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La Corea del Nord sostiene di aver effettuato un test di bomba all’idrogeno

La US Geological Survey ha registrato un terremoto superficiale di magnitudo 5.1 a circa 20 miglia dalla struttura di Punggye-ri, in Corea del Nord. Attività sismiche le hanno registrate anche le agenzie cinese e giapponese. E’ qui che il regime di Pyongyang aveva effettuato tre test nucleari. E la scorsa notte ne ha effettuato un quarto. O almeno così ha annunciato la televisione nazionale. L’annunciatore ha spiegato che si è trattato di un test di bomba all’idrogeno: «La Corea del Nord è stata costretta a sviluppare il suo arsenale nucleare a causa della politica ostile degli Stati Uniti – ha detto la Tv – Tuttavia, in quanto nazione pacifica, la Corea del Nord sarà responsabile e non userà il suo potere nucleare per prima e non trasferirà tecnologie ad altri. Siamo diventati una grande potenza nucleare». Il test giunge a due giorni dal compleanno del leader nordcoreano,

A dire il vero, l’Agenzia Meteorologica del Giappone ha detto che è improbabile che si sia trattati davvero di una bomba all’idrogeno, che sarebbe un salto di qualità dal punto di vista della capacità nucleare nordcoreana e avrebbe prodotto una scossa molto più grande. La scossa provocata dal test è in tutto simile a quelle rilevate nei test precedenti, quando si testava una “semplice” bomba atomica. Non si tratterebbe insomma di un salto in avanti nello sviluppo di un’arma più potente.

Nonostante fossero quasi tre anni che Pyongyang non effettuava esperimenti come quello di ieri, l’esplosione non è una sorpresa: i satelliti sopra il Paese avevano individuato attività di scavo di un tunnel attorno al sito del test. Il test del 2013 era stato condanato come una violazione dal Consiglio di sicurezza Onu, dove siede anche la Cina, migliore alleato di Kim.

Il test è comunque una violazione delle risoluzioni Onu e degli accordi internazionali, ma è difficile capire come sanzionarlo. La Corea è già piuttosto isolata e non sarà la condanna di Stati Uniti e Giappone a far fare un passo indietro a Kim, a cui il programma nucleare serve soprattutto come forma di legittimazione interna e per avere delle carte da giocare nelle relazioni internazionali.

Il premier giapponese Shinzo Abe ha condannato il test come una «Seria minaccia alla sicurezza nazionale», cosi pure gli americani. Pyongyang sta tra l’altro continuando a testare missili balistici lanciati da sottomarini. La Corea non ha ancora la tecnologia per riuscire, ma la direzione è quella ed è preoccupante per via dell’imprevidibilità del regime.

 

Schengen, l’Italia pensa di chiudere il confine sloveno. Ma in Slovenia i cittadini chiedono di abbattere il filo spinato

Giù quel filo spinato entro primavera o sarà referendum. Seimila sloveni (su due milioni di abitanti totali) hanno firmato una petizione per protestare contro la barriera tirata su lo scorso 11 novembre al confine con la Croazia, dal governo di centrosinistra guidato da Miro Cerar, per contrastare l’ingresso nel Paese dei migranti che viaggiano sulla rotta balcanica: 140 chilometri di filo spinato che attraversano 17 Comuni e per il quale il governo sloveno ha speso 2 milioni di euro.

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Leggi anche: Rifugiati, ecco il muro in Slovenia

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Intanto, al confine italiano, la Slovenia rischia di trovarsi le barriere italiche chiuse, così dal Viminale dicono alcune indiscrezioni riportate dal Corriere della sera. Perché anche Roma – dopo Svezia, Danimarca, Norvegia (che non fa parte dell’Unione ma dello spazio Schengen), Austria, Germania e Francia – adesso pensa di reintrodurre i controlli alle frontiere, proprio al confine sloveno, in vista dei 300-400 arrivi terrestri settimanali (in Slovenia la media giornaliera è di 5.012 profughi). Insomma, mentre la rotta balcanica sgretola Schengen – come altro definire quanto accade nello spazio dopo che ben sei Stati hanno deciso di sospendere la libera circolazione? – proprio dalla Slovenia, cuore della balcan route, arrivano segnali di umana e “comunitaria” ragionevolezza. Non solo con le firme, che adesso verranno usate per chiedere un referendum, ma anche con manifestazioni e marce. E la protesta non è andata in vacanza. A Istria, per esempio, è stato allestito un presepe con il filo spinato. Quel filo spinato deve sparire entro la primavera, ha detto senza peli sulla lingua Naraša Letik Žagar, portavoce dell’Associazione turistico sportiva di Kostel, altrimenti saranno gli abitanti stessi a rimuoverlo: «Questo per rimuovere questo ostacolo artificiale che separa la gente unita dalla storia comune e dall’amicizia».

Per le vie che costeggiano il fiume Kolpa, che costituisce il confine naturale tra Slovenia e Croazia con i suoi 296 Km (sui 670 del confine) si sente parlare di «pazzia» e «stupidaggine» in riferimento alla decisione di dividere sloveni e croati. Persino l’ex ministro della Difesa, Janko Veber ha dichiarato che, secondo le informazioni in suo possesso, se non ci fosse il filo spinato i migranti attraverserebbero il confine anche attraverso il fiume e ha proposto la creazione di una difesa territoriale organizzata come la protezione civile per garantire la sicurezza e gestire il flusso dei profughi.

Una veduta aerea mostra un gruppo di rifugiati a Rigonce, in Slovenia, che hanno appena passato il confine dalla Croazia
(Una veduta aerea mostra un gruppo di rifugiati a Rigonce, in Slovenia, che hanno appena passato il confine dalla Croazia)

Ma il premier sloveno, Miro Cerar non fa nemmeno un passo indietro: «Gli strumenti tecnici», così il primo ministro chiama il filo spinato, sono, per lui, indispensabili: «Tra qualche mese potremo di nuovo essere sommersi da un enorme marea di migranti e per questo dobbiamo prepararci seriamente». Il governo di Lubiana, insomma, non intende rimuovere quella barriera perché in Turchia ci sono circa 2 milioni e mezzo di profughi siriani in attesa di intraprendere la rotta balcanica, perciò si attende la forte ripresa del flusso a partire dalla primavera. La Slovenia, con una capacità ricettiva di 9mila persone, teme la catastrofe umanitaria se a raggiungere il Paese fossero flussi di 20mila rifugiati.

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Oltre le persone, poi, nel mirino anche gli animali. Le denunce sono arrivate anche da associazioni internazionali ambientaliste e animaliste: lo Iucn ha denunciato la posa del filo spinato come una chiara violazione da parte della Slovenia del progetto europeo Life+Dinalp Bear che coinvolge oltre che la Slovenia, anche la Croazia, l’Italia e l’Austria per la salvaguardia e la protezione dell’orso bruno e di Nature 2000 che garantisce il libero passaggio degli animali selvatici nella zona in cui ora corre il filo spinato.
Infine vediamo alcuni numeri. E la Croazia? Ha già inviato sette note di protesta per le vie diplomatiche. Zagabria ha inoltrato una protesta ufficiale a Lubiana, una lettera alla Commissione europea, perché il muro di filo spinato ostacola gli spostamenti naturali degli animali selvatici ed è pertanto in violazione delle direttive Ue sulla tutela degli habitat naturali e della protezione dell’ambiente.
Cervi, volpi, conigli e altri animali selvatici continuano a morire lungo la barriera, perché rimangono impigliati nel groviglio di filo spinato. Infine, la Croazia chiede la rimozione immediata del filo spinato laddove questo entra in territorio croato violando le leggi internazionali.

[social_link type=”twitter” url=”itter.com/TizianaBarilla” target=”” ][/social_link] @TizianaBarilla

Raqqa, uccisa da Daesh perché raccontava la vita sotto il Califfato

I miliziani dell’ISIS hanno ucciso una attivista donna di Raqqa. Ne danno notizia i giornalisti volontari che animano il sito e l’account twitter Raqqa is being slaughtered silently, Raqqa viene macellata in silenzio, che raccontano la vita nel Califfato e quella sotto le bombe che colpiscono la città. A essere uccisa è Ruqia Hassan, 30 anni, accusata di essere una spia dei ribelli anti Assad laici del Free Siryan Army, e uccisa a settembre dopo essere stata sequestrata ad agosto. Per mesi l’ISIS aveva sostenuto che la donna era ancora viva, oggi la conferma dell’uccisione.
Ruqia Hassan, che aveva studiato filosofia ad Aleppo e scriveva usando lo pseudonimo di Nissan Ibrahim, raccontava la vita di tutti i giorni dei residenti della capitale del Califfato dai suoi account sui social media. La giovane donna era passata all’opposizione all’inizio della rivolta anti Assad e non aveva lasciato la città quando questa era stata occupata da Daesh.

Hassan postava messaggi su Facebook su come si sentiva e parlava della musica che ascoltava. Le sue ultime parole pubbliche, che facevano seguito alla minaccia di morte, sono state diffuse proprio dal gruppo di Raqqa is being slaughtered silently: «Sono a Raqqa e ho ricevuto minacce di morte, quando l’ISIS mi arresterà e decapiterà mi sarà rimasta la dignità e non avrò vissuto subendo umiliazioni»

Obama userà i poteri presidenziali per limitare la circolazione di armi da fuoco

L’ultima strage che ha fatto notizia è quella di San Bernardino, che certo è anche un attacco terroristico, ma condotto da una coppia X che si era procurata legalmente un arsenale. In un Paese normale sarebbe stata una cosa sospetta, nell’America della libera circolazione di armi, no: Syed Rizwan Farook e Tashfeen Malik hanno potuto comprare fucili, uscire e uccidere.

L’amministrazione Obama, che a fine anno aveva parlato della circolazione senza limiti delle armi come di una priorità, annuncerà oggi una serie di misure volte a contenere l’epidemia di piombo con un executive order, un decreto presidenziale. (qui il tweet che lo annuncia, o quasi)

Il pacchetto che Obama ha in programma di presentare oggi prevede dieci disposizioni. La prima è quella per cui chi vende armi online e alle fiere debba avere una licenza speciale. La rete e gli show sono i luoghi in cui la gente compra fucili e pistole anche fuori dal proprio Stato (magari aggirandone le rare leggi restrittive). Questi venditori, prima di vendere qualcosa dovrebbero fare controlli su chi acquista. Già, perché oggi non è necessario: al Baghdadi e Al Capone potrebbero tranquillamente dotarsi di un fucile a pompa senza che nessuno dicesse loro nulla. Una ricerca di Harvard su 3mila possessori di armi da fuoco ha infatti rilevato che uno su tre non era stato controllato in nessun modo.
Obama destinerà 500 milioni di dollari per la cura delle malattie mentali e prevederà che le armi da fuoco perse durante il trasporto tra un produttore e un venditore vengano segnalate alle autorità federali. Spesso succede che il venditore venda e dichiari di averle perse nel trasporto: un’indagine federale ha trovato un rivenditore che aveva “perso” 1300 armi da fuoco lo scorso anno. Tutte banalità no? Eppure oggi non sono previste.

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Leggi anche: Perché negli Usa circolano tante armi

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L’FBI avvierà l’assunzione di 230 esaminatori aggiuntivi e altro personale per aiutare a avere personale addetto ai controlli 24 ore al giorno.Inoltre verrà creato un nuovo centro del Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and explosives (le armi sono sotto la stessa agenzia delle sigarette, che fanno male entrambe), per monitorare e reprimere il traffico illegale.

Non si tratta di scelte capaci di cambiare davvero la situazione, ma di limitare gli effetti di una totale mancanza di regole su cui il presidente, senza il Congresso, non può fare molto di più. Obama e il Segretario alla Giustizia Loretta Lynch sono certi che le misure siano costituzionali – nel senso che non violano il famigerato secondo emendamento che in teoria difende il diritto di portare armi ma anche che si tratti di misure che il presidente può assumere. La scelta di ricorrere all’ordine presidenziale è dettata dalla totale mancanza di collaborazione dei repubblicani, che hanno la maggioranza in Congresso, su questa materia, più che su altre. Lo speaker Paul Ryan, il leader dei repubblicani alla Camera, ha già detto che il presidente sta andando oltre i suoi poteri costituzionali, un modo per criticare le misure di buon senso e cercare i bloccarle, senza parlare delle armi.

La lobby delle armi li foraggia e preme sulle assemblee statali per ottenere leggi che favoriscano la circolazione di armi. Un esempio perfetto è quelle della legge appena approvata in Texas, dove a tutti è consentito di girare con la pistola nella fondina. Un tipico esempio di quell’estremismo dal quale il partito repubblicano sembra prigioniero e che consente a un personaggio discutibile come Donald Trump di essere avanti nei sondaggi delle primarie.

I numeri della strage da armi da fuoco negli Stati Uniti

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Ma lo riuscite a dire quel nome? Lo riuscite a dire D-i-M-a-t-t-e-o?

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Io non mollo. A costo di sembrare un pedante avventuriero contro i mulini a vento o peggio ancora uno «scassaminchia» certificato da scartare con furbizia. Ma non mollo, no, perché mi convinco che ci sia qualcosa che non torna nel Paese che muove le sue più alte cariche a oliare di bava la Ferrari in Borsa o riempirci di retorica di fine anno e ancora oggi non sappiamo (siamo nel 2016, cazzo) nulla su Nino Di Matteo. Ma facciamo un patto e proviamo a non scontrarci: su Di Matteo non è obbligatorio esporsi per incensarlo ma durante un fino anno in cui c’è sempre incenso per tutti continuo a pretendere il diritto di sospettare su un nome che non viene pronunciato nemmeno di sguincio, in una caduta accidentale o peggio ancora nella retorica capodannifera.

Io, se non vi spiace, voglio sapere se Nino Di Matteo è un uomo che puzza di morto o un visionario esaltato. Voglio sentirlo dalla voce di quegli uomini di Stato che hanno sempre un cesto di parole a disposizione, da quelli che professano la solidarietà per mestiere e anche da quelli che confezionano discorsi buoni da ripetere al bar: Di Matteo si è inventato le minacce? Fa il morto quasi ammazzato per carriera? È un pazzo visionario? Sta nel circo dei minacciati per marketing?

Oppure Di Matteo davvero cammina nel sentiero sconnesso e dimenticato di un periodo storico che imbarazza come un figlio trovato in bagno con i pantaloni abbassati? Oppure davvero Nino Di Matteo è a rischio in una storia che indaga eppure non viene raccontata?

Io voglio la verità. La pretendo. Mica quella vera, ché sono abbastanza vecchio per non desiderare utopia, ma voglio la verità che ognuno si serba nel cuore: se è un mitomane ditelo, se è un santo celebratelo, se è un uomo che merita vicinanza esprimetela.

Il resto, questo stare in mezzo al niente come si riesce a nuotare densi e senza pensieri nel grigio più comodo, questo tacere e non dire, questo sorridere senza ridere o occuparsene senza troppa preoccupazione è un mezzo fare (e non fare) che puzza di tutto il marcio di chi non ha abbastanza palle. Dico: ci credete o no alle minacce a Di Matteo? Riuscite a pronunciarlo tutto intero, prima la d, poi la i, poi m e a e doppia t poi e e infine o? Vi si articola la lingua?

Qui nel paese dei corvi per un tozzo di pane abbiamo perso anche il coraggio di essere rancidi, nascosti tra le pieghi di un Paese che riesce a dire, parlare, non vuole prendere posizione e si consuma a pubblicizzare l’ottimismo a basso costo. Qui, da noi, abbiamo il più grande mitomane della storia della Repubblica oppure il più isolato antimafioso italiano. Non contano le scorte, non serve il volume delle sirene e non basta nemmeno l’incartamento del Ministero dell’Interno.

Diteci di Di Matteo. Pronunciate ‘sto cazzo di nome. Tutto intero. Che sia una farsa o un eroe. Ma prendete posizione. Perché il silenzio passato come un vento mattutino è lo sputo peggiore contro la dignità di tutti. La sua, di Nino. E la nostra. E perché l’inganno è sempre contenuto in un pacco piacevole o terribilmente silenzioso.

Il primo spot Tv di Trump: anti immigrati e musulmani

Republican presidential candidate Donald Trump meets with supporters following a campaign stop in Council Bluffs, Iowa, Tuesday, Dec. 29, 2015. (AP Photo/Nati Harnik)

Tra meno di un mese – il primo febbraio – si vota in Iowa e poi, il 9, in New Hampshire. Al momento Donald Trump è primo nello Stato dove si terranno i caucus alla pari con il senatore del Texas Ted Cruz, che sta approfittando del coalizzarsi degli evangelici, molto forti nello Stato, dietro di lui. Nell’ultimo sondaggio realizzato i due frontrunner, entrambi sui generis, sono appaiati al 31%. Nella media dei sondaggi il miliardario costruttore è molto avanti.

In New Hampshire Trump è primo con il 26% e stacca di molto il senatore della Florida Marco Rubio e lo stesso Cruz, che sono fermi attorno al 12-14%. Da oggi, negli Stati va in onda il primo spot televisivo comprato da Trump, che prevede di spendere due milioni di dollari nei prossimi giorni per mantenere questo vantaggio. Quello che è il repubblicano meno presidenziabile, ma anche primo nei sondaggi da mesi, punta sulle due proposte irrealizzabili quanto estreme: il muro al confine del Messico e la chiusura delle frontiere a tutit i musulmani. Segno che la scelta è quella di corteggiare i bassi istinti dei repubblicani. Può funzionare alle primarie, difficilmente funzionerà alle elezioni generali.

Teaser: le immagini che mostrano l’invasione degli immigrati messicani verso la frontiera americana sono false. O meglio, sono vere, ma sono girate a Melilla, l’enclave spagnola in Marocco nel 2010, come potete vedere su questo vecchio post di Repubblica.

Da Safran Foer a DeLillo, da Mo Yan a Murakami. Il 2016 in libreria

In attesa del pronunciamento dell’Antitrust su “Mondazzoli” e in un panorama editoriale sempre più polarizzato fra grossi gruppi e  dall’altra parte una grande flotta di case editrici piccole e medie pronte a dare battaglia sul piano della creatività e della ricerca, ecco qualche anticipazione riguardo ai nuovi titoli che stanno per uscire nel nuovo anno. Il 2016 della narrativa si annuncia punteggiato di premi Nobel, a cominciare dal cinese Mo Yan. Ad inizio gennaio, infatti, Einaudi pubblica il suo Il paese dell’alcol, cruda metafora della Cina della politica del figlio unico, tratteggiata in forma di feroce detective story: l’ispettore Deng Gou’er è “sulle tracce di un orrendo traffico che consente ad alcuni selezionati ristoranti di offrire ai propri clienti un cibo prelibatissimo: la carne di neonato”.  A seguire uscirà una nuova edizione del romanzo epico  Le canzoni dell’aglio, che ripercorre passaggi cruciali della storia cinese.

Del premio Nobel islandese, Halldòr Laxness, la casa editrice Iperborea pubblica a febbraio 0tto racconti, del tutto inediti in Italia, in cui sono raccontati la sconfitta dell’aviazione italiana a Reykjiavik e, con graffiante ironia, un gerarca fascista che invesisce a raffica mulinando le bracciae le gambe. E poi la storia di un ragazzino islandese che pensa di essere Napoleone, Thordur lo Zoppo, un esploratore letterato che si autoproclama imperatore di Antartide e l’epica protesta dei lavoratori d’Islanda.

A febbraio escono per Feltrinelli, con il titolo Il saccheggio, gli ultimi racconti inediti del Nobel per la letteratura Nadine Gordimer (Johannesburg, 1923-2014), uniti dal filo rosso dell’impegno civile della grande scrittrice sudafricana che ha saputo raccontare con grande sensibilità storie intime, personali, di desiderio di incontri e di separazioni, ma anche la violenza del pregiudizio e l’esclusione in un Sudafrica dove si allungano ancora i fantasmi dell’apatheid. Proseguendo nel lavoro di pubblicazione dell’opera omnia del premio Nobel Alice Munro, dopo la recente pubblicazione e a fine 2015 di Amica della mia giovinezza, ( raccolta che tratteggia storie di donne in bilico fra il peso del passato e vite nuove) Einaudi annuncia altri tre titoli della scrittrice canadese, autrice di racconti di spietato realismo e insieme dal respiro lirico: parliamo di Uscirne vivi, (febbraio 2016 nuova edizione), Lasciar andare (marzo) e Oggetti di famiglia (giugno).

Altre due grandi voci femminili della letteratura internazionale tornano in libreria con Elliot edizioni: a febbraio uscirà La ricompensa della madre di Edith Wharton e poi di Byron in love di Edna O’Brien, biografia del poeta romantico inglese e racconto della sua vita avventurosa che finì combattendo per l’indipendenza greca. Nel 2016 la scrittrice irlandese pubblicherà anche il suo nuovo, atteso, romanzo The Little Red Chairs, che speriamo presto sia tradotto anche in italiano. Per chi ha amato La ragazza con l’orecchino di perla di Tracy Chavalier dedicato al famoso quadro di Vermeer ( bestseller che ha venduto più di un milione di copie) a gennaio 2016 esce, sempre per Neri Pozza, I frutti del vento, romanzo storico sugli agricoltori migranti, i cosiddetti «settlers» , costretti a passare da uno stato all’altro per vincere la povertà e la fame.

Un’altra autrice che è stata a lungo in cima alle classifiche con il romanzo L’eleganza del riccio – parliamo di Muriel Barbery – torna  dopo sette anni con un libro di genere completamente diverso,  di tematica ambientale. S’intitola Vita degli Elfi ed esce in Italia a gennaio, come il suo precedente romanzo, per le Edizioni E/O. Un ambito, quello della letteratura a tematica “ecologista”, che sta riscuotendo molto interesse non solo nel mondo anglo-sassone dove autori come Ian McEwan lo hanno reso popolare con romanzi come Solar. In Italia è Bruno Arpaia a rappresentare questo filone di Climate ficton con un romanzo Qualcosa, là fuori, in libreria ad aprile per Guanda, in cui lo scrittore e traduttore immagina uno scenario drammatico, con l’Italia quasi del tutto desertificata e la Germania battuta da piogge incessanti. Basato su studi scientifici, il libro di Arpaia vuole coinvolgere il pubblico in una riflessione sull’impatto ambientale prodotto dall’attuale modo di produzione e dagli stili di vita del ricco occidente. Ma Guanda ha anche un colpo in canna che occuperà le pagine dei giornali: l’uscita del nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer:  il romanzo dal titolo Here I  Am uscirà a settembre e racconta la vicenda di una famiglia israeliana, in un drammatico contesto mediorientale.

Rimanendo nell’ambito degli autori che hanno un accanito  seguito di fedelissimi il giapponese Haruki Murakami pubblicherà un nuovo libro con Einaudi a giugno, mentre Garzanti manda in libreria il nuovo libro, Il segreto del mondo, di  Jean-Claude Carrière. Il libro cult dello scrittore Roberto Bolaño, Notturno cileno, uscirà  nel 2016 con Adelphi,che pubblicherà anche una nuova edizione del romanzo, intitolato Yoshe Kalb, di I.J. Singer che nasce sullo sfondo del vasto mare della cultura hassidica. Infine, per quanto riguarda la neonata casa editrice La nave di Teseo fondata da Elisabetta Sgarbi dopo aver lasciato Bompiani, ad aprile pubblicherà il nuovo libro di Michael Cunningham, una sorta di fiaba contemporanea dal titolo Un cigno selvatico e poi Un matrimonio di piacere dello scrittore franco-marocchino Tahar Ben Jelloun.  Nato a Rodi, nel ’76 e in anni recenti dopo aver vissuto in Europa, tornato nella sua Istanbul Hakan Günday, dopo A con Zeta (miglior libro del 2011 in Turchia e tradotto in diciannove lingue) torna sempre per i titpi di Marcos y Marcos con il romanzo Ancóra affronta il tema urgente dei migranti. In Francia è stato il caso letterario dell’autunno 2015 e ha vinto il prestigioso Prix Médicis. Infine, per chi ama leggere in lingua, segnaliamo l’uscita,a cinque anni daIl senso della fine, del nuovo romanzo di Julian Barnes, The Noise of Time (Jonathan Cape) e Zero K (Simon & Schuster, May), il nuovo, apocalittico romanzo di Don DeLillo che promette, dopo Rumore bianco e altri romanzi che hanno caratterizzato gli anni Ottanta e Novanta, di andare al cuore delle contraddizioni del “sogno” americano fatto di carrelli pieni di merci e di high tech, mentre sempre più sullo sfondo resta l’umano.

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#FreeAbuSakha, un appello per liberare un giovane performer palestinese

Children learning Circus Skills in a Palestinian School

Birzeit, Zaatara checkpoint, 14 dicembre 2015. Mohammad Faisal Abu Sakha, 23 anni, attraversa il varco per spostarsi dalla sua casa di famiglia, a Jenin, verso Ramallah dove deve prendere parte a un concerto. Sulla sua strada, però, il trainer e performer della Scuola di Circo palestinese viene arrestato dalle forze di occupazione israeliane. Dopo l’udienza del 22 dicembre presso il tribunale militare israeliano è stato condannato a sei mesi di detenzione amministrativa. E la detenzione amministrativa è una procedura che consente all’esercito israeliano di trattenere i prigionieri anche a tempo indeterminato sulla base di informazioni segrete. E senza un processo. I palestinesi fermati e arrestati, in base al diritto militare israeliano, sono per lo più esposti a gravi violenze fisiche e psicologiche, a duri interrogatori.La sentenza è stata emessa il 29 dicembre, ma può ancora essere impugnata. Per questo è stata lanciata una petizione dai colleghi di Abu Sakha.

#FREEABUSAKHA from Hannah Prytherch on Vimeo
Al momento Abu Sakha si trova nel centro di detenzione militare in Cisgiordania. Mohammad fa parte della Scuola di Circo Palestinese dal 2007, prima come studente e dal 2011 come trainer a tempo pieno e performer.

«È stato arrestato senza alcuna ragione e senza che alcuna prova sia stata mossa contro di lui», scrivono i promotori della petizione. «Condanniamo fermamente la detenzione arbitraria del nostro collega e amico e vi chiediamo di unirvi per chiedere la scarcerazione di Mohammed Abu Sakha, così che lui possa tornare a stare insieme ai suoi studenti, ai suoi colleghi e alla sua famiglia».

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L’appello #FreeAbuSakha 

La mobilitazione per la scarcerazione di Abu Sakha sta coinvolgendo anche l’Europa, e l’Italia. In queste ore, si susseguono le richieste alle rappresentanze diplomatiche di intervenire per il rilascio di Mohammed e di aprire un’inchiesta sulla detenzione arbitraria delle centinaia di palestinesi fermati e arrestati con questa procedura. In prima linea, il Circomondo di San Gimignano, ma anche la politica non tarda ad aderire e dagli scranni dell’Europarlamento, l’eurodeputata italiana del Gue/Ngl Eleonora Forenza esprime la sua «solidarietà all’artista palestinese. Perché come cittadino palestinese e come artista gli vengano garantiti i suoi diritti. È ora che la comunità internazionale si mobiliti per porre fine alla repressione contro il popolo palestinese».

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Un anno fa è sopravvissuta all’attentato di Charlie Hebdo, oggi Isis la minaccia

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© Francesca Fago

Vi riproponiamo l’intervista apparsa su Left n. 11 a Zineb El Rhazoui a tre mesi dalla strage nella redazione parigina di Charlie Hebdo. In un dialogo con Left la scrittrice e giornalista della rivista satirica, ancora oggi minacciata da Daesh, si racconta: «Dal 7 gennaio la mia vita è letteralmente esplosa» e ci fa capire il senso della nuova copertina del numero speciale del settimanale che verrà pubblicato il prossimo 6 gennaio, esattamente un anno dopo quel giorno che «cambiò tutto».

Arriva un quarto d’ora prima all’appuntamento. È scortata da alcuni agenti. Niente perquisizioni o formalità. Ma per tutto il tempo dell’intervista le guardie del corpo restano con noi nel luogo in cui la incontro, non lontano dalla redazione di Charlie Hebdo dove è avvenuta la strage. Lei è Zineb El-Rhazoui, la giornalista e sociologa delle religioni franco-marocchina scampata all’attentato del 7 gennaio scorso solo perché quel giorno si trovava a Casablanca. Da allora vive sotto scorta e ogni due o tre giorni è costretta a dormire in un posto diverso. Una vita di spostamenti continui da quando è stata colpita da una fatwa che ordina di ucciderla.
Zineb a diciotto anni è arrivata a Parigi per fare l’università, poi la specializzazione in sociologia delle religioni. A ventitré, all’università, quella del Cairo, ci insegna. A venticinque torna in Marocco. È lì che pensa di dover “fare la sua battaglia”. Scrive su Le journal hebdomadaire e insieme a un gruppo di amici fonda Mali (Mouvement alternatif pour les libértes individuelles). Viene arrestata più volte, non molla. Anzi: partecipa alla primavera araba e nel 2011 diventa portavoce del Movimento del 20 febbraio. Ma quando la repressione si fa troppo dura, Zineb è costretta a fuggire in Slovenia, dove rientra nel programma International cyties of Refuge network che dà rifugio a scrittori e giornalisti perseguitati. È qui che la sua vita incrocia quella di Charlie Hebdo, settimanale satirico, ateo e anarchico. Comincia a scrivere per loro articoli sul mondo arabo e sulla «decostruzione dell’ideologia integralista». Poi un giorno la chiama Charb, il direttore, e le dice: «E se raccontassimo la vita di Maometto?». Lui disegna, lei scrive. Era il 2013. Ora è tutto cambiato.

Tutte le foto sono di Francesca Fago
Tutte le foto sono di Francesca Fago

«Quanto tempo abbiamo? Venti minuti»? «Non c’è fretta, ho tutto il tempo che le serve, viene da cosìlontano…»risponde sorridendo. Davanti a una tazza di caffè, cominciamo a parlare. L’eleganza distaccata della giovane intellettuale, nata a Casablanca e che ha girato il mondo, lascia presto il posto al tono appassionato e indignato. La voce a tratti si rompe dall’emozione. «Dal 7 gennaio è cambiato tutto. La mia vita è letteralmente esplosa.

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La copertina del n. 11 di Left dedicata a Zineb

Io sto cercando una mia stabilità da così tanti anni…», accenna. «Ho trovato rifugio in Slovenia. E poi nella redazione di Charlie», racconta. «Prima come collaboratrice esterna, poi dal 2013 sono entrata a far parte del team». Tre settimane prima dell’attacco dei fratelli Kouachi, aveva deciso di tornare a vivere in Marocco. «Lo scorso ottobre mi sono sposata, volevo tornare a casa. L’ultima volta che ho pranzato con Charb, gli avevo detto che ero stanca. Eravamo d’accordo che avrei mandato i miei articoli da Casablanca e sarei tornata a Parigi di tanto in tanto. Così sono partita, ma non ho avuto neanche il tempo di aprire le valigie». Vivere in Marocco è diventato impossibile per Zineb, l’Isis la minaccia di continuo: «Scritto in un arabo altisonante e antico, con alcuni versetti del Corano il messaggio diceva “Sei scampata al glorioso attacco di Parigi dove i tuoi compagni di ateismo di Charlie Hebdo sono morti. Ma noi non chiuderemo occhio fin quando non ti avremo tagliato la testa». Lo stesso giorno, il 18 gennaio, un anonimo gruppo di giovani musulmani ha pubblicato un video su youtube: «Una voce meccanica diceva che la Sharia è chiara: chi ha offeso Maometto deve morire». Poi una terza minaccia, la più violenta, che intimava «l’obbligo di uccidere Zineb El-Rhazoui perché ha offeso il profeta» descrivendo macabri modi di esecuzione (schiacciarle la testa con sassi, sgozzarla o darle fuoco). «Hanno individuato e reso pubblico l’indirizzo del mio compagno e hanno diffuso una mappa di Parigi cerchiando i posti dove sono stata. Devono aver inter- cettato mie telefonate. Inevitabilmente, tutto questo cambia la vita. Devi schedare tutto, devi cambiare tutte le abitudini, non puoi an- dare a comprare il pane, non puoi incontrare chi vuoi. Non sono le condizioni migliori per lavorare, specie per chi, come noi, deve anche tentare di ricostruire il giornale». Non è difficile immaginare che tutto sia cambiato.

Nessun ripensamento da quando con Charb decise di pubblicare la vita di Maometto?
No, assolutamente. Sarebbe inutile. Lo avremmo fatto prima. Chi di noi è sopravvis- suto lo deve al caso, ora abbiamo un dovere. Charlie deve sopravvivere. I valori per cui ci battiamo non consentono compromessi. Sia- mo in guerra con persone che non vogliono uccidere solo noi, ma anche quello che rap- presentiamo. Se molliamo, cosa resta? Oggi uccidono giornalisti a Parigi perché disegna- no Maometto, domani potrebbero eliminare chi non ha pregato cinque volte al giorno, o in qualche altra parte del mondo, chi beve una birra o una donna che mostra i suoi capelli.

Come hanno reagito i media di fronte a ciò che è accaduto? Sono stati solidali?
Sì, gran parte dei media europei ha ripubblicato le vignette. Molto deludenti invece gli Stati Uniti, per esempio mi ha colpito la scelta del New York Times: nonostante rivendichi la sua libertà di parola, ha evitato di prendere posizione ed era un’occasione storica.

Qualcuno ha detto che Charlie Hebdo se l’è cercata, che siete andati oltre.
Va bene, diciamo pure che i redattori se la sono meritata… ma persone come Frédéric Boisseau che era al suo primo giorno di lavoro come portiere di una ditta che si trova nello stesso palazzo della redazione, che colpa aveva? I fondamentalisti troverebbero comunque un pretesto per uccidere. Questi criminali si definiscono musulmani e ci hanno condannato giudicandoci non musulmani. Applicano i dettami della Sharia.

Ci spieghi?
La giurisprudenza sunnita ha quattro “scuole”, in Francia prevale la dottrina Maliki, perché è la più diffusa in Paesi africani come Senegal, Mali, Algeria, Marocco e Tunisia. Gli ulema (gli uomini di legge coranica) di tutte e quattro le scuole, in effetti, dicono la stessa cosa: chi ha insultato il profeta deve essere ucciso senza dare la possibilità di redimersi, pur sapendo che l’espressione “insultare il profeta” non è chiara. Faccio solo degli esempi, per capirci: se io dico che la sua faccia ha la pelle nera, è un insulto e devo essere uccisa. Se dici che i suoi vestiti sono sporchi, idem. Certamente nell’Islam ci sono insegnamenti che incoraggiano a essere positivi e generosi. Vale per tutte le religioni, ma ci sono anche passaggi che spingono ad uccidere. È impossibile non vedere tutto questo. Come il fatto che questa ideologia criminale è finanziata dai potenti dell’Arabia Saudita e del Qatar.

 

Pensa che questa violenza sia intrinseca ai monoteismi?
Penso che tutte le religioni, anche i monoteismi, e molte ideologie, siano fonte di violenza. Come il nazismo, il comunismo sotto Stalin o Pol Pot. Per quel che riguarda l’Islam il problema non è il Corano che è semplicemente un libro scritto molti secoli fa e in un certo con- testo storico. Il problema è se un movimento politico come i Fratelli musulmani, divenuto partito che siede nel Parlamento egiziano, sostituisce la Costituzione con l’Islam. Gli integralisti non credono nella democrazia, pensano che si debbano applicare non le leggi degli uomini ma quelle di Dio. Un mio collega diceva che anche un libro di cucina, se preso alla lettera, può diventare micidiale: ti uccido se metti due cucchiai di zucchero invece di tre come è scritto! Il Corano contiene i pensieri di un beduino di quindici secoli fa. Possiamo leggerlo come opera letteraria, ma è un guaio se viene usato per il governo di una nazione. Lo stesso si può dire della Bibbia.

Più dei musulmani, sono stati i cattolici a querelare Charlie Hebdo per intimidirvi?
Spesso si dice che Charlie è contro l’Islam ma è falso. In più di trent’anni di vita, la rivista ha dedicato tre o quattro copertine alla religione musulmana. Siamo stati portati davanti alla Corte solo una volta, da un’associazione musulmana francese, nel 2006 quando il giornale prese la decisione di pubblicare le vignette danesi su Maometto. Conosco bene quella storia anche se non c’ero ancora, fu un gesto simbolico a favore della libertà di vignettisti e giornalisti di rappresentare e raccontare chiunque. Un modo per dire: non lascere- mo mai che i terroristi stabiliscano le regole. Quando ripubblicammo quelle vignette satiriche con la copertina di Cabu, partì la denuncia. Vincemmo il processo, perché in Francia non esiste il reato di blasfemia. Va detto, invece, che la Chiesa cattolica ci ha querelato e trascinato in tribunale undici volte, per delle vignette sul papa, su Gesù, su Dio. Ma abbiamo vinto tutte le cause.

Dopo la strage, i partiti di destra hanno soffiato sul fuoco, speculando sulla paura e ali- mentando il razzismo.
Ci sono punte di estremismo da entrambi i lati degli schieramenti, come se si specchias- sero gli uni negli altri. La destra sfrutta il terrore e alza la tensione, ma l’estrema sinistra filoislamista non sembra rendersi conto che nei Paesi arabi i fondamentalisti sono l’estrema destra conservatrice. Quando c’è stata la protesta in Francia contro i diritti degli omosessuali, in piazza c’erano estremisti musulmani e cattolici. Andavano mano nella mano. Quando si tratta di coartare le donne, il Vaticano va perfettamente d’accordo con l’Islam estremista.

Il Marocco ha una lunga tradizione pre-islamica, i libri di Fatema Mernissi ci hanno fatto conoscere l’antica cultura berbera in cui le donne godevano di una libertà impensabile nell’Islam.
Quei libri sono stati fondamentali per la mia formazione di giovane marocchina in lotta per i diritti delle donne. L’ho incontrata molte volte, è una donna meravigliosa. Ma sono cambiate tante cose da quando Mernissi scriveva. Il Marocco conserva l’immagine di Paese tollerante, grazie alla corrente Sufi, raffinata e poetica. Negli anni 70 però la politica di Hassan II contrastò apertamente la sinistra, il nemico dei musulmani era proprio il comunismo. Lo Stato incoraggiò e sostenne la nascita di scuole e associazioni musulmane che si opponevano ai progressisti, in particolare dentro le università. Così è cresciuto un mostro. Oggi abbiamo un governo musulmano, eletto il 25 novembre del 2011, dopo una veloce revisione costituzionale, che nei fatti non ha rinnovato nulla, perché molte leggi non vengono applicate: ciò che conta è la decisione del re. Ci ritroviamo un governo islamico che è contro la differenza culturale portata dai vari gruppi etnici, che è contro l’amazighes, la lingua berbera, che è contro le donne. Abbiamo un ministro che accusa le donne che lavorano di creare disoccupazione, prendendo il posto degli uomini. Abbiamo anche un ministro delle Donne, della famiglia e dello sviluppo sociale, Bassima Hakkaoui, che va in giro velata sostenendo che una ragazzina di 14 anni può sposarsi se è già ben formata.

In Marocco c’è ancora una parte laica della società…
Certo, che discute di diritti delle donne, di aborto e altro. Abbiamo ancora i bar e andiamo in spiaggia non coperte da capo a piedi, ma quando parliamo di secolarizzazione della società i primi a contrastarla sono proprio la polizia, il governo, lo Stato. Oggi la monarchia marocchina si autodescrive come argine contro il fondamentalismo musulmano, ma il re governa il Paese con una legittimazione religiosa molto forte, quindi non si può criticare né lui né l’Islam. Possiamo discutere se sia moderato o meno, ma non cambia molto.

Alcuni intellettuali davanti al vuoto della politica, sostengono che le religioni debbano entrare nel dibattito pubblico. E accusano di razzismo chi critica le religioni. Lei cosa ne pensa?
Questo mi porta a parlare di Islamofobia. Il termine fu usato da un mullah iraniano ed è rimbalzato nella dialettica democratica occidentale. Serve per chiudere la bocca a chi critica l’Islam. D’altro canto, se islamofobia significa temere l’Islam radicale, penso sia legittimo. Boko Haram in Nigeria ha fatto stragi, ucciso bambini. Mi pare normale averne paura. Ma questo non significa essere razzisti verso i musulmani. Anch’io sono cresciuta nella cultura musulmana, ma il mio modo di pensare è completamente diverso e per molti aspetti opposto. Io sono atea. Nelle teocrazie musulmane, anche negli stati più moderati come l’Egitto e l’Algeria dove l’Islam è al governo, hanno strumenti legali (e non) per metterti a tacere, ti mettono in prigione, ti ammazzano. Nei Paesi secolarizzati non hanno strumenti legali, perciò usano l’unico che hanno a disposizione, ovvero accusarti di islamofobia. Lo fa anche certa sinistra, ma è un’impostura intellettuale. Dire alle persone che criticare dogmi religiosi scritti secoli fa nel deserto del Sahara vuol dire essere razzisti, è inaccettabile.

Bisogna saper criticare senza attaccare la persona?
Certo. Faccio un esempio: io sono contraria al velo, penso sia una prigione per le donne ma non significa che critichi chi lo indossa. Una cosa è criticare un dogma o decostruire una credenza, altra cosa è attaccare la persona. Quando critico anche aspramente l’Islam non voglio colpire le persone che si definiscono musulmane. Per me razzismo è quello di certi scrittori di sinistra che per non essere accusati di razzismo, accettano per gli altri quello che non vorrebbero per se stessi. Razzismo è pensare che siccome quelle persone appartengono ad un’altra cultura non sono in grado di condividere i valori universali di libertà e di uguaglianza.

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Foto in apertura di Francesca Fago

 

La compañera Camila dalle proteste studentesche all’università gratuita

Camilla_Vallejo

Assicurare l’accesso all’istruzione alle fasce meno abbienti della popolazione, nell’ambito di un sistema che distingua tra il pubblico, il privato che riceve fondi statali e quello che non ne riceve. C’è un Paese che ha compiuto un importante passo avanti in questa direzione, e non è l’Italia. In Cile, l’ex leader del movimento studentesco e attuale deputata comunista, Camila Vallejo Dowling, ha condotto in Parlamento una battaglia partita già 5 anni fa nelle piazze del Paese, anche con scontri duri con le forze dell’ordine.

Nel 2011 all’allora leader studentesca fu perfino assegnata una scorta a seguito delle minacce subite, ma la giovane – figlia di due storici esponenti del partito comunista cileno – ha continuato a organizzare sit-in e manifestazioni di protesta, mettendo in crisi la popolarità del governo dell’epoca guidato da Sebastián Piñera.

Le minacce arrivavano proprio da ambienti istituzionali. Via twitter, una funzionaria del dicastero della Cultura aveva rispolverato una frase di Augusto Pinochet indirizzata a Salvador Allende: «se mata la perra y se acaba la leva», si uccide la cagna e ci si libera della figliata. Alla fine del 2011 i lettori del Guardian hanno nominato Camila Persona dell’anno e non è un caso se, poi, quel movimento studentesco è riuscito a sopravvivere all’alternarsi di almeno quattro ministri dell’Istruzione.

Tra le pesanti eredità del regime di Pinochet, in Cile c’è un sistema universitario pubblico che finora si è retto quasi esclusivamente sulle tasse versate dagli studenti: una media di circa mille euro al mese pro capite. Negli ultimi giorni del 2015, la maggioranza di governo che sostiene Michelle Bachelet ha condotto in porto una riforma che va incontro alle esigenze di 178mila studenti provenienti dalle fasce più povere della popolazione, con il programma di estendere l’esenzione dal pagamento delle rette all’intera popolazione universitaria entro quattro anni.

Buona parte della riforma si deve all’impegno della deputata 27enne, dal 2014 in Parlamento, eletta nelle liste di Gioventù Comunista a sostegno della coalizione Nueva Mayorìa guidata dall’ex avversaria Bachelet. Vallejo aveva garantito di non avere alcuna intenzione di sostenerla, ma ha dovuto fare marcia indietro quando il suo partito ha deciso di appoggiare la candidata socialista. «Una decisione non facile», ha commentato lei. Dopo un anno da vice, a marzo 2015 la compañera Camila è diventata presidente della commissione Educazione della Camera, e ora respinge l’accusa di nazionalizzazione mossa dalla destra che attacca la “sua” riforma progressiva.

L’intervento di Camila Vallejo sulla riforma dell’istruzione alla Camera cilena

L’ex leader della Fech, la Federazione degli studenti universitari cileni (è stata eletta nel novembre 2010, a 22 anni), spiega che la gratuità dell’accesso alle università pubbliche è soltanto un tassello della riforma. Lei stessa, il 23 dicembre, celebrava la “conquista” con l’hashtag #Gratuidad2016, ma poi ha tenuto a sottolineare che più in generale la riforma è volta a stabilire quale debba essere «l’istruzione che vogliamo», vale a dire «la missione e la visione» che il Cile vuole affidare alle sue giovani generazioni, anche sul fronte della ricerca e della formazione di cittadini attivi.

 

 

Negli ultimi mesi, l’indice di popolarità della deputata del distretto di La Florida, quello in cui è cresciuta, è stato altalenante. Vallejo sa bene che il lavoro parlamentare ha meno risalto delle mobilitazioni di piazza (all’epoca della Fech aveva organizzato, ad esempio, una staffetta di 1.800 ore attorno al palazzo del governo cileno), e se gli analisti la accusano di rispondere più alla disciplina di partito che alla “base sociale” di cui è espressione lei non sembra farci molto caso. Come quando i media evidenziavano la relazione tra il bell’aspetto e la sua visibilità e replicava: «Non ho scelto io il mio aspetto, ma ho scelto le mie battaglie».

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