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Se non siete tipi da Family Day né Bagnasco, ecco le piazze a favore della legge sulle unioni civili

Si avvicina l’arrivo in aula al Senato della legge Cirinnà sulle unioni civili, e ogni giorno da qui al 28 gennaio (quando dovrebbe entrare nel vivo la discussione parlamentare) avrà la sua dichiarazione. La settimana è cominciata, ad esempio, con il Cardinal Bagnasco. Che per opporsi alla legge sfodera il più classico degli argomenti: «Ci sono diverse considerazioni da fare ma la più importante», dice, «è che mi sembra una grande distrazione da parte del Parlamento rispetto ai veri problemi dell’Italia: creare posti di lavoro, dare sicurezza sociale, ristabilire il welfare». Il parlamento negli ultimi mesi ha in realtà approvato in velocità una riforma del mercato del lavoro e – quasi – una riforma della Costituzione, oltre che ovviamente la manovra finanziaria. Ma niente. Bagnasco, dopo aver detto che nulla deve insediare la famiglia, sceglie un classico intramontabile: «I problemi sono altri».

Giornalisticamente le parole del cardinale sono però interessanti, e non solo per far polemica: nei giorni scorsi, infatti, sembrava che la Cei dovesse disconoscere o almeno disinteressarsi della piazza convocata contro la legge Cirinnà, del Famili day. Oggi non pare sia così.

Entrando nei giorni clou, questo è comunque un post di servizio. Perché se a Roma (Cei o non Cei) ci sarà il Family day, anche chi sostiene la legge sulle Unioni potrà scendere in piazza, marcando la distanza dai movimenti cattolici che sostengono il fronte parlamentare che vorrebbe la modifica della legge con lo stralcio della stepchild adoption, l’adozione del figlio del partner.

Alcune contro manifestazioni sono state convocate per rispondere all’offensiva contro la legge. Il 23 gennaio è la giornata scelta per una mobilitazione nazionale. Questo è l’elenco delle maggiori piazze dove ci si potrà incontrare.

Sempre che non preferiate andare in piazza con Mario Adinolfi e Bagnasco.

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ALBA: 23 gennaio, ore 16.00, via Vittorio Emanuele
ALESSANDRIA: 23 gennaio ore 16.00, piazzetta Della Lega
ANCONA: 23 gennaio ore 16.30, piazza da definire
ANDRIA (BAT): 23 gennaio ore 18.30, Viale Crispi
AOSTA: 23 gennaio ore 15.00, Piazza Émile Chanoux
AREZZO: 23 gennaio ore 15.30, Piazza San Jacopo
ASTI: 23 gennaio ore 10.30, Piazza S.Secondo
BARI: 23 gennaio ore 16.30 piazza del ferrarese
BENEVENTO, 23 gennaio ore 17.30, Prefettura
BERGAMO: 23 gennaio ore 14.30, Stazione
BRESCIA: 23 gennaio ore 15.00, piazza del Mercato
BOLOGNA: 23 gennaio ore 16.00, piazza Nettuno
BOLZANO: 23 gennaio ore 15.00, Piazza Municipio
CAGLIARI: 23 gennaio ore 16, piazza Costituzione
CALTANISSETTA: 23 gennaio ore 18.00, piazza Falcone e Borsellino
CASERTA, 23 gennaio ore 17.30, piazza da definire
CASTELLANA GROTTE (BA): ore 9.00, piazza Garibaldi
CATANIA: 23 gennaio, ore 18.30 Piazza Stesicoro
CESENA: 23 gennaio, ore 15.30, Corteo da piazza Guidazzi (teatro Bonci)
CHIETI: 23 gennaio, ore 15.00 largo Martiri della Libertà
COSENZA: 23 gennaio ore 11, piazza XI Settembre
CREMONA: 23 gennaio ore 15.30, piazza Roma (zona Pagoda)
CUNEO: 23 gennaio ore 16.00, via Roma
FERRARA: 23 gennaio ore 16.00, piazza Municipale
FIRENZE: 23 gennaio ore 15, piazza della Repubblica
FOGGIA: 23 gennaio ore 17.00, Corso Vittorio Emanuele
GENOVA: 23 gennaio ore 15.00, corteo da piazza della Meridiana
GORIZIA, 23 gennaio ore 11.00, piazza Vittoria.
GROSSETO: 23 gennaio ore 17.00, Piazza San Francesco
L’AQUILA: 23 gennaio ore 15:00, Fontana Luminosa
LA SPEZIA: 23 gennaio ore 17.00, Piazza Garibaldi
LECCE; 23 gennaio, ore 18, Piazza sant’Oronzo
LIVORNO: 23 gennaio, ore 15.00, Corteo da Piazza Attias fino a Piazza del Municipio.
LONDRA (UK): 23 gennaio, ore 15.00 Ambasciata d’Italia
LUCCA: 23 gennaio, ore 16.00, piazza da definire
MANTOVA: 23 Gennaio ore 17.00, Piazza Mantegna
MASSA: sabato 23, ore 16.00, Piazza Mercato
MILANO, 23 gennaio ore 14.30, piazza della Scala
MODENA, 23 gennaio ore 15.00, piazza Mazzini.
NAPOLI: 23 gennaio ore16.30, corteo da piazza Carità a piazza Plebiscito
NOVARA: 23 gennaio, ore 15.30, piazza Martiri
PADOVA: 23 gennaio ore 16.00, via VIII Febbraio
PALERMO: 23 gennaio ore 16.30, piazza Verdi (teatro Massimo)
PARMA: 23 gennaio ore 16:00, Piazza Garibaldi
PAVIA, 23 gennaio ore 15.30, piazza Della Vittoria
PERUGIA: 23 gennaio ore 15.30, Piazza Italia
PESCARA: 23 gennaio ore 16.00, Piazza Salotto
PIACENZA: 23 gennaio ore 15.00, piazza Duomo
PISTOIA: 23 gennaio, ore 17.00, Piazza Gavinana
POTENZA: 23 gennaio ore 17.00, corteo da P.zza Mario Pagano a P.zza Sedile
RAGUSA:23 gennaio ore 18.00, piazza San Giovanni
REGGIO CALABRIA: 23 gennaio ore 18, Corso Garibaldi
REGGIO EMILIA: 23 gennaio ore 16, piazza Martiri del 7 Luglio
ROMA: 23 gennaio ore 15 di fronte al Pantheon (Piazza della Rotonda)
SANREMO: 23 gennaio, ore 15.00, Via Escoffier angolo C.so Matteotti
SASSARI 23 gennaio, ore 17.00, piazza d’Italia
SAVONA: 23 gennaio, ore 16.00, Piazza Sisto IV
SIRACUSA: 23 gennaio ore 21, Largo 25 Luglio (tempio di Apollo)
TARANTO: 23 gennaio ore 20, piazza Maria Immacolata
TORINO: 23 gennaio ore 15.30, piazza Carignano
TRENTO: 23 gennaio ore 16.00, piazza Dante
TRIESTE, 23 gennaio ore 15.00, piazza Unità d’Italia.
UDINE: 23 gennaio ore 15, Piazza San Giacomo
VARESE: 23 gennaio, ore 15.00, piazza Monte Grappa.
VENEZIA: 23 gennaio ore 16.30, Campo Santa Margherita
VERBANIA: 23 gennaio ore 10, piazza Ranzoni
VERCELLI: 23 gennaio ore 15:00, piazza Cavour
VERONA: 23 gennaio ore 15.00, piazza Bra
VIAREGGIO: 23 gennaio ore 16.00, piazza Mazzini
VICENZA: 23 gennaio ore 16.00, Pizza dei Signori.
VITERBO: 23 gennaio ore 18,30, piazza del Plebiscito

In più, nei giorni di discussione della legge. A Roma ci sarà un presidio permanente.
Dal 28 gennaio alle 16:00 al 30 gennaio alle 14:00, a piazza delle cinque lune, non lontano dal Senato.

Ri-scatti, Italia melting pot. Attraverso lo sguardo di artisti immigrati

L’immigrazione è una risorsa importante per il Paese. Non solo da un punto di vista economico. Ma soprattutto culturale. Basta pensare alla letteratura italiana e a quanto si è arricchita grazie al talento di scrittori provenienti da altri Paesi e che hanno scelto di scrivere in italiano, innervandolo di nuovi accenti, espressioni, modi nuovi di usare  la lingua di Dante, Petrarca e Boccaccio (vedi, per esempio, la nuova edizione di Scrittori e popolo di Asor Rosa edita da Einaudi).  Molto interessante è anche lo sguardo con cui gli immigrati in Italia raccontano il Paese attraverso la fotografia. Per fare emergere nuovi talenti in  questo ambito è nata la rassegna Ri-Scatti aperta  dal 16 al 27 gennaio al Pac di Milano. «È un modo nuovo di incontrare le esigenze dei soggetti socialmente più fragili che vivono nella nostra città, coinvolgendoli in un percorso di riconquista dell’autonomia che diventa racconto di sé e attraverso le immagini», sottolineano gli assessori milanesi Pierfrancesco Majorino e Filippo Del Corno, presentando l’iniziativa.

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«L’immigrazione viene troppo spesso rappresentata come disagio sociale più che come risorsa in un Paese», dice Federica Balestrieri, presidente Riscatti Onlus. Ma la realtà è un’altra. «5 milioni di stranieri pari all’8,3 per cento della popolazione, producono l’8’8 per cento del Pil e denunciano al fisco 45,6 miliardi di euro l’anno». L’obiettivo di Ri-Scatti onlus è trasformare l’immagine che abbiamo degli immigrati, gravemente annebbiata dal pregiudizio.

«E’ importante riscattare il concetto di immigrazione in un momento storico molto delicato e rafforzare l’idea di integrazione come unica via per la pace e l’arricchimento umano e culturale dei popoli», ha sottolineato Balestrieri parlando della nuova edizione della mostra milanese, patrocinata dal Comune di Milano. Ma veniamo a ciò si può vedere al Pac dove la mostra è ad ingresso gratuito.

Ri-scatti presenta un ampio ventaglio di lavori  realizzati da immigrati selezionati e valutati da una giuria di cui fanno parte fra gli altri, Marco Pinna, photo editor di National Geographic, Aldo Mendichi, coordinatore Festival della Fotografia Etica, Fabio Castelli, direttore e fondatore di Mia Fair, Alessia Glaviano, Senior Photo editor di Vogue Italia e Uomo Vogue e molti altri. La giuria ha scelto i primi 3 classificati in base al “percorso” fotografico: «non è il singolo scatto ad essere stato analizzato e valutato dai membri della giuria, ma il ciclo di foto prodotte dai partecipanti, lo sguardo d’insieme, il fotoreportage». Il premio per il primo classificato Marvin Nolasco, di nazionalità filippina è di 1.500 euro; 700 euro per il secondo Analia Pierini, argentina; 500 euro per il terzo Radua Shahat , egiziana. Dalla redazione di Left un caldo invito a  visitare la mostra.

@simonamaggiorel

Primavera araba, l’ultima isola

epa05063942 The winners of the 2015 Nobel Prize, Tunisian National Dialouge Quartet members, (L-R) President of the National Order of Tunisian Lawyers Fadhel Mahfoudh, the Secretary General of the Tunisian General Labour Union Houcine Abbassi, President of the Tunisian Human Rights League Abdessatar Ben Moussa and the President of the Tunisian Confederation of Industry, Trade and Handicrafts, Wided Bouchamaoui watch a torch parade from the balcony of the Grand Hotel in Oslo, Norway, 10 December 2015. The Tunisian National Dialogue Quartet was awarded the 2015 Nobel Peace Prize for its decisive contribution to the building of a pluralistic democracy in Tunisia in the wake of the Jasmine Revolution of 2011. EPA/HAKON MOSVOLD LARSEN NORWAY OUT

Avenue Bourguiba è blindata, l’aria è tesa, polizia e militari sono disposti lungo il viale a gruppi da sette, a cento metri gli uni dagli altri. Il ministero dell’Interno e l’ambasciata francese sono protetti da barriere di filo spinato, carri armati e postazioni di tiro dei cecchini. Ogni obiettivo sensibile – il teatro municipale, la cattedrale cristiana, i grandi alberghi e i ristoranti del lungo viale – è presidiato da uomini in divisa, armati con giubbotti antiproiettile consumati e vecchi steyr aug 1, fucili d’assalto di fabbricazione austriaca. In questo silenzio surreale si svolge la vigilia di Capodanno, con i ristoranti aperti e molti camerieri in piedi a vegliare tavoli vuoti. Il coprifuoco non è l’eccezionale sicurezza per l’ultimo dell’anno. Ogni sera, entro le sette, le attività commerciali si spengono e il viale centrale si svuota completamente, restando militarizzato. Avenue Bourguiba è la strada principale della capitale. La via più ricca della Tunisia e il teatro della rivoluzione del 2011. Il 24 novembre scorso, appena dietro questo viale, un kamikaze si è fatto esplodere dentro un bus provocando la morte di dodici uomini della guardia presidenziale.
Sono passati quasi quattro anni dalla fuga di Ben Ali in Arabia Saudita il 14 gennaio 2011 e la Tunisia è oggi considerata l’unico Paese stabilizzato dopo le Primavere arabe che hanno scosso il Nord Africa e il Medio Oriente. Protagonisti della mediazione sono stati da un lato i partiti politici, con la novità dell’ingresso del partito islamico Harakat al-Nahda (Movimento della rinascita) nel processo istituzionale, dall’altro il “Quartetto per il dialogo nazionale” composto da quattro organizzazioni che rappresentano la società civile. A queste è stato assegnato il premio Nobel per la Pace 2015 per il lavoro svolto a sostegno dell’Assemblea Costituente. Nei giorni successivi a Capodanno, li abbiamo incontrati nei loro uffici di Tunisi, per chiedergli del futuro del Paese.
«Io ho la mia lettura sul Nobel che abbiamo preso», spiega Fadhel Mahfoudh, presidente dell’Ordine degli avvocati e membro del Quartetto. «Il Nobel è certamente l’incoraggiamento di un processo democratico, un bel messaggio, ma questo premio non è tra le priorità del popolo tunisino. I cittadini hanno altri problemi, economici e sociali, sono fieri del riconoscimento, ma non riescono a festeggiare in un momento come questo». Secondo un report della Banca mondiale del 2014, il sistema economico esistente sotto Ben Ali non è sostanzialmente cambiato, anzi la crisi con gli anni si è aggravata e settori strategici dell’economia sono rimasti concentrati nelle mani di élite francofone che sorvegliano ogni tentativo reale di liberalizzazione.
Tra le viuzze di sassi della medina di Tunisi, la città vecchia, si ha l’impressione di un Paese impoverito dove si alternano affascinanti edifici antichi a palazzi sventrati, come colpiti da bombe. In un ostello ottocentesco interamente ricoperto di variopinte piastrelle tradizionali, lavorano due ragazzi ventenni: «Dopo la rivoluzione non è cambiato niente, al governo ci sono sempre gli stessi. Noi nei giorni della rivoluzione siamo stati in piazza a rischiare tutto, compresa la vita, ma a cosa serve la libertà se non c’è lavoro, soldi, cultura? Siamo giovani: se non vedremo futuro, faremo un’altra rivoluzione». In un Paese dove il 55% della popolazione con meno di 30 anni, soprattutto i più istruiti, non trova lavoro, aumenta la disaffezione dei giovani verso il sistema e la classe politica.
«Non si possono esercitare le libertà formali senza lavoro», dice Abdessattar Ben Moussa, rappresentate per i diritti umani e anch’egli premio Nobel. «La Tunisia, rispetto ad altri Paesi nordafricani aveva una classe media. Prima erano in molti ad appartenere a questa classe, tra avvocati e medici. Oggi anche loro sono diventati classe povera. È vero, abbiamo fatto la transizione democratica, ma ora serve la transizione economica: se non c’è quella, la democrazia resta fragile».


 

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Adagio lento, la Torino di Fassino

Senza primarie e senza dubbio alcuno, Piero Fassino, il “sabaudo”, si ricandida alla guida di Torino. «Abbiamo tenuto in piedi la città che non è stata piegata dalla crisi. Ora possiamo fare il salto verso la ripresa». Fassino, che è presidente dell’Anci, secondo Ipr è il quarto sindaco d’Italia per indice di gradimento (59,7%). Matteo Renzi lo presenta come «l’unico candidato di sinistra», forse per sbarrare la strada al deputato di Sel ed ex sindacalista Fiat Giorgio Airaudo, che ha annunciato la sua candidatura «perché solo una sinistra forte può fermare le destre». E non un sindaco di sinistra che piace alla destra come Fassino che, a sentire l’ex presidente della Regione, il forzista Enzo Ghigo, «ha lavorato molto bene».

Ma come è stata la sua gestione: ha rilanciato Torino o ne ha accompagnato il declino? «Buona anche se migliorabile» la definisce Francesco Profumo, ex rettore del Politecnico, ministro all’Istruzione del governo Monti e torinese d’adozione: «Direi che, nonostante la crisi e le condizioni difficili, la città è molto cambiata in meglio», dice a Left l’attuale presidente di Iren spa, la multiservizi torinese che guida dal 2013. Dal 2014 Profumo guida anche la Scuola di alta formazione al management di Torino. Proprio sull’investimento in formazione, ricerca e innovazione l’ex ministro apprezza l’operato di Fassino: «Un’integrazione tra domanda di lavoro e offerta formativa forte come quella realizzata a Torino la troviamo soltanto in capitali europee come Berlino, Amsterdam, Barcellona». Secondo l’ex rettore, «nonostante la pesante crisi abbia prodotto la chiusura di alcune imprese, molte altre sono cresciute, hanno un’altissima reputazione, guadagnano e assumono». Il rilancio passa anche dal nuovo piano strategico della città metropolitana 2015-2025. «Mi aspetto che nei prossimi cinque anni cominci la ripresa», dice Profumo. Di tutt’altro parere è Marco Revelli, che in Piemonte insegna Scienza della politica all’Università Avogadro e in Italia ha promosso L’Altra Europa con Tsipras. «Cinque anni grigi».

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Agnes Heller su Colonia: «Quando i soldati ungheresi molestavano le ragazze»

«Anche se non conosciamo con precisione i fatti, sappiamo abbastanza per poter fare qualche riflessione su quanto è accaduto a Colonia il 31 dicembre scorso quando donne che festeggiavano per strada state aggredite e molestate». Con una precisazione, dice Agnes Heller: «Comprendere non significa tollerare».

«In fondo non è difficile capire che cosa sia successo anche senza ipotizzare che ci fosse dietro un’organizzazione e un piano prestabilito», prosegue la filosofa ungherese. «Più della metà degli immigrati sono giovani uomini. Parliamo di uomini in viaggio da sei mesi. Una volta arrivati sono riusciti a procurarsi cibo e un posto sicuro dove stare. Ma nessuna donna tedesca farebbe l’amore con loro. Non sono abituati all’alcol, che è proibito dalla loro religione. Bere ha avuto su di loro un effetto dirompente. Qualcosa di simile è accaduto anche a Budapest subito dopo la guerra, quando i soldati tornarono a casa. Non potevo camminare per strada, senza essere molestata da un uomo, a volte anche due o tre. Se prendevo un tram c’era sempre qualcuno che ne approfittava. Nella calca, non c’era modo di sfuggire ed io ero molto imbarazzata. Posso capire che sul momento qualcuna abbia esitato a segnalare, perché si vergognava». E poi aggiunge: «Per i giovani musulmani, responsabili delle aggressioni a Colonia, una donna che beve e balla con gli uomini in pubblico è una puttana. Per questo forse non avevano neanche piena consapevolezza di commettere un crimine».
Vede un conflitto fra differenti culture dietro le molestie di Colonia e un attacco ai diritti e alla identità delle donne?
Dagli anni 60 in poi i costumi sessuali sono cambiati radicalmente in Occidente: le molestie sessuali sono inaccettabili. Anche personaggi politici di primo piano (vedi ultimamente in Israele) sono stati costretti a dimettersi perché sospettati di molestie. Nel mondo musulmano nessuno si è dimesso, piuttosto è successo il contrario. Fra le donne immigrate che mi è capitato di vedere non ce ne sono a capo scoperto in pubblico. Il solo fatto di avere i capelli sciolti, da un musulmano può essere letto come un segno di disponibilità. Con ciò non voglio dire che sia così per tutti i musulmani, probabilmente riguarda solo una minoranza che poi agisce “in buona coscienza”, proprio come molti uomini nel mio Paese che perseguitavano le adolescenti nel dopo guerra. È chiaro però che il comportamento degli aggressori musulmani di Colonia, per quanto pochi, contraddice le norme di correttezza condivise oggi in Europa. @simonamaggiorel


 

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Dallo Stato dell’Unione all’kamikaze di Istanbul, la settimana per immagini

President Barack Obama delivers his State of the Union address before a joint session of Congress on Capitol Hill in Washington, Tuesday, Jan. 12, 2016. (AP Photo/Evan Vucci, Pool)

Nell’immagine di apertura il presidente Barack Obama pronuncia il suo discorso sullo stato dell’Unione prima della sessione congiunta del Congresso a Capitol Hill a Washington. 12 gennaio 2016.
(AP Photo/Evan Vucci,Pool)

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Carlo Lucarelli indaga sul passato coloniale italiano

Nel romanzo Il tempo delle iene – che insieme a L’ottava vibrazione e Albergo Italia forma una trilogia – Carlo Lucarelli ripercorre la storia del colonialismo italiano in Eritrea. Lo fa in forma di giallo raccontando le avventure del commissario Colaprico e del suo braccio destro, l’eritreo Ogbà. Riuscendo a tratteggiare un vivido quadro delle nostre responsabilità in questa campagna africana, all’inizio ammantata di_il-tempo-delle-iene-1445387285 incivilimento risorgimentale e di vanità della monarchia sabauda. E poi sfociata nel feroce colonialismo fascista. «Sul nostro dimenticato o comunque sempre poco conosciuto passato coloniale gli storici hanno scritto molti libri, saggi approfonditi sia per quanto riguarda l’Italia liberale che poi quella fascista», fa notare lo scrittore bolognese. «Ma ciò che ancora ci manca è un immaginario familiare che possa riempire quei momenti e fargli da sfondo. Il compito della narrativa è proprio questo: mettere in scena dei meccanismi
riempiendoli di emozioni». In effetti è piuttosto curioso che per capire le dinamiche del colonialismo molti di noi abbiano più presente la vicenda del generale Custer che quella Vittorio Bottego. «Io stesso fin da bambino sapevo tutto di Little Big Horn e niente della battaglia di Adua. Anche perché – dice Lucarelli – studiare e appropriarsi di quel passato significa capire molto di quello che succede nel presente, che spesso ha proprio là le sue radici».

Una frase di Sherlock Holmes torna a risuonare in questo ultimo romanzo di Lucarelli pubblicato da Einaudi: «Non c’è niente di più innaturale dell’ovvio». E nel pensare comune ovvia, quanto costruita ad hoc, è l’immagine degli italiani “brava gente”. La leggenda del «colonialismo dal volto umano» è stata una delle più longeve e tenaci. Tanto che storici come Angelo Del Boca hanno passato la vita a cercare di smontarla, scrivendo libri che documentano la violenza italiana. E con lui grandi scrittori come Corrado Stajano.

«Gli studi di Angelo Del Boca sono fondamentali per chiunque voglia avvicinarsi all’argomento come anche quelli di Nicola Labanca, Irma Taddia o Massimo Zaccaria. Corrado Stajano, poi, è sempre un maestro. «Il mio immaginario “coloniale” viene da lì – ammette Lucarelli -, dall’esperienza diretta su quei luoghi e dall’esame critico di memoriali e fotografie». Ma il mito degli italiani brava gente, non investe soltanto il periodo coloniale. «Si estende pesantemente anche alle guerre e all’occupazione italiana. È un mito ambiguo e ingannatore, per cui possiamo trovare a livello individuale moltissimi esempi di grande umanità, ma altrettanti e più – soprattutto a livello collettivo- esempi di quella ferocia e di quella crudeltà. Quello che abbiamo fatto in Etiopia con i gas, per esempio, o con le stragi di Addis Abeba e Debrà Libanos, oppure quello che abbiamo fatto nella Jugoslavia occupata con i nazisti, lo dimostra senza possibilità di equivoco»….@simonamaggiorel ( continua sul numero in edicola)

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Libia, le braci della guerra civile

Siamo in Libia, in missione, in prima linea: in zona di crisi. O crISIS. A curare e trasportare quindici degli oltre cento feriti dell’attentato del 7 gennaio scorso, quando un’autocisterna bomba ha colpito la scuola di addestramento di polizia Al Jahfal a Zlitan, sulla costa, 160 km da Tripoli. L’attentato più sanguinoso che si ricordi dal 2011 ha fatto registrare un bilancio di 74 morti su 400 presenti. Per questa situazione, Faiez al Sarraj avrebbe firmato una richiesta di soccorso indirizzata alle divise italiane sul territorio. Il nuovo premier a capo del Consiglio presidenziale ha l’arduo compito di trovare l’unità tra i frammenti di un Paese alla deriva estremista. E la missione affidatagli sembra impossibile: serrare il vaso di Pandora del caos africano – vaso che si credeva di chiudere e invece si aprì del tutto il 20 ottobre 2011, giorno della morte del dittatore sanguinario Mu’ammar Gheddafi.

Più che un Paese, la Libia è una questione, un dossier sempre più ampio, che dalla wilaya, il golfo di Sirte, arriva fino al sudsahariano golfo del Fezzan. Più che uno Stato, la Libia è il numero di una risoluzione Onu, la 2238, datata 10 settembre 2015, secondo cui la situazione nel Paese «costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale».


 

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I media e i fatti di Colonia. “Cari giornalisti sbagliate. Dovete diventare dei ricercatori sociali”

colonia molestie rifugiati sui media

Ci risiamo. Dopo i fatti di Colonia, la Silvesternacht delle violenze alle donne da parte di gruppi di nordafricani, l’informazione ha segnato di nuovo un passo falso. Gli esempi non mancano. Prendiamo l’ultimo numero di Panorama dove campeggiano decine e decine di foto segnaletiche di uomini con la striscia nera sugli occhi e la scritta “La faccia violenta dell’immigrazione” con tanto di indicazione di un “Capodanno del terrore” anche in Italia. Serena Chiodo di Cronache di ordinario razzismo nell’editoriale del 14 gennaio collega questa copertina al fondo del direttore di un giornale che oltranzista non è, come La Stampa. Dove però Maurizio Molinari ha scritto (qui) sul “branco di Colonia” definendo quello che è successo  “un atto tribale”.

Che cosa sta accadendo all’informazione? Eppure Carta di Roma in un suo recente report del 15 dicembre aveva evidenziato come nel corso del 2015 fossero sì aumentate le notizie relative agli immigrati ma senza che questo fenomeno creasse un aumento della paura.

Ne abbiamo parlato con il professor Carlo Sorrentino, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Firenze, studioso dell’evoluzione dei percorsi della notizia – il titolo anche di un suo saggio -, mentre adesso sta ultimando un lavoro sulla formazione dell’opinione pubblica. Più attenzione ai fenomeni complessi, con i giornalisti che dovrebbero diventare ricercatori sociali e prima di tutto, classi politiche che non inseguono l’opinione pubblica ma che cercano davvero di promuovere l’integrazione attraverso l’interculturalità: ecco le proposte del sociologo.

Professor Sorrentino come le è sembrata la reazione dei media dopo i fatti di Colonia?

Modesta, e per un motivo semplice. Continuiamo a fare l’errore che a me sembra più tragico, quando si parla di immigrazione. Cioè si continua a usare una categoria di tipo emergenziale. Nel caso di Panorama o nei casi più classici come Libero, ma anche nel caso di attori sociali, come la Lega, legando l’immigrazione alla sicurezza. Oppure nel senso opposto alla solidarietà. In entrambi i casi – o cacciarli o salvarli – si tratta di logica emergenziale. E invece occorre muoverci in un altro modo.

Quale?

Bisogna prendere atto che questo è il più grande fenomeno del secolo e che non si potrà tornare indietro. Ed è anche un bene, questo, va detto. Quindi il fenomeno va gestito, ma non secondo una logica emergenziale. Poi bisogna considerare che la diversità crea diffidenza.

Come si fa a superare la diffidenza?

L’unico modo è mescolarsi. Quando parliamo di integrazione – che è una bella parola ma molto difficile da realizzarsi – non teniamo conto che l’integrazione non è soltanto costituita da determinate politiche di welfare, che garantiscano l’aspetto formale della cittadinanza. No, l’integrazione è soprattutto quotidianità culturale.

Cosa intende per mescolarsi?

Un Paese a cui dobbiamo guardare è il Canada. A parte il fatto che lì è stato più semplice essendo un mondo nuovo e fatto di immigrati, tuttavia si è lavorato su politiche fondamentali sull’immigrazione. Hanno fatto sì che – al contrario della Francia – gli immigrati non andassero ad abitare nelle zone di periferia ma che fossero diffusi su tutto il territorio. Un fenomento che da noi per fortuna si è verificato, visto che il nostro Paese è fatto di mille comuni. E pur avendo messo in campo pochissime politiche sull’immigrazione e concentrate magari su determinate regioni, noi vediamo che in Italia il fenomeno è meno drammatico rispetto ad altri Paesi. Dovremmo perseguire quindi dei progetti legati più all’interculturalità che alla multiculturalità.

E i media allora come si devono muovere in questa situazione?

I media operano soprattutto in una logica di etichettamento. Hanno poco tempo e devono inevitabilmente stereotipizzare, per cui c’è il bianco e nero, il buono e il cattivo ecc. Questo è un problema serio. Si tratta di una modalità di rappresentare la realtà che non funziona più e che non può fermarsi alla semplicità classificatoria dei decenni scorsi, perché tutti i fenomeni sociali – prendiamo per esempio le unioni civili – sono fenomeni complessi.

Qual è l’errore maggiore che  stanno facendo adesso i media?

Quello di derivare i comportamenti sessisti – se parliamo di Colonia in particolare – alla cultura religiosa di appartenenza. Certo, sicuramente esiste un problema che determinate culture dei migranti sono culture in cui i rapporti tra i sessi sono molto verticali e subordinati, ma è la religione o una tradizione culturale a dire questo? Lo squilibrio del rapporto tra i sessi è molto maggiore in Italia rispetto ai Paesi scandinavi, per esempio. Ma questo non dipende direttamente dalla religione. Ma questo ragionamento i media non lo fanno.

Ma cosa dovrebbero fare, approfondire, studiare?

Dovrebbero imparare dei metodi di lavoro che sono un po’ più riflessivi. Capisco che i media devono categorizzare, perché devono uscire tutti i giorni, tutti i minuti. Non ci si può aspettare un trattato sociologico. Però chi fa questo mestiere, sempre più fondamentale, dovrebbe avere la mente sgombra da pregiudizi e riflettere sul senso di quello che accade, senza rifugiarsi in facili categorie. I media purtroppo avallano la logica da curve calcistiche che ormai pervade la società. Questa è una logica dell’appartenenza – o sei con me o sei contro di me – ma i media dovrebbero rappresentare i fenomeni con un’altra logica, quella della distinzione. Per il mescolamento noi dobbiamo cercare di discernere. Diciamo che è un problema quasi di tipo ontologico. Voi giornalisti dite che vi limitate ai fatti, io dico che da un po’ di anni delimitate i fatti. Ma se tu hai questo compito di rendere visibile una cosa rispetto ad un’altra devi riflettere bene perché la rendi visibile. Mi sembra però che non c’è una grande consapevolezza di questo.

A differenza di dieci anni fa quando il flusso continuo di notizie non c’era, non le sembra che oggi il giornalista dovrebbe avere competenze diverse?

Sono assolutamente d’accordo. Credo che il giornalismo dovrebbe distinguersi in tre fasi. Un po’ come succede con i medici. Quando ti laurei vai a fare la guardia medica, una fascia basic, diciamo, questa è la breaking news. Poi ci sono gli altri livelli, la capacità di interpretazione di quelle notizie, la cosiddetta curation. Fino ad arrivare al ruolo del giornalista che diventa sempre più vicino a quello del ricercatore sociale. A me piacerebbe che nascessero delle joint venture tra gli editori e le università. I giornalisti di domani dovrebbero nascere non nelle attuali scuole di giornalismo ma in una sorta di factory dove si impari proprio a pensare in maniera riflessiva. Insomma, in un mondo complesso anche il sistema dei media dovrebbe diventare più complesso. Invece adesso i media sono un po’ spenti, tra la logica tradizionale della fretta e del mercato. Certo, questa funziona perché se pubblichi notizie di Belen e Balotelli vendi, ma perdi l’altra gamba del giornalismo che è quella del valore sociale.

A proposito del valore sociale, l’ultima domanda riguarda la scarsa reazione dei giornali rispetto ad una frase del presidente del consiglio Matteo Renzi che – rimandando la depenalizzazione del reato di clandestinità – ha motivato questa decisione per “la percezione di insicurezza da parte dei cittadini”. Non le sembra che una frase del genere crei ulteriore allarme?

Questo è il vero problema. Al di là dei giornalisti, se la classe dirigente politica abdica a un ruolo di costruzione dell’opinione pubblica e invece la insegue, viene meno alla sua funzione. Perde senso, ed è il problema più grande delle democrazie occidentali in questo momento. Se si dice che c’è una percezione di insicurezza fai due danni: da una parte non cerchi di incidere sull’opinione pubblica, dall’altra, inseguendola, produci quella che si chiama una profezia che si autoadempie. Se io infatti sento una frase del genere allora penso davvero che la situazione sia grave, ingenero più sfiducia. Questo è il grande problema delle classi dirigenti – e io ci metto anche i giornalisti – che inseguono l’opinione pubblica e poi ne diventano vittime.

Colonia dell’assurdo

Colonia il cielo è limpido, ma c’è un freddo pungente. Il sole delle 13 di sabato 9 gennaio irradia le persone raggruppate sugli scalini tra il duomo e la stazione centrale, l’Hauptbahnhof. Matthieu (il nome è di fantasia), 30 anni, si aggira nervoso. I suo grandi occhi azzurri sono incastonati in un viso pallido, nascosto sotto a un cappuccio grigio – lo sguardo invasato. Dalla bretella destra del suo zaino penzola un rosario di legno. Ogni volta che muove le braccia, la croce sobbalza. Sei un “mollaccione”. Mi fai schifo. Sono venuto dalla Francia per difendere le tue donne. Vuoi aspettare che questi musulmani te le violentino tutte?, esclama in inglese, indicando un signore brizzolato sulla cinquantina. Un ragazzo tedesco-tunisino che passa di lì, lo sente e si ferma. Cominciano a discutere. Il tedesco dice di capirlo, che gli arabi che hanno in Francia sono spazzatura, racalle, ma che in Germania è diverso, che non deve generalizzare.
Henriette, 65 anni, ha in mano un cartello che recita: “Angela Merkel , sei riuscita a farci preoccupare per la vita dei nostri nipoti”. Karl, un signore di settant’anni, dice che ci vorrebbero quelli marroni, Die Braunen, per dare una lezione a questi qua. Quando gli chiedo chi siano i “marroni”, si imbarazza, mi guarda e dice: Beh, insomma, i fascisti, no? Die Faschisten. Tutt’intorno ci sono altri 5 o 6 gruppi di persone che discutono di religione, del senso dell’integrazione, del «multikulti» (un’abbreviazione che sta per “multiculturalità”).
In fondo agli scalini cinquanta persone osservano il tutto. Altre passano e scorrono via. I cameraman delle emittenti televisive sono sparsi per la piazza e a turno si avvicinano per qualche ripresa. A una settimana dai fatti di Capodanno, la piazza della Stazione centrale di Colonia somiglia a un palcoscenico pronto a essere occupato da chiunque. Basta un po’ di coraggio. In televisione ci si va di sicuro. Intanto, alle ore 15, dall’altro lato della stazione va in onda il secondo atto della saga Silvesternacht, “Capodanno”. Se c’è qualcuno che è pronto a cavalcare l’onda degli avvenimenti sono i Patrioti contro l’Islamizzazione del Mondo Occidentale, cioè Pegida.

Nero-Rosso-Giallo

Il Breslauer Platz è un’enorme isola pedonale, divisa da un’entrata della metro. Da una parte, un tripudio di bandiere nero-rosso-oro. Dall’altra, i movimenti anti-razzisti e anti-fascisti. A fare da contorno 1.700 forze dell’ordine. Da un anno e mezzo, ogni volta che Pegida scende per strada, i movimenti di sinistra organizzano contro-manifestazioni. Questa volta però la competizione ha una sfumatura diversa: vince chi riesce a rivendicare il “discorso anti-sessista”. Nell’aria si sente tutto il peso dei fatti dei giorni scorsi. Le persone raccolte lungo il binario 11 della stazione sembrano quasi spettatori di un match. Tra queste c’è Anastasia, 33 anni, architetto, originaria del Khirgizistan e cresciuta in Germania. La notte di Capodanno si trovava poco lontano dalla stazione e dal duomo: Eravamo a due passi, all’inizio del ponte. C’era una quantità di gente incredibile. Sul momento non mi sono resa conto. Solo più tardi ho capito cosa avevo scampato. Le chiedo se ce l’ha con i rifugiati. Dice di no. Ma crede che 1.1 milioni (il numero di rifugiati arrivati in Germania nel 2015) siano troppi. La regione Nord Reno Westfalia, ne ha accolti 310mila quest’anno. 10mila hanno trovato dimora a Colonia. Quando chiedo ad Anastasia se ha paura di andare in giro da sola, ride. Poi si fa seria: Quello che mi spaventa sono le conseguenze che possono esserci ora. Confessa che quella è la sua prima manifestazione. È come se fosse stata risucchiata nella politica senza neanche volerlo. Probabilmente è successo a molti dopo il 31 dicembre. Verso le 17 i cortei dell’Antifa e di Pegida prendono il via e fanno il loro corso. La prima finisce pacificamente un’ora e mezzo dopo al Hans Böckler Platz. La seconda viene sciolta dalla polizia con gli idranti.

Ce l’hanno con gli arabi

Descrivere la Colonia degli ultimi 30 anni è facile: città di confine; città che ha accolto migliaia di migranti italiani e turchi; città del carnevale più sfarzoso di Germania. In due parole: città aperta. Forse proprio per questo il Paese si sente ancora più ferito. La gente ha cominciato a interessarsi alla fede musulmana dopo l’11 settembre del 2001, racconta Sarah (ancora un nome di fantasia), 34 anni, quando le chiedo del rapporto tra Colonia e la sua confessione. La incontro dopo la manifestazione in un bar del quartiere belga. I muri sono tappezzati di vecchi libri senza copertina. Lei è nata in Azerbaigian. Nel ’96, quando aveva 14 anni, i suoi genitori decisero di trasferirsi in Germania. Mi racconta dell’ossessione di dover imparare il tedesco. Perché sono venuti qua? Perché i miei genitori volevano garantire una formazione a me e mio fratello, afferma. La sua non è una storia fatta di povertà, miseria e guerre, anzi: sua madre è chirurgo e sapeva il tedesco già prima di trasferirsi. Anche in Germania ha trovato lavoro in ospedale. Sarah dice che ancora oggi sua madre specifica di essere medico quando si presenta al telefono: Lo fa per compensare il suo accento. C’è ancora un razzismo delle piccole cose in questo Paese. Poi però ammette che sua madre ce l’ha con gli arabi che arrivano ora. Fosse per sua madre, entrerebbero in Germania solo persone qualificate.


 

Continua sul n. 3 di Left in edicola dal 16 gennaio 2016

 

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