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Trivelle, per la Corte Costituzionale il referendum si può fare

La Corte Costituzionale ha detto sì: il referendum sulle trivelle è ammissibile. Nei prossimi mesi gli italiani potranno votare per rispondere al quesito sulla durata delle attività petrolifere – autorizzazioni, esplorazioni e trivellazioni – già autorizzate entro le 12 miglia dalla costa.

Il quesito appena ammesso è l’unico sopravvissuto dei sei proposti da nove Regioni, mobilitate contro le norme “pro-trivelle” del decreto Sblocca Italia e quelle precedentemente approvate dall’Esecutivo guidato da Mario Monti. Con la legge di Stabilità, il governo Renzi aveva tentato di scongiurare il ricorso alle urne, che si accavallerebbe con la campagna elettorale per le elezioni amministrative rischiando di danneggiare i candidati “filo-governativi”.

Le norme approvate in consiglio dei ministri – ha stabilito la Corte di Cassazione – non sono bastate a “rispondere” alle richieste di intervento legislativo contenute nei quesiti e ora i giudici costituzionali dichiarano ammissibile un quesito rimodulandolo.

La Regione Abruzzo, intanto, si era sfilata nei giorni scorsi dall’elenco delle Regioni “No Triv”: i consiglieri di maggioranza, infatti, hanno autorizzato il rappresentante del Consiglio regionale a non agire per conflitto di attribuzione davanti alla Consulta ritenendosi soddisfatti dell’intervento del governo con la legge si Stabilità. Così, il 15 gennaio la Regione si è costituita in giudizio dinanzi alla Corte costituzionale contro le altre 9 Regioni e a sostegno del governo Renzi. Una decisione, che è valsa l’accusa di tradimento al presidente D’Alfonso e alla sua maggioranza.

L’Onu, in Iraq 18mila civili morti in due anni, 3500 schiavi nelle mani dell’Isis

Un rapporto redatto dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani fornisce dettagli sull’impatto che la presenza dell’Isis sta avendo sulla popolazione civile irachena. Secondo l’Onu, che fornisce dati solo sulla base di documenti e testimonianze verificate, tra gennaio e ottobre del 2015 nel Paese dilaniato da più di dieci anni di guerra, i civili morti sono almeno 18.802 e 36.245 i feriti. Le persone costrette ad abbandonare le loro case sono invece 3,2 milioni, tra cui più di un milione di bambini in età scolare. Circa la metà di queste morti è avvenuta a Baghdad, lontano dalle zone di guerra.

Il rapporto, redatto dalla Missione delle Nazioni Unite di assistenza all’Iraq (UNAMI) e l’Ufficio dell’Alto Commissario per i Diritti Umani (OHCHR), si basa in gran parte sulla testimonianza ottenuto direttamente dalle vittime, sopravvissuti o testimoni di violazioni dei diritti umani internazionali o internazionale il diritto umanitario, comprese le interviste con gli sfollati interni.

«La violenza subita dai civili in Iraq rimane sconcertante. Il cosiddetto Stato islamico dell’Iraq e il Levante continua a commettere violenze e violazioni dei diritti umani internazionali e del diritto umanitario sistematica e diffusa. Questi atti possono, in alcuni casi, ammontano a crimini di guerra, crimini contro l’umanità, e possibilmente genocidio», si legge nel rapporto. «Durante il periodo di riferimento, Daesh ha ucciso e rapito decine di civili, spesso in modo mirato. Le vittime includono chi si oppone alle regole dell’ISIS, funzionari del governo di Baghdad, ex personale di polizia ed esercito, medici, avvocati, giornalisti e leader tribali».

Il rapporto descrive numerosi esempi di esecuzioni pubbliche anche mediante fucilazione, decapitazione, rogo di persone vive o per defenestrazione. Le testimonianze raccolte parlano anche dell’assassinio di bambini soldato fuggiti dalla prima linea di combattimento – 8-900 sono i ragazzi rapiti a Mosul. «L’Isis ha continuato a sottoporre donne e bambini alla violenza sessuale, in particolare sotto forma di schiavitù sessuale», afferma il rapporto, che sostiene che almeno 3500 persone, tra donne e bambini, in prevalenza Yazidi siano tenute prigioniere.

Il rapporto ha anche documentato presunte violazioni e abusi anche da parte delle forze di sicurezza irachene e le forze associate, comprese le milizie e le forze tribali, unità di mobilitazione popolare, e Peshmerga. Il governo spesso non consente ai profughi l’accesso ad aree sicure. La condotta delle forze filo-governative «desta preoccupazioni che vengono effettuate senza prendere tutte le precauzioni possibili per proteggere la popolazione civile e obiettivi civili».

Il rapporto sottolinea infine come molti altri sono i morti indiretti del conflitto, persone a cui manca accesso all’acqua, al cibo, alle cure.

 

 

Europa e Stati Uniti contro gli insediamenti in Israele. Un tentativo di rilanciare un processo di pace in panne?

Due reprimende in poche ore e relazioni che, nonostante l’amicizia e l’alleanza politico-militare, restano meno che tiepide. L’Europa e gli Stati Uniti hanno mandato messaggi molto simili a Israele. L’ambasciatore di Washington in Israele ha criticato duramente le politiche di insediamento in Cisgiordania di Israele, una critica che è raro sentire con questi toni da parte di un esponente tanto importante della diplomazia americana.

Parlando alla conferenza annuale dell’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale, Daniel Shapiro ha detto che Washington è «preoccupata e perplessa» per la politica di continua espansione degli insediamenti, politica che fa emergere molti dubbi sulle intenzioni di Israele e il suo impegno dichiarato di consentire la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Shapiro ha usato come esempio il riconoscimento di alcuni avamposti in Cisgiordania, avvenuto nonostante le promesse di Netanyahu agli Stati Uniti di non procedere.

Shapiro ha poi osservato che Israele limita lo sviluppo economico palestinese in Cisgiordania e definito inadeguata la politica repressiva nei confronti delle violenze dei coloni – l’ambasciatore lancia questa accusa nonostante la recente denuncia contro i sospetti in un incendio doloso mortale contro una famiglia palestinese. «A volte sembra che ci siano due livelli di applicazione dello Stato di diritto: uno per gli israeliani e l’altro per i palestinesi». In effetti,  Yesh Din gruppo israeliano per i diritti umani, che ha raccolto dati relativamente a più di mille inchieste aperte, ha riferito come nell’85% dei casi, le indagini sulle violenze dei coloni finiscono con un nulla di fatto. Yesh Din nota parallelamente come gli attacchi dei coloni nei confronti dei villaggi palestinesi siano raddoppiati.

Dal fronte europeo arrivano altre cattive notizie per Netanyahu: nonostante le pressioni e il lavorio diplomatico del governo israeliano su Ungheria, Repubblica Ceca, Cipro, Bulgaria e Grecia, l’Unione europea ha adottato all’unanimità una risoluzione che critica gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati. La risoluzione è stata approvata dal Consiglio degli affari esteri dopo che la Grecia, che Israele sperava ponesse il veto, ha deciso di votare la risoluzione.
La risoluzione sottolinea che gli accordi tra Europa e Israele si applicano entro i confini pre-1967, aggiungendo che «l’Ue deve inequivocabilmente ed esplicitamente indicare la loro applicabilità ai territori occupati da Israele nel 1967. Non si tratta di un boicottaggio di Israele, che l’Unione europea si oppone fermamente». La misura segue l’obbligo di etichettatura dei prodotti provenienti dagli insediamenti e prosegue: «Ricordando che gli insediamenti sono illegali secondo il diritto internazionale, costituiscono un ostacolo alla pace e minacciano di rendere impossibile la soluzione dei due Stati, l’Ue ribadisce la sua ferma opposizione alla politica e le azioni intraprese in questo contesto, come la costruzione della barriera di separazione al di là di insediamento di Israele le 1967 linee, demolizioni e confisca – tra cui i progetti finanziati dall’UE – sgomberi, trasferimenti forzati compresi di beduini, avamposti illegali e le restrizioni di movimento e di accesso. Chiede a Israele di porre fine a tutte le attività di insediamento e a smantellare gli avamposti costruiti dopo il marzo del 2001, in linea con i precedenti obblighi». L’idea di separare la politica nei confronti di Israele da quella degli insediamenti è, tra le altre cose, contenuta in uno studio dell’European Council on Foreign Relations.

Sia Europa che Stati Uniti ribadiscono con questi toni di essere stanchi delle politiche adottate di Netanyahu e alla scarsa propensione del governo di destra a perseguire la strada della diplomazia per rilanciare un processo di pace che mai come ora è in una fase di stallo. Bibi, per conto suo, ha risposto con durezza sia alle parole europee che a quelle dell’ambasciatore a Washington: «Sbagliate e inaccettabili». I rapporti tra Israele, Ue e Usa sono ai minimi termini dopo i tentativi vani di Tel Aviv di bloccare gli accordi sul nucleare iraniano entrati in vigore in questi giorni.

Le nuove pressioni sul governo Netanyahu sembrano essere un tentativo, l’ennesimo, di prendere una qualche iniziativa per rilanciare un processo di pace. La preoccupazione per la catastrofica situazione mediorientale ha fatto passare in secondo piano il conflitto tra israeliani e palestinesi. L’amministrazione Obama ci ha provato varie volte e, vista la fissazione di John Kerry con il conflitto israelo-palestinese e la volontà di lasciare in eredità qualcosa in Medio Oriente, è probabile che faccia un nuovo tentativo. Anche l’Europa ha aumentato il livello di pressione e le violenze a bassa intensità di questi mesi segnalano una tensione nella regione che cresce. Il problema della diplomazia è legato alla mancanza di interlocutori: Netanyahu non lo è e in campo palestinese non ce n’è di forti e credibili.

Cara Boschi, questa volta non vi riuscirà di non parlarne

Il silenzio lo spezza l’ex capogruppo PD alla Camera che dice «ora la Boschi deve spiegare» e ricorda come nel 2010 fu proprio il PD a sfiduciare Caliendo (Forza Italia) per i suoi incontri con Carboni, il faccendiere della P3. E le parole di Speranza sono certamente solo la punta di un malessere interno che non tarderà ad organizzarsi e strutturarsi contro la ministra Boschi. Nelle carte dell’inchiesta della Procura di Perugia (per una presunta evasione fiscale del faccendiere Valeriano Mureddu) c’è scritto a chiare lettere che Pier Luigi Boschi, ex vice presidente di Banca Etruria oltre che padre della ministra, ha incontrato almeno due volte Flavio Carboni per avere un “consiglio” sulla nomina del direttore generale dell’istituto bancario. Ormai siamo andati oltre alle illazione e alle dicerie: c’è anche il controverso faccendiere nel recente passato dell’istituto aretino e papà Boschi.

Quindi? Quindi, non ce ne voglia la ministra, ma si sbriciola in un soffio l’immagine bucolica che Maria Elena Boschi ha dipinto del proprio padre durante il suo intervento alla Camera mentre si discuteva la mozione di sfiducia presentata dal Movimento 5 Stelle. Non è consuetudine dei padri di famiglia italiana media (e non solo media) incontrare rappresentanti (già sputtanati) delle ultime massonerie all’amatriciana che hanno infestato il Paese. Non regge nemmeno l’ipotesi che tutto questo sia accaduto per caso: gli incontri sono stati almeno due (e quindi consenzienti) e sinceramente non capita d’incontrare un massone in coda dal fruttivendolo e cominciare a chiacchierare del tempo, del traffico e poi finire per consultarsi su un possibile direttore generale della banca. Questa volta alla ministra (che si sta intestando la riforma della Costituzione, ricordatevelo) servirà molto di più di una struggente parodia del padre di famiglia tutto casa e lavoro e, nel migliore dei casi, dovrà prenderne le distanze dopo essersi sciolta nella sua ultima dichiarazione d’amore. Insomma: in qualunque caso la Boschi è all’angolo e questa volta né a lei né al suo pigmalione Matteo Renzi riuscirà di spicciare la vicenda come se fosse solo una maldicenza.

Ma c’è, se possibile, un aspetto ancora peggiore nelle novità degli ultimi giorni: se prima si poteva pensare che l’errore di Renzi fosse quello di trascinare il Giglio Magico (la sua banda di amichetti d’infanzia, per dirla più prosaicamente) nei ruoli apicali di governo e quindi ci si poteva imputare un certo provincialismo e una meritocrazia più d’affetti che di valore oggi con la comparsa sullo sfondo della massoneria il Presidente del Consiglio mostra di essere molto distante dal self made man (oddio, un altro, ebbene sì) che si “è fatto” grazie al proprio intuito politico. C’è nell’incontro tra Flavio Carboni e papà Boschi tutti il vecchio odore stantio della seconda Repubblica che avrebbe dovuto essere rottamata. Renzi rischia di essere più il grande riesumatore piuttosto che rottamatore. E su questo rischia la faccia. E il governo.

Salvate la Svizzera e la Danimarca! Su Twitter l’ironia contro il sequestro dei beni ai rifugiati

Salvate la sirenetta e i poveri sciatori svizzeri. E anche i Cechi che stanno morendo di fame. E anche gli affamati delegati del World Economic Forum di Davos. Su Twitter ci sono tre account che prendono in giro Svizzera, Danimarca e la loro (vergognosa) politica di sequestrare i beni dei rifugiati per pagare le spese di accoglienza. E poi anche la voglia di chiusura di frontiere della Repubblica Ceca. In Svizzera la scelta era in voga da tempo, mentre in Danimarca la legge, di cui parliamo qui, è stata approvata nei giorni scorsi. Di cosa parlano gli account Twitter, sotto una breve selezione dei loro tweet tradotta, ma intanto li abbiamo intervistati per email e alle domande serie rispondono quasi fino alla fine impersonando il personaggio.

Chi sei?

In primo luogo, devo dire che non posso rivelare la mia vera identità. La guerra civile qui in Svizzera ha reso tutti nemici di tutti. Se scoprono chi sono, le truppe del governo o i gruppi terroristici possono trovarmi e farmela pagare per aver parlato ai media. Sono solo in grado di usare Twitter come SaveSwitzerland per cercare di aiutare i miei connazionali nella tempesta della crisi – la guerra, la fame …Abbiamo sofferto così a lungo, e ora, finalmente, abbiamo trovato una via d’uscita dalla miseria: la ricchezza dei rifugiati ci può salvare! Hanno così tanto, e noi abbiamo così poco.

Tre account nati assieme?
No, io non sono la stessa persona di SaveDenmark o SaveCzechia – ma anche loro stanno combattendo per la stessa causa, mi sento molto vicino a loro.

A che serve l’ironia per rispondere a scelte così orribili da parte dei governi?
 Qui rispondo sul serio: perché farlo? Per la meschinità che vediamo in Europa in questo momento da parte di alcuni paesi – ci sarebbe da ridere se non fosse così reale e tanto brutto.

Dalla Svizzera

«Ho camminato migliaia di chilometri per donare soldi agli svizzeri bisognosi»

«Il tramonto sulle rovine di Ginevra, abbiamo bisogno di fondi per ricostruirla»

«Un’immagine rara dell’ultima fonduta del 2009, prima della grande carestia»

«Grazie di mostrare le foto dei beni dei rifugiati, con tanta ricchezza possono senza dubbio aiutare» 

Poi dalla Danimarca:
«La sirenetta è triste, aspetta il suo prossimo pasto e si chiede da dove arriverà»

«Guardate come è ridotto questo castello, servono le donazioni dei rifugiati per rimetterlo in sesto» 

E dalla Repubblica Ceca:
«La tavola vuota del nostro presidente, rifugiati abbiamo bisogno di voi»

«Rispetto ad altre sono stata fortunata. Mi hanno solo picchiata e derubata». Parola di migrante

amnesty international donne-migranti-violenza

«Sono stata fortunata. Mi hanno solo picchiata e derubata, ad altre è andata peggio». Esraa, non più di trent’anni in fuga dalle bombe che in Siria cadono come fosse pioggia, racconta così il suo viaggio verso l’Europa. Un viaggio che per gli uomini è pieno di insidie e pericoli, e che per le donne lo è ancor di più. Le migranti infatti lungo tutto il percorso richiano la vita e finiscono per subire abusi, molestie sessuali e violenze. Le più fortunate come Esraa vengono “solo” picchiate e derubate. Strana idea di fortuna quella a cui costringe a pensare questo viaggio. Nemmeno arrivate a varcare il confine europeo ci si può sentire al sicuro, Europa in questo caso non è sinonimo né di diritti né di civiltà, anzi, a volte le molestie vengono proprio da chi quell’idea di Civiltà la dovrebbe difendere: uomini in divisa e poliziotti di frontiera per esempio.
Non esistono ancora statistiche ufficiali che possano fornire dei numeri esatti sul fenomeno, ma secondo una nuova ricerca di Amnesty International, sono davvero troppe le donne e le ragazze rifugiate vanno incontro a violenze, aggressioni, sfruttamento e molestie sessuali in ogni fase del loro viaggio. L’organizzazione per i diritti umani chiama in causa anche i governi (europei e non) e le agenzie umanitarie che non forniscono la minima protezione alle donne in fuga da Siria e Iraq.
Al tema il New York Times ha dedicato un reportage e alcune di quelle storie ve le abbiamo raccontate qui, riflettendo su quello che è successo a Colonia e cercando di ampliare la prospettiva al genere, piuttosto che alla nazionalità. Il lavoro di Amnesty International conferma quanto denunciato dall’autorevole quotidiano statunitense. Lo staff dell’organizzazione no profit infatti, solo nell’ultimo mese, ha incontrato fra la Germania e la Norvegia circa 40 donne e ragazze rifugiate, che, al termine di un viaggio che dalla Turchia le aveva portate in Grecia ed era proseguito lungo la “rotta balcanica”, hanno deciso di raccontare la loro storia. A parlare sono gli sguardi, le minacce, quell’insicurezza che tappa dopo tappa le ha avvolte nella paura, nella convinzione che in quanto donne non potevano permettersi il lusso di fidarsi di qualcuno. Molte di loro hanno denunciato che, in quasi tutti i paesi attraversati, hanno subito violenza fisica e sono state sfruttate economicamente, molestate o costrette ad avere rapporti sessuali coi trafficanti, col personale di sicurezza o con altri rifugiati. Oumaya, 22 anni irachena, racconta che in Germania – nella civilissima Germania – una guardia di sicurezza in divisa le ha offerto dei vestiti in cambio di «un po’ di tempo sola con lui». Oumaya è un nome di fantasia, come quello che molte donne usano quando scelgono di parlare di ciò che hanno dovuto subire. Un nome di fantasia necessario per raccontare una storia vera di cui si ha ancora troppa paura. Una storia che pur variando nelle piccole sfaccettature, è comune a moltissime donne.
Hala, ha 23 anni, è partita da Aleppo in Siria spiega che il viaggio è rischioso e lo è ancor di più per chi viaggia sola o non ha i soldi per pagare, perché «sei una preda facile, sei ricattabile. In un albergo della Turchia, un siriano al servizio dei trafficanti mi ha proposto di passare la notte con lui. Mi diceva che avrei pagato meno o addirittura avrei viaggiato gratis, ho rifiutato, era disgustoso. Quando ne ho parlato con le altre ragazze mi hanno detto che era capitato lo stesso a tutte in Giordania. Una mia amica, fuggita anche lei dalla Siria, ha finito i soldi appena arrivata in Turchia. L’assistente del trafficante le ha detto che l’avrebbe fatta imbarcare se fosse andata a letto con lui. Lei si è negata e non è partita. Probabilmente è ancora in Turchia in attesa di trovare un altro modo per continuare il viaggio». Anche Nahla, siriana di appena 20 anni, racconta una storia simile: «Il trafficante mi infastidiva. Ha cercato un paio di volte di toccarmi. Mi stava lontano solo quando ero vicina a mio cugino. Capita spesso che le donne che non hanno soldi per pagare il viaggio vengano molestate da trafficanti che propongono di dormire insieme in cambio di uno sconto».
«Siamo partite in due, solo io e mia cugina, lei ha 15 anni. Per tutta la durata del viaggio sono riuscita a malapena a dormire, avevo il terrore di chiudere gli occhi. – a parlare è Reem, che si sente grande, ma anche lei ha appena vent’anni – Nei campi profughi ho assistito a scene di violenza, riuscivo a riposare solo quando eravamo a bordo del pullman, lì avevo la sensazione di essere un po’ più al sicuro. Nei campi è facilissimo essere toccate e nessuna denuncia quel che succede. Non si può. Si rischierebbe di creare problemi, di bloccare il viaggio». L’imperativo invece è quello di andare avanti, ad ogni costo.


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Non solo Colonia. Quelle terribili storie di viaggio e violenza sulle donne in fuga verso la Germania


Alcune delle donne intervistate da Amnesty si concentrano sulla brutalità e la violenza con cui venivano trattate dagli agenti di polizia, specialmente quando il sovraffollamento dei centri di raccolta dei migranti faceva salire la tensione richiedendo l’intervento delle forze di sicurezza.
«La polizia ungherese ci ha trasferiti in un altro campo – ricorda Rania, 19 anni e incinta – il posto era persino peggiore del primo. Era pieno di gabbie, non passava un filo d’aria. Praticamente eravamo in cella. Siamo rimasti lì per due notti. Avevamo diritto a due pasti al giorno. Il secondo giorno la polizia ha picchiato una siriana di Aleppo, solo perché aveva pregato di lasciarla andare via. Sua sorella ha provato a difenderla, lei parla inglese. Le hanno detto che se non stava zitta avrebbero picchiato anche lei. La stessa cosa è successa a un’iraniana, che aveva chiesto un po’ di cibo in più per i suoi figli».
Non è diversa la storia di Maryan, 16 anni: «Eravamo in Grecia. Abbiamo cominciato a piangere e a urlare, così è arrivata la polizia che ha manganellato tutti quanti, anche i più piccoli, colpivano qualsiasi parte del corpo, anche la testa. Io sono stata colpita al braccio. Per il dolore e per la tensione ho avuto un capogiro, sono finita a terra, con le persone che mi cadevano sopra. Quando mi sono ripresa, non trovavo più mia madre. Ho cominciato a piangere fino a che non hanno chiamato il mio nome e sono riuscita a ritrovarla. Il braccio continuava a farmi male, allora ho mostrato a un agente di polizia il braccio dove ero stata colpita, lui si è semplicemente messo a ridere. Ho chiesto di un dottore, hanno risposto a me e a mia madre di andare via». Di continuare il viaggio attraverso montagne, mari, mani, pugni, calci, treni, pullman, violenze, campi rifugiati sovraffollati, molestie. Cercando di non perdere la rotta o se stesse prima di arrivare in Europa.

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Il Luther King Day dopo Black Lives Matter

From left, Sloan Ellsworth, Lilly Anderson, and Leah Williams, all age 6, first graders from Watkins Elementary School in Washington, stand together as they watch a program on the steps of the Lincoln Memorial in Washington, Friday, Jan. 15, 2016. Fifth grade students recited Martin Luther King, Jr.'s 1963 "I Have a Dream," speech and sang a song in honor of his upcoming birthday. (AP Photo/Alex Brandon)

Le relazioni interrazziali e l’esclusione degli afroamericani dalla vita economica e sociale americana sono di nuovo al centro della scena. Oggi negli Usa è il Martin Luther King Day, una festa nazionale che celebra la nascita del reverendo nel 1929 e che alcuni governatori repubblicani degli Stati del Sud hanno rifiutato di onorare per anni. In South Carolina, ogni anno, accanto alla marcia celebrativa, c’è sempre quella di coloro che sfilano con la bandiera confederata, la stessa che quest’anno, dopo la strage razzista in una chiesa di Charleston, è stata ammainata per sempre dal pennone del Campidoglio locale. La novità del 2015 – e probabilmente dell’anno in corso – è che sulla brutalità della polizia, l’esclusione, la necessità di più voce e più partecipazione politica c’è Black Lives Matter un movimento attivo, capace che i democratici corteggiano e corteggeranno perché dia una mano a portare i neri alle urne.

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black-01-800x600Leggi anche: L’importanza di Black Lives Matter nel 2016

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Ecco alcune foto storiche della vicenda del pastore afroamericano che ha guidato ed è diventato – grazie ai suoi assassini – simbolo della lotta degli afroamericani alternate con le immagini della celebrazione di quest’anno che ha coinvolto centinaia di ragazzi.

Fifth-graders from Watkins Elementary School in Washington, stand as they wait their turn to recite a line from Martin Luther King, Jr.'s 1963 "I Have a Dream," speech during a program on the steps of the Lincoln Memorial, looking toward the Washington Monument in Washington, Friday, Jan. 15, 2016. The students recited the speech and sang a song in honor of his upcoming birthday. (AP Photo/Alex Brandon)

Doug Bradshaw, 11, a fifth-grader from Watkins Elementary School in Washington, holds a sign during a program on the steps of the Lincoln Memorial in Washington, Friday, Jan. 15, 2016, where students recited Martin Luther King, Jr.'s 1963 "I Have a Dream," speech and sang a song, in honor of his upcoming birthday. (AP Photo/Alex Brandon)

Fifth-graders from Watkins Elementary School in Washington, point as they sing a song during a program on the steps of the Lincoln Memorial in Washington, Friday, Jan. 15, 2016, where they recited Martin Luther King, Jr.'s 1963 "I Have a Dream," speech and sang a song in honor of his upcoming birthday. (AP Photo/Alex Brandon)

Patrimoniosos, un osservatorio sullo stato di salute dei beni culturali

Da un allarme scattato fra storici dell’arte, archeologi, museologi, professori e studenti universitari riguardo alla svendita di pezzi importanti del patrimonio d’arte italiano nel 2002, è nato il sito Patrimoniosos.it, preziosa e colta sentinella che quotidianamente aggiorna i lettori su quanto sta accadendo in Italia riguardo alla tutela dei beni culturali.

«Tutto è cominciato dalla discussione prima e dall’approvazione poi del D.L. 63/2002 poi convertito in L. 112/2002», racconta l’archeologa Denise La Monica, che insieme ad altri fa parte del nucleo storico che ha fondato questo importante sito, nato a Pisa. «Questa norma istituiva la Patrimonio dello Stato Spa, una società che avrebbe dovuto detenere completi diritti sugli immobili pubblici del patrimonio disponibile e indisponibile, con finalità di gestione e valorizzazione, anche in funzione del supporto a Infrastrutture Spa».

Di fatto questo provvedimento faceva temere che gli immobili pubblici fossero soggetti alla vendita indiscriminata e alla commercializzazione «anche per supportare, sotto forma di garanzia o caparra, la costruzione delle grandi infrastrutture». «In altri termini – afferma il team di Patrimoniosos – si paventava che, con l’approvazione di questo provvedimento, si aprisse la strada alla dismissione massiccia del patrimonio immobiliare pubblico. Che è costituito in gran parte da immobili storici, spesso ex conventi posti nel cuore di centri storici come San Gimignano o Lucca, che sono transitati nelle proprietà dello Stato italiano in seguito alle soppressioni di ordini religiosi e all’incameramento dei loro beni, già alla fine del ‘700 (soppressioni napoleoniche), e poi di nuovo in seguito sulla spinta delle necessità del nuovo Stato italiano».

Poi nei fatti  è sfumata la preoccupante prospettiva di una “Italia spa” per dirla con il titolo di un  pungente libro di Salvatore Settis.

La Patrimonio dello Stato Spa è poi andata incontro a varie difficoltà e non è riuscita ad avviare in maniera significativa quel processo immaginato dai suoi sostenitori  come Giulio Tremonti, allora ministro dell’Economia e delle Finanze e fautore della cosiddetta “finanza creativa”.

Ma quel processo di svendita, purtroppo, non si è fermato?

Anzi, al contrario, si è fatto più insidioso perché sono state tentate molte altre vie per la dismissione del patrimonio immobiliare pubblico: le vendite a trattativa privata, anche in blocco; la costituzione di SCIP, FIP e altri fondi immobiliari; il federalismo demaniale, un processo avviato nel 2010 e intensificatosi dal 2012, con cui si prevede il trasferimento dei beni immobili dal Demanio agli enti locali, in funzione della loro “valorizzazione”. In questo modo si sono moltiplicati i canali di fuoriuscita di beni dal patrimonio indisponibile a quello disponibile, rendendo il meccanismo difficilmente controllabile. Di tutto questo percorso l’Agenzia del demanio è stata protagonista: a partire da una legittima esigenza di conoscere e classificare il patrimonio immobiliare statale, si è attivata anche per promuovere la dismissione dei beni pubblici.
Per tornare a Patrimoniosos, nel 2002 , vi siete fatti tramite della protesta del mondo intellettuale?

Fu promosso un appello, che circolò in rete tra gli addetti ai lavori e raccolse numerose adesioni, 2300 in pochi giorni, in risposta a quel messaggio  indirizzato alle tre massime cariche dello Stato arrivò anche una lettera della presidenza della Repubblica di apprezzamento per l’iniziativa. Il successo dell’appello convinse il piccolo gruppo che aveva promosso la raccolta di firme a dare “stabilità” con la creazione di un sito per raccogliere e a divulgare le notizie sulle politiche riguardo al patrimonio culturale. Si decise allora di creare un luogo, in rete, in cui raccogliere non solo articoli di rassegna stampa, ma anche interventi di addetti ai lavori su questioni aperte, recensioni a libri, oltre che comunicati di associazioni e informazioni su convegni o seminari. Intendevamo cioè creare una piattaforma di dialogo aperta, dinamica e basata sulla raccolta continua e partecipata di informazioni.

le menti brillanti c’erano per i contenuti, ma chi ha dato forma al sito come lo vediamo oggi?
Il sito fu creato, anche grazie all’aiuto gratuito di un grafico molto sensibile alle questioni dell’ambiente e ad uno straordinario ingegnere informatico di origini somale, Jama Musse, e negli anni è stato costantemente tenuto aggiornato, seppur con molti limiti e difficoltà, esclusivamente attraverso la collaborazione gratuita e il contributo volontario di noi che facciamo parte della redazione.Da alcuni anni il sito è ospitato gratuitamente nel server di Umberto Allemandi spa che ha compreso il valore e il significato della nostra iniziativa. Infine nel 2010 il sito ha ricevuto il premio Silvia dall’Orso per la migliore comunicazione nel campo dei beni culturali.

La redazione è composta di persone con una formazione specialistica in archeologia e storia dell’arte; molti di voi fanno ricerca o insegnano all’università. Il caso di Patrimoniosos dimostra che si può fare con successo informazione colta in rete?
Non sappiamo se si possa conseguire il “successo”; ciò che noi abbiamo tentato di fare, in questi anni, ormai tredici, è tenere desta l’attenzione dell’opinione pubblica, ma anche la nostra, attraverso il duro e quotidiano lavoro di redazione del sito, per conoscere direttamente e rimanere sensibili verso le questioni del patrimonio culturale. L’obiettivo è costringere per primi noi stessi e poi, di conseguenza, gli altri cittadini ad interessarsi non solo della storia del nostro patrimonio, che per noi è un requisito ovviamente imprescindibile, ma anche delle attuali politiche, delle dinamiche più correnti che riguardano il patrimonio. Solitamente noi non prendiamo posizione, ma ci limitiamo a raccogliere e riproporre i contenuti già prodotti da altri, per sensibilizzare l’opinione pubblica, dunque aumentare il senso critico e anche, di conseguenza, il livello di tutela del patrimonio.

Qual è il vostro pubblico e come è andato crescendo negli anni?
Il nostro pubblico è composto soprattutto da universitari, studenti e docenti, funzionari del ministero, personale dei musei, giornalisti e addetti all’informazione. Con l’aggiunta di una pagina facebook intitolata Fan di Patrimoniosos abbiamo ulteriormente aumentato l’appeal del sito. Il numero di accessi al sito e alla pagina FB è molto alto; così come il numero di iscritti al sito. Nella fase in cui facevamo una newsletter aumentava di giorno in giorno.

Il sito rilancia petizioni e appelli per la piena applicazione dell’articolo 9. Lo studio dell’arte su Patrimoniosos non è svincolato dall’impegno civile. Che cosa ispira il vostro lavoro? Condividete dei punti di riferimento intellettuale?
In primo luogo condividiamo l’idea che gli addetti ai lavori -archeologi, storici dell’arte, ecc. – debbano impegnarsi per la tutela del patrimonio e del territorio. Il sito è organizzato in sezioni: alcune stabili, presenti fin dall’inizio (appello, leggi, comunicati, eventi, beni in pericolo, rassegna stampa, chi siamo), altre più mobili, attivate nel passato in alcuni casi per allarmi contingenti (ad esempio la sezione Nuovo codice SOS, ad esempio): tutte le sezioni sono comunque ancora accessibili, a costituire un archivio online, e offrono materiali importanti per chi voglia interessarsi della politica per il patrimonio culturale degli ultimi dieci anni.
È stata organizzata anche una sezione intitolata “Bacheca delle tesi”

Sì lì gli interessati possono dare notizia dei propri lavori di tesi svolti su temi di interesse di Patrimoniosos. Sono attualmente censiti in questa sezione circa duecento lavori, che auspichiamo aumentino attraverso la segnalazione diretta di studiosi e ricercatori. Come è chiaramente dichiarato sul sito il nostro intento è animare un dibattito sul patrimonio, rendere consapevoli i cittadini delle questioni aperte e delle decisioni che di volta in volta vengono prese dalla politica. Maggior consapevolezza da parte dei cittadini corrisponde ad un sistema civile e democratico migliore, più funzionante ed efficace. Purtroppo l’inaccessibilità ai cittadini della rassegna stampa del MIBACT non è un buon segno sotto questo punto di vista.

L’archivio di Patrimoniosos è particolarmente prezioso per chi fa informazione. Metterlo a disposizione di tutti come fate da tempo è una importante forma di servizio pubblico?
Certamente lo è, ma non vorremmo in questo sostituirci a chi dovrebbe farlo per compito istituzionale. Molte cose si potrebbero migliorare, ma servirebbero, per questo, fondi che non abbiamo: vorremmo re-ingegnerizzare la sezione dedicata alle Leggi, riorganizzandola in una raccolta più sistematica e ampia dei testi normativi e dei lavori parlamentari relativi al patrimonio culturale; vorremmo riattivare la newsletter; vorremmo essere più attivi, affiancando meglio e di più Italia Nostra, Associazione Bianchi Bandinelli e altre associazioni; vorremmo effettuare un restyling generale, migliorare tutto il content management system. Purtroppo però, come dicevo, siamo solo pochi volontari, attualmente solo sei, ed è già molto impegnativo tenere costantemente aggiornato il sito, almeno le sezioni della rassegna stampa, dei comunicati, degli eventi e delle news, nonché rispondere alla posta che arriva alla redazione.

Patrimoniosos. logo
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Progetti in cantiere?
Patrimoniosos è diventata da qualche anno anche associazione e potremmo raccogliere fondi per attuare interventi di reingegnerizzazione del sito. Si può però forse dire che ormai, nonostante le molte difficoltà, siamo molto affezionati al quotidiano lavoro al sito, che, come dicevo prima, costringe per primi noi stessi a stare con gli occhi ben aperti. Il nostro primo e unico progetto è mantenere in vita il sito, migliorandolo dal punto di vista tecnico e dunque anche comunicativo. È sempre facile nel nostro paese dar vita a nuove attività, ma molto difficile è mantenere in vita ciò che c’è.

La redazione di Patrimoniosos.it è composta da:
Denise La Monica, Donata Levi, Marco Mozzo, Emanuele Pellegrini, Simona Rinaldi e  Martina Visentin

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Nell’ultimo duello prima del voto in Iowa, Clinton prova a contenere Sanders

Paragonati agli scambi di accuse tra repubblicani di qualche giorno fa, i toni accesi del dibattito tra Clinton e Sanders prima del voto in Iowa non sono nulla. Ma certo, c’era da aspettarselo, a pochi giorni dall’inizio delle primarie e con il senatore socialista che incalza la candidata “predestinata” del partito democratico sia in Iowa che in New Hampshire, un po’ di bordate i due se le sono sparate.

Sanders accusa Clinton di non essere abbastanza dura con le banche che spesso la finanziano, Hillary ribatte che il senatore del Vermont ha votato sempre contro ogni tentativo di introdurre regole per ridimensionare la circolazione di armi nel Paese. Ma l’argomento del primo è più forte: Hillary risponde alle accuse sui legami con Wall Street che lei è pronta a difendere la legge Dodd-Frank già approvata con Obama, che introduce alcuni controlli e limiti alle banche e alla finanza. Il problema è che la forza di Sanders, magari limitata a una base liberal ma molto motivata e comunque capace di dare impensierire nelle primarie, è proprio quella di dire che su diseguaglianze e finanza sia necessario fare molto di più. L’altro problema sono i vecchi legami con Wall Street che la senatrice di New York ed ex first lady dell’uomo che ha cambiato in peggio le regole per le banche ha sempre mantenuto. E sui quali Sanders gioca, come si nota da questo tweet contenente un’infografica che mostra quanti contributi alla campagna di Hillary giungano dal mondo della finanza (mentre lui li prende dai sindacati).

Oppure: il candidato della sinistra presenta il suo piano per introdurre una sanità pubblica per tutti e la ex Segretario di Stato risponde difendendo la riforma Obama, sostenendo che con il piano Sanders aumenterebbero le tasse per tutti – non solo per i ricchi – e si riaprirebbe nel Paese un dibattito furioso, simile a quello che si aprì durante l’approvazione di Obamacare. Un dibattito così non fa bene al Paese, che ha bisogno di essere meno diviso di quanto non sia oggi.

Il dibattito ha presentato due buoni candidati (il terzo, Martin O’Malley non è male, ma non ha speranze), capaci a ribattere quando incalzati e ben preparati sulle politiche che propongono. Su questo Hillary è imbattibile. Eppure, il vincitore della serata è Sanders. Non perché abbia fatto meglio, ma perché nelle ultime settimane a crescere nei sondaggi è lui e, di conseguenza, era Clinton ad avere bisogno di una performance speciale. Non è andata così e probabilmente questo dibattito non cambierà la dinamica: nei primi quattro Stati nei quali si vota, i due sono alla pari in Iowa, Sanders è primo in New Hampshire e Clinton in South Carolina e Nevada, dove il voto di neri e ispanici pesa molto di più.

Certo è che, come ha ammesso qualcuno nello staff di Hillary, che la candidata favorita per la nomination ha senza dubbio sottovalutato la forza potenziale di Sanders. Per contenerla Hillary si è spostata a sinistra, ha difeso con forza le politiche di Obama ed ha tentato di distanziarsi un pochino sulla politica estera. Sull’Iran ha detto che l’accordo è ottimo ma che «dopo una buona giornata, ne servono altre prima che torniamo ad avere dei buoni rapporti con il regime di Teheran». La scommessa è sul fatto che i timori per il terrorismo e le guerre facciano scommettere gli americani su un leader affidabile e molto esperto in materia di sicurezza nazionale.

Il fatto che Hillary difenda Obama non era scontato, si capisce sempre di più che la sua scommessa è raccogliere di nuovo la coalizione fatta di minoranze, donne e giovani che ha portato a vincere il presidente afroamericano. Per fare questo deve battere Sanders, ma senza inimicarsi la sua base di sinistra e studenti. E’ anche per questo che i due, lo avevano detto fin dall’inizio della campagna, non trascendono nei toni, ciascuno deve cercare di battere l’altro, senza rendersi antipatico agli occhi dei suoi sostenitori. Il tallone di Achille di Hillary è che accostandosi troppo al presidente in carica non accontenta quegli elettori non entusiasti che chiedono un cambiamento a Washington – sono tanti, anche in America la stanchezza con il business as usual è forte ed ha prodotto la rivolta Obama, quella del Tea Party e ora Trump nelle primarie repubblicane.

A due settimane dal voto, ora pesa la macchina sul territorio: 8 anni fa Hillary venne battuta da Obama proprio grazie a quella. Oggi la campagna Sanders ha dalla sua un entusiasmo simile a quello che contraddistinse la cavalcata vincente dell’attuale presidente. Ma è difficile pensare che, dopo essere rimasta scottata una volta, Hillary non abbia preso delle contromisure.

@minomazz

Oxfam: nel 2015 la ricchezza dell’1% ha superato quella di tutti gli altri

Potenza della lobby finanziaria e paradisi fiscali non conoscono arretramenti. O almeno questo è quanto si evince dai dati raccolti da Oxfam in un nuovo rapporto dal titolo Economy for the 1% (l’economia dell’1%). Utilizzando i dati di Credit Suisse ed elaborandoli, la organizzazione internazionale sostiene che nell’anno appena finito, l’1% più ricco supera tutti gli altri in quanto a ricchezza accumulata. E 62 persone detengono la ricchezza del 50% più povero del pianeta.

Si tratta di notizie note, ma quel che Oxfam segnala è la tendenza preoccupante: dal 2010 a oggi, infatti la ricchezza dei più ricchi è aumentata del 44%, mentre quelle del resto dle mondo è rimasta ferma. Nel 2010 per raggiungere la somma accumulata dalla metà più povera ci volevano 388, ovvero la ricchezza è più concentrata che mai.

Come cresce la ricchezza dei più ricchi mentre gli altri stanno fermi

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(La linea verde rapresenta l’andamento della ricchezza del 50% più povero del pianeta, quella viola la ricchezza dei 62 più ricchi del pianeta – Oxfam)


Il paradosso è che la ricchezza dei super-ricchi, diffusa, nascosta in paradisi fiscali e gestita in maniera tale da fare almeno in parte perdere le proprie tracce, è difficle da rintracciare. E anche Credit Suisse, che se ne intende, sostiene che è probabile che le stime sui più ricchi tra i ricchi siano al ribasso.

Nel 2010 per trasportare i più ricchi tra i ricchi serviva un grande aereo, scherza Oxfam. Oggi basta un autobus e presto un camper

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L’organizzazione internazionale usa il rapporto per lanciare una campagna contro i paradisi fiscali ricordandoci come un’economia tanto diseguale non sia funzionale nemmeno al buon funzionamento del capitalismo così come lo conosciamo. Una cosa che avevamo capito ma che continua a lasciare è che la crisi del 2008 e tutte le successiva hanno accenutato tutti i fenomeni di concentrazione, non solo e non tanto perché la ricchezza dei meno ricchi è diminuita ma per quella dei super-ricchi è cresciuta come se niente fosse.

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