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Le lacrime di Obama

Le lacrime di Obama sono una metafora del tempo che viviamo. Questo presidente ha fatto per l’America certamente più dei Bush, padre e figlio, ma anche più di Clinton e di Reagan: ha varato una riforma sanitaria, dato impulso all’economia verde, risollevato il sistema bancario dopo la terribile crisi del 2007-2008, infine ha contrastato, con qualche successo, l’aumento della disoccupazione.
Eppure tanta America gli volta le spalle. L’ultimo sondaggio Cbs contrappone a un 46 per cento di cittadini statunitensi che ne approva l’operato, un altro 47 per cento che disapprova la sua politica. Fra i repubblicani fa faville Donald Trump, che montò contro Obama una campagna denigratoria sfruttando il suo secondo nome, Hussein, per dirgli addirittura: non sei americano. E il candidato democratico a succedergli sarà probabilmente Hilary Clinton, avversaria sprezzante nelle primarie del 2007, che promette all’America una politica più tradizionale e realista, certo meno visionaria.
C’è poi un’America – e ha tanta voce – che vorrebbe un muro alla frontiera con il Messico, che ripudia la sanatoria dei lavoratori immigrati voluta da Obama, che accusa il Presidente di aver reso il Paese meno sicuro, che si schiera con gli agenti bianchi che sparano su ogni negro che si muova. Un’America che, dopo ogni attentato, corre a comprare fucili da guerra per difendersi a mano armata. E una che accusa Obama, e non i precedenti trent’anni di liberismo, di aver moltiplicato le disuguaglianze e frustrato la fiducia della middle class nel sogno americano.
Obama ha chiuso due ferite infette da mezzo secolo. Riavviato il dialogo con la Cuba dei Castro, aperto il confronto con l’Iran degli Ajatollah. Può dire game over, avendo eliminato il nemico pubblico numero uno, l’ispiratore dell’attentato alle torri gemelle. Ma dopo Al Qaeda, è arrivato il Daesh. L’alleato saudita simula una guerra con l’Iran, bombardando e invadendo lo Yemen e provocando gli islamici sciiti con l’esecuzione di Al Nimr. A Obama sfugge il controllo nel giardino del petrolio, in Medio Oriente. E così l’avversario della guerra fredda, tenuto a bada in Ucraina, entra in quel giardino e, come un playmaker, guida l’offensiva contro il Califfato che gli alleati renitenti degli Stati Uniti avevano rinviato e sabotato.
Certo Obama può ben dire, nel suo settimo discorso sullo stato dell’unione, di aver fatto molto, contro il terrorismo, per la sicurezza e per il benessere dei suoi concittadini. Ma è come se a ogni ferita sanata se ne aprisse un’altra. Perciò l’ultimo discorso del presidente e le sue lacrime di pochi giorni prima, vanno letti uno accanto alle altre. Obama ha fatto molto, ma facendo ha rimosso il velo d’inganno. Ha detto agli americani e al mondo che non può esserci una sola superpotenza capace di regolare ogni cosa. Un governo multipolare del mondo è cosa difficile, mai tentata. Si può schiacciare la testa del califfo, come si è fatto con Al Qaeda, ma il terrorismo tornerà in altre forme. Si può superare una crisi, provare a riconvertire la macchina produttiva, ma l’americano medio non crede che i figli vivranno meglio.

Orgoglio e lacrime. Mi torna in mente un film di 11 minuti firmato da Sean Penn. Un vecchio parla alla moglie morta, innaffia dei fiori secchi, vive nell’ombra. Poi crollano le torri ed entra la luce nella sua stanza. Il vecchio comprende e piange. C’è chi giudicò quel film un insulto all’America ferita dal terrore. Gli stessi che imputano a Obama di disvelare la realtà. Per noi, però, la verità è rivoluzionaria.

Continua sul n. 3 di Left in edicola dal 16 gennaio 2016

 

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Cartoline contro il Muos

Oltre 180 opere, 113 artisti, 17 paesi diversi. Sono i numeri della mostra “Mail Art NoMuos” inaugurata a Enna, una carrellata di cartoline arrivate da tutto il mondo a supporto di una battaglia che in Sicilia va avanti da molto tempo contro il Muos, il potentissimo sistema satellitare Usa, rappresentato da tre gigantesche antenne paraboliche istallate a Niscemi, al centro della Sicilia in una splendida riserva naturale. La mostra, che si tiene alla Galleria Civica, viene inaugurata a quattro giorni dalla decisione del prefetto di Caltanissetta di non procedere con i test sull’impianto per motivi di sicurezza.

renata-e-giovanni-stradada-1 schoko-casana-rosso-1 samuel-montalvetti-argentina no muos planer-russia no muosResterà aperta fino a domenica 17 gennaio ed è «frutto – spiega la vulcanica Cinzia Farina, ideatrice e curatrice dell’evento – di un progetto lanciato nell’agosto 2014 per sensibilizzare il resto del mondo al problema dell’istallazione statunitense in questa parte di Sicilia, in difesa del nostro territorio, della democrazia, della pace e della salute dei cittadini», insieme al Comitato NoMuos di Enna, diretto da Angelo Barberi. Non a caso è stata scelta la Mail Art, letteralmente arte che viaggia per posta, che preferisce comunicare il proprio messaggio, di diffondersi e dialogare col mondo, al di fuori dei circuiti tradizionali, del sistema delle gallerie e dei mercanti, del business.

All’appello hanno risposto moltissimi artisti, nomi noti nel panorama culturale contemporaneo e rappresentanti storici della MailArt mondiale, che questi mesi hanno inviato nel cuore della Sicilia le loro cartoline da tutta Europa, dagli Stati Uniti, da Israele, dalla Russia, dai paesi dell’America Latina, dal Canada e dalla Turchia. Tra gli artisti italiani che hanno voluto inviare una loro testimonianza c’è anche Rap, ovvero Chiara Rapaccini, illustratrice e designer, che per oltre trent’anni è stata la compagna di Mario Monicelli. «Ci sono anche autori emergenti e persone semplicemente sensibili al tema proposto, che si sono cimentate per la prima volta in questa entusiasmante esperienza», aggiunge Cinzia Farina, che aggiunge: «Abbiamo deciso di non esporre le cartoline greetings dalla guerra, ma di distribuirle tra i visitatori, che ne faranno ciò che vogliono, tenersele o spedirle a loro piacimento». Un altro modo per rendere l’arte patrimonio di tutti.

Giachetti ha detto sì (con il via libera di Bettini e Zingaretti)

Dal belvedere del Gianicolo (ma parlando delle periferie) Roberto Giachetti accetta l’investitura ricevuta da Matteo Renzi. Si candida così alle primarie che il partito democratico farà a marzo, due mesi prima delle elezioni amministrative.

Il vicepresidente della Camera comincia dunque la sua campagna elettorale, dà appuntamento per i dettagli alla prossima settimana, e però sa già di avere davanti a sé un’autostrada.
La minoranza dem vorrebbe infatti trovare un nome da contrapporre al candidato renziano, ma per ora le carte non escono da mazzo. E anzi, si registrano due perdite di peso, in città. Tanto il presidente della Regione Nicola Zingaretti quanto Goffredo Bettini (per anni animatore delle giunte Veltroni e poi “inventore” della candidatura di Ignazio Marino, quando Renzi sostenne Gentiloni) hanno infatti detto che a loro Giachetti va benissimo.

Bettini lo ha detto dicendosi disinteressato alle vicende romane (è europarlamentare, adesso) e pronto a sostenere «le indicazioni del segretario nazionale». Zingaretti è stato invece più esplicito. Per la minoranza dem è una doccia fredda. Zingaretti è una potenza, in città, una delle anime non renziane del partito romano. E però ha detto: «Sosterrò Roberto Giachetti sindaco. Come ha detto Renzi è un candidato credibile che può vincere».

17 gennaio | La rassegna di domani

fermate le rotative

Un giorno semplice, per noi giornalisti. Con due titoli già scritti. Crollano le borse: giù Londra, Francoforte, Parigi e Milano. Perché? Perché il barile del petrolio è sceso di nuovo sotto i 30 dollari. Così in Europa i prezzi ristagnano e i Paesi emergenti sono nella peste, visto che insieme al petrolio vanno giù tutte le materie prime. Perchè la locomotiva cinese continua, inesorabole, a rallentare la sua andatura. Perché la ripresa negli Stati Uniti è a macchia di leopardo e, per esempio, i dati sulla produzione manufatturiera nello Stato di New York sono peggiori delle attese. La ripresa robusta su cui puntava il nostro governo sembra, purtroppo, una chimera.

Le spine di Juncker pungono Renzi potrebbe essere l’altro titolo. Se primo o secondo, dipende se si intende dare centralità alla politica oppure ai mercati. «La smetta di offendere l’UE» ha detto il presidente della commissione di Bruxelles al rottamatore. E poi ha aggiunto: «La flessibilità l’ho introdotta io», insomma, non fare il furbo! Prima reazione, imbarazzata, di Padoan: «Non intendevamo offendere». Mogherini fa l’equidistante, cioè prende le distanze da chi l’ha imposta in Europa.

Altro titolo che potrebbe – secondo me, dovrebbe – trovare spazio in prima: 12 professori fatti arrestare da Erdogan perché avevano promosso un appello per la pace e a favore dei curdi.

Giachetti si candida, Fassina si frega le mani. D’accordo, il titolo non lo troverete in questa forma, ma è un fatto che il radical-piddino, di recente assiduo bastonatore di grillini e “sinistri”, abbia finalmente comunicato la sua intenzione di correre per la candidatura alla carica di sindaco della Capitale. Fassina ha colto la palla al balzo: vedete che non c’erano le condizioni per un candidatura unitaria col Pd?

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Libia, perché un intervento italiano o europeo sarebbe un errore

Ci sono due processi simultanei in corso sulla Libia. Uno è il dialogo politico promosso dall’Onu e sostenuto (almeno a parole) da tutti i Paesi dell’area. I suoi punti culminanti sono stati la conferenza internazionale a Roma il 13 dicembre e la firma di un accordo di pace tra le fazioni libiche quattro giorni dopo in Marocco. Quella firma ha portato alla nascita di un governo di unità nazionale con a capo l’ex architetto Faiez Serraj che però ancora non opera in Libia. Nonostante qualche progresso significativo, la scadenza del 17 gennaio per il completamento del processo politico potrebbe passare senza che la Libia abbia allo stesso tempo un governo riconosciuto dalla comunità internazionale ed effettivamente governante dalla capitale Tripoli.
Il secondo processo in atto sulla Libia è l’avanzata in parallelo dell’Isis e delle pressioni, in Europa ed in Italia, per una risposta armata da parte europea. Il cosiddetto Stato Islamico in Libia è operativo da più di un anno. Inizialmente formato dai reduci libici della guerra in Siria (la brigata “Battar”), il Daesh libico si era installato nella città di Derna da cui però è stato cacciato nel giugno scorso da un’inedita alleanza tra jihadisti anti-Isis e popolazione locale. Ora opera nella Libia centrale, attorno alla città di Sirte ed è formato da alcune migliaia di militanti soprattutto di provenienza nordafricana. La popolazione locale vive Daesh come un’occupazione straniera.
L’espansione di Daesh in Libia spaventa soprattutto per il suo potenziale di attrazione per i jihadisti della regione a cui potrebbe offrire un’opportunità di addestramento e di basi militari molto più vicino a casa ma anche per la possibilità che i jihadisti arrivino a controllare le risorse petrolifere libiche e poi ad attaccare l’Europa.


 

Questo commento è sul n. 3 di Left in edicola dal 16 gennaio 2016

 

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Più salirà il livello dell’offensiva jihadista e più forti si faranno le voci per attacchi aerei occidentali. La risoluzione Onu 2259 approvata a dicembre stabilisce che qualsiasi forma di “assistenza” debba passare per l’approvazione del nuovo governo libico ma il rischio è che in assenza di progressi del primo processo (quello politico, appunto) alcuni paesi decidano di attaccare lo stesso in Libia. è molto probabile che in quel caso l’Italia si accodi a Francia, Gran Bretagna e USA anche per avere una voce in capitolo sulla strategia.
Sarebbe un grave errore. Non è chiaro cosa potrebbero conseguire degli attacchi aerei contro una forza che non ha ancora caratteristiche propriamente militari quanto piuttosto di una forza terroristica che si muove di città in città. Servirebbe piuttosto un contrasto a terra, fatto da forze libiche in nome della liberazione del Paese da un’occupazione straniera. Ci sono solo embrioni di questa risposta: le guardie petrolifere (di tendenza seccessionista della Cirenaica) hanno respinto l’offensiva sui pozzi in coordinamento con l’aviazione della città di Misurata, precedentemente ostile.
L’Europa deve far crescere il coordinamento tra queste forze ed aiutare tutte le forze libiche (comuni, forze sociali, tribù) a dare una risposta politica unitaria. Un intervento occidentale in assenza di ciò delegittimerebbe il governo di Serraj e deresponsabilizzerebbe i gruppi armati libici. Spetterebbe invece alla risposta unitaria libica di cui sopra, eventualmente, chiedere un supporto aereo occidentale.

*European Council on Foreign Relations – Londra

Il contadino invisibile. Il ministero delle Politiche Agricole cambia nome

A rottamare l’agricoltura italiana , con un sol colpo, ci avevano pensato in molti, a cominciare da quelli che volevano abolire il ministero dell’agricoltura per non dover affrontare la riforma del suo fallimentare funzionamento ma sembra che solo il primo ministro Renzi ci possa riuscire.

Così almeno a stare all’annuncio ufficiale che, ci informa, “Il dicastero delle Politiche Agricole cambia nome e diventerà “ministero dell’Agroalimentare” ( presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi – 13.01.2016) per accompagnare l’accordo da 6 miliardi di euro siglato tra governo e Intesa San Paolo per finanziare il settore agroalimentare”. A leggere il comunicato si capisce che per il Ministro Martina e per il governo per “agroalimentare” si intende “agribusiness.” cioè industria agroalimentare. E’risaputo che, in questa visione, “…la componente agricola tende a sparire, mentre assume un peso sempre maggiore il settore distributivo…” e delle industrie agroalimentari a monte ed a valle della produzione agricola.

Tutti a lamentarsi di quanto “la politica sia separata dal paese”, quindi non ci sorprendiamo che il governo non si ricordi che l’agricoltura italiana – il cosiddetto settore primario – a pari merito con quella francese , sia la più importante dell’UE, che – stando ai dati ISTAT (SPA, 2013) – e’ fatta di 1.516.000 aziende e 992.000 occupati (cioè il 72% degli occupati del settore) contro gli occupati nelle imprese industriali del settore ( tutto compreso, anche la ristorazione e gli ambulanti) che rappresentano solo il 28% degli occupati.

Viene ripetuto continuamente che l’export agroalimentare è quello che tira, che ci salverà il mercato mondiale della crescita dei consumi alimentare nei paesi emergenti e nelle megalopoli (magari dando credito alle stime ottimiste proiettate al 2050 quando la crisi economica sarà solo un ricordo), senza mai dirci chi produrrà quello che esportiamo o esporteremo.

Vediamo come sono andate le cose con il nostro commercio internazionale agroalimentare, ricordando comunque che le vendite dell’ agroalimentare “italiano” dipendono per tre quarti ancora dal mercato domestico. (ISMEA). “Ancora sostenute dal deprezzamento dell’euro, le esportazioni dei prodotti agroalimentari italiani migliorano invece la perfomance già positiva dei mesi precedenti, con un solido più 7,1% nei primi 5 mesi dell’anno 2015”(ISMEA). E ancora “Da segnalare il contributo particolarmente positivo dell’agricoltura che avanza all’estero dell’11,8% a fronte di un incremento più contenuto dell’industria alimentare (+6%)”. Questi dati sono riferiti, però, al 2014 che si era chiuso con un meno 1,65% sul 2013 per l’export del settore primario (in cui il settore primario per uso alimentare riportava un meno 1,54 %) e con un più 0,69 per le importazioni ma con un più 1,63% per l’ importazione di prodotti per uso alimentare del settore primario. Per l’ industria agroalimentare, il 2014 si era chiuso con un più 2,89% sul 2013 per l’export, mentre le importazione avevano realizzato una crescita del 4,38% sul 2013 (Federalimentare Servizi srl ). Come dire, nessuno di questi dati fa prevedere miracoli nell’ export mentre evidenziano una continua erosione del mercato interno da parte delle produzione importate.

L’industria agroalimentare italiana ha molte caratteristiche, decantate dalla mitologia del made in Italy, tra cui quella di essere effettivamente poco “italiana”. Sulle 114 grandi Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco (con oltre 250 addetti) nel nostro paese (ISTAT), 27 sono a controllo estero (“multinazionali”) e 87 sono a controllo nazionale. Le multinazionali nell’agroalimentare, pur rappresentando solo lo 0,3% dell’imprese (183 in totale, comprese quelle di dimensione più ridotta ), realizzano il 14 % del fatturato totale, il 14,2% del valore, il 17,3 % degli investimenti in ricerca ed innovazione ed occupano 30.600 addetti (ISTAT, 2013), pari al 7,1% degli addetti. Nel 2013 hanno fatturato circa 18 miliardi di euro.

Il loro scambi all’interno dello stesso gruppo rappresentano il 71,8% dell’export totale delle Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco “italiane” (ISTAT, anno 2013). Che qui sia celato la performance delle esportazioni agroalimentari italiane? Sostenere l’export agroalimentare rafforzerà le multinazionali del settore presumibilmente a scapito della PMI italiana ancora esistente..

Qualche nome (in ordine di volume di fatturato totale, 2012): Unilever Plc/Unilever NV, Nestlè, Lactalis, Heineken N.V., Groupe Danone. Ferrero, la prima delle imprese italiane, sta al 12.mo posto in questa graduatoria.

Se solo si guardasse con occhio attento (e competente) la struttura dell’economia agricola del paese, certo che dovremmo cambiare nome al Ministero, magari chiamandolo “Ministero dell’alimentazione, agricoltura e sviluppo rurale”.

Ma prima di cambiare il nome al Ministero sarebbe sicuramente più utile cambiare visione dell’agricoltura del paese, immaginando di valorizzare la capacità produttiva, di investimento e transizione agro ecologica di quel milione di aziende agricole di piccola e media dimensione che sono la struttura portante dell’agricoltura italiana e della sua capacità di fornire occupazione oltre che alimenti di qualità prima di tutto al mercato interno nazionale ed europeo.

«Se torneno i democristiani annamo tutti pe’ stracci». Franco Citti e Ninetto Davoli testimonial del Pci per Roma

E’ morto Franco Citti: un altro mondo, un’altra stagione culturale e politica. Ecco venti minuti di video ripreso dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio in cui lui, Ninetto Davoli e Antonello Venditti spiegano l’importanza di votare Pci: dall’acqua corrente alle passeggiate ai Fori imperiali. La cultura, il centro dove anche i borgatari possono andare a passeggiare e il sindaco che parla con la gente (e Caltagirone dipinto come il male)

Cannabis, la depenalizzazione è solo una sanatoria

cannabis

La depenalizzazione della coltivazione della cannabis è stata decisa oggi in Consiglio dei ministri, all’interno di un pacchetto più ampio di depenalizzazione, tra cui la guida senza patente.
Prima di cantare vittoria, che sia ben chiaro: non si tratta di una liberalizzazione, né tantomeno di un disegno di legge volto al libero utilizzo per fini personali della sostanza, nemmeno a scopi curativi. Di fatto, è una sorta di “sanatoria” riguardante quelle aziende che già coltivano cannabis per fini terapeutici. Per loro, qualora dovessero contravvenire alle motivazioni per cui hanno ottenuto l’autorizzazione alla coltivazione, d’ora in poi, anziché di illecito penale, si tratterà ora di illecito amministrativo, e la pena di un anno verrà sostituita con una sanzione da 5mila a 30mila euro.
Fra questi, sarebbe il caso per esempio dello Stabilimento Chimico Farmaceutico Militare di Firenze in cui è attualmente in corso il programma di sperimentazione della coltivazione della marijuana terapeutica. Qui, la produzione è stata fissata in 100 chilogrammi di cannabis terapeutica l’anno stimati come fabbisogno nazionale.
Per tutti gli altri, la coltivazione di “erba” resta reato. Niente a che fare dunque con la medicalizzazione della cannabis, né con un provvedimento che semplifichi o ampli la coltivazione a scopi terapeutici.
Nel frattempo, si attende che prosegua l’esame della proposta di legge sulle “Disposizioni in materia di legalizzazione della coltivazione, della lavorazione e della vendita della cannabis e dei suoi derivati”, presentata dall’intergruppo Cannabis legale e firmata da quasi 300 parlamentari.
Lavori che invece molte Regioni dello Stivale stanno varando autonomamente, andando ben al di là della regolamentazione medica, e anticipando le misure del tanto atteso disegno di legge. È il caso, fra le altre, di Toscana e Sicilia.

Antigone e la CILD, che promuovono la campagna Non me la spacci giusta, in favore di una legalizzazione vera, commentano:

Questa depenalizzazione non avrà quindi alcun impatto sulla condizione delle carceri né, tantomeno, su quella delle tante persone che si curano già oggi con la cannabis terapeutica, auto-coltivandola, con tutte le conseguenze penali del caso, come ci raccontano storie di attualità. Attualmente un terzo dei detenuti è recluso per aver violato le leggi sulla droga. Lo Stato spende oltre 1 miliardo l’anno per tenere in carcere queste persone che hanno commesso reati di alcuna pericolosità sociale. Molti Paesi hanno capito che la questione droghe non si risolve con la criminalizzazione dei consumatori. Lo stesso Obama ha concesso numerose “grazie” nelle ultime settimane per chi era in carcere per questo tipo di reati.

In Europa, l’unico Paese a consentire il consumo di cannabis – a scopo medico quanto a scopo ricreativo – è l’Olanda, mentre la Germania ne consente la coltivazione e la vendita solo dietro specifica autorizzazione dell’istituto federale per le droghe e le medicine.

 

 

Attacco jihadista in una base militare in Somalia, i miliziani rivendicano l’uccisione di 60 soldati

somalia attacco jihadista

60 i soldati del Kenya uccisi in un attacco sferrato dai miliziani somali di al-Shaabab legati ad al-Qaeda contro una base di peacekeeper dell’Unione Africana (Ua) a Ceel Cado, nel sudovest della Somalia a circa 550 chilometri da Mogadiscio. Questi i numeri rivendicati dal gruppo islamico sulla propria radio online, gli al-Shaabab hanno fatto inoltre sapere che i propri uomini sono entrati nella base e dichiarato: «abbiamo preso pieno controllo della base». Bbc ha raccolto le testimonianze dei residenti nelle vicinanze della base che sembrano confermare e dichiarano di aver sentito un’enorme esplosione (probabilmente un primo attacco bomba per entrare nella base) a cui è seguita una pesante sparatoria. «Abbiamo poi visto un combattente di al-Shabab in città. – hanno continuato gli abitanti sentiti telefonicamente da Bbc – Abbiamo anche visto i soldati keniani che fuggivano dal campo.Al momento il campo è nelle mani di al-Shabab . Possiamo vedere auto militari in fiamme e soldati morti dappertutto. Non ci sono vittime civili ma la maggior parte delle persone sono fuggite alla città».
Alcune immagini che stanno documentando quanto accaduto via twitter:

Una cartina per capire il terrorismo jihadista in Africa

Trump, Cruz, Rubio: nell’ultimo dibattito prima del voto in Iowa il gioco si fa duro

Hanno litigato sull’immigrazione – o meglio su chi sarebbe più duro con gli immigrati – sul luogo di nascita di Ted Cruz, senatore texano nato in Canada, cosa che secondo Donald Trump e alcuni giuristi rende impossibile la sua nomina a presidente, sulle tasse. E si sono attaccati con una certa durezza, anche quelli che fino a ieri tendevano a evitare di farlo. E poi hanno attaccato Obama e Clinton, specie sull’ipotesi di limitare la circolazione delle armi.
L’ultimo dibattito Tv (il cinquecentesimo?) prima del primo voto nelle primarie vedeva solo sette persone sul palco e tre persone da tenere d’occhio: Donald Trump, Marco Rubio e Ted Cruz. I tre sono andati tutti piuttosto bene e confermano l’idea di un partito repubblicano Usa che corre piuttosto a destra.

  Qualche scambio duro, qualche battuta azzeccata e alcune tra le solite cose. Prendiamo qualche battuta per capire il tono. Quando Trump spiega che sarebbe imbarazzante per l’America nominare Cruz (che essendo nato in Canada potrebbe non essere, secondo alcune interpretazioni della costituzione e della definizione di “naturalizzato”), il senatore del Texas risponde: «Mesi fa Donald ne aveva parlato, dicendo che i suoi avvocati avevano studiato la cosa e che non presentava problemi. Da settembre a oggi non è cambiata la costituzione, ma io sono salito nei sondaggi». Risposta: «Mettiamo che io scelga Ted come mio vice, se poi i democratici ci facessero causa?». Replica di Cruz: «Facciamo così, ti nomino io e così se è vero quel che dici, io decado e tu finisci con il diventare presidente». Cruz a sua volta accusa Trump di incarnare i valori di New York (liberale, europea, poco conservatrice, ossessionata dai soldi) e Trump replica indignato sulla reazione eroica dei newyorchesi dopo l’11 settembre «con la puzza di morte…tutti amavano New York e i newyorchesi». Applausi in sala. Jeb Bush prova ancora una volta a conquistare il cuore dei moderati attaccando Trump – un’ossessione, il suo account Twitter non fa altro – «Davvero vuoi chiudere il Paese ai musulmani? Tutti? Non è così che creiamo una coalizione per fermare l’ISIS. I curdi sono nostri alleati e sono musulmani». Funzionerà? Ad oggi la moderazione non ha funzionato, ma chissà che non ci siano masse di repubblicani decisi ad andare a votare per un candidato meno estremo. [divider] [/divider]

Cosa cercano gli americani su Google durante il dibattito? Quanti follower si guadagnano su Twitter?


 

Marco Rubio, senatore della Florida conservatore quanto basta che resta la speranza dei piani alti del partito per fermare la deriva estremista, ha attaccato Clinton su Benghazi: «Chi mente alle famiglie delle vittime non può essere responsabile della sicurezza nazionale» e si è scontrato con Christie (che a sua volta lo attacca pensando che indebolendo lui, il nuovo moderato ma abbastanza conservatore da piacere alla base non può che essere lui).

A sua volta Rubio si è dovuto difendere per aver cambiato posizione sull’immigrazione. Prima voleva una riforma, oggi promette di chiudere le frontiere. «La questione sicurezza è cambiata», prova a dire. Debole: la sua debolezza sta proprio nell’aver cambiato posizione su alcune cose perché dopo aver provato a emergere come figura centrista-conservatrice si è reso conto che la base che avrebbe votato alle primarie è in cerca di un candidato sanguigno.

Cosa ci dice questo dibattito di nuovo? Niente. O meglio, che ci sono due campagne in corso, quella nazionale, dove tre candidati dominano e quella locale dove gli stessi tre sono avanti, con Trump molto primo in New Hampshire, mentre in Iowa è appaiato a Cruz. Poi c’è la campagna locale, fatta di spot Tv che contengono attacchi molto più violenti di quelli che i candidati si sono fati sul palco e dal lavoro sul territorio, che implica porta-a-porta, telefonate, ricerca di appoggi locali importanti, insistenza su temi locali. Per Bush, Christie, Kasich e altri la sfida rimane quella: organizzare la campagna locale al meglio, ottenere buoni risultati nei primi Stati e, quindi, riemergere come candidato nazionale.

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Gli attacchi in Tv

Due esempi di spot anti Rubio, che ha cambiato posizione su alcuni temi da quando è candidato. I suoi avversari lo accusano di flip-floppin’ (cambiare posizione, appunto) e di essere uno che sceglie sulla base dela convenienza

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Per altri, Trump in testa, la sfida è quella di essere così popolare d portare gente a votarlo a prescindere dalla proprie capacità operative sul territorio. Per Cruz siamo alla via di mezzo: è lui che sta emergendo come campione dei conservatori più duri, è forte come performer a livello nazionale, ma ha anche avuto la capacità di organizzare attorno a sè il voto evangelico. Ai vertici del partito, ai miliardari che donano soldi resta da capire cosa fare nelle prossime settimane se Cruz o Trump, come appare sempre più probabile – emergeranno come i frontrunner. Chi è il più papabile per la sfide contro Clinton e chi cercare di fermare? Da mesi alcuni nel partito repubblicano ci si rompono la testa. E non trovano una soluzione.