015 e chissà quanto questo numero è inferiore a quello reale.

Secondo l’Unicef, nel 2014 circa 40.000 bambini lavoravano nelle miniere delle regioni meridionali della Repubblica Democratica del Congo. Prevalentemente, nelle miniere di cobalto.

Come Paul, 14 anni, orfano. È uno degli 87 minatori o ex minatori incontrati da Amnesty International in vista del rapporto. Ha iniziato a lavorare nella miniera a 12 anni. Ha già i polmoni a pezzi:
«Passo praticamente 24 ore nei tunnel. Arrivo presto la mattina e vado via la mattina dopo. Riposo dentro i tunnel. La mia madre adottiva voleva mandarmi a scuola, mio padre adottivo invece ha deciso di mandarmi nelle miniere».

Il cobalto è al centro di un mercato globale privo di qualsiasi regolamentazione. Non è neanche inserito nella lista dei “minerali dei conflitti” che comprende invece oro, coltan, stagno e tungsteno.

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Il 2015 ha distrutto il record dell’anno più caldo di sempre, parola di NASA

L’anno scorso ha distrutto ogni record per quanto riguarda il caldo: il 2015 è stato il più caldo da quando, nel 1880, si è cominciato a misurare la temperatura. Così hanno annunciato oggi le due agenzie scientifiche americane, NASA e NOAA National Oceanic and Atmospheric Administration. Nella foto qui sopra in blu le aree del pianeta nelle quali la temperatura misurata è stata più bassa che nell’anno precedente. Non noterete molti blu.

«Il 2015 è stato di gran lunga l’anno record in tutti i set di dati di relativi alla temperatura che si basano sui dati strumentali e di superficie,» ha dichiarato Gavin Schmidt, direttore dell’Istituto Goddard per gli studi spaziali della NASA, che ha dato l’annuncio. Questo dato, ha aggiunto, «Sottolinea una volta di più il fatto che il pianeta è in una fase di riscaldamento».

L’anno è stato 0.13 gradi centigradi più caldo del 2014, l’anno record precedente, secondo la NASA. Per la NOAA l’aumento è intorno ai 0,16 °. Sembrano incrementi minimi, ma gli scienziati ci dicono invece che un aumento simile significa aver «distrutto» il record dell’anno precedente: «Normalmente quando registriamo un record come questo parliamo di aumenti medi infinitesimali». Il 2014, infatti, deteneva a sua volta il primato, ma l’annuncio dell’anno scorso era stato più cauto: l’incremento era minimo e, quindi, bastava non aver registrato bene la temperatura di uno o due giorni e il primato decadeva. Qui, sembra di capire dalle parole degli scienziati, siamo a un salto di qualità. Anche se in alcune zone della Groenlandia e del Nord Atlantico ha fatto freddo in maniera anomala. Il fatto che questo sia un anno in cui si manifesta El Nino, che di solito fa aumentare le temperature nell’anno successivo, fa prevedere un anno peggiore l’anno prossimo.

Carrai, l’amico di Renzi 007 a consulenza

Non berrà il Martini né potrà vantare sigle numeriche, 007 o simili. Maria Elena Boschi però non ha escluso, intervenendo alla Camera, che Marco Carrai possa ricevere presto una consulenza da palazzo Chigi sul tema della sicurezza digitale, dei servizi segreti.

L’indiscrezione della stampa è così confermata. O comunque non smentita. E legittimi sono quindi i dubbi espressi non solo dalle opposizioni (dai 5 stelle a Forza Italia) ma anche dalla minoranza dem. «Non posso immaginare che venga affidato un incarico così delicato al miglior amico del premier» ha detto ad esempio Roberto Speranza. E per Miguel Gotor – che invece immagina benissimo – la nomina sarebbe «un segno di debolezza, che dimostra come Renzi non si fidi di nessuno».

Sventolando soprattutto il tema del conflitto di interessi (Carrai tra le varie aziende è anche socio di una che si occupa di sistemi di sicurezza, software e gestione dati) i 5 stelle hanno allertato il Copasir (e per questo Boschi precisa che il comitato sarà informato su come il governo spenderà le risorse aggiuntive stanziate dalla manovra), mentre Sinistra Italiana ha presentato l’interrogazione che ha portato Boschi in aula. Che non ha smentito un possibile arrivo di Carrai a palazzo Chigi, pur rassicurando il senatore Marco Minniti «è stato, è e sarà» il referente del Governo per la sicurezza.

La doppia faccia di Erdogan. L’analisi di Charles King , autore di Mezzanotte a Istanbul

Greci, armeni e altri gruppi di popolazione non musulmana, insieme, costituivano il 56 per cento dell’intera popolazione in Turchia prima della prima guerra mondiale. Massacri e deportazioni li ridussero al 35 per cento alla fine degli anni Venti. Lo scrittore e docente di relazioni internazionali Charles King ricostruisce questo drammatico passaggio storico da un punto di vista speciale: dalle sale di uno storico albergo di Istanbul, il Pera Palace. Dove la leggenda vuole che Agatha Christie abbia scritto Assassinio sull’Orient Express.

Punto di approdo di viaggiatori e scrittori in transito fra Oriente e Occidente, il Pera Palace fu comprato nel 1919 da un industriale del rum, di origini greche, e poi espropriato dallo Stato nel 1923. King lo racconta in Mezzanotte a Istanbul. Dal crollo dell’impero alla nascita della Turchia moderna (Einaudi) un libro che ripercorre importanti pagine di storia del Novecento e che, al tempo stesso, permette di capire molto della Istanbul di oggi.

Professor King ci sono dei nessi fra la storia di Istanbul agli inizi del Novecento e quanto sta accadendo oggi?

Ci sono molte assonanze e similitudini fra i primi anni della Repubblica turca e oggi. L’attuale governo turco, per quanto sia guidato da un partito politico musulmano è erede di una lunga tradizione nazionalista. Quasi tutti i governi turchi, a prescindere dal loro orientamento, hanno sempre visto con preoccupazione il dissenso interno e la prospettiva che un’identità alternativa- armena, greca, curda, alevita – possa sfidare lo Stato. Gran parte del linguaggio politico turco che sentiamo oggi ha radici negli anni Venti. Si accusano le minoranze di avere appoggi esterni e di essere eterodirette. Si stigmatizzano gli intellettuali definendoli in balia di subdole minoranze. Si paventano oscuri complotti politici all’interno di istituzioni dello Stato dicendo che vanno subito sradicati. È una delle costanti nella politica turca nel corso dell’ultimo secolo.

MezzaDalle pagine di Mezzanotte a Istanbul traspare anche una lunga storia di coesistenza fra differenti culture a Istanbul. Ma ora il multiculturalismo viene attaccato dai fondamentalisti e anche dal governo di Erdogan?

Il governo Erdogan presenta una doppia faccia. Dobbiamo ammettere che ha fatto più di qualsiasi altro governo turco dal 1923 a oggi per far rivivere le radici multiculturali della città. E oggi possiamo parlare di molte questioni, dal genocidio armeno alla storia dei greci di Istanbul. Sarebbe stato proibito nel 1990 o prima. Il divieto valeva anche per la questione curda fino a tempi relativamente recenti. Poi, dopo il boom economico, vedendo minacciata la propria sicurezza, il governo Erdogan si è chiuso. E ha cominciato ad additare i curdi come traditori minacciando gli intellettuali turchi che ne sostengono i diritti. Questo governo finisce per cadere negli stessi errori di quelli precedenti (che erano anche più laici), ricalcandone il comportamento. Di fatto Erdogan ha usato una relativa apertura riguardo alla storia e alla cultura come un modo per cementare il proprio autoritarismo.

Che cosa legge dietro l’attacco kamikaze che ha ucciso dieci persone a Sultanahmet?

Purtroppo l’attacco Sultanahmet non era il primo attentato suicida in Turchia, o a Istanbul. Quello del 12 gennaio però, ha colpito il cuore della città e il turismo. La tragica morte di visitatori tedeschi e di altre nazionalità temo getterà un terribile ombra sopra la città negli anni a venire.

Molti accademici sono stati sospesi dall’università per aver espresso le proprie opinioni sull’intervento del governo in Anatolia. Intanto il direttore di Cuhmuriyet Can Dundar e il caporedattore Erdem Gul sono ancora in prigione per aver pubblicato un’inchiesta su un traffico di camion fra Turchia e Siria. Cosa sta accadendo in Turchia riguardo alla libertà di espressione?

Le linee di tendenza generale in Turchia purtroppo vanno tutte nella direzione sbagliata. Erdogan ha sistematicamente attaccato i giornalisti, e ora sembra non avere remore a calpestare principi condivisi dalla classe intellettuale turca. Per giunta sembra ricevere un notevole sostegno politico nel compiere simili azioni. Il che la dice lunga sulla drammatica direzione che la Turchia sta prendendo. L’atmosfera nel Paese oggi è assai più cupa e pessimista rispetto al passato come ho potuto verificare nel corso di molti, molti anni.

La retata di docenti universitari è avvenuta perché hanno firmato un appello che critica il governo e le operazione anti terroristiche nel sud est dell’Anatolia, come giudica le reazioni dell’opinione pubblica internazionale? Si aspettava una presa di posizione più forte?

Io penso che gli amici della Turchia dovrebbero essere molto chiari: quello che vediamo non è il comportamento di un alleato della Nato. Ma ecco la questione difficile: ci sono i governi in Europa, a cominciare dalla Polonia e dall’Ungheria, che si comportano in modi analoghi alla Turchia riguardo alla libertà di parola e alla responsabilità di governo. Vedo dunque la situazione come parte di un problema più generale di indebolimento della democrazia in tutta Europa, non come qualcosa che è unicamente turco.

@simonamaggiorel

Chi è

Charles King
Charles King

Autore di molti libri sull’Europa orientale Charles King insegna International Affairs alla Georgetown University, a Washington. In Italia sono usciti la sua Storia del mar Nero ( Donzelli,2005) Odessa. Splendore e tragedia di una città da sogno (Einaudi, 2013) e Il miraggio della libertà. Storia del Caucaso (Einaudi, 2014)

Perché il sostegno di Sarah Palin in Iowa è importante per Trump

Former Alaska Gov. Sarah Palin, left, endorses Republican presidential candidate Donald Trump during a rally at the Iowa State University, Tuesday, Jan. 19, 2016, in Ames, Iowa. (AP Photo/Mary Altaffer)

«È uno che viene dal settore privato, e nel settore privato i bilanci bisogna tenerli in ordine. capace…È uno capace di comandare e licenziare (che però si dice “fire”, che significa anche sparare). È un comandante in capo! Siete pronti per il comandante in capo che andrà a prendere a calci in culo l’ISIS? Uno che chiuderà i confini per proteggere i nostri posti di lavoro?». In sintesi l’intervento di Sarah Palin al comizio di Donald Trump in Iowa è questo. Ed è molto, per il miliardario newyorchese: l’endorsement dell’ex governatrice dell’Alaska, campionessa conservatrice dei joe six pack e delle hockey mums – il lavoratore che compra il pacco da sei lattine di birra al sabato e della mamma che accompagna i figli a fare sport – può essere importante.

Palin ha tre caratteristiche che possono dare una mano a Trump a fare un ottimo risultato in Iowa. Primo, è un personaggio simile a lui,  un outsider: per quanto sia una politica (lo sia stata) è riuscita a mantenere un’aura di distanza da Washington e da quello che una parte crescente degli americani considera essere un luogo corrotto e marcio – il successo dell’outsider Bernie Sanders in campo democratico ci dice che è una sensazione diffusa.

Secondo, è una celebrity come lui, ma è donna e molto conservatrice, caratteristica che difetta a Trump, che sui temi etico-religiosi è debole: non a caso in Iowa dove l’elettorato del partito repubblicano è anche molto evangelico, è in vantaggio il senatore del Texas, Ted Cruz, che probabilmente vincerà lo Stato grazie all’organizzazione dei religiosi. Trump però può guadagnare, motivare il suo pubblico, fatto di persone poco avvezze alla politica e alla partecipazione alle primarie – la grande incognita è proprio: quanti di quelli a cui piace il miliardario andranno davvero ai seggi delle primarie?

Terzo, è la figura più popolare e importante del partito repubblicano ad aver scelto di appoggiare Donald: è un segnale, per quanto marginale, di una potenziale coalizione dentro il partito, decisa a farla finita con il business as usual. Palin è stata marginalizzata dalla cupola del partito, si è messa in imbarazzo mille volte, ma è rimasta nei cuori dei militanti del Tea Party, che già vedevano in Trump un potenziale campione. Il sostegno di Palin, in Iowa, dove contano le centinaia di voti raccolti e dove Sarah ha una rete fitta di contatti, è potenzialmente un grande aiuto. Non è detto che lo sia nazionalmente, ma l’Iowa pesa: è il primo Stato dove si vota e nel secondo, il New Hampshire, Trump è in netto vantaggio.

Ma che fina ha fatto Sarah Palin da quando fu scelta dall’establishment repubblicano per fare da vice a John McCain nella corsa per la Casa Bianca nel 2008? Per almeno due anni è rimasta la campionessa unica di un partito repubblicano distrutto da una schiacciante vittoria Obama. Lei, assieme a pochi altri, è quella che ha rappresentato la faccia della rivolta della parte marginalizzata del partito perché imbarazzante e impresentabile, ma al contempo corteggiata e fondamentale a vincere le elezioni. Palin è una delle facce del Tea Party anti Stato, anti tasse, anti Washington, che a giudicare dalla forza di Trump nei sondaggi, è oggi la base sociale del partito repubblicano: lavoratori bianchi e pensionati che votano contro i loro interessi.

Fino al 2012 ha seriamente pensato di correre per la Casa Bianca, ma una serie di scandali riemersi dai tempi di quando era governatore (spese eccessive, abuso di potere) e le uscite fuori luogo su una serie di temi e un po’ di gogna mediatica l’hanno fatta desistere. Negli anni ha condotto una serial Tv in cui si aggirava con la famiglia per le nevi dell’Alaska cacciando, nel quale mostrava quanto fosse tosta, ha scritto libri e fatto la ospite negli show Radio e Tv conservatori, firmato un contratto da un milione di dollari con l’all news conservatore FoxNews, venduto milioni di libri (Going Rogue, la sua autobiografia ha venduto tre milioni). E coltivato una rete. Le uscite sballate, come quella in cui per difendersi dalle accuse di non capire di politica estera disse: «Ma come? Io vedo la Russia dalla finestra di casa», non le sono costate. Oggi è una celebrity del mondo conservatore che sa parlare al popolo bianco e un po’ marginale d’America. Quello che sente che il Paese è in mano a una banda di gay, neri, messicani e studenti sinistrorsi di New York e San Francisco intenzionati a distruggere i valori fondanti dell’America: la religione, il fucile e il libero mercato senza Stato. Che quelli siano davvero i valori fondanti o meno è un altro paio di maniche: la crisi economica e dieci anni di propaganda repubblicana e conservatrice hanno creato un senso comune nella destra che fa immaginare un passato che non esiste.

Lo stesso passato a cui si riferisce Trump nel suo slogan: «Make America great again», torna a far grande l’America. Per questo lui e Palin vanno tanto bene assieme. E per il fatto che non hanno il problema della coerenza e della plausibilità delle loro dichiarazioni. Come ha dimostrato l’ascesa di Trump, c’è un pezzo di società americana (ma succede anche in Europa) che se ne infischia del buon senso. Vuole sentir dire certe cose, per quanto improbabili. Trump e Palin sono lì a dirle per loro.

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Ma che ce frega de li gay

Osservate: quando si tratta di punire, l’Italia diventa un paese solido, unito, affamato come un branco di lupi dopo settimane di dieta forzata. La sindrome dell’untore lenisce gli affanni quotidiani e gratifica quell’angolo dello stomaco alla ricerca di qualcuno che sia sempre più colpevole di noi.

I dipendenti pubblici? Fannulloni! I politici? Casta! I calciatori? Strapagati! I giornalisti? Servi! Juventini? Ladri! Tedeschi? Tedeschi! L’Europa? Austeri! Il Sindaco? Città sporca! I clandestini? Clandestini! I rifugiati? Clandestini! I bambini scappati dalle guerre? Clandestini!

E così via in una sequela che si ripete tutti i giorni molto simile a se stessa come se la specie umana (italiota in particolare) abbia coniato nel corso degli anni e dei pregiudizi un mantra al contrario per raggiungere il punto più basso della competenza, della consapevolezza e della socialità. Una pratica che ha reso molti di noi politeisti, divisi tra il proprio dio di ogni di noi e un nuovo dio, quello della lagna, che torna utile per cominciare la giornata. “Trovati un nemico e la tua giornata avrà un senso” è il comandamento mattutino dei nuovi feroci che abitano le nostre giornate. Feroci codardi, ovviamente: l’importante è che il nostro nemico sia lontano da noi, che non condizioni il nostro quotidiano e che non svolga una funzione o un mestiere di qualcuno in famiglia.

Così, tutti iscritti alla palestra del lamento, ci lanciamo nel quotidiano con la parvenza di chi è pronto a iscriversi ad ogni battaglia. E invece no. Sulla questione delle unioni civili e dei diritti degli altri si registra un certo balbettio, come una timidezza così stonata in tutto questo fracasso. Nè a favore e né contrari. Quando si parla della legge Cirinnà al massimo si riesce a sciorinare i safari sessuali di questo o quel politico ma sul tema, concretamente, nulla. I diritti civili delle persone che si amano tra loro indipendentemente dal loro sesso non interessano. Ma che ce frega. Che è il modo migliore per lasciare il campo ai clericali, gli ipocriti, gli ignoranti e i tromboni. Come siamo noi spesso su qualsiasi argomento. Tranne che questo.

Ettore Scola, il cinema è divertimento? Solo se hai qualcosa da dire

Ettore Scola, Marcello Mastroianni e Massimo Troisi

Se ne è andato Ettore Scola grande maestro della commedia all’italiana, che con film come C’eravamo tanto amati (1974) e altri titoli nati dalla collaborazione con Ruggero Maccari, Age e Scarpelli, ha avuto la capacità di affrescare con precisione gli ambienti storici e sociali. Anche grazie alla sua capacità di entrare in rapporto vero con gli attori, il cinema di Scola è riuscito a uscire dal cinema di genere, per diventare cinema di rango europeo, andando ben oltre i limiti della commedia. Basta pensare a film come Ballando ballando (1983) con cui si aggiudicò una César per la regia, uno speciale Orso d’argento al Festival di Berlino, oltre a una nomination all’Oscar come miglior film straniero. Nella sua lunga carriera di premi Scola ne ha accumulati molti, al Festival di Cannes nel 1976 per la migliore regia di Brutti, sporchi e cattivi e poi nel 1977 con  C’eravamo tanto amati  nell’80 con Gasmann e Manfredi con La terrazza  e una Una giornata particolare.

Ettore Scola si era fatto le ossa come regista lavorando al fianco di Antonio Pietrangeli per il film Nata di marzo (1958) e  il drammatico Adua e le compagne (1960).  La sua prima regia fu Se permettete parliamo di donne (1964), affinando la propria arte del ritratto femminile in film come Io la conoscevo bene (1965). Accanto al cinema più comico con Alberto Sordi, Scola non ha mai trascurato l’impegno, anche con film militanti come  Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam (1973) e poi partecipando  al film collettivo L’addio a Enrico Berlinguer (1984) e ancora nel 2001 con un altro importante film collettivo, Un altro mondo è possibile, sui fatti avvenuti durante il G8 di Genova.
Dicevamo della sua capacità di dirigeri attori che poi sono diventati un simbolo di una certa Italia e una certa epoca. È questo il caso di Marcello Mastroianni, con il quale nel 1970 Scola diresse  Dramma della gelosia che giocava su un registro comico grottesco.

Una chiave di buffo iperealismo caratterizzava anche Brutti, sporchi e cattivi, spaccato di vita di un gruppo di immigrati meridionali in una borgata romana interpretato da Nino Manfredi. Nel film Permette? Rocco Papaleo (1971), tratteggiava un graffiante ritratto della ricca società americana, mentre in Una giornata particolare, grazie a due icone come Mastroianni e la Loren raccontava la storia di un’amicizia  tra una casalinga e un omosessuale antifascista ambientata nel giorno della visita di A. Hitler a Roma nel 1938. Un film che quest’anno conoscerà una trasposizione teatrale a fine stagione grazie a Giulio Scarpati. E ancora, il nome di Scola  si lega a quello di Jack Lemmon nel film Maccheroni (1985) e a quello di Massimo Troisi con il quale girò Che ora è? (1989) e Splendor (1989) . Pellicole nelle quali il Maestro costruisce una dimensione intima e psicologica.

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Un tratto sensibile di Scola che emerge in opere come C’eravamo tanto amati e La famiglia , film capaci di raccontare con leggerezza profonde trasformazioni sociali, mettendo a fuoco le illusioni del secondo dopoguerra e l’inferno della famiglia borghese. Temi che riemergono come indagine degli incontri-scontri di più generazioni, anche in anni più recenti con film come  La cena (1998). Non sensa una vena di humour nero, che diventa caustica critica sociale in  Concorrenza sleale (2001), pellicola che resituisce il clima cinico e a tratti disperato dell’Italia contemporanea in una oscura storia di crimini familiari. Di Scola è anche il ritratto di un altro grande del Cinema, Fellini, raccontato nel 2013 in Che strano chiamarsi Federico.

«Il cinema è divertimento? Si può anche scherzare e ridere – diceva Ettore Scola – ma bisogna avere qualcosa da dire. Il cinema è un po’ come un faretto che può illuminare ceri argomenti, anche scomodi».

Le foto di Ettore Scola e Federico Fellini

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Al cinema arriva “Il figlio di Saul” e ci porta dentro la fabbrica dell’orrore

il figlio di saul olocausto

Si può rappresentare l’orrore al cinema? Il regista ungherese László Nemes con il film Saul fia (Il figlio di Saul) ci è riuscito. L’orrore è la perdita dell’umanità, che muta gli uomini in “macchine”, costretti per giorni e giorni a sollevare cadaveri, ormai diventati “pezzi”, e a farli ingoiare dai forni crematori per poi disperderne le ceneri nell’acqua, affinché non rimanga più una traccia. La cinepresa, fissa sugli occhi vitrei e sul volto immobile di Saul Ausländer che si muove in spazi claustrofobici tra le voci di tante lingue europee, non dà tregua. Saul (Géza Röhrig) fa parte del Sonderkommando, l’unità speciale di ebrei obbligati dai nazisti a compiere lo sterminio di altri ebrei. «Che sensazioni si provano a stare così? Un uomo non può rimanere umano dopo aver cremato centinaia e migliaia di cadaveri in solo poche settimane», si chiedeva ad aprile scorso su Cinematrix László Nemes. Il suo film, nelle sale italiane dal 21 gennaio, già vincitore del gran premio della Giuria a Cannes, il 10 gennaio si è aggiudicato il Golden Globe come miglior film straniero e adesso corre per l’Oscar. Riconoscimenti meritati perché l’opera prima del 38enne regista ungherese irrompe con forza e originalità nella riflessione sull’Olocausto. Non con il distacco asettico della Storia o del documentario fotografico, e nemmeno con «l’impatto sentimentale» come ha ripetuto lo stesso regista dopo aver vinto il Golden Globe. No, dice Nemes, quello del film è «un approccio intellettuale di ricerca». Non un’operazione astratta ma compiuta «a un livello umano», per capire come mai «a un uomo viene tolta l’umanità». Se non si capisce questo, aveva precisato su Cinematrix, «ricadremo sempre nella distruzione e nella guerra». Nemes racconta una manciata di ore vissute come in trance da Saul che tenta di dare sepoltura al corpo di un adolescente che “crede” essere suo figlio, mentre intorno i suoi compagni si affannano in un coraggioso e vano gesto di ribellione. Saul vive in un mondo suo, non riconosce nemmeno la moglie, che lavora nel reparto degli oggetti e dei vestiti dei deportati.
Il figlio di Saul ha scatenato un dibattito vivace: il filosofo francese Didi-Huberman l’ha definito «Un mostro. Un necessario, coerente, benefico e innocente mostro» ed è stato accolto benissimo dal novantenne Claude Lanzmann – autore del documentario Shoah nel 1985 – il quale, aveva dichiarato a proposito del celebre Schindler’s list, che l’Olocausto era irrappresentabile al cinema. Venduto in 60 Paesi, il film in Ungheria ha ottenuto un successo inimmaginabile. «La reazione delle persone è stata straordinaria. Per essere un film d’arte sta raggiungendo i 100mila spettatori, là dove i film di cassetta arrivano a 150-200mila biglietti. Tutti i giornali, di destra e di sinistra, ne hanno parlato bene», racconta al telefono da Budapest Gabor Sipos, uno dei due soci di Laokoon filmgroup che l’ha prodotto. Alla prima a Budapest era presente anche il premio Nobel Imre Kertész, ex deportato ad Auschwitz, «che si è stupito molto», continua Gabor.

Lui, il suo socio Gabor Rajna, ma anche Nemes e il protagonista, il poeta Géza Röhrig, sono tutti quarantenni che vivono in Ungheria o che comunque vi sono nati ed è come se si fossero incontrati su un interesse comune profondo. «Non c’è niente di personale, è una cosa obiettiva. Dell’Olocausto ne abbiamo sentito parlare sempre, i nonni lo hanno raccontato ai figli, i figli ai nipoti. Noi ormai siamo la terza generazione. Abbiamo visto tutti i film sull’argomento. E tutti parlano di eroi sopravvissuti, di amori spezzati dalla guerra, del pianista super famoso, della bambina, della moglie ecc.». Quando László Nemes, al suo primo lungometraggio, si è presentato a Budapest con la sceneggiatura del film scritta insieme alla scrittrice Clara Royer, dopo aver trovato molte porte chiuse in Francia – dove si era trasferito all’età di 12 anni – la reazione è stata immediata. «Quando ho letto la sceneggiatura, mi sono chiesto: ma è un sogno? Io il film lo vedevo, lo capivo. Funzionava già dal primo momento, non so come. Per la drammaturgia, per il pensiero che c’era dietro», dice Sipos ricordando quel primo incontro nel 2012. Due anni per arrivare alle riprese, nel 2014, dopo aver superato «con una bella magia», le difficoltà sui finanziamenti, ottenuti grazie ad un fondo ungherese per il cinema oltre al contributo dell’associazione americana Claims Conference. Ma l’intuizione era giusta. «Finalmente, mi sono detto. Finalmente si parla di quelli che non sono sopravvissuti, di che cosa hanno fatto per trovare il modo di scappare anche se fisicamente non potevano farlo». L’Ungheria deve fare i conti con un passato pesante: 800mila ebrei, di cui 100mila bambini, deportati dai fascisti ungheresi nei campi di concentramento e mai tornati. «Il braccio destro di Mengele era un medico ungherese (Miklòs Nyszli, ndr). Dopo la guerra scrisse un suo diario che è conosciuto nel mondo intellettuale. Ma del Sonderkommando non si sapeva nulla e in Ungheria è come un tabù», continua il produttore che sottolinea come il film, da Budapest a Tokio, colpisca profondamente gli spettatori. «“Era proprio così”, ci hanno detto dei sopravvissuti di Toronto». Gabor Sipos usa la parola “vertigo” per esprimere la sensazione che provoca la visione del film. Ma quelle “macchine” che si muovono per cancellare persone e corpi, pongono domande, come si chiedeva Nemes. Forse, chissà, potrebbero scaturire nuove riflessioni sulle origini del nazismo. Intanto, un’importante traccia, a livello culturale, la troviamo nella ricerca recente che pone alla base del nazismo il pensiero razzista e antisemita di Heidegger come ha evidenziato in un suo saggio Emmanuel Faye (L’introduzione del nazismo nella filosofia, L’asino d’oro).
Nel campo di concentramento, inoltre, colpisce la determinazione di Saul che, pur oppresso dalla disumanità che lo circonda, cerca di dare sepoltura all’adolescente: quasi un estremo tentativo di salvare la dignità umana dall’annullamento totale. E anche qui riecheggia la ricerca sul pensiero che sta a monte del nazismo. Su Left di un anno fa (n. 2 del 2015), ricordiamo, Gianfranco De Simone aveva scritto, a proposito del concetto heideggeriano di essere: «C’erano uomini, gli ebrei, senza mondo, come le pietre, enti materiali». E quindi tali da essere resi inesistenti come denuncia magistralmente il film Il figlio di Saul.
(ha collaborato Francesca Zappacosta)

Oscar solo per bianchi nell’anno di Black Lives Matter. E Spike Lee non ci sta

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Lo scorso 20 settembre l’attrice afroamericana Viola Davis, vincitrice dell’Emmy Awards per il suo ruolo da protagonista nella serie tv How to get away with a murder, ritirando il premio aveva catturato l’attenzione del mondo con il suo discorso parlando di quanto fosse difficile per le attrici di colore, non solo ricevere un premio per le loro performance, ma anche solo ottenere dei ruoli che andassero al di là dei classici stereotipi razziali.

Ciò che separa le donne di colore da tutte le altre sono le opportunità. Non si può vincere un Emmy per ruoli che semplicemente non esistono. Quindi, questo è per tutti gli sceneggiatori, le persone che hanno riscritto la definizione di essere bella, essere sexy, essere una donna protagonista ed essere nera.

Il discorso e la vittoria della Davis sembravano aprire una strada e mostrare che le cose nel mondo dello show business stavano cambiando.
Un sogno però che è durato poco e che, proprio in occasione di un’altra attesissima cerimonia, quella degli Oscar, ci impone un brusco risveglio. Per il secondo anno consecutivo infatti fra i candidati alla prestigiosa statuetta non compare nessun attore o regista di colore. La protesta è dilagata velocemente su Twitter dove in molti hanno commentato l’accaduto utilizzando l’ #OscarSoWhite lanciato dal regista afroamericano Spike Lee che ha rifiutato l’invito a partecipare a questi Academy «troppo bianchi», durante i quali doveva ritirare un premio alla carriera. Un altro rifiuto è venuto dall’attrice Jada Pinkett, moglie di Will Smith, stupita come molti altri colleghi della mancata nomination del bravissimo Michael B. Jordan protagonista di Creed – Nato per combattere. Sulla querelle che getta l’ombra della discriminazione sugli Oscar è intervenuta con un lungo comunicato la presidente dell’Academy Cheryl Boone Isaacs, anche lei di colore:

Il tweet con la foto del comunicato dell’Academy

Vorrei riconoscere il meraviglioso lavoro dei candidati di quest’anno. Mentre festeggiamo il loro straordinario traguardo, ho il cuore spezzato e sono frustrata dalla mancanza di diversità. Questa è una questione difficile ma importante, ed è ora di grandi cambiamenti. L’Academy sta facendo passi importanti per modificare la composizione dei nostri membri. Nei prossimi giorni e settimane condurremo una revisione del nostro sistema di reclutamento per introdurre la diversità di cui abbiamo tanto bisogno nel gruppo del 2016, e in quelli successivi. Come molti di voi sanno, abbiamo già introdotto delle modifiche di questo tipo negli ultimi quattro anni. Ma il cambiamento non sta arrivando veloce come vorremmo. Dobbiamo fare di più, e farlo meglio e più in fretta. Questa cosa ha dei precedenti nella storia dell’Academy. Negli anni Sessanta e Settanta si trattava di coinvolgere membri più giovani per rimanere vivaci e rilevanti. Nel 2016, la missione è l’inclusione in tutte le sue sfaccettature: genere, colore della pelle, etnia e orientamento sessuale. Capiamo le preoccupazioni molto reali della nostra comunità, e ringrazio molto tutti quelli di voi che si sono messi in contatto con me nel nostro sforzo di andare avanti insieme.

Nonostante le parole della Isaacs fa riflettere il fatto che tutto questo accada mentre nella società statunitense la segregazione della comunità nera sia un problema sempre più grave e proprio nell’anno in cui è esploso il movimento Black Lives Matter per dare una risposta alle crescenti ingiustizie razziali delle forze dell’ordine nei confronti degli afroamericani.

L’industria cinematografica di Hollywood perde l’enorme occasione di contribuire a costruire immagini positive capaci di scardinare gli stereotipi che spesso contribuiscono alla discriminazione razziale.

La reazione di Spike Lee su Instagram 

#OscarsSoWhite… Again. I Would Like To Thank President Cheryl Boone Isaacs And The Board Of Governors Of The Academy Of Motion Pictures Arts And Sciences For Awarding Me an Honorary Oscar This Past November. I Am Most Appreciative. However My Wife, Mrs. Tonya Lewis Lee And I Will Not Be Attending The Oscar Ceremony This Coming February. We Cannot Support It And Mean No Disrespect To My Friends, Host Chris Rock and Producer Reggie Hudlin, President Isaacs And The Academy. But, How Is It Possible For The 2nd Consecutive Year All 20 Contenders Under The Actor Category Are White? And Let’s Not Even Get Into The Other Branches. 40 White Actors In 2 Years And No Flava At All. We Can’t Act?! WTF!! It’s No Coincidence I’m Writing This As We Celebrate The 30th Anniversary Of Dr. Martin Luther King Jr’s Birthday. Dr. King Said “There Comes A Time When One Must Take A Position That Is Neither Safe, Nor Politic, Nor Popular But He Must Take It Because Conscience Tells Him It’s Right”. For Too Many Years When The Oscars Nominations Are Revealed, My Office Phone Rings Off The Hook With The Media Asking Me My Opinion About The Lack Of African-Americans And This Year Was No Different. For Once, (Maybe) I Would Like The Media To Ask All The White Nominees And Studio Heads How They Feel About Another All White Ballot. If Someone Has Addressed This And I Missed It Then I Stand Mistaken. As I See It, The Academy Awards Is Not Where The “Real” Battle Is. It’s In The Executive Office Of The Hollywood Studios And TV And Cable Networks. This Is Where The Gate Keepers Decide What Gets Made And What Gets Jettisoned To “Turnaround” Or Scrap Heap. This Is What’s Important. The Gate Keepers. Those With “The Green Light” Vote. As The Great Actor Leslie Odom Jr. Sings And Dances In The Game Changing Broadway Musical HAMILTON, “I WANNA BE IN THE ROOM WHERE IT HAPPENS”. People, The Truth Is We Ain’t In Those Rooms And Until Minorities Are, The Oscar Nominees Will Remain Lilly White. (Cont’d) Una foto pubblicata da Spike Lee (@officialspikelee) in data:

Per David Oyelowo l’attore di Selma gli Oscar non sono rappresentativi