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Perché il trapianto del rene sì e la maternità surrogata no?

Proibire a livello globale la maternità surrogata? è di poco tempo fa il lancio di un’iniziativa di alcune persone che, attraverso un appello, vogliono decidere per altre ciò che è moralmente lecito e ciò che non lo è. Ma perché proibire e a chi è imposta la proibizione? Nel dibattito che si è acceso poco si mettono a fuoco i soggetti su cui ricadrebbero questi divieti: sono le persone che non possono avere una gravidanza e le donne disposte a portare avanti quella gravidanza, da una parte persone in difficoltà, dall’altra persone pronte ad andare in soccorso a quelle difficoltà.

Dunque, una considerazione e una domanda: il desiderio di avere un figlio ricade in quegli interessi di un individuo che uno Stato dovrebbe tutelare; ma se la natura impedisce la maternità, cosa c’è di immorale, che si vorrebbe trasformare in illegale, nell’avere un figlio in un altro modo?

Regolamentare la possibilità di portare avanti una gravidanza per un’altra persona significa fornire risposte in termini di tutele per tutti i soggetti coinvolti; significa evitare che l’accesso di questa tecnica all’estero diventi una discriminazione su base di censo; significa rispettare il principio di uguaglianza; significa evitare che i divieti in un Paese possano alimentare in altri situazioni di sfruttamento delle donne. Nella nostra epoca gli sviluppi del processo scientifico determinano l’affermazione del corpo umano come “oggetto giuridico nuovo”: gameti al di fuori del corpo sono impiegati per la fecondazione in vitro; organi umani e parti del corpo sono utilizzati per trapianti attraverso donazioni.
La Corte costituzionale ha ritenuto di poter considerare la libertà di disporre del proprio corpo, come esplicazione della libertà personale, tutte le volte in cui la volontà del soggetto è liberamente determinata, non sottoposta a condizionamenti esterni e, soprattutto, non risulti in contrasto con altri principi costituzionali. Il carattere di gratuità delle forme di disposizione del proprio corpo è confermato dalla legge che prevede il trapianto del rene tra persone viventi.

Questo atto determina una diminuzione permanente dell’integrità fisica del donante (limite di cui all’articolo 5 c.c.), ma trova fondamento nei «fini umanitari dell’atto e nel fatto che esso è espressione dell’adempimento di un dovere morale e sociale ricollegabile al principio di solidarietà umana». Nel nostro Paese la legge sulla procreazione medicalmente assistita prevede che sia punito anche con la reclusione chiunque realizza la commercializzazione di gameti, di embrioni o la surrogazione di maternità. Questo divieto viola alcuni diritti costituzionalmente garantiti salute e uguaglianza ed è giuridicamente è attaccabile, perché da una parte non è chiaro se la surrogazione di maternità sia vietata sempre o solo quando è “commerciale”, dall’altra la norma non fornisce una definizione della surrogazione, il che non è accettabile per un precetto penale che deve essere preciso e circostanziato.
In Italia la gestazione per altri è stata oggetto di un procedimento dinanzi al Tribunale di Roma che nel 2000 la autorizzò in base ad un principio di solidarietà. Proprio sulla base del principio di solidarietà la fattispecie può essere normata. Il Parlamento in un’ottica che concepisce la società come un organismo in continua evoluzione, che afferma la tutela dei diritti dei propri cittadini, dovrebbe emanare una legge affinché questo tipo di gestazione, sia normata nella tutela dei diritti fondamentali della persona.

Francia, alle regionali l’affluenza fa perdere il Front National

La paura è passata: i francesi hanno deciso di non eleggere nessun presidente regionale del Front National. Lo hanno fatto partecipando massicciamente al voto per il secondo turno, quasi 10 punti in più che non al primo. Una dinamica interessante che racconta alcune cose sul futuro della politica francese, che si chiama presidenziali del 2017.

I risultati sono presto detti: la destra repubblicana vince in 7 regioni (Paca, Nord-Pas-de-Calais-Picardie, Grand Est, Auvergne-Rhône-Alpes, Pays de la Loire, Ile-de-France e Normandia. i socialisti in 5 (Aquitaine-Limousin-Poitou-Charentes, Bretagna, Languedoc-Roussillon-Midi-Pyrénées,Centre-Val de Loire et Bourgogne-Franche-Comté), nessuna regione per il Front National.

Chi ha vinto e chi perso?

Hanno mezzo vinto tutti, rispetto alle premesse e hanno mezzo perso tutti. Meno degli altri il Front National. Alle ultime regionali del 2010 il partito di Marine Le Pen era al 10% ed eleggeva 160 consiglieri. Ieri ne ha eletti 360, aumentando quasi ovunque i risultati del primo turno: le due candidate Le Pen (Marine e Marion) passano del 42% al 45%. L’unico motivo per cui non hanno vinto è l’aumento della partecipazione alle urne. I media francesi raccontano di facce piuttosto rilassate al quartier generale del partito: è una sconfitta, speravano di portare a casa almeno una regione, ma al contempo sono la prima forza del Paese e non governando saranno molto ben posizionati per il 2017. La preoccupazione resta quella del non riuscire a farcela al secondo turno: da quando Chirac polverizzo il vecchio JeanMarie Le Pen nel 2002, ogni volta che il Front National ottiene un gran risultato al primo turno, al secondo si infrange sugli scogli. Il FN continua a generare frontismo.

La sinistra può gioire senza meritarlo: si trova cinque regioni e più unita che non al primo turno solo grazie ai suoi elettori. La scelta socialista di ignorare la sua sinistra e di inseguire la destra non aveva pagato al primo turno e le vittorie sono solo figlie della reazione delle persone e della paura del FN. Non solo: se nel 2017 la sinistra non saprà trovare un candidato unico, rischia molto seriamente di non andare al secondo turno: alle regionali i primi due partiti erano quelli di destra e di estrema destra. Come appunto, nel 2002, se si fosse votato per il presidente ieri ci troveremmo con un ballotaggio Sarkozy/Le Pen.

Nemmeno Sarkozy può gioire troppo. Non solo il primo turno ha relegato la sua coalizione al secondo posto, ma nessuno vuole più averci a che fare. I candidati vincenti gli hanno chiesto di non andare a fare comizi per loro. L’ex presidente aveva promesso un’onda blu (il colore del suo partito) e si trova con sei regioni, solo perché i socialisti (a differenza sua) hanno scelto in quasi tutti i casi, di ritirare le proprie liste. E perché la maggioranza dei francesi non ha voluto il Front National al potere. Difficile arrivare integro alle presidenziali alla testa di un partito stufo della sua presenza.

“Io sono il nuovo!”, disse il re nudo.

Raccontano che il premier Matteo Renzi fosse molto infastidito per la vicenda banche e per l’uscita di Saviano sul presunto conflitto di interessi della ministra Boschi. Attenzione: la sua preoccupazione non era tanto l’eventuale mozione di sfiducia per la Boschi o il sentimento popolare, no, dicono i ben informati che Renzi non sopportasse che questo inghippo di governo (e banche) abbia oscurato la ricaduta mediatica della Leopolda. Leopolda numero 6, per la precisione e se dovesse avere un sottotitolo (tipo il film “lo squalo”) sarebbe probabilmente “Leopolda 6 il ritorno della vendetta che vendica il ritorno”. Qualcosa di simile.

Comunque se è vero l’antico adagio secondo cui ognuno di noi nel lavoro è quello che avrebbe dovuto essere allora sicuramente Matteo Renzi I avrebbe potuto fare il giornalista. Anzi, il titolista probabilmente o meglio ancora il responsabile dei palinsesti nazionali. Tutti: dalle scalette dei Tg agli ospiti dei talk show fino agli argomenti delle signore durante il caffè. La gag di un presidente del consiglio che sfancula i titoli dei quotidiani su un maxi schermo (con annessa votazione e nomination stile reality show) farebbe inorridire anche in Corea mentre qui viene perdonata con un buffetto. “È un ragazzo”, ci dicono, come fanno i genitori troppo indulgenti con il figlio più discolo.

E fa niente se un ex direttore del Corriere della Sera (mica di Topolino o Novella 2000) gli manda a dire via Twitter “allora i titoli scrivili direttamente tu”: Renzi sa bene che la Leopolda, ormai, è la nuova “prova della settimana” di quel reality che l’ha fatto Presidente del Consiglio, la quarta Camera di un governo che ha bisogno più di storytelling che di riforme, più di personaggi che di maggioranze. “Siamo il nuovo!” ha intimato Renzi dal palco fiorentino. È la sesta edizione del nuovo. E attenzione, perché tra un po’ sarà quello che “non ci hanno lasciato lavorare”. E poi così. Ad libitum.

Elogio dei maestri, anzi, delle maestre. A colloquio con Michela Murgia

Piccolo suggerimento. Questo pezzo va letto ascoltando il tema di The Truman show, con i suoni minimali di Philip Glass nelle orecchie. Perché solo da quelli – scopriamo – si fa accompagnare Michela Murgia quando scrive. «Non potrei ascoltare altro», mi racconta. Pena, la distrazione. Non potrebbe ascoltare Mozart, ad esempio, «troppo complesso», che pure è finito nelle pagine del suo ultimo libro Chirú. Meglio i suoni ipnotici e sincopati di Glass, dunque, per dare forma alla storia.

E le opere di Mozart, invece, vanno bene come citazione: «In un libro sul potere nelle relazioni, come è Chirú», mi dice Michela Murgia mentre si sposta tra una presentazione e l’altra, «Mozart, e anzi Lorenzo Da Ponte, sono dei fondamentali». Non possono mancare. «Il modo in cui indagano e raccontano le relazioni Mozart e Da Ponte, non lo ritrovi in Rossini, non lo ritrovi in Puccini», dice Murgia, «lo ritrovi nella loro trilogia, però, dove non ci sono Norme che si immolano, né Tosche che si buttano da Castel Sant’Angelo. Non muore nessuna donna, con Da Ponte, e si celebra invece un equilibrio tra i sessi».

Eleonora, la protagonista del romanzo, attrice compiuta, lo spiega così a Chirú, giovane e acerbo violinista, in cerca di un maestro di vita. Davanti a sé ha l’allievo e Luca, un collega di Conservatorio del protetto, che si lamentano di quanto siano complicate le donne, banalmente, senza fantasia, e di quanto sarebbe utile «un libretto di istruzioni»: «Il libretto di istruzioni lo avete. È Mozart», dice Eleonora. «O meglio, Lorenzo Da Ponte. Un prete che ha scopato quanto voi nella vita potrete solo sognare, e vi ha fatto il favore di spiegarvi quello che ha capito, che peraltro non è poco. Praticamente tutte le sue opere investono il mistero dei rapporti tra uomini e donne: fedeltà e tradimento, desiderio e dovere, vendetta e perdono… È il vostro santo protettore, dovreste portargli eterna riconoscenza». Si canta così l’aria di Despina di Così fan tutte, a pagina 85 di Chirú. È una delle lezioni che Eleonora impartisce allo scolaro.

Poche ore prima di chiamare Michela Murgia per questa intervista, caso ha voluto che recuperassi la visione di Whiplash (il premiato film di Damien Chazelle, 2014, tre Oscar). L’ho visto in colpevole ritardo, lo so. Ma è stato meglio così, perché Chirú e Whiplash – ho subito pensato – hanno in comune due cose: la musica – ed ecco perché ho chiesto a Michela Murgia cosa e se ascoltasse qualcosa, scrivendo – e la volontà di raccontare un rapporto di formazione. Quello tra un giovane batterista e un brusco direttore di orchestra jazz, per il film americano, quello tra l’aspirante violista con la più matura attrice, coltissima, nel romanzo della sarda Murgia.


 

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Ru486? Serve un cambio di passo

Se è vero che il ministero della Salute tiene molto al concetto di appropriatezza delle cure, al punto da varare un decreto legge che prevede tagli per 208 prestazioni mediche perché non fa la stessa cosa con l’interruzione volontaria di gravidanza farmacologica? La procedura con pillola abortiva Ru486 potrebbe essere seguita in ambulatori o in Day hospital, come accade ormai a livello internazionale.
E le risorse risparmiate potrebbero servire per campagne sulla contraccezione, e quindi per la prevenzione dell’aborto stesso. A sollevare questo problema è una lettera aperta al ministro della Salute Beatrice Lorenzin scritta dai medici di Amica (Associazione medici italiani contraccezione e aborto). Sottoscritta da numerose personalità della scienza e della politica (da Emma Bonino a Ivan Cavicchi a Maura Cossutta, da Filomena Gallo a molti parlamentari di Sinistra italiana) e da associazioni, la lettera ricorda che «dopo il 2009 nel nostro Paese è possibile interrompere la gravidanza indesiderata con il metodo farmacologico entro le settima settimana».

E visto che la legge 194 raccomanda, all’articolo 15, «la promozione delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione di gravidanza», il metodo farmacologico, si legge nella lettera, «va favorito in alternativa alla procedura chirurgica, poiché sicuro e considerato tra i metodi di scelta per le Ivg nele prime settimane di gravidanza da tutte le più importanti linee guida internazionali». Nel mondo le pillole abortive vengono dispensate in regime ambulatoriale, in strutture simili ai nostri consultori o addirittura dai medici di medicina generale.
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COP21, una vittoria della società civile e della scienza. Su cui bisognerà vigilare

The slogan "DECARBONIZE" is projected on the Eiffel Tower as part of the COP21, United Nations Climate Change Conference in Paris, France, Friday, Dec. 11, 2015. (AP Photo/Francois Mori)

In questo pazzo pazzo mondo c’è chi minaccia di far partire un missile nucleare da un sottomarino. C’è chi combatte le guerre sporche, chi semina il terrore (e qui la differenza, se c’è, è sottilissima). C’è chi prende di mira la Tunisia per aver optato ostinatamente per la democrazia e la laicità. Ci sono focolai e conflitti (se ho ben capito, i primi si differenziano dai secondi perché distanti e con morti non “nostri”) e ci sono quelli che tra i “nostri” (perché cittadini occidentali e “sottoprodotti” della nostra crescita senza limiti) ammazzano gente a caso negli stadi e al teatro e ci trascinano – nuovamente e sempre più – nella paura.

Poi accade che a un mese dagli attacchi di Parigi questo pazzo pazzo mondo apre un piccolo squarcio nello scenario da Terza guerra mondiale e mette d’accordo su un tema enorme ben 196 Paesi. Così arriva il primo accordo globale sul clima, che andrà ad incidere sulla totalità dei produttori di emissioni climalteranti. Certo, i dettagli sono il covo degli interessi di criminali e inquinatori e c’è da tenere alta la guardia. Certo, si poteva fare di più e meglio, dalle soglie di aumento di temperatura ai tempi fino alla questione dei fondi.

Ma stavolta non ci sono i presupposti per essere benaltristi, stavolta non è “meno peggio” ma un bel po’ meglio. A cominciare dal fatto che abbiamo un punto di partenza concreto e misurabile: dal 2020 si inizieranno a mettere in campo importanti politiche per ridurre i gas serra in tutti e 196 Paesi. Si dovrà vigilare che in questi 4 anni non ci sia chi fa il gioco sporco sparando le ultime cartucce dell’inquinamento senza freni. E si dovrà controllare che tutto avvenga secondo gli impegni (con un “tagliando” ogni 5 anni). In questo quadro, la società civile dovrà svolgere l’ingrato (ma ormai consueto) ruolo di controllore del controllore, senza rinunciare a chiedere impegni più stringenti perché realistici e tutt’altro che impossibili da assumere, dal momento che si tratta di formidabili opportunità di trasformazione (in chiave di giustizia e innovazione sociale prima che sostenibile) del sistema economico e sociale.

A un mese dagli attacchi terroristici, il mondo intero ha pronunciato un sì unanime (poco importa se qualcuno lo ha pronunciato a voce bassa o pensando che nella realtà dei fatti sarà un no). E questo grazie al forte e corale stimolo proveniente dalla scienza, dalla società civile e da un pezzo di mondo politico e imprenditoriale. La lezione è già stata sperimentata con successo su questioni di scala locale. Ora che in questo pazzo pazzo mondo arriva anche la prima importante vittoria su scala globale, proviamo a ritessere quell’alleanza anche per porre fine alle guerre sporche e al terrore.

La Spagna al voto nell’era della frammentazione

La campagna per le elezioni politiche spagnole del prossimo 20 dicembre si presenta come una delle più decisive e imprevedibili della storia della democrazia del Paese e dovrà assolvere al delicato compito di convincere l’alta percentuale di indecisi dell’ultima ora, che superano il 40% dell’elettorato. Per la prima volta, si moltiplica il numero di attori di rilievo e l’interesse per il profilo personale dei candidati s’impone sull’appartenenza a una formazione politica piuttosto che all’altra.

Il Partito popolare (Pp), stando all’ultimo sondaggio del Centro di ricerca sociologica, è in testa con il 28,6% dei voti, ma se vuole mantenere la poltrona di premier, Mariano Rajoy dovrà scendere a patti con altre formazioni. I socialisti del Psoe restano al secondo posto (20,8%), continuando a perdere terreno a favore di Ciudadanos, che con il 19% aspira al sorpasso. Podemos, la formazione guidata da Pablo Iglesias, si ferma al 9,1%, ma il risultato passa al 15,7% se si sommano i consensi dei movimenti con cui si è alleato in alcune zone. In Catalogna, per esempio, En Comú Podem – la coalizione formata da Podemos, Esquerra unida i alternativa, i verdi e la piattaforma del sindaco Ada Colau, Barcelona en Comú – potrebbe essere il partito che raccoglie il maggior numero di voti.

Le performance televisive dei candidati per la prima volta hanno avuto la meglio sui comizi di piazza. Nelle ultime settimane, i telespettatori hanno visto Pablo Iglesias suonare la chitarra, l’economista Pedro Sánchez, leader del Psoe, giocare a ping pong, e Albert Rivera, candidato di Ciudadanos, andare in moto. Mentre l’attuale presidente del governo, il popolare Rajoy, cucinava delle cozze in prima serata per la televisione pubblica e rivelava come ha conquistato il cuore di sua moglie.

Più tv, niente bagni di folla e spese ridotte all’osso per i tour elettorali, sostituiti da eventi più ristretti. «Siamo in campagna elettorale da circa due anni», spiega il sociologo Joan Navarro, specializzato in comunicazione politica. «Con quattro candidati di rilievo, la sovraesposizione mediatica e una enorme pressione davanti al crescente numero di media, l’elettore è iperstimolato, ma il dibattito faccia a faccia sarà cruciale». Per il vicepresidente del gruppo di consulenza in comunicazione Llorente&Cuenca, il pubblico dà per scontate promesse e programmi: la considerazione prioritaria riguarda la solidità del candidato e se le sue parole sono orientate a soddisfare le esigenze personali dell’elettore. «È così che si costruisce la fiducia – spiega Navarro -. Nelle tornate elettorali precedenti non era un grosso problema che ciò non avvenisse, perché col bipartitismo l’elettore poteva optare per il voto “punitivo” nei confronti di chi, a suo avviso, aveva governato male. Da quest’anno, con il quadro politico più frammentato, non è più così».


 

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Infografica: guerra e pace, quanto spendiamo

Questa l’infografica che illustra l’articolo di Tiziana Barillà sul numero in edicola che racconta della sproporzione tra quanto spendiamo in armi ed eserciti e quanto investiamo in diplomazia e cooperazione

 


 

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Cop21, cosa dice l’accordo di Parigi, chi vince, cosa dicono gli ambientalisti

La conferenza di Parigi ha raggiunto un accordo sul clima. A dispetto della grancassa che sentiremo nelel prossime ore, è un accordo medio, che non contiene alcune cose fondamentali.  Ma è un passo in avanti e non un passo indietro. Ed è la sanzione planetaria che i governi devono lavorare e preoccuparsi per il cambiamento climatico. E farlo in fretta.

I punti salienti dell’accordo, riassunti nell’infografica di France Press qui sotto sono:

  • Mantenere il riscaldamento del pianeta sotto i 2 gradi centigradi e puntare all’1,5 prima del 2100
  • Finanziare la lotta al riscaldamento con 100 miliardi resi interamente disponibili da parte dei paesi ricchi entro il 2025. I Paesi sviluppati devono fornire i mezzi, gli altri sono invitati a farlo.
  • Impegno dei paesi ricchi a continuare a ridurre le loro emissioni e impegno dei meno sviluppati ad avere quello come obbiettivo (una vittoria dei più poveri). Riconoscimento dei pericoli e dei rischi per alcuni Paesi in aree particolarmente fragili del pianeta.

Raggiungimento del picco di emissioni planetario entro il 2050, poi riduzione.

Key points of the Paris #COP21 climate agreement https://t.co/zipRnQkvwLpic.twitter.com/6UnGabbwhM

— Agence France-Presse (@AFP) 12 Dicembre 2015

Il risultato è una mezza vittoria dell’Europa e di alcuni Paesi più ricchi e una mezza sconfitta per i Paesi emergenti o petroliferi come Arabia Saudita, Cina, India. Questi volevano obbiettivi meno drastici e in passato erano stati alleati con i Paesi del Sud del mondo più poveri (il G77). Stavolta i più poveri e messi a rischio dal cambiamento climatico hanno preferito (e imposto) ai ricchi come Europa e Canada di mettere più soldi sul tavolo in cambio dell’accettazione di obbiettivi più ambiziosi. Questa alleanza è quella che ha prodotto l’accordo – poi se India e Cina ci stanno vuol dire che il testo è atento ai loro bisogni e che anche quei governi sono preoccupati. Poi c’è la vittoria politica di Hollande e Fabius, ma questa è politica interna francese e non è detto che conti. Anche gli Usa vincono: volevano un accordo chiaro, ma non lo volevano vincolante.

L’accordo di Parigi non ha obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni giuridicamente vincolanti – cosa che gli europei chiedevano e gli Usa no, perché Obama sa che un accordo vincolate non sarà ratificato dal Congresso. Il suo successo nel raggiungere gli obbiettivi dipenderà in larga misura dall’efficacia di un nuovo sistema per controllarei progressi di ciascun paese ed aumentare gli obiettivi ogni cinque anni. Il fatto che l’impegno sia stato preso da quasi tutte le delegazioni presenti è comunque un buon risultato, segno che la pressione della società civile (e della realtà che bussa alla porta dei governi) qualche effetto lo ha avuto.

L’obiettivo di limitare il riscaldamento globale “ben al di sotto” di 2 gradi Celsius, e quello cercato di non superare gli 1,5 gradi, potrebbe essere uno sprone e un’indicazione che la strada da seguire è quella anche per le grandi imprese. Un limite grave è che l’accordo entra in vigore nel 2020, anche se si invitano tutti a iniziare prima. L’accordo raggiunto ad oggi – poi c’è la promessa di rivedere e migliorare ogni cinque anni- non limita il riscaldamento a 2 gradi ma a 3. E, come si sapeva da giorni (lo aveva scritto Raffaele Lupoli qui qualche giorno fa), fuori da ogni impegno preso restano traffico marittimo e aereo. Un pessimo affare e un compito per la società civile planetaria: fare enormi pressioni sull’industria aerea. I paesi si devono comunque sbrigare ad agire, spendere e rendere disponibile le risorse promesse ai più poveri. Senza questo e grandi investimenti in tecnologie che consentano il risparmio energetico, restiamo nei guai. Parigi è un mezzo passo in avanti, probabilmente ne serviranno altri. Un fallimento sarebbe stata una catastrofe.

 

Qui sotto alcuni tweet di figure importanti del movimento ambientalista mondiale o di organizzazioni ambientaliste. Bicchiere mezzo e mezzo. E una chiamata alle pacifiche armi della pressione su tutti i governi della Terra.

 

Bill McKibben, 350.org: «L’accordo non salva il pianeta, ma salva la possibilità di salvarlo. Lotteremo fino all’ultimo respiro».

Greenpeace: Parigi mette i combustibili fossili dalla parte sbagliata della storia. Ora lotteremo in milioni per metterli fuori mercato.

Tanseem Essop, della delegazione Wwf a Parigi: Anni di duro lavoro alle spalle e anni duri a venire. Un movimento forte, unito e globale porterà il cambiamento».

Incendi a Bombai e porte sante a Roma. Le foto della settimana

People search for their belongings after a fire broke at slums in Kadivali area of Mumbai, India, Monday, Dec. 7, 2015. Hundreds of homes were reportedly destroyed as fire tenders labored to reach the source in the heavily congested area. (AP Photo/Rajanish Kakade)

I fatti del mondo raccontati attraverso gli scatti più significativi della settimana. Dagli incendi India fino alle foto del Giubileo, passando per la Francia che si tinge di nero con la vittoria del Front National e le eruzioni dell’Etna a Catania.

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