Home Blog Pagina 1226

Cosa c’è dietro al piano di privatizzazione degli asili di Roma

paolo tronca

Un’altra tegola per Roma. Questa volta non si tratta delle buche sulle strade o dei traffici di Mafia capitale. No, stavolta sono gli asili nido e le scuole materne nel mirino. Come a dire, le fondamenta del buon vivere di una società. Qualche giorno fa, annunciato da un articolo su La Stampa, è stato reso noto che nel Documento unico di programmazione 2016-2018  il commissario straordinario Francesco Paolo Tronca prevede un piano ad hoc per le scuole materne e i nidi della Capitale. Ovvero la vendita delle prime allo Stato e la cessione ai privati degli asili nido. Per questi ultimi, sarebbe già prevista una lista di 17 strutture che potrebbero passare alla gestione in concessione. «Cooperative, Srl, società partecipate, enti religiosi», dice Cinzia Conti dell’Usb, il sindacato di base che è quello più forte tra le educatrici dell’infanzia a Roma e che per la prossima settimana ha in cantiere una grande assemblea cittadina. Perché se la notizia preoccupa i genitori magari in lista d’attesa da tempo per un posto all’inarrivabile asilo comunale, l’allarme tra le educatrici si tocca con mano. Duemila persone con contratti a termine che arrivano a cinquemila se consideriamo anche le scuole materne. «Perché non possiamo lavorare nelle strutture private? Eppure abbiamo tutte le carte in regola e una competenza riconosciuta, invece così i nidi vengono affidati a terzi», dice la sindacalista Usb.

La situazione delle docenti precarie rischia di esplodere di nuovo, dopo quello che era accaduto a metà estate. Dopo molti giorni di mobilitazione era stata trovata una soluzione all’impasse in cui erano precipitati i servizi comunali dell’infanzia: 220 asili nido e 315 scuole materne che non potevano in pratica partire a settembre senza le docenti precarie. Che non potevano essere riassunte, dopo la sentenza della Corte di giustizia europea che vietava di reiterare i contratti al personale scolastico con più di 36 mesi di attività. Allora la soluzione fu una circolare del ministro Madia ad hoc per le insegnanti delle scuole comunali. Lo ricorda su facebook Marco Rossi Doria allora assessore all’Istruzione che fa notare quanto sia complesso governare il sistema dell’istruzione e dell’educazione dell’infanzia. «Una cosa da fare nell’operare è sempre lavorare con i funzionari ordinari che possono fornire dettagliate informazioni sullo stato dell’arte. Una seconda è ascoltare i diretti interessati, in questo caso i responsabili dei servizi dell’infanzia nei diversi municipi e nell’amministrazione capitolina, le famiglie, le lavoratrici», scrive Rossi Doria che rimanda alla delibera che «segnalava cosa e come fare in materia assai delicata in termini di diritti dell’infanzia e complessità della materia».

Complessità della materia, appunto. Perché gli asili nido soprattutto, vista l’età dei piccoli, non possono essere “parcheggi” o luoghi solo dove cambiare il pannolino o allattare con il biberon. Lo spiega bene Cinzia Conti che sottolinea anche che la delibera dell’assessore Rossi Doria necessita di norme a livello nazionale e che quindi il piano di stabilizzazione è ancora più necessario. Stabilizzazione dei precari e qualità del servizio, perché appunto un nido è un luogo particolare. «Lo Stato deve investire di più nei nidi. Dove sono i cinquemila asili nidi promessi? Manca una riforma del servizio educativo 0-3 anni. L’asilo nido è il luogo del primo distacco dalla famiglia, la prima esperienza educativa per un bambino. A me sono capitati neonati di tre mesi e mezzo con quattro poppate materne che facevano insieme a me. A tre mesi e mezzo, la situazione è delicata. Per noi educatrici occorrono meno carichi di lavoro e più tempo, con neonati che le mamme sempre più precarizzate sono costrette a lasciare qui, magari sobillate dai datori di lavoro. Lo Stato deve assumersi questa responsabilità, non basta più l’ente locale», dice Cinzia Conti. La sindacalista Usb vede di buon occhio l’inserimento dell’asilo nido nel sistema educativo, contenuto nel disegno di legge 1260 con prima firmataria la senatrice Puglisi (Pd). «Oggi è un servizio a domanda individuale, come il canile, il loculo al cimitero. È importante l’idea di riqualificare tutto il settore, anche con percorsi di laurea ad hoc che possano garantire la qualità educativa. Non si tratta di cambiare solo il pannolino, occorre un progetto educativo. Ma per far questo occorre che lo Stato cofinanzi il sistema fin dai nidi e che ci siano le risorse umane. Quindi stabilizzazione dei precari».

Con la privatizzazione si rischia di andare da un’altra parte. Anche se ci sono educatrici laureate e con grande professionalità nei nidi privati, continua Conti, la situazione si presta a un maggiore sfruttamento. «Invece si deve puntare a una maggiore valorizzazione del personale e quindi anche del servizio».

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/dona_Coccoli” target=”” ][/social_link]  @dona_Coccoli

Per sopravvivere all’ossessione Guerre Stellari il cast di Star Wars canta “Stayin’ Alive”

ossessione star wars

In attesa che l’ultimo capitolo della saga stellare più famosa al mondo esca dalle sale cinematografiche, ormai passate al lato oscuro della forza colonizzate da Quo vado? di Checco Zalone, e se ancora non ne avete avuto abbastanza di Star Wars, vi riproponiamo il mash up realizzato da Jimmy Fellow e dallo staff del Tonight Show. Dopo aver riproposto infatti il motivetto cult della colonna sonora di Guerre Stellari facendolo “cantare” al cast della saga ideata da George Lucas, Fellow ci riprova con un montaggio fatto a regola d’arte in cui il maestro Yoda, Luke Skywalker, la principessa Leila e compagni si esibiscono in “Stayin’ Alive”. Che dopo tutti questi successi da botteghino suona decisamente come un ottimo augurio. Che la forza sia con voi!

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”” ][/social_link]  @LeftAvvenimenti

Francia, Libia, Yemen: quel che c’è da sapere su una giornata di attentati e raid aerei

epa05091481 Police officers stand guard near a shooting scene after a man carrying a knife attempted to enter a Paris police station in the Goutte d'Or area, northern Paris, France, 07 January 2016. A man has been shot dead outside a Paris police station after apparently attacking the facility, amid fears that the incident might be an act of terrorism. Luc Poignant of the police union said the man allegedly shouted 'Allah is great' as he approached the facility. The incident comes on the one-year anniversary of an Islamist attack on the offices of satirical French newspaper Charlie Hebdo that prompted three days of terror and shootings in the city, ultimately resulting in 17 civilian deaths and the deaths of three Islamists as police closed in on them. EPA/IAN LANGSDON

Una giornata ricca di brutte notizie sui fronti strettamente collegati di terrorismo e del Medio Oriente, con vicende internazionali e nazionali che si intrecciano. Attentati e stragi in Libia, bombe in Yemen e un morto a Parigi nel giorno della commemorazione della strage nella redazione di Charlie Hebdo.

epa05091479 Police officers stand guard near a shooting scene after a man carrying a knife attempted to enter a Paris police station in the Goutte d'Or area, northern Paris, France, 07 January 2016. A man has been shot dead outside a Paris police station after apparently attacking the facility, amid fears that the incident might be an act of terrorism. Luc Poignant of the police union said the man allegedly shouted 'Allah is great' as he approached the facility. The incident comes on the one-year anniversary of an Islamist attack on the offices of satirical French newspaper Charlie Hebdo that prompted three days of terror and shootings in the city, ultimately resulting in 17 civilian deaths and the deaths of three Islamists as police closed in on them. EPA/IAN LANGSDON

Parigi a un anno da Charlie Hebdo, la polizia uccide un uomo armato di coltello

A un anno della strage nella redazione di Charlie Hebdo, Parigi vive in piccolo una giornata di paura. Un uomo armato di coltello è entrato ieri nel commissariato del 18esimo arrondissement gridando “Allahu Akhbar” ed è stato ucciso dalla polizia, che ha sparato due o tre colpi. Dalla tasca dell’uomo, che aveva del nastro adesivo sulla giacca, spuntavano dei fili elettrici. Nella giacca aveva una bandiera dello Stato Islamico e una rivendicazione scritta in arabo. La polizia temeva si trattasse di un kamikaze e ha isolato la strada, situata nella Goutte d’Or, uno dei quartieri di Parigi tra i più multietnici della capitale francese. Nelle stesse ore, in città, Hollande celebrava l’anniversario dell’attentato contro Charlie Hebdo e in un tribunale diversi foreign fighters rientrati nel Paese dalla Siria, sono stati condannati a diversi anni di carcere.

Libia: 50 morti per un attentato kamikaze nella zona dei terminal petroliferi. E’ stato ISIS?

Più grave e sanguinoso quel che è capitato in Libia. Un autobotte carica di esplosivo è esplosa davanti a una caserma della polizia a Zliten facendo almeno 47 morti (alcune fonti dicono 50). Si tratta del bilancio più grave in un attentato dalla caduta di Gheddafi e del primo kamikaze in città.L’attentato non è stato rivendicato da nessuno, ma siamo in una zona di forte presenza dello Stato islamico, che ha già condotto attentati di questo tipo nella regione dei terminal petroliferi. Nelle scorse settimane le milizie che si dichiarano fedeli ad Al Baghdadi hanno cercato di prendere possesso di infrastrutture petrolifere e sono state respinte. La bomba potrebbe essere una vendetta nei confronti delle forze che hanno difeso le basi petrolifere. Ma è presto per avere certezze, se non quella per cui decine di persone sono morte e altre decine sono sparse per gli ospedali di Tripoli, che dista 160 chilometri da Zliten. In zona le milizie del Califfato stanno combattendo contro tutte le altre milizie – islamiche o laiche, come del resto in Siria e Afghanistan. Su Zliten erano cadute bombe Nato che avevano ucciso diversi civili.

Missili sauditi sullo Yemen, Teheran accusa: «Colpita la nostra ambasciata»

epa05087550 Yemenis inspect the site of airstrikes allegedly carried out by the Saudi-led coalition targeting a neighborhood in Sana'a, Yemen, 04 January 2016. The nine-month conflict in Yemen has escalated dramatically since the Saudi-led coalition started conducting airstrikes against the Houthi rebels in March, with more than 6000 people killed. EPA/YAHYA ARHAB

Di natura diplomatica è la notizia che viene dallo Yemen, dove si combatte una guerra per interposta persona tra Arabia Saudita e Iran. Da Teheran arriva l’accusa a Riad di avere colpito la sede dell’ambasciata iraniana. O almeno questo è quel che ha detto l’agenzia di stampa iraniana. Con le ore, la vicenda, che avrebbe potuto configurarsi come una risposta all’assalto della folla all’ambasciata saudita a Teheran, è divenuta meno grave: l’edificio è stato danneggiato da detriti prodotti dall’esplosione di un missile ad qualche centinaio di metri di distanza. Bombardare in risposta ai comportamenti della folla, condannati dalle autorità iraniane, sarebbe stato un vero e proprio atto di guerra. Riad sostiene di aver effettuato dei raid aerei contro i ribelli Houthi, che userebbero alcuni edifici abbandonati nella zona delle ambasciate. L’Arabia accusa l’Iran di armare gli Houthi, che in realtà sono già armati per loro conto, visto che alcuni reparti dell’esercito sono rimasti fedeli al deposto presidente Salah.

 

Le donne al potere sono diverse dagli uomini? Secondo Hillary Clinton sì. Ecco perché

clinton donne potere

Jay Newton-Small corrispondente politica per Time a Washington Dc ha appena pubblicato Broad Influence: How Women Are Changing the Way America Works ovvero Come le donne stanno cambiando il modo in cui l’America funziona. Secondo Newton-Small il 2016 sarà un anno che passerà alla storia. A cento anni esatti dall’elezione al Congresso della prima donna, infatti potremmo vedere eletta alla Presidenza degli Stati Uniti d’America proprio una donna. Inoltre, secondo i dati riportati dalla giornalista di Time proprio le americane single, corteggiate sia da Repubblicani che Democratici, saranno uno dei gruppi di voto cruciali per il risultato della corsa alla Casa Bianca.
Le donne stanno senza dubbio rafforzando notevolmente la loro influenza sulla politica statunitense e più in generale sul Paese. Proprio per questo Newton-Small ha raccolto nel suo libro una serie di testimonianze. Fra queste compare anche un’intervista esclusiva proprio a Hillary Clinton. La candidata alla presidenza ha raccontato cosa significa governare e fare campagna elettorale per una donna e spiegato quanto sessismo c’è ancora negli Stati Uniti. Vi riproponiamo la traduzione di un estratto pubblicato in esclusiva su Time:

Hillary, lei è una delle protagoniste della scena pubblica nazionale e politica fin dal 1992, come ha visto cambiare il sessismo negli anni?

Indubbiamente esiste ancora un doppio standard. Lo vedo tutte le volte in cui, a differenza di quel che accade per gli uomini, alle donne è richiesto di coniugare determinate caratteristiche e qualità. Questo fa sì che concorrere per una posizione per una donna sia una sfida più grande. È difficile per tutti, ma credo che le donne debbano affrontare qualche difficoltà in più. Penso anche che oggi la discriminazione sessuale sia probabilmente meno evidente e meno pronunciata, ma in ogni caso prevale ancora oggi sulla scena politica e nel nostro background culturale. Le persone tendono a dire delle cose e a utilizzare un linguaggio che contiene degli impliciti pregiudizi sull’idea di una donna che sceglie di dedicarsi alla vita pubblica. Questi sono elementi che dimostrano la persistenza del sessismo. Non resta allora altro da fare che “far diventare la pelle più spessa”, come disse una volta Eleanor Roosvelt, uno dei miei personaggi storici americani preferiti, e andare avanti.

Celinda Lake, una delle sondaggiste a cui si affida il partito democratico, ha detto di lei che nel 2007 ha superato un test che misurava il rapporto fra la capacità di risultare tenace e, allo stesso tempo, di continuare a piacere

Dopo essere stata Segretario di Stato per quattro anni, penso che un certo numero di persone mi dia un punteggio elevato per quello […] Spero che quando vengono valutate le mie esperienze e la mia disponibilità ad essere presidente che la gente la veda come la vedo io: al momento sono la persona più qualificata per fare questo lavoro. Certo per la mia tenacia, ma anche per le politiche che sto promuovendo e per la visione che ho di questo Paese.

Secondo lei, le donne governano in modo differente dagli uomini?

Penso che esistano dei temi sui quali noi donne riusciamo a sintonizzarci meglio. […] Credo che esistano delle aree di competenza in cui la nostra esperienza personale possa davvero renderci più recettive ai problemi. E sono convinta che gran parte di questo venga tradotto anche nell’attività di governo o in un approccio organizzativo diverso. Le donne in generale sono degli ascoltatori migliori, tendono a gestire le cose in modo più collegiale, si dimostrano più aperte alle nuove idee e a far funzionare le cose in modo che sembra portare a risultati vincenti. Questa almeno è la mia esperienza.

Come donna e presidente governerai quindi in modo diverso rispetto a un presidente uomo?

Sicuramente lo farò. In particolare penso che ciò che ho vissuto mi renda più vicina e consapevole a molti dei problemi familiari per cui la gente sta lottando come la necessità di offrire una sussistenza ai propri figli o cercare di avere un reddito più alto per far fronte al caro vita.

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link]  @GioGolightly

 

Ci mancava il family day

Sì, è vero, potremo rifare per l’ennesima volta articoli e battute sull’incoerenza dei più ferventi politici cattolici. Dà sempre una certa soddisfazione scrivere di doppie famiglie, di doppie morali, specie ora che i teocon, sostenuti dai vescovi, si apprestano a sfilare – a fine gennaio? – per Roma in difesa della famiglia.

Ma è in realtà un po’ banale l’esercizio, e forse scorretto, perché nessuno di loro – né Adinolfi, né Casini, per intenderci, né Formigoni – sta chiedendo di abolire il divorzio. Il punto, dal 2007 ad oggi, è sempre e solo la famiglia omosessuale.

E se pure abbiamo fatto dei passi in avanti (ne ha fatti Matteo Renzi, nello specifico, che – ricordarlo non guasta – nel 2007 partecipò alla manifestazione convocata contro le unioni gay di allora, i Dico), scava scava ha ragione chi – anche nel Pd – dice che l’obiettivo del fronte che chiede la modifica della legge Cirinnà sul punto delle adozioni, è allontanare quanto più possibile il riconoscimento anche vago delle famiglie omosessuali. Le coppie vanno bene – ed è per questo che nel Pd non trovi più nessuno contrario alla semplice legge sulle unioni. Ma un bambino, quello fa subito famiglia – omogenitoriale – e quindi non va bene.

Qual è la novità però rispetto ai precedenti Family Day? È che, se pure certo non le ritroveremo in piazza con Adinolfi (vero???), sulla leva usata in questa fase della discussione parlamentare (di cui vi diamo conto nel numero di Left in edicola sabato 9) per sostenere l’opportunità di una modifica della stepchild adoption, trasformando l’adozione del figlio del partner in un affido, si ritrovano non solo i cattolici più conservatori ma anche alcune femministe. Ricordate l’appello di uno dei due tronconi di Se non ora Quando? Ecco: l’argomento dell’utero in affitto (che noi qui su Left preferiamo chiamare, senza condannarla già nella definizione, gestazione per altri), allarga in maniera inedita il fronte che rischia di rovinare una legge già di compromesso.

La speranza è dunque che abbia ragione Monica Cirinnà, quando scommette con noi che in aula i nuovi teocon nel Pd «saranno al massimo 15». O che abbia ragione Ivan Scalfarotto quando esclude ogni spazio di mediazione. Altrimenti saremmo veramente troppo distanti da quella che sarebbe invece una legge giusta, quella che istituisce il matrimonio per tutti, e basta, come dice Stefano Rodotà.

Siria, a Madaya in 30mila lasciati da Assad a morire di fame

A Madaya si muore di fame. L’ultimo orrore della guerra siriana, del quale si parla da qualche giorno, dopo l’appello lanciato con la foto che vedete qui sopra, viene da un fronte che non ha nulla a che vedere con Daesh e il Califfato: in questo caso sono le truppe di Assad e gli alleati libanesi di Hezbollah che tagliando le linee di rifornimento e tenendo la città sotto assedio, la stanno uccidendo. In queste ore siamo sommersi da immagini terribili – bambini denutriti, anziani scheletrici, gatti uccisi per essere mangiati – che non pubblicheremo.
Qui sotto un tweet del 4 gennaio che mostra alcuni bambini della città cucinarsi una zuppa di foglie. Al mercato nero il riso si vende a grammi e costa circa 250 dollari al chilo. Il freddo, la città si trova in montagna, aggrava la situazione. I cecchini disseminati intorno a Madaya impediscono alle persone di uscire e raccogliere legna da ardere.

Queste le testimonianze raccolte al telefono da The Guardian:
«Ho visto personalmente persone macellare gatti per mangiarli. Anche gli alberi sono stati spogliati dalle foglie» ha detto un infermiere. (…) «Hanno bloccato tutte le strade e sotterrato molte mine, alcuni ragazzi hanno perso braccia e gambe cercando di uscire dalla città» ha detto un insegnante. «La gente sta morendo al rallentatore, avevamo dei fiori in un vaso in casa. Ci siamo mangiati i petali, erano amarissimi». «Non chiediamo non più aiuto a nessuno, lo abbiamo fatto tante volte e nessuno ci ha ascoltato. Ma noi vogliamo chiedere ai funzionari e decisori là fuori, se foste in questa posizione, ed i vostri bambini morissero di fame di fronte a voi, quale sarebbe la vostra reazione nei confronti del mondo esterno?» è il commento amaro di un operatore umanitario.

Qui sotto un breve servizio su un’altra realtà, quella di Aleppo, dove il giornalista Rami Jarrah, siriano che ha vissuto la maggior parte della sua vita in Gran Bretagna, racconta quotidianamente la vita della città sotto gli attacchi di russi ed esercito di Assad e segnalando come le bombe cadano spesso su zone abitate da civili, dove non c’è ISIS e neppure altri gruppi armati. La domanda che Jarrah fa a tutti è: «Perché non siete andati via?»

Quel che c’è sotto l’acqua del canale Saint Martin di Parigi

epa05090180 Fishermen capture trapped fishes to be released later with nets and an electric cane to shock them as the canal Saint Martin is being drained for maintenance in Paris, France, 06 January 2016. The cleaning and maintenance operations of the Canal Saint-Martin, that occur every 15 years, will last 3 months for a total cost of 9,5 millions euros. EPA/ETIENNE LAURENT

Da ieri i parigini possono dare un’occhiata al loro corso d’acqua più famoso dopo la Senna, il Canal Saint Martin, che viene svuotato una volta ogni 15 anni per essere drenato e ripulito. I lavori sono cominciati, dureranno qualche settimana e costeranno diversi milioni di euro. L’ultima volta che il canale costruito da Napoleone nel 1802 è stato svuotato c’erano dentro un’auto, due bombe della Prima guerra mondiale e qualche moneta d’oro.. Stavolta affiorano decine di Vélib, le biciclette del programma comunale di sharing. E tanta altra roba: negli ultimi anni il canale, che entra nella Senna a Bastille, è una delle arterie lungo le quali si anima la socialità dei giovani (le stragi dello scorso novembre sono state perpetrate proprio in zona) e, di conseguenza, più pesone usano il canale come cestino della spazzatura. Il Canal Sanint Martin è diventato famoso anche sul grande schermo per il film Il favoloso mondo di Amelie, dove la protagonista si diverte a far rimbalzare i sassi sullo specchio d’acqua del canale.

[huge_it_gallery id=”89″]

La befana americana ha un fucile semiautomatico. Niente scopa.

Trecentodieci milioni  di fucili e pistole. 310.000.000. Messe in fila sarebbero il più grande mausoleo della barbarie umana. Negli USA una famiglia su tre possiede un’arma, sono 32 mila le vittime di pistole e fucili e 12 mila i morti per stragi folli dettate dal grilletto facile. Nei primi cinque giorni del 2016 sono 128 le vittime da arma da fuoco, di cui otto bambini. Babbo Natale, negli USA, a dicembre ha portato due milioni e mezzo di armi come pacchetto regalo. Benvenuti in America.

L’ultima vittima è una bambina di due anni uccisa da un altro bambino con una pistola lasciata incustodita in casa. Due bambini che si sparano, esattamente, a che grado di civiltà vanno considerati? Un Paese dove l’omicidio è un vezzo coltivabile con qualche decina di dollari come si chiama? Una giustizia considerata come latente diritto all’offesa che grado di evoluzione giuridica rappresenta? Fermiamoci un momento: da quanti anni leggete e ascoltate le voci su quest’America che puzza di polvere da sparo? Tanti. Tantissimi. Michael Moore divenne Michael Moore parlandone al mondo con il suo ‘Bowling a Columbine’ ed era il 2002, quattordici anni fa: quattordici anni di sdegno che non hanno scalfito gli usi e i costumi, quattordici anni di indignazione che hanno sfiorato il dibattito politico americano (e mondiale) per finire sul duello western (col morto) tra bambini.

Piange, Obama, perché questi morti puzzano di una servitù che non si riesce a debellare e che solo i miopi vedono a forma di pistola: gli USA soccombono ai soldi, soldi a forma di armi ma che puzzano di soldi anche senza avere la forma dei soldi, lobby che in America come nel resto del mondo dettano il passo ai Paesi sempre pronti a convergere sui fatturati. Quel bimbo non è morto mica di pallottola: quel bimbo muore di inedia politica.

Se è vero che con il suo discorso Obama ha riportato il tema al centro del dibattito politico da un’altra parte i numeri dicono che il numero di cittadini favorevoli ad una politica di restrizioni sulle armi da fuoco non raggiunge il 50%. Per questo il Presidente USA ha parlato durante il suo ultimo intervento di «common sense» affidandosi al buon senso di un’etica che deve riuscire ad imporsi in epocale cambiamento culturale.

Ce la farà Obama? No. Potrà usare tutti i suoi poteri presidenziali per prendere provvedimenti limitati, consapevole di avere un Congresso che non gli garantirebbe (e non gli ha garantito) i numeri per un intervento più sostanziale però con il suo discorso ancora una volta ha deciso di tenere la luce accesa. Questa volta senza aspettare la prossima strage.

Ma cosa ci dice il Presidente della prima potenza mondiale in lacrime davanti alle telecamere? Che la politica, spesso, non è capace di essere giusta. Già. E sarebbe da segnarselo anche per la prossima esportazione di democrazia.

[divider] [/divider]

Leggi anche:

Perché negli Usa circolano tante armi

Obama prova a limitare la circolazione delle armi

[divider] [/divider]

 

 

La Street Art ribelle e macchina da soldi di Obey in mostra a Bologna

Dopo la grande mostra al Pan di Napoli, Shepard Fairey, in arte Obey è protagonista di una retrospettiva negli spazi della Galleria OnoArte a Bologna, dal 21 gennaio al 28 febbraio. Parliamo del più noto street artist americano diventato famoso in tutto il mondo con l’immagine stilizzata in quadricromia di Barack Obama sovrapposta ai termini Hope (speranza), Change (cambiamento), Progress (progresso), opere che sono diventate il simbolo della campagna elettorale del futuro presidente degli Stati Uniti d’America nel 2008. E che molto hanno giovato all’attuale presidente perché lo hanno reso immediatamente popolare e trendy anche fra le giovani generazioni. In quella occasione Obey non aveva pagato i diritti della foto e l’autore di quello scatto ufficiale da cui l’artista era partito non ha mancato di chiedergli il conto. Andando per vie legali.

obey-obama
©Shepard Fairey. All rights reserved

Scaled Image copia
©Shepard Fairey. All rights reserved

Lo stesso Obey poi ha trovato il modo di rifarsi grazie alla vendita di gadget, magliette e quant’altro su cui sono stampate le sue fantasiose immagini che hanno avuto un successo enorme a New York, come delle maggiori capitali del mondo, facendosi strada nella contro cultura, d’ispirazione DIY e post-punk, «che li utilizza – come sottolineano gli organizzatori della mostra – come strumento per far sentire la propria voce, e spesso il proprio dissenso nei confronti della cultura mainstream, dalla quale però attinge stilemi e retoriche ben precise come lo slogan pubblicitario».

Scaled Image 4
©Shepard Fairey. All rights reserved

Sono perlopiù “opere” molto grafiche, nate sulla scorta di storici manifesti e locandine agit -prop che inneggiano alla  pace e al dilaogo fra culture diverse e che prendono di mira le manie guerrafondaie di molti presidenti americani, a cominciare da Ronald Reagan. Molti sono i richiami alla cultura hippie e alla psichedelia, ma riviste in chiave attualissima e, in certo modo, politically correct, senza inni alla droga e senza mitizzare l’autodistruzione come invece fecero in molti, da James Dean a Jimi Hendrix.

Scaled Image 7
©Shepard Fairey. All rights reserved

Originario del South Carolina, Frank Shepard Fairey è nato a Charleston il 15 febbraio 1970, ha saputo far incontrare i linguaggi di strada con una formazione più classica diplomandosi all’Accademia d’arte. La sua “carriera” è iniziata nel 1989 con  l’iniziativa André the Giant Has a Posse, con cui disseminò i muri della città di adesivi (stickers) che riproducono il volto del lottatore di wrestling André the Giant. E ancora oggi, pur essendo diventate un marchio che ha generato catene di negozi, riescono “miracolosamente” a mantenere un appeal “underground”.

Scaled Image 6
©Shepard Fairey. All rights reserved

obey_print_show_04
©Shepard Fairey. All rights reserved

 [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

Ecco il premierato all’italiana: leggi calate dall’alto e votate a colpi di fiducia

Berlusconi ci aveva provato, ma i suoi sogni di un premierato forte si erano infranti sul referendum costituzionale del 2006. Gli italiani infatti avevano bocciato la riforma varata dal centrodestra che tra le altre cose (devolution, fine del bicameralismo perfetto, riduzione dei parlamentari) prevedeva proprio il premierato, l’aumento dei poteri del presidente del Consiglio. Ma in realtà nei dieci anni successivi più o meno sotterraneamente – ma poi nemmeno tanto – qualcosa di simile a quanto auspicava Berlusconi è avvenuto. E almeno per quanto riguarda la funzione legislativa questa è diventata una proprietà dell’esecutivo – e quindi del premier – svuotando così il Parlamento della facolta, naturale, di legiferare. Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. Quattro premier per quattro governi. E tutti, con pochissime differenze, sono artefici di uno “stravolgimento” del dettato costituzionale.

E’ il cosiddetto premierato all’italiana. Così, provocatoriamente Openpolis, l’associazione indipendente che studia e analizza l’operato della politica italiana, ha chiamato l’ultimo Osservatorio sulle leggi nella XVII legislatura. Analizzando i dati ufficiali di Camera e Senato, con una serie di grafici, Openpolis ha ripercorso il tragitto dei disegni di legge, la durata della discussione, il successo o invece il fallimento.

Un mutamento storico

Alla fine il risultato è questo: nelle due ultime legislature l’80 per cento delle leggi approvate sono state proposte dal governo e non dai singoli parlamentari. In sintesi sono 565 le leggi sfornate, di cui 440 presentate dai governi. Se confrontiamo i quattro esecutivi, quello che ha il tasso più attivo è il governo Letta (88,89%), quello meno produttivo è targato Monti (68,14%) mentre gli esecutivi Berlusconi e Renzi si equivalgono (80,29% e 80,43%).

Quindi, anche se la Costituzione prevede che la funzione legislativa è esercitata “collettivamente dalle due Camere” (art.70) e che, come stabiliscono gli articoli 76 e 77, l’esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non per tempi limitati e per oggetti definiti e che i decreti legge sono previsti per casi di urgenza, in realtà, davvero siamo di fronte ad un mutamento storico. “Se formalmente l’Italia è una repubblica parlamentare questi numeri evidenziano come qualcosa stia cambiando”, si legge nell’introduzione del minidossier di Openpolis. Che evidenzia come in questa legislatura si sia assistito al continuo valzer di cambi di gruppo (a novembre erano 317 i “trasformisti”) e che alla fine l’opposizione reale è stata fatta da Fratelli d’Italia, Lega Nord e Movimento 5 stelle.

Leggi lumaca e leggi lepri

Il divario tra le leggi proposte dall’esecutivo e quelle di iniziativa parlamentare si nota anche nei tempi di approvazione. Occorrono in media 151 giorni per un disegno di legge governativo contro i 375 se si tratta di una proposta parlamentare. Openpolis distingue le leggi lumaca e leggi lepri.

Tra le prime 10 lumaca soltanto due sono proposte dal governo: una è, guarda caso, l’Italicum, per il quale sono stati impiegati 779 giorni, una prova, questa della “indigeribilità” della legge elettorale che tanti maldipancia ha provocato anche alla minoranza Dem. L’altra legge governativa lumaca – e davvero qui si cambia pianeta – è la riforma del codice della nautica da diporto. Ma sono stati necessari oltre due anni per approvare altre leggi di iniziativa parlamentare come quella dell’anticorruzione (796 giorni), degli ecoreati (790), del divorzio breve (733).

La top ten delle leggi lepri naturalmente non ha storia: sono tutte opera dell’esecutivo e sono decreti legge, visto che devono essere convertiti entro 60 giorni. Tra questi troviamo il decreto risarcimento detenuti (37 giorni) e il decreto svuota carceri (38 giorni), approvati anche per evitare la procedura d’infrazione avviata dall’Unione europea contro l’Italia per la condizione disumana delle nostre carceri.

Poche le leggi nate in aula

Dal 2013 sono state 30 le proposte dei singoli parlamentari che su 5135 testi sono arrivati all’approdo finale. Di questi il 73,33% li ha presentati il Partito democratico. Ma se andiamo poi a verificare il tipo di legge approvata, scopriamo che dal 2008 a oggi su 565 leggi approvate, ben il 36,8% (205) sono ratifiche di trattati e il 26,55% (150) sono conversioni in legge di decreti. Quindi di leggi nate in aula ce ne sono veramente poche. Di queste quelle ordinarie sono il 20,71%, le altre sono o deleghe al Governo (8,14%) oppure riguardano il bilancio (5,31%) o collegate alla manovra finanziaria (2,30%) e infine ci sono quelle costituzionali (0,71%).

 Sorprese nel voto finale

Openpolis scandaglia anche il voto finale che porta all’approvazione della legge. E si scopre così che, prendendo il Pd come punto di riferimento, su 435 voti finali in 104 occasioni (23,01%) tutti i gruppi alla Camera e al Senato hanno votato con il Pd. Si scopre anche che alla Camera Sel ha votato il 52% delle volte in linea con il Pd e al Senato invece solo Lega Nord e Movimento 5 stelle hanno votato più del 50% delle volte diversamente dal Pd. Comunque sono i terremoti interni ai partiti (soprattutto di centrodestra, come la scissione tra Forza Italia e Nuovo centrodestra) dal 2013 a oggi a determinare cambi di voto finale. I voti pan-partisam, inoltre, che hanno interessato tutti i partiti, si trovano solo nella ratifica di trattati internazionali. Infine il ricorso alla fiducia: il record spetta a Monti (45,13%) poi viene Renzi (34,6%) mentre il più parco è stato Berlusconi con solo il 16,42%. Il governo dei tecnici del professor Monti ha spinto molto sull’acceleratore, soprattutto sulla riforma del lavoro, fiscale, il decreto sviluppo ecc. Ma anche Renzi non scherza. E infatti Jobs act, riforma Pa, Italicum, Stabilità e decreto competitività sono stati approvati solo a colpi di fiducia.

Ecco il premierato all’italiana come suggerisce Openpolis: le leggi non nascono da una discussione parlamentare o comunque dalla funzione degli eletti di rappresentare i bisogni dei cittadini e della società che cambia, ma nascono dall’alto. E dall’alto viene deciso il voto. Senza scelta.