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Le dieci righe con cui Rodotà spiega perché la legge Cirinnà va votata ma non basta

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A fine gennaio la legge Cirinnà sulle unioni civili passerà al vaglio del Senato. È un voto delicato per le resistenze interne alla maggioranza di governo (Ncd è contrario) e allo stesso Pd. Sono anzi proprio tre senatrici dem ad aver annunciato un emendamento che punta a depotenziare l’aspetto più discusso della legge, l’istituto della stepchild adoption, l’adozione cioè del figlio del partner.

E se dei voti di Ncd si potrebbe anche fare a meno, contando sui voti di 5 stelle e Sel (il Pd stesso dice che si può fare, perché «l’importante è tenere fede all’impegno»), il premier ha detto chiaramente che ci potrà essere libertà di coscienza e il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini ha aggiunto che il testo potrà esser modificato, perché deve «rappresentare un punto d’equilibrio e non la vittoria di una parte contro l’altra».

E se i 5 stelle hanno detto (per bocca del senatore Airola) che non voteranno un testo annacquato (ma a palazzo Madama si dice che non vedono l’ora, in realtà, di sfilarsi, perché anche il loro gruppo non è così compatto sul tema), è così probabile che la legge Cirinnà incasserà il primo sì, ma che verrà ulteriormente ridimensionata.

Scriviamo ulteriormente, perché leggendo quanto scrive su Repubblica Stefano Rodotà, si capisce benissimo come la legge sulle unioni civili sia già un compromesso rispetto a quanto ci permetterebbe, come dice Renzi, di non essere più «fanalino di coda in Europa».

Scrive Stefano Rodotà: «La Corte Europea dei diritti dell’uomo, infatti, non si è limitata a condannare l’Italia per il ritardo nel dare una adeguata disciplina alle coppie dello stesso sesso. Ha ricordato pure che il nostro paese è ormai parte di un sistema giuridico allargato, di cui deve rispettare principi e regole, sì che la stessa scelta del Parlamento, la discrezionalità del legislatore risultato limitate. Si sottolinea che ormai la maggioranza dei paesi del Consiglio d’Europa (24 su 47) riconosce nella loro pienezza quelle unioni. E questo non è un semplice dato statistico, ma una indicazione che rende più stringente il “dovere positivo” dell’Italia di intervenire senza inammissibili restrizioni».

È «il paradigma eterossessuale», spiega Rodotà, che «crea oramai incostituzionalità». Ed ecco perché la legge Cirinnà è solo sufficiente, già senza ulteriori moderazioni: «Di questo si deve tener conto quando si contesta l’ammissibilità dell’accesso delle coppie tra persone dello stesso stesso al matrimonio egualitario, di cui oggi non si vuol nemmeno discutere».

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La tenacia ha un nome e un cognome: Ilaria Cucchi

Ilaria Cucchi lascia l'aula dopo la sentenza della corte d'appello sul processo Stefano Cucchi. Roma 31 ottobre 2014. ANSA/ANGELO CARCONI

Si è alzato un gran polverone ieri sera quando Ilaria Cucchi (sorella di Stefano ammazzato di botte da un’allegra combriccola di uomini di Stato) ha pubblicato sul proprio profilo Facebook la foto di uno dei carabinieri che ha avuto la grazia di vantarsi di avere partecipato al pestaggio oltre che aver consegnato alla storia (dei miserabili) una bella testimonianza falsa; il tutto sotto il nome sacro dell’Arma dei Carabinieri che ha un ufficio di Eccesso di Difesa sempre pronto a stanare le deplorevoli azioni degli altri, nonostante la miopia interna.

Ha voluto, Ilaria, raccontare la sensazione che ha provato nel vedere la foto del caro carabiniere Francesco Tedesco (ai tempi del pestaggio maresciallo presso la Stazione Appia) che sorride con postura da bronzo di Riace in riva al mare fornito di sorriso marpione. Forse Ilaria avrà pensato che valesse la pena sottolineare la differenza tra la “freschezza” del Tedesco spiaggiato rispetto alle ultime foto di suo fratello Stefano che ricordano piuttosto un Frankenstein viola di botte e cucito tutto sghembo. Forse anche Ilaria, come molti in questo tempo di sensazioni effimere, ha capito che non c’è tempo per i ragionamenti ma a volte occorre puntare sull’emergenza emotiva.

Molti ovviamente hanno gridato allo scandalo: “ma come si permette la sorella di un morto ammazzato di botte di mostrare le foto (pubbliche) di uno degli aguzzini del fratello?”. Già, che schifo. E non ho dubbi che qualche appartenente all’arma alzerà la voce in nome del vizio capitale del nostro tempo: il garantismo a targhe alterne. Un garantismo che ha attecchito tra le fronde dei moralisti per convenienza e dei ricercatori di granelli di sabbia negli occhi degli altri che si scordano (tu guarda a volte il caso) di vedere le travi che stanno negli occhi di alcuni pezzi di Stato. Gente in divisa che vorrebbe godere di maggior condono piuttosto che responsabilità in nome di un ruolo di garanzia che vale solo per se stessi. Appartenenti alle forze dell’ordine che si sono specializzati in una solidarietà valida solo tra sodali alla stregua dei meccanismi sociali di un clan.

“I processi si fanno in tribunale” dicono, “mica su Facebook” dimenticando che se Ilaria si fosse fermata alla porta dell’Aula di tribunale oggi avrebbe solo un fratello scemo morto per malnutrizione. Roba da spaccare i muri a testate. E invece, lei, ha capito e ci ha insegnato (e ci insegna ancora) che la tenacia è tutto quel rumore che si riesce a coagulare per urlare che qualcosa è falso, sbagliato o finto. E qui di falso c’è la strategia difensiva di carabinieri che meriterebbero una confisca dei beni e della divisa; di sbagliato c’è un primo grado di giudizio che ha fatto acqua da tutte le parti e di finto c’è il garantismo di chi si è già giocato la credibilità.

La tenacia ha un nome e un cognome: Ilaria Cucchi. E ce n’è bisogno di tenaci, ostinati e curiosi in un Paese dove la propaganda è una forma evoluta di servitù.

Il fotografo come soggetto: l’arte di Francesca Woodman

Francesca Woodman, From Space, 1976 © Betty and George Woodman NB: No toning, cropping, enlarging, or overprinting with text allowed.

Tra il 18 dicembre e il 9 marzo, al FOAM di Amsterdam sono esposte le foto di Francesca Woodman, la mostra è titolata “On Being an Angel”.

Il tema centrale del lavoro della fotografa era Francesca Woodman stessa, era lei l’unico soggetto del proprio lavoro. Il lavoro di questa giovane donna suicidatasi a 22 anni nel 1981 ha ispirato artisti di tutto il mondo. La mostra si compone di 102 stampe d’argento tra cui diverse di grande formato e sei brevi video.

In apertura Francesca Woodman, From Space, 1976 © Betty and George Woodman

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Suono e ci campo. Ecco come fare

musica indipendente

Il musicista, si sa, è uno dei lavori più rischiosi al mondo dal punto di vista economico, patrimoniale e finanziario. Lo è per gli artisti, lo è per le etichette: secondo uno studio della Recording Industry Association of America solo il 10 per cento degli artisti contrattualizzati riesce a far profitti, andando così a sanare il 90 per cento delle perdite delle label. Chi è dunque quell’imprenditore così folle da entrare in un business del genere?
Partiamo da questi presupposti per fare un calcolo di cosa e quanto dovrebbe vendere un musicista per arrivare a vivere del proprio talento, e diciamo quindi a un’entrata di 1.200 euro al mese. Cosa e quanto deve vendere per sbarcare il lunario  un artista emergente e indipendente, senza dover dividere i guadagni con un’etichetta, un promoter o un’agenzia di comunicazione, perché ormai è possibile, con i nuovi strumenti digitali, distribuire e vendere autonomamente la propria musica.
Si può vivere di soli dischi? Difficile. Il prezzo medio di un cd si attesta sui 10 euro e se si tratta di vendita in formato digitale scendiamo ai fatidici 9,99. In questo caso, se il musicista riuscisse a vendere gli album ai concerti, senza quindi alcun tipo di mediazione, dovrebbe venderne almeno 120 al mese. Può venderne qualcuno in meno se ai banchetti vendesse anche un po’ di merchandising come magliette, spille, vinili: una buona pratica che purtroppo non tutte le band mettono in campo.
Se invece decide di vendere il disco tramite servizi online, ad esempio appoggiandosi a BandCamp, si deve calcolare un 15 per cento di trattenuta per il plug-in della carta di credito. In questo caso i cd da vendere al mese salgono a 140.


Uno studio condotto dal Berklee College of Music e intitolato Musica Equa: trasparenza e pagamento dei flussi nell’industria musicale, mostra che la media reale è di 0.00653 dollari ad ascolto


Se invece il nostro artista preferisce buttarsi su iTunes – consapevole del fatto che rappresenta il 70 per cento del mercato digitale – di album dovrà venderne 200. Oltre alla percentuale che trattiene lo store digitale (che va dal 25 al 30 per cento), deve infatti prevedere una media del 10 per cento tra royalties trattenute o spese di gestione dei vari aggregatori e distributori, come TuneCore o CdBaby.
Da qualche anno, però, il “nostro” musicista ha un’altra possibilità: lo streaming. L’ascolto di musica tramite siti o app come Spotify è letteralmente esploso. Ma solo chi è così fortunato da non avere un contratto discografico, tagliando quindi gli intermediari, riesce ad avere il guadagno massimo per ogni ascolto. La cifra comunque non è mai granché. Spotify, attraverso la sua pagina dedicata spotifyartists.com, spiega che i detentori del diritto d’autore ricevono tra gli 0,006 e gli 0,0084 dollari per stream. Uno studio condotto dal Berklee College of Music e intitolato Musica Equa: trasparenza e pagamento dei flussi nell’industria musicale, mostra che la media reale è di 0.00653 dollari ad ascolto. Considerando il pareggio euro/dollaro, un musicista deve riuscire a far ascoltare la propria musica ad almeno 183.767 persone per arrivare all’obiettivo dei 1.200 euro al mese.
Su Deezer la cosa è (fortunatamente) differente: la piattaforma francese, che abbiamo contattato direttamente non riuscendo però ad ottenere dati ufficiali, ha un valore più alto rispetto al principale competitor, e le royalties pagate agli artisti hanno una media di 0,015 dollari per stream. In questo caso il nostro dovrebbe quindi assicurarsi “solo” 80.000 ascolti al mese.
Ultimo canale, è Youtube. Siete amanti del video e per ogni brano che fate volete creare una trasposizione iconografica? Vuol dire che siete perfetti per Youtube che vi premia con un piccolo ritorno economico ogni volta che il vostro video ospita della pubblicità. Qui il revenue sharing medio per ogni visualizzazione viene calcolato in 0,00111 euro. Per arrivare a 1.200 euro al mese dovete fare in modo che il vostro brano venga visto almeno un milione e 81.000 volte. E 81. […]

cover left n.1 | 2 gennaio 2015

 

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Scenari spagnoli al tramonto del bipolarismo

A worker removes a campaign poster for the national elections depicting Spain's acting Prime Minister and Popular Party candidate Mariano Rajoy, in Madrid, Monday, Dec. 21, 2015. Spanish political parties Monday faced what are likely to be tough negotiations to form a government after the country rejected the dominating two-party scene of recent decades and elected a fragmented Parliament. The ruling conservative Popular party came first with 123 seats in Sunday's election but fell far short of a 176 majority needed to govern alone and way below the 186 seats it won in 2011. (AP Photo/Emilio Morenatti)

I conti con la batosta

Con l’anticipo delle europee (quando Podemos prese l’8 per cento), sotto questi colpi, anche in Spagna è dunque finito il bipartitismo. Ormai i Popolari e i socialisti del Psoe devono fare i conti con gli effetti della batosta elettorale, con i cinque milioni di voti persi rispetto al 2011. Sono ancora i partiti più votati, quelli tradizionali, ma nessuno ha avuto i 176 seggi che servono per governare. E allora bisogna cimentarsi – fatto inedito in Spagna – con l’ipotesi delle coalizioni. E la Spagna sembra così un po’ l’Italia, con lo stesso identico rischio di finire con il cementare l’immagine di due Paesi, uno contro l’altro, la vecchia e la nuova Spagna. L’Italia populista dei 5 stelle, e quella della responsabilità del Partito della Nazione – o almeno così è il racconto che fa comodo tanto a Matteo Renzi quanto a Grillo. Mentre procedono le prime consultazioni e si cerca di evitare un ritorno alle urne, vediamo però quali sono gli scenari possibili in Spagna.

Podemos, Psoe, più independisti

Podemos è la terza forza, dicevamo, di un voto che ha spaccato e risvegliato la Spagna. La formazione di Iglesias (con il 20,7 per cento e 69 seggi al suo esordio nelle Cortes) è stato a lungo raccontato e si è a lungo presentato come un partito antisistema e antiglobalizazione, un po’ bolivariano, con dirigenti formati su testi sacri della sinistra latinoamericana. Ma presto si è moderato, virando leggermente sulla socialdemocrazia. La strategia ha dimostrato intelligenza, finezza e con una buona dose di oratoria ha dato i suoi frutti in campagna elettorale. Immaginare un governo a tempo e con obiettivi precisi con i socialisti non è quindi così azzardato. L’obiettivo di Podemos è la riforma della Costituzione e della legge elettorale, che vogliono meno impostata sul bipartitismo.
La legge anticorruzione, la cancellazione dei vitalizi ai politici che tornano a lavorare in aziende private, e una serie di diritti sociali, ovviamente. Dipinti come gli eredi di Hugo Chavez, gli attivisti di Podemos possono convivere con gli independisti e i nazionalisti baschi e catalani (Pnv, Bildu o Erc). Pablo Iglesias ha sempre detto, per esempio, che i catalani devono decidere del loro destino. E qui il socialista Pedro Sánchez non è d’accordo, ma tolto questo, secondo il quotidiano El Pais, per Iglesias si può trattare. Il leader di Podemos potrebbe proporre un nome tecnico – ma non come i tecnici conosciuti dall’Italia, si spera. […]

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Le nostre vite open source. Intervista a Massimo Banzi fondatore di Arduino

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L’open source è un’utopia e al tempo stesso è già mainstream. Modificando inesorabilmente le relazioni, il diffondersi della conoscenza e l’economia. Lo racconta a Left Massimo Banzi, co-fondatore del progetto Arduino, la piccola scheda elettronica che ha inaugurato l’era dell’hardware libero e open source (i cui dettagli progettuali sono accessibili a tutti) e dal costo contenuto, anche grazie al ricorso al software libero. Così anche i non “smanettoni” possono cimentarsi ovunque con la realizzazione di piccoli dispositivi elettronici.

Banzi, Arduino si può definire un’utopia open source?
L’open source in generale è un’utopia, il sogno di un mondo in cui le persone collaborano e condividono tutto o la gran parte del proprio lavoro anche intellettuale. Il contributo dato dalle comunità open source, da creative commons e da Internet ha permesso di immaginare un mondo dove la conoscenza si trasferisce in maniera più fluida e dove si ribalta il paradigma: invece di dirti che non puoi fare nulla con la mia proprietà intellettuale, ti dico subito cosa mi va di condividere e in che modo. Inoltre l’aspetto virale è molto importante, l’open source di solito prevede che ogni miglioramento sul mio lavoro debba essere condiviso con il mondo alimentando la macchina. L’open source è la vera sharing economy, purtroppo il termine viene utilizzato per modelli di business convenzionali che di nuovo hanno solo l’uso di app per smartphone.

Nel momento dell’ideazione di Arduino avevate la “visione” di ciò che sarebbe diventata la vostra invenzione?
Quando sono partito con Arduino volevo solo semplificare la vita ai miei studenti e renderli più produttivi, più coraggiosi nel prototipare le proprie idee. Quando si è formato il gruppo di lavoro, è emersa una serie di idee un po’ più a lungo termine che sono rimaste a lungo delle utopie (per esempio l’idea che Arduino fosse una specie di esperanto dell’elettronica, impari quello e lo usi su diversi tipi di hardware. La cosa si sta realizzando solo ora con il pesante contributo della comunità). L’idea di renderlo open source in tutto è forse la visione più a lungo termine, l’investimento concettuale nella crescita della comunità orientata al futuro.

Il fatto che tutto sia nato a Ivrea significa che l’humus era fertile grazie all’esperienza di Olivetti?
In realtà è stato creato ad Ivrea per via della scuola di design Idii dove io insegnavo. Di humus non ce n’era rimasto molto. La scuola ha creato un ambiente dove persone di diversa provenienza hanno potuto collaborare per arrivare a perfezionare Arduino. Non dimentichiamoci che i fondatori oltre a me sono due americani (di provenienza NYU e MIT), uno spagnolo e solo l’altro italiano è di Ivrea. La scheda elettronica è solo la manifestazione fisica del progetto ma il vero valore è il combinato di software, documentazione, comunità online, metodo di apprendimento e infine l’hardware. Questo lavoro richiede il contributo di diverse persone e si appoggia su principi che sono diversi da quelli che guidavano l’Olivetti dei tempi d’oro.

Partendo dall’esperienza di Arduino, provi a immaginare la società nel 2050.
Domanda leggerina… Posso immaginare il mondo che vorrei. Credo che sia inevitabile che la tecnologia diventi ancora più pervasiva e oggetti come il televisore e il cellulare spariranno, diventando via via accessori per il nostro corpo o estensioni dei nostri spazi abitativi. Tutto questo supportato da reti di trasmissione dati sempre più ubique e potenti. Quello che oggi chiamiamo “L’internet delle cose” saranno semplicemente “oggetti di tutti i giorni”.
In questo mondo, il mio desiderio è che sempre più persone siano in grado almeno di capire l’impatto che la tecnologia digitale ha sulla propria vita, siano in grado di guardare con occhio critico quello che le aziende ci propongono come oggetti scintillanti del futuro senza dimenticarci di come mantenere il nostro diritto alla privacy. Il mio sogno è che i bambini di oggi, anche grazie a strumenti come Arduino, siano in grado di acquisire sempre più comprensione delle tecnologie digitali, così da diventare creatori e non solo compratori di tecnologie. Fare politica, attivismo, nel futuro richiederà di capire sempre di più la tecnologia digitale e anche di saper progettare con essa. […]

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Il pianeta intatto e quello da salvare nelle foto del National Geographic

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Dal 22 dicembre al 28 febbraio al Museo di Roma Palazzo Braschi, si può visitare Sorella Terra, 60 foto che raccontano la fragilità, la sofferenza, la bellezza del pianeta in pericolo. Un percorso che si apre con la natura nel suo splendore e prosegue con il degrado ambientale e umano, l’urbanizzazione selvaggia, l’inquinamento, gli esclusi, ma anche la biodiversità e la sostenibilità. Ecco una parte delle 60 foto esposte

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In apertura: Alice Springs Desert Park, Australia. Una rana del deserto (Notaden nichollsi) emerge dalle sabbie rosse del deserto australiano dopo una rara pioggia (Frans Lanting/National Geographic)

Guida alle ossessioni tecnologiche del 2016

realtà virtuale tecnologia 2016

Il futuro è adesso». Quante volte lo abbiamo sentito ripetere, negli slogan dei pubblicitari come in quelli dei politici, nei talk show e sui giornali? Eppure se esiste un momento in cui ci si può lanciare, senza sentirsi troppo retorici, in profezie sul futuro, è proprio durante i primi giorni dell’anno. Quali saranno dunque le tecnologie che molto probabilmente ci accompagneranno, e ossessioneranno, per tutto questo 2016? Da un lato le piccole grandi rivoluzioni che ci prepariamo ad affrontare si sviluppano per lo più attorno all’universo della raccolta e della catalogazione dei dati personali – via internet, ma anche tramite app e sensori che registrano le nostre abitudini. Dall’altro, una delle frontiere che varcheremo con decisione sarà quella della realtà virtuale: i visori, dagli occhiali di cartone di Google, i Cardboard, a quelli Oculus Rift di proprietà di Mr. Zuckerberg, saranno sicuramente uno dei gadget dell’anno.
Ecco quindi una guida ai temi di cui sentirete parlare fino allo sfinimento e sui quali è bene farsi un’idea, magari andando a ripescarla dai vecchi libri di fantascienza dove qualcuno, il futuro che viviamo oggi, l’aveva già immaginato.

L’impero dei Big Data

Il cambiamento corre veloce e passa attraverso la rivoluzione dei dati. Non si tratta solo di quelli che vengono rilevati tramite i social, ma anche di quelli che vengono raccolti nella nostra vita offline – tramite sensori, il famigerato Internet of things, internet degli oggetti, programmi fedeltà, eccetera – e che poi vengono processati e incrociati con quelli già in possesso dei grandi colossi del web come Google o Facebook. L’obiettivo ovviamente è di prevedere con sempre maggior accuratezza i nostri consumi e le nostre azioni. L’utilità è di fornirci un servizio sempre più su misura.
Tutto questo è possibile grazie al fatto che, anno dopo anno, le tecnologie di raccolta e analisi dati sono sempre meno costose e che ci portiamo dietro uno smartphone al quale, volenti o no, confidiamo tutto. Il resto lo fanno appunto i social, colmi fino all’inverosimile dei nostri like, delle nostre foto, dei nostri tag lasciati in un posto piuttosto che in un altro. È attraverso i profili personali infatti che restituiamo uno schema coerente e completo di noi alla luce del quale leggere i dati raccolti. Insomma, dimmi chi sei su Facebook, ma anche su Amazon, su Instagram o su Google, e ti dirò quello che farai.
La fantascienza ha immaginato l’avvento dell’impero dei big data in miriadi di libri, film e fiction dando vita alle distopie più svariate. Si va dal Grande Fratello di George Orwell in 1984, alla Precrimine in Minority Report di Philip K. Dick. Ma i big data possono essere utilizzati anche in modo positivo, senza passare obbligatoriamente dal “lato oscuro della forza”. Questo almeno è l’esperimento che ha in campo la fondazione di Melinda e Bill Gates. «Usiamo siti, che vivono di autentiche miniere di dati, per migliorare, facilitare e velocizzare la nostra vita. Lo sviluppo globale però non trae tutto il vantaggio possibile da una simile montagna di informazioni» scrive Melinda in un recente editoriale sul magazine Wired. Secondo la signora Gates, infatti, questi dati vanno utilizzati per organizzare gli obiettivi di Stati e popolazioni (soprattutto in via di sviluppo), basandoli non più su stime e proiezioni realizzate a partire da informazioni vecchie di almeno due anni, ma su numeri più precisi e disponibili in tempi sempre più rapidi. Quest’anno potrebbe segnare una svolta proprio in questo senso. I Gates infatti hanno già dato vita a un sistema di raccolta dati via smartphone in una decina di Paesi dell’Africa e dell’Asia – nel Terzo mondo la maggior parte del traffico web è da mobile – per ottenere informazioni sullo stile di vita e le effettive esigenze degli abitanti. Il risultato è la possibilità di intervenire in modo mirato, efficiente e rapido nella risoluzione di problemi che vanno dalla corretta educazione sessuale all’emancipazione femminile, passando per l’istruzione e le pratiche agricole. I dati dunque ci consegneranno il potere di incidere maggiormente sui vari processi economici e sociali. Ma ogni potere implica grandi responsabilità e i dati rimangono materiali estremamente sensibili. Il 2016 sarà, quindi, anche l’anno in cui associare necessariamente all’evoluzione tecnologica la diffusione di una “ecologia dei dati”. La consapevolezza di cosa comporta cedere informazioni personali e la diffusione di una cultura che, per certi versi al pari di quella ambientale, tuteli la società e le democrazie in cui viviamo. […]

Il futuro è virtuale

Nel 2016 visori e software per la virtual reality promettono di lasciarci a bocca aperta. Un modo piuttosto semplice con il quale questa tecnologia entrerà nei salotti di milioni di persone è la nuova console progettata da Sony, o meglio l’estensione Vr per la Ps4, la Playstation Vr appunto, che uscirà entro la prima metà dell’anno. Secondo il sito americano Polygon, il visore dell’azienda giapponese si collegherà alla consolle tramite un piccolo accessorio, una scatola non più grande di una vecchia Wii, che, fra le varie cose, permetterà agli altri giocatori di osservare sul televisore ciò che sta vedendo chi indossa il visore. Se dovessimo quindi ritrovare un parallelismo letterario, la Vr e la nuova console Sony hanno le carte in regola per diventare la “quarta parete” con cui si intrattiene la moglie del protagonista di Fahrenheit 451. […]

Con lo smartwatch al polso

“Potresti dirmi che ore sono?”. Se avete o state per acquistare uno smartwatch, questa è una delle domande che non vi sentirete rivolgere quest’anno. Perché i tanto acclamati smartwatch saranno un flop? No. Piuttosto il contrario: perché saranno l’oggetto più desiderato del 2016 e, soprattutto, avranno talmente tante funzionalità che l’ultima in ordine di rilevanza sarà proprio quella di dirci che ore sono. Dopo la timida accoglienza riscontrata nel 2015 – ma d’altronde anche l’iPad inizialmente fu accolto con freddezza – modelli sempre più evoluti permetteranno di trasformare l’orologio da polso in un assistente tutto fare o quasi. Sul mercato a inseguire Apple, oltre all’onnipresente Google, ci sono Samsung, Motorola, Asus e Huawei. Messaggi, mail, notifiche Facebook, appuntamenti: tutto sarà perfettamente sincronizzato al vostro polso. C’è chi la vede come una prospettiva allettante e chi come un modo per ammanettarci ancora più stretti al lavoro, agli impegni e a quel “demone della reperibilità” di cui già vi abbiamo parlato sulle pagine di Left. Sta di fatto che questa nuova tecnologia ci dà una possibilità senza precedenti di monitorare alcuni aspetti della nostra vita. Si va dal battito cardiaco che ci dice se stiamo facendo sufficiente attività fisica – o che i romanticoni possono inviare con un tocco alla persona amata o cara – all’analisi del sonno per sincronizzare al meglio i nostri ritmi giornalieri e abbattere lo stress. Ecco, se tutto questo si trasformerà in un’agevolazione, o in un mezzo per aumentare ulteriormente la frenesia quotidiana lo potremmo scoprire solo nel corso dell’anno. Nel frattempo fate pure i vostri pronostici su come andranno le cose. Al massimo per il 2017 vi proporremo come innovativo strumento tecnologico del futuro un aggeggio che crea un campo gravitazionale all’interno del quale tutto quello che ci rende connessi non funziona. Ma anche questa è una storia che qualcuno – Dave Eggers in The Circle – più o meno ha già immaginato. E allora, forse, per guardare al futuro, tanto vale sedersi sul divano e assaporare un bel libro.

cover left n.1 | 2 gennaio 2015

 

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Regole per un futuro lungo

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La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è, del quale non si può fare a meno. Non l’utopismo, ma l’utopia. La forma più radicale di immaginazione politica che trascende con l’occhio della mente, e la spinta delle emozioni, il “qui” e “ora” della nostra vita quotidiana. Collocata a tutti gli effetti oltre lo spazio e il tempo dell’esperienza sensibile, l’utopia ridescrive le relazioni tra le persone e con la natura secondo criteri di armonia e cooperazione, grazie ai quali ciascuno può vivere seguendo la propria vocazione. Come si apprende leggendo la Repubblica di Platone, la matrice di tutte le utopie, l’ordine sociale giusto è quello che consente a ciascuno di vivere secondo le proprie peculiari disposizioni: un poeta che non sappia di esserlo perché l’educazione non lo ha aiutato a scoprire la propria vocazione, sarà condannato a vivere in disarmonia con se stesso e con gli altri, come un anima in un corpo straniero, e come straniero in una società verso la quale prova ostilità. Il risentimento è figlio dell’ingiustizia. Al contrario, alla base dello star bene con gli altri vi è la coincidenza di noi con noi stessi, il poter essere quel che sentiamo di voler essere.
Ad un simile paragima è modellata anche l’Utopia di Thomas More, la prima opera che porta questo titolo e di cui si celebra il cinquecentesimo anniversario nel 2016. Un’opera non semplice, e delle intenzioni del cui autore gli studiosi ancora discutono. Certamente, si trattò di un progetto dettato dalle condizioni sociali dell’Inghilterra del tempo di More, afflitta da intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’aristocrazia priva di ogni abilità produttrice, abituata al privilegio di rapina. Utopia non disegna un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza, ma una società in armonia con i principi moderni, dove il lavoro è onorato anche se nessuno è costretto come a un giogo alla stessa mansione per tutta la vita; dove si onora un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza. In Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori distribuito secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica non si regge sulla retorica che mostra una realtà inesistente; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori. Nella città di Utopia si promuove la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che ha un governo democratico. In questo ordine politico, il potere ultimo delle decisioni spetta ai cittadini, i quali delegano l’amministrazione a magistrati, severamente controllati nel loro ufficio e duramente puniti per ogni violazione della legge: amicizie e parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.


L’utopia non è utopismo, né evasione dal presente. è un progetto di società giusta, ispirato a principi che tutti comprendono perché ragionevoli e razionali


L’utopia, come si vede, non è un luogo di evasione dal presente. è un atto di immaginazione creatrice che denuncia il disordine della società reale, e mostra figurativamente i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è descritta da More è un racconto che illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che è scritto nella natura umana, come dover essere che la ragione indica – non un assurdo e non un disegno che sta completamente fuori della nostra portata. L’utopia è la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il Paese, a quel che i cittadini potranno essere. Le regole scritte per un futuro lungo, per l’eternità – fur evig. Regole scritte non da chi vuol vincere, ma da chi vuole che il gioco sia aperto. Leggi che mettono il lavoro a fondamento dell’autonomia politica – a significare che ogni privilegio è abolito, che tutti i cittadini come eguali davanti alla legge e per legge, dotati di un senso di giustizia che solo è adatto ad un’unione solidale di liberi. L’utopia non è utopismo, né evasione dal presente. è un progetto di società giusta, ispirato a principi che tutti comprendono perché ragionevoli e razionali.
Nel 2016 si celebrerà, insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di Moro anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice della nostra società.
L’Assemblea eletta che si insediò dopo il 2 giugno 1946, con le città italiane ancora in macerie, segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana, guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di decidere pur restando diversi, di convenire pur dissentendo. […]

cover left n.1 | 2 gennaio 2015

 

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Sonita Alizadeh: «La mia voce contro la sharia»

Avvolta in un velo bianco da sposa, il volto ricoperto di lividi e un codice a barre sulla fronte. Sonita Alizadeh ha 18 anni ed è di Herat, Afghanistan. La scopriamo così, sullo schermo, con un videoclip su Youtube mentre supplica la famiglia di non venderla a uno sconosciuto, in un sussurrato rap afghano. Nel video di “Brides for sale” (Spose in vendita) dall’incantevole voce di Sonita uiscono parole pesanti come macigni, parole semplici, dirette (che potete leggere nel- le pagine che seguono). Vere, quanto è vera la sua storia di sposa bambina sfuggita al matri- monio combinato dalla sua famiglia.

Date in spose ancora bambine, così comanda la “tradizione” di cedere le proprie glie per ri- solvere dispute familiari o per soldi. È il destino di 13 milioni e mezzo di adolescenti nel mondo. E sarebbe stato anche il destino di Sonita, se non avesse deciso di ribellarsi e scappare. Nel suo Paese, l’Afghanistan, dal 2009 un decreto presidenziale che vieta i matrimoni forzati c’è, ma non è ancora legge perché il Parlamento non lo ha rati cato. Ad oggi, si stima, questa pratica riguarda almeno il 15% delle adolescenti afghane. E poi, in Afghanistan, c’è pure la guerra. Ed è per questo che quando ha appena otto anni, Sonita fugge insieme alla sua famiglia per stabilirsi a Teheran. È una profuga senza documenti, come tanti da quelle parti, e non può avanzare alcun diritto all’istruzione. Così, comincia a frequentare un’associazione no profit che le permette di studiare e la incoraggia a coltivare il suo talento musicale. Sonita scopre il rap e comincia a scrivere testi coraggiosi, poi incontra una giovane regista iraniana e i loro videoclip iniziano ad avere successo. Finché la madre le dice che devono rientrare in Afghanistan. Novemila dollari è il prezzo che un uomo è pronto a pagare per averla in sposa. Novemila dollari, il denaro di cui la sua fami- glia ha bisogno per pagare il matrimonio di suo fratello. Sonita ha 15 anni e scrive “Brides for sale”, per dare voce alla sua protesta. Coraggio doppio, dal momento in cui la promessa sposa bambina si trova in Iran, dove per le donne cantare e comporre musica è vietato per legge. Link dopo link, su facebook e su youtube, il video fa il giro della Rete no ad arrivare all’orga- nizzazione britannica Strongheart, che la contatta e la sostiene. Oggi, dopo dieci anni di fuga, Sonita vive e studia negli Stati Uniti, grazie a una borsa di studio della Wasatch Academy dello Utah, dove si prepara a diventare avvocato, continuando a lavorare alla sua musica. Ed è impegnata in una campagna internazionale per combattere il fenomeno del matrimonio precoce. Le abbiamo chiesto di raccontarci la sua storia. E dopo non pochi passaggi burocratici, ci siamo riusciti.

Sonita, sposa bambina in Afghanistan, profuga in Iran, rapper sulla Rete. Negli Stati Uniti chi sei?
Adesso sono una studentessa, nalmente. È la prima volta nella mia vita che vado a scuola, e mi piace. Sto anche lavorando alla mia campagna per mettere ne al matrimonio precoce. Viaggio e mi esibisco per raccontare la mia esperienza e la questione delle spose bambine.
Dopo dieci anni hai smesso di scappare. Che cosa ricordi dell’Afghanistan e del viaggio verso l’Iran?
Ero molto piccola quando la mia famiglia ha deciso di lasciare l’Afghanistan, perché era troppo pericoloso restare lì. Ricordo che abbiamo raggiunto l’Iran a piedi. Ci sono volute settimane, è stato un viaggio molto duro e molto pericoloso. In Iran ho vissuto per molti anni, la maggior parte della mia infanzia, come rifugiata senza documenti. E, come afghana senza documenti, non potevo andare a scuola. Capisci che quando ho avuto la possi- bilità di frequentare una vera e propria scuola negli Stati Uniti non potevo non andare… era da sempre il mio sogno.
E poi dovevi anche sfuggire a una promessa di matrimonio, sapevi a cosa andavi incontro?
Sapevo che mia madre voleva farmi sposare un uomo più anziano di me. All’epoca vivevo in Iran, ma lei voleva che io tornassi in Afghanistan per sposarlo. Non conoscevo quell’uomo, era un estraneo per me. È stato tremendo, perciò ho scritto quella canzone.
Hai scelto il rap per cantare la tua storia, che non è solo tua. Una donna così giovane, che canta in rap afghano non è usuale, come mai questa scelta?
Ho iniziato cantando musica pop, poi ho scoperto che era dura da adattare a tutti i pensieri e le parole che volevo condividere. Il rap mi permette di dire di più, di condividere un messaggio ancora più grande e in modo po- tente. Ed è per questo che mi piace. Con il rap posso raccontare la mia storia e la storia di tante, tantissime ragazze come me.
Anche il video ha un impatto molto potente. Sei stata coraggiosa, quali sono state le reazioni e le conseguenze?
Ho ricevuto parecchio sostegno per il mio video. Per molte persone la visione di quel video è stata la prima volta che hanno ascoltato una ragazza che aveva da dire qualcosa su se stessa e su ciò che pensa. E per molte ragazze, è stata la prima volta in cui hanno ascoltato qualcuno parlare di loro e di come si sentono davvero.
E la tua famiglia come l’ha presa?
Mi hanno ascoltata per la prima volta quando hanno visto il video in tv. Credo di poter dire che solo allora hanno cominciato a capirmi. Sì, solo quando la mia famiglia ha visto e ascoltato, ha iniziato a comprendere.
Sonita Alizadeh si esibisce mentre viene proiettato il videoclip di “Brides for sale”. Da un anno i suoi concerti sono l’occasione per denunciare la pratica dei matrimoni precoci. In apertura, Sonita nello studio di registrazione
Mia madre voleva farmi sposare un uomo più anziano di me. È stato tremendo. Solo quando la mia famiglia ha ascoltato e visto il video ha cominciato a capirmi
«Lasciami sussurrare, così nessuno sentirà che parlo di ragazze vendute. La mia voce non deve essere udita perché va contro la Sharia». È una frase molto forte, tu sei credente?
Io sono musulmana e credo in Dio. So che Dio veglia su di me e si prende cura di me. E mi rende triste vedere alcune persone che usano l’idea di Dio per giusti care violenza, tortura e morte. Il Dio che conosco è pacifico e amorevole con tutti.