Due anni fa cominciava il conflitto in Sud Sudan, un conflitto politico tra il presidente dello stato appena nato e ricco di petrolio e il suo vice è presto diventato un conflitto etnico: il presidente Salva Kiir è infatti un Dinka e il suo vice Riek Machar, un Duer.
Nessuno sa se il conflitto, cominciato come una battaglia tra reparti della guardia presidenziale il 15 dicembre del 2013 nella capitale Juba, sia cominciato come un tentativo di colpo di Stato. Fatto sta che oggi un milione e 600mila persone sono in fuga, e più di 150mila in campi profughi delle Nazioni Unite, attorno ai quali si combatte.
In due anni ci sono state crisi di malaria e colera e molti testimoni hanno raccontato di atrocità commesse dai due eserciti. Naturalmente le stragi avvengono sulla base di linee etniche. Nella regione di Unity, tra le più toccate dalla guerra, decine di migliaia sono nascosti tra paludi e boscaglia e i livelli di malnutrizione stanno aumentando in maniera esponenziale, specie tra i bambini.
Lo scorso agosto le parti in conflitto avevano raggiunto un accordo per il cessate-il-fuoco, ma le ostilità non si sono mai placate. Lo stesso era avvenuto nel 2014, con gli accordi di Addis Abeba.
In occasione di questo triste anniversario, le organizzazioni umanitarie e per i diritti umani denunciano la situazione e parlano di scarso impegno della missione Onu nella regione (UnMiss), che protegge le persone che riescono a raggiungere alcuni centri di raccolta ma non molto di più. «Non c’è stata alcuna protezione fino ad oggi, mentre le violenze erano in corso, migliaia di persone che entrano nei siti del Bentiu hanno raccontato storie atroci» ha detto Pete Bunt di Medici Senza Frontiere. Mesi di violenze contor i civili non hanno prodotto interventi e MSF non è in grado di far tornare a funzionare il suo ospedale a Leer (dove pure il suo personale è riuscito a rientrare)
Ecco una tra le testimonianze raccolte.
In Bentiu, una donna sui cinquanta, fuggita da Leer, ha detto: «Rapiscono e violentano donne e ragazze e poi le uccidono […]. Ogni volta che trovano qualcuno a Leer, lo uccidono. Bruciano le case. Ma il vero problema è che si prendono le mucche e così non c’è cibo…chi è rimasto nelle paludi morirà di fame, tutte le scorte alimentari sono finite ma la gente ha paura di avvicinarsi alle strade per cercarne».
I racconti delle persone nascoste nelle paludi, che mangiano piante acquatiche e rischiano di vedere morire affogati i loro figli, sono terribili.
A sua volta Human Rights Watch pubblica un rapporto sulle condizioni dei bambini soldato,ampiamente usati nel conflitto e spesso reclutati a forza. Più di cento le interviste fatte tra i bambini, che raccontano di violenze, delle battaglie combattute mentre i loro amici morivano al loro fianco. Alcuni dicono di essersi associati agli eserciti volontariamente per avere da mangiare o con l’idea di proteggere se stessi o le loro famiglie. Oppure per avere un salario: «Sono tanti i ragazzi di strada che si uniscono», racconta uno di loro arruolatosi assieme ad altre dieci persone. Qui sotto un video di HRW con alcune testimonianze sulla pericolosa vicinanza tra caserme e scuole. E una serie di foto Getty Images scattate durante una cerimonia di restituzione dei fucili promossa dall’Unicef nel febbraio scorso.
Riccardo Bossi, figlio di Umberto, all'interno del tribunale di Milano per il processo con rito abbreviato nel quale il figlio del Senatur, imputato per appropriazione indebita perchè avrebbe fatto spese personali con i fondi del partito, verrà interrogato, Milano, 14 dicembre 2015. ANSA/STEFANO PORTA
È spassoso scoprire come ci si difende da figli di un ex segretario di partito come Umberto Bossi: Riccardo Bossi, passione sfrenata per i rally e un tiepido interesse per le vicende di partito, ha dichiarato di avere ricevuto soldi pensando “che fossero di papà”. E non li ha chiesti a papà perché “aveva con lui un rapporto difficile e il papà era spesso impegnato” e quindi, come succede ai figli di segretari di partito, ha pensato bene di chiederli alla sua segretaria. Ma non quelli della Lega, quelli di papà.
Ci fosse un romanziere alla Conan Doyle avrebbe scritto un bel giallo deduttivo in cui Sherlock Holmes avrebbe dovuto frugare nella strana vita famigliare di casa Bossi, tra il rampollo Renzo che si dedicava al conseguimento di strane lauree in Albania e proprio Riccardo che, intanto, prendeva soldi (in contanti, ovviamente) per le piccole spese quotidiane dal mantenimento alla ex moglie fino all’abbonamento alla pay tv e anche il veterinario per il suo povero cane. Il quadretto famigliare di un Paese dove la politica è spirito di servizio invertito: la politica al servizio dei politici. Come gli hobby da coltivare nel sottoscala ricavato in un angolo di fortuna solo che, in questo caso, la stanza degli hobby è un capitolo di spesa del finanziamento pubblico. Alla faccia del merito, dell’antipolitica, della trasparenza e di tutti gli slogan che ci sputano addosso.
E in fondo non è colpa di Riccardo se dalle nostre parti il partito spesso sia semplicemente un’appendice famiglia, come se l’intuizione giusta valga da sola un vitalizio per sé, per i figli e per i figli dei propri figli e la trasparenza di bilanci e meccanismi sia semplicemente un “omaggio” agli iscritti giusto quanto basta per continuare ad essere credibili.
Ma questo processo che potrebbe essere il paradigma di una generazione che ha falcidiato le ambizioni di quelle successive rimane solo un piccolo box di cronaca giudiziaria relegata nel “costume e società” di quel cognome che fu famoso. Perché se dovessimo specchiarci tutti, dentro la dinamica di questo processo, uscirebbe tanto di questo Paese. Troppo.
Una storia piccolissima che ha dell’incredibile. E che parla di quanto le merci circolino per il pianeta senza sosta. Che si tratti di merci prodotte per essere vendute, riciclate o contrabbandate, legali o illegali, queste circolano senza sosta.
Prendi il pick-up nero nella foto contenuta nel tweet qui sotto
Il testo dice: I ceceni di Jaish al Muhajireen wal Ansar (un gruppo di stranieri islamisti e anti Assad) usano il pick-up di un idraulico. Non nel senso che ad Aleppo o in Cecenia hanno rimediato questo Ford nero, ma nel senso che sulla portiera c’è il nome e il numero di telefono di un idraulico di Houston, Texas.
Dopo la pubblicazione di questo tweet da parte di Caleb Weiss, studente fissato con i gruppi islamisti in Medio Oriente (ma non simpatizzante), l’idraulico, il signor Mark Oberholtzer, che come si evince dal cognome da sciatore di fondo austriaco non ha origine cecene e nemmeno simpatia per la guerra contro chicchessia, ha cominciato a ricevere telefonate minacciose.
Lo stesso Caleb Weiss ha provato a chiamarlo per scoprire cosa ci facesse il suo camion in Siria. Oberholtzer non lo sa: ha venduto il camion a un concessionario, la Auto Nation Gulf Freeway, per poi ritrovarsi intervistato dai giornali locali e minacciato da telefonate anonime. Ora l’idraulico ha fatto causa al concessionario sostenendo che «non rimuovendo come d’accordo l’adesivo sulla fiancata ha danneggiato pesantemente lui e la sua famiglia».
Chissà cosa è successo: se un simpatizzante jihadista ha comprato l’auto e l’ha spedita in qualche Paese mediorientale, se questa è stata comprata da qualche commerciante che rivende auto in Turchia o chissà che altro. Capirlo ci direbbe qualcosa in più dell’organizzazione delle milizie islamiste o del commercio internazionale. Certo è che a questo punto, visto che l’idraulico ha fatto causa al concessionario, anche il buon Caleb potrebbe fare causa a sua volta. L’avvocato di Oberholtzer nella sua denuncia, infatti, scrive che la foto è stata postata da da un membro di una brigata islamista che combatte ad Aleppo, quando il buon Caleb è un paffuto studente dell’Illinois.
Alla faccia dello Sblocca Italia. E della norma che definisce strategiche le estrazioni petrolifere per accorciare l’iter di approvazione. Il governo fa retromarcia e propone tre emendamenti alla legge di Stabilità che, ferme restando le autorizzazioni già date, vietano le estrazioni petrolifere entro le 12 miglia marine dalla costa e aboliscono il rinnovo ultradecennale delle concessioni di estrazione, cancellando anche le procedure accelerate che limitavano il coinvolgimento dei cittadini in nome del “superiore interesse nazionale”. Il limite delle 12 miglia era stato eliminato dal governo Monti: ora, alla luce degli emendamenti, sarebbero bloccati progetti come Ombrina Mare 2, al largo delle coste abruzzesi. Sarà il vento che arriva da Parigi dopo l’accordo globale sul clima? Oppure la pressione dei territori – richiesta di referendum e ricorso alla Corte costituzionale compresi – in vista delle elezioni di primavera?
Forse entrambi i fattori hanno pesato. Ma di sicuro il premier Renzi punta ad aggirare l’appuntamento referendario (a fine novembre è arrivato il giudizio di ammissibilità della Cassazione) che rischia di rivelarsi un boomerang per il suo partito. Non a caso alcuni parlamentari, tra cui il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, nei giorni scorsi hanno annunciato che appoggerebbero i referendum pur di ottenere lo stop alle trivellazioni petrolifere.
Il mondo ambientalista e quello dell’industria delle ecoenergie hanno più volte denunciato la schizofrenia di un Esecutivo che parla (per ora i fatti non si sono visti) di Green act e di miliardi sul tavolo per la riconversione ecologica e poi si fa imbrigliare dai petrolieri e autorizza trivelle, nonostante le riserve dei nostri mari coprirebbero poche settimane del fabbisogno energetico nazionale. Per non parlare dallo stop agli incentivi per le rinnovabili.
«Improvvisate e strumentali»: così un comunicato congiunto di Fai, Greenpeace, Legambiente, Marevivo, Touring Club Italiano e Wwf definisce ora le norme «pro-petrolieri» finora utilizzate dal governo. Le associazioni si augurano, invece, che dopo gli impegni assunti alla Cop21 di Parigi Renzi e i suoi abbandonino la Strategia energetica nazionale “pro-fossili” e lavorino a un piano organico che punti su efficienza energetica e fonti pulite.
Ma anche nel caso di un via libera da parte del Parlamento, spiegano le associazioni, gli emendamenti proposti dal governo non rispondono del tutto alle richieste delle Regioni e agli obiettivi dei quesiti referendari. I nuovi commi da 129-bis a 129 quater che si aggiungerebbero alla legge di Stabilità 2016 all’esame della commissione Bilancio della Camera, infatti, cancellano il Piano complessivo delle aree da trivellare per cercare o estrarre idrocarburi, ma non impediscono di autorizzarle caso per caso e, in più, lasciano aperta la possibilità di effettuare ricerche per 6 anni ai possessori di un titolo concessorio unico.
Opere di Botticelli, uno dei primi oli su tela di Mantegna, ritratti di un maestro del colorismo veneto come Bellini. E poi un’opera giovanile di Raffaello, dalla luce chiara e dal paesaggio dolce. Mentre quello che Lotto dipinse nella tela Nozze mistiche di Santa Caterinapare fosse talmente bello che un soldato francese lo staccò e se lo portò via. Così si racconta nel film di Davide Ferrario L’Accademia di Carrara-Il museo riscoperto (Trailer), dedicato alla riapertura di questa straordinaria pinacoteca, dopo otto anni di lavori.
Madonna di Mantegna 1475
Non meno importanti in questo museo di Bergamo sono le tele dei maestri della ritrattistica padana, dal Foppa al Moroni, che per la prima volta ritrassero artigiani e lavoratori di ogni classe, riuscendo a raccontarne la personalità in modo acuto e penetrante, senza preoccuparsi del nome del soggetto ritratto e i suoi dati anagrafici, perché più importante era trasmettere il sentire e il modo di essere di quella persona che sembra venirci incontro dal quadro. Ciò che conta è la presenza viva e vibrante di quel mercante, di quella donna anziana, di quella ragazza che cattura la nostra attenzione con uno sguardo che pare interrogarci. E’ la nascita del ritratto moderno uno dei fili rossi che percorrono questo affascinante film che Ferrario ha realizzato raccontando la riapertura di questo museo bergamasco che vanta una collezione di oltre 600 dipinti, molti dei quali di maestri del Rinascimento e di secoli successivi fino ad arrivare a Pelizza da Volpedo (rappresentato dal romantico ritratto di Santina Negri, con un mano un fiore secco e una lettera) e ad artisti di primo Novecento.
Pisanello, Lionello d’Este, 1441
Chiusa nel 2008 per restauri, la Pinacoteca dell’Accademia è stata riaperta solo pochi mesi fa e questo film – prodotto da Rossofuoco e portato nelle sale da Nexo Digital – offre un coinvolgente viaggio nelle sale museali che vediamo a poco a poco tornare a piena vita, insieme ai suoi depositi ricchi d’arte, circondati da un giardino di piante antiche che il custode Cesare Marchetti, continua a curare, da quando nel 1973 quando s’innamorò della figlia del vecchio custode. Osservando questi quadri ogni giorno, via via con maggiore affezione, è risuscito a scoprire la firma di Evaristo Baschenis, semi nascosta nell’ombra, accanto a un drappo rosso che attraversa una magnifica natura morta da secoli senza un’attribuzione certa; una firma autografa che neanche i restauratori avevano notato quando avevano ripulito la tela.”Non ho fatto studi appropriati. Questo prima per me era un posto come un altro – racconta Marchetti nel film -, ma poi ho cominciato ad amare l’arte. Ho visto che c’era qualcosa di più e ogni giorno scoprivo in qualche quadro qualcosa di diverso. Tanto che ora che è stata cambiata la posizione delle tele, per me, è stato quasi un trauma. C’era una certa sequenza, ora cerco di cogliere i nuovi messi”.
Moroni, Ritratto di Isotta Brembati Grumelli, 1550
Accanto alla sua testimonianza Davide Ferrario ha raccolto quella di Maria Cristina Rodeschini, responsabile della Carrara e della Gamec, dello storico Romano ma anche di personaggi come Giovanni Lindo Ferretti, qui a fare da contro canto cattolico cal confronto aperto fra alcuni giovani storici dell’arte studiosi dell’iconografia cristiana e alcune giovani esperte di arte musulmana. Un dialogo davanti alle telecamere per indagare i temi dell‘aniconismo islamico e del culto delle immagini nel cattolicesimo. Il divieto di rappresentare Dio nell’arte islamica – raccontano le giovani storiche dell’arte nel fim – non preclude la possibilità di rappresentazione della natura, “che anzi è una lode alla perfezione del creato”. In Europa si diffuse il culto immagini dopo l’iconoclastia scoppiata a Bisanzio e lo scisma dalla Chiesa d’Oriente. Per una molteplicità di ragioni, compreso il fatto che nel medioevo le pitture assunsero un valore pedagogico e didattico rivolto alla popolazione allora largamente analfabeta. “Le religioni hanno sempre cercato di mettere sotto controllo le immagini – commenta uno dei partecipanti a questo vivo confronto –. Ma le immagini generano sempre un senso che è difficile tenere a bada”.
grotte di Chauvet
Accanto a questo confronto sincronico fra la tradizione d’Oriente e di Occidente, affascinante è anche la ricerca diacronica, suggerita dal fim di Ferrario, sullo sviluppo della tradizione del ritratto, prima di profilo, poi di faccia o tre quarti arrivando a una sempre maggiore espressività. Il regista è andato a cercare le radici dell’arte del ritratto fin nrlls preistoria. Lo ha fatto andando ad intervistare (nel suo studio-castello ad Oxford) l’antropologo Desmond Morris. “Il primo oggetto artistico che si conosce è una pietra con pochi segni incisi che la fanno sembrare un volto. Si tratta del Makapansgat Pebble è stato ritrovato nell’Africa meridionale e risale a tre milioni di anni fa” racconta l’autore de La scimmia artistica. L’evoluzione dell’arte nella storia dell’uomo(Rizzoli). Poi sarebbero venute le grotte “affrescate” di Chauvet, risalenti a 36mila anni fa, di Altimira e Lascaux. “In questo caso prevalgono ritratti di animali, in chiave piuttosto realistica, diversi da quelli stilizzati di esseri umani che si trovano ai primordi dell’arte. Probabilmente dopo aver preso un animale durante la caccia- dice il professore – ne abbozzavano un rapido schizzo che poi realizzavano all’interno della grotta celebrando l’animale morto, dipingendone la figura come fosse in piedi. Erano disegni molto accurati e precisi, ma anche molto evocativi”.
Il regista Davide Ferrario
Queste antichissime realizzazioni, artisticamente già mature, fanno pensare che l’arte sia qualcosa che connota profondamente la specie umana fin dalle sue origini, come capacità di creare immagini fiori di sé sulla roccia come su altri supporti; immagini di fantasia attraverso le quali gli artisti ci raccontano qualcosa di sé , della propria sensibilità e realtà interiore. “L’arte è qualcosa di assolutamente presente e necessario nella nostra vita”, conclude Morris. Anche per questo, con Davide Ferrario. diciamo che è importate aver restituito l’Accademia Carrara ai cittadini e che tutti possano conoscerla e apprezzarne la bellezza. Anche attraverso il cinema.
Grande arte al cinema. Il viaggio continua. Dopo gli Uffizi in 3D e il bel film di Davide Ferrario sulla riapertura del Museo dell’Accademia Carrara a Bergamo, c’è attesa per il film di David Bickerstaff Goya visioni di carne e sangue ( in sala il 2 e il 3 febbraio) dedicato alla vita e l’arte di Francisco Goya e che racconta la mostra Goya: the Portraits della National Gallery di Londra, costruendo un ritratto del pittore attraverso opinioni di esperti internazionali, finestre sui capolavori e visite ai luoghi in cui l’artista spagnolo visse e lavorò. Ma non solo. Il 23 e il 24 Febbraio 2016 sarà nelle sale Leonardo Da Vinci-Il genio a Milano, che ripercorre la straordinaria mostra di Leonardo realizzata in occasione dell’Expo in Palazzo Reale. E ancora: Il 22 e il 23 Marzo 2016, Renoir Sconosciuto, il 3 e il 4 Maggio 2016 Istanbul e il Museo dell’Innocenzadel premio Nobel per la letteratura Orhan Pamuk, il 24, 25 Maggio 2016, Da Monet A Matisse-L’arte di dipingere giardini.
Nella puntata di Report del 13 dicembre, Milena Gabbanelli ha mandato in onda un’inchiesta piuttosto scottante. Il servizio “La trattativa” di Luca Chianca per Report ha cercato di ricostruire il percorso di quella che si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al mondo. Si tratta di circa un miliardo di dollari che l’Eni avrebbe sborsato per l’acquisto della licenza per sondare i fondali marini del blocco petrolifero denominato Opl245 in Nigeria.
Il caso ovviamente è complesso qui un estratto diffuso dalla stessa trasmissione di Rai Tre dove è possibile farsi un’idea più chiara di quali siano le parti coinvolte e di come la questione sia sostanzialmente intricata:
Il sospetto che sia stata pagata una tangente emerge per puro caso durante un processo civile presso l’Alta Corte di giustizia inglese dove nel 2012 si celebra una disputa tra due società, la Malabu oil, dell’ex ministro del petrolio della Nigeria Dan Etete, e una società delle British Virgin Islands, la Energy Venture Partners, del mediatore nigeriano, Emeka Obi. E’ il mediatore Obi che chiede all’ex ministro Etete il riconoscimento ufficiale del suo ruolo nella compravendita della Opl245. A scoprire tutte le tre organizzazioni, le inglesi Global Witness e Corner House e l’italiana Re:common che denunciano tutto alla Procura di Milano che nel 2013 apre un’inchiesta sull’acquisto dell’Opl245. Tra le carte del processo inglese spunta anche il nome di Luigi Bisignani che, intercettato in quel periodo dalla procura di Napoli per la P4, parla con i massimi vertici dell’Eni dando indicazioni per concludere l’affare. Bisignani, intervistato da Report, ammette di aver avuto un ruolo di “attivatore” dell’affare, e ammette anche di aver avuto contatti con i massimi vertici dell’ Eni, vecchi e nuovi. E’ stata l’Eni, guidata da Paolo Scaroni, che nel 2011 ha comprato per oltre un miliardo di dollari la licenza per il blocco petrolifero nigeriano. Eni da parte sua afferma di aver svolto la trattativa e concluso l’accordo senza i mediatori. Ma Report nel corso della sua inchiesta ha raccolto testimonianze che suscitano interrogativi su questa versione. Inoltre buona parte dei soldi pagati da Eni, ben 800 milioni, non sarebbero andati al governo, ma nelle tasce di società private nigeriane riconducibili al misterioso, Aliyu Abubakar, definito nel suo paese l’uomo ombra. Anche se l’ambasciata nigeriana ha inspiegabilmente negato il visto ai giornalisti, ma Report è riuscito a documentare a Lagos le sedi delle società a cui Eni ha versato gran parte degli 800 milioni. dal sito di Report
Il caso insomma prometteva di essere scottante e di scatenare, come spesso avviene per le inchieste del programma di approfondimento della Gabbanelli, un enorme flusso di commento sui social, e in particolare su twitter che sempre più spesso viene utilizzato per commentare in diretta programmi tv di intrattenimento e talk. In poche parole quella cosa che ormai è definita social tv. Questa volta però è accaduto qualcosa mai accaduto prima d’ora. Perché lo staff di Eni, quando è stata chiamata in causa direttamente dal servizio di Report, non ha reagito restando a guardare la tv o pianificando comunicati stampa e reazioni del giorno dopo, ma ha scelto di sfruttare proprio le modalità della social tv per arginare la crisi e salvare la propria reputazione. È così infatti che l’azienda è scesa direttamente in campo rispondendo in diretta sui social a quello che Report stava via via mandando in onda e pubblicando un dossier e dei dati che secondo l’azienda smentivano quanto veniva mostrato su Rai Tre.
A rispondere punto per punto a Report non è stato solo dall’account ufficiale @Eni ma anche alcuni dei manager dell’azienda che hanno twittato dai propri account personali. Primo fra tutti Marco Bardazzi, vice presidente esecutivo e responsabile della comunicazione esterna di Eni.
.@reportrai3 La prossima volta fateci intervenire in diretta, per un vero contraddittorio #report
Nel giro di pochissimo i social di Eni riescono a catalizzare l’attenzione di Twitter sulle proprie ragioni e soprattutto riescono a farli pressoché indisturbati visto che quasi l’80% delle discussioni che si stanno svolgendo attorno alla trasmissione con l’hastag #Report parlano della risposta live che sta dando l’Ente Nazionale Idrocarburi. E addirittura Bardazzi incalza la trasmissione insinuando di non aver avuto la possibilità di fornire un contraddittorio all’inchiesta presentata dalla trasmissione di Gabanelli. Insomma il quadro che si delinea vorrebbe molto assomigliare a questo: “la povera e piccola” multinazionale Eni non interpellata dagli “squali assetati di scoop” di Rai Tre si difende grazie alla democrazia del web e dei social, dove ognuno può dire la propria. Quello che si mette in scena è un gioco delle parti totalmente ribaltato dove Golia si traveste da Davide e finge di sconfiggere i giornalisti cattivi con una fionda che fionda non è. Ma anzi molto probabilmente è il risultato di una pianificazione accurata e di un dispendio non indifferente di forze.
È solo a questo punto, dopo che il frame imposto dall’azienda è ormai dilagante che intervengono la conduttrice Gabanelli, la redazione del programma e il direttore di Rai Tre Andrea Vianello. Qui potete leggere uno storify con le due versioni e tutti i rispettivi Tweet. Ma a poco serve. In tutto questo le reazioni del giorno dopo, o meglio del Tweet dopo – quello di Eni dopo cui si è scatenato tutto-, sono sicuramente molto interessanti e tutte incentrate sulla grande impresa compiuta dalla multinazionale che non si è fatta cogliere in castagna.
Sul web infatti hanno cominciato a circolare in maniera più o meno virale post in cui blogger e influencer dei social media raccontavano l’epica battaglia Eni Vs Report, elogiando la capacità dell’azienda di tutelare la propria reputation online con un’ottima attività sociale di aver fatto la storia della “social tv”. Insomma: “Evviva, bravi eroi!”.
La stessa diatriba Eni-Report è stata poi ripresa da varie testate nazionali, sempre raccontando l’epica battaglia a colpi di Tweet e producendo più di un effetto positivo per Eni. Da un lato infatti l’azienda si dimostra un gruppo moderno, capace di comunicare e addirittura “cool”, dall’altro quello che di fatto accade è che la notizia non sta più nello scoop di Report, ma nella risposta social di Eni.
C’è da osservare una cosa buffa. La “crisis management” che doveva diventare un problema di @eni è diventata un problema di @reportrai3
Con tutto il fumo alzato dalle conversazioni Twitter, in pochi infatti oggi parlano di quello che effettivamente è stato rivelato dall’inchiesta della Gabanelli. La discussione ha cambiato arena privilegiata e se una volta la tendenza era quella di dire “è vero, lo hanno detto alla tv” ora si è passati a “è vero, perché era in trending topic, è vero perché hanno risposto con i dati”. È vero perché l’unica versione che sei riuscito a vedere sui social è quella. Sappiamo bene però che non è così. E forse, scemato l’entusiasmo per questa rivoluzionaria azione di marketing e gestione della reputazione aziendale dell’Ente Nazionale Idrocarburi, potremmo constatare che tutto questo, ancora una volta, non dimostra altro che la comunicazione ha pervaso tutto senza però distinguere più fra buoni e cattivi. Per fare un paragone lontano e filosofico, ma calzante: siamo al passaggio dalla centralità del dialogo socratico al sofismo più spinto, dove è importante solo chi riesce a ottenere ragione, a imporre la propria versione dei fatti come verosimile e, visto che siamo nell’era del web, a rendere il proprio messaggio più virale. Questo però è molto lontano dalla verità dei fatti che in fondo è lo scopo del buon giornalismo. E proprio in tempi di contenuti virali, forse dovremmo stare più attenti a cosa facciamo da gran cassa. Oltre che delle efficaci strategie di comunicazione che una multinazionale mette in campo, dovremmo anche preoccuparci di saper valutare l’entità di un’informazione, schieraci dalla parte della notizia, non aiutando i potenti a rovesciare il tavolo passando per i buoni.
The Italian prime Minister Matteo Renzi during his final speech at the "Leopolda convention" in Florence, 13 December 2015. ANSA/ MAURIZIO DEGL'INNOCENTI
Tenetevi forte, citiamo Vittorio Feltri. «Quando Bettino Craxi o Silvio Berlusconi o Massimo D’Alema hanno cominciato ad attribuire alla stampa la colpa delle loro difficoltà, quello era il preciso momento in cui cominciava il declino, in cui si scoprivano incapaci di controllare la situazione, di rilanciare davanti alle difficoltà, e non trovavano altro sollievo che denunciare la mascalzonaggine dei giornali. Non che avessero torto, non sempre perlomeno. Soltanto che il problema non erano i giornali».
È categorico, molto sicuro di sé, Feltri. Noi non sappiamo se la Leopolda di questo week end abbia o meno segnato l’inizio del declino di Matteo Renzi, ma sicuramente una mutazione sì. Definitiva e facile da prevedere, peraltro. Alla Leopolda, anche se era ancora pieno di gente entusiasta, di ammiratori in cerca di selfie, dei rottamatori non c’è più traccia. Chi è deputato di punta, chi amministratore delegato, chi consigliere di cda. Chi premier, chi ministro. Quella appena finita è stata la Leopolda dei potenti, che – con il solito piglio scanzonato e sarcastico se la sono presa, sì, con i giornali, mettendo in piedi anche un non elegantissimo gioco online: vota il titolo peggiore. Facile la domanda: e se l’avesse fatto Berlusconi o peggio Grillo?
Alla Leopolda classifica peggiori prime pagine riguardano solo Fatto,Libero,Giornale:infatti 8/10 dei giornali sono con Renzi.Mah!
Dei potenti e delle banche, la Leopolda è stata «il ballo di fine anno del consiglio dei ministri» come l’ha definito un altro Feltri, Mattia, su la Stampa. Un ballo con il fantasma di Maria Elena Boschi. Che quando arriva si mostra offesa, «ci sono e mi scuso per il ritardo, ho letto ricostruzioni molto fantasiose sul perché non fossi qui, ero a fare il mio lavoro, stiamo discutendo della legge di Stabilità», e quando sale sul palco parla di tutto, risponde a domande su tutto, tranne che del suo rapporto con Banca Etruria, e del babbo. L’unica domanda di cui non avessimo già sentito mille volte la risposta.
Banche, affari, familismo, potere, favori, soldi. Nel caso Boschi si vede il vecchio, lurido potere democristiano, più arrogante che mai
In definitiva, una Leopolda di propaganda. Dove anche i momenti di vero confronto assumono un sapore diverso da quello delle precedenti edizioni. Un intervento su tutti: quello delle famiglie arcobaleno – e citiamo loro, ma potremmo citare le partite Iva, per dire – salite sul palco a difendere la stepchild adoption, e la legge Cirinnà sulle unioni civili, ricordando che quello è solo un pezzetto dei diritti che spetterebbero alle persone omosessuali e ai loro figli. A difendere, sì, perché la maggioranza con cui governano i rottamatori è ancora piena di Giovanardi, ed è così rapida ad abolire l’articolo 18, e più lenta sul resto. La legge Cirinnà per ora giace in parlamento, alla ricerca dell’ultima mediazione, così come giace la legge Scalfarotto contro l’omofobia, che era un pezzo ancora più piccolo di diritto, neanche così gradito a tutto il mondo Lgbt, ma era una bandiera del Pd. Sbandierata un po’, per propaganda, e poi lasciata lì. Come se le riforme bastasse nominarle.
Per ricordare un grande fotoreporter come Mario Dondero, da poco scomparso, riproponiamo qui alcune dei 150 gli scatti che lui stesso aveva selezionato per la mostra alle Terme di Diocleziano,a Roma, pensata come un compendio di tutto il suo lavoro, conosciuto soprattutto per i suoi memorabili scatti in bianco e nero, con cui è riuscito a raccontare la storia italiana con occhio poetico, sempre attento ai soggetti, non importa se fossero personaggi noti o persone che silenziosamente lavoravano alla ricostruzione dell’Italia dopo la guerra e nelle grandi battaglie per i diritti poi negli anni Settanta.
Classe 1928, Dondero è stato un fotoreporter di fama internazionale. Nella mostra organizzata nel 2014 dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma con Electa -che tanti spettatori hanno avuto modo di apprezzare fino al marzo 2015 – i curatori Nunzio Giustozzi e Laura Strappa avevano organizzato il percorso in quattro sezioni per poter ripercorrere attraverso lo sguardo di Dondero i momenti storici che hanno segnato il secolo scorso, così come i luoghi e i personaggi alla ribalta sulle pagine di quotidiani e periodici che hanno scandito i cambiamenti da quegli anni ad oggi.
«Fotografo e fotoreporter sono due termini che definiscono un modo di fare fotografia opposto» diceva Dondero, che ha lungamente lavorato per quotidiani e periodici per raggiungere «la gente comune e colloquiare con il mondo». La fotografia per lui era un modo «per andare oltre la parola» e poter fare cronaca con un taglio più profondo e il linguaggio universale delle immagini che non conosce barriere linguistiche e culturali. Il bianco e nero per lui era il «colore della verità» e a questo fiolone della sua opera era dedicata la parte più suggestiva della mostra, arricchita da fotografie a colori, per la maggior parte inedite.
Da giovane, dopo la Resistenza a cui aveva partecipato a 16 anni come partigiano, Mario Dondero era rimasto molto colpito dal lavoro di Robert Capa. Al grande fotografo dell’agenzia Magnum aveva reso omaggio con una sua fotografia di quella collina, in Spagna, dove Capa scattò la famosa foto del miliziano colpito durante la guerra civile. Giovanissimo Dondero aveva cominciato a lavorare per L’Avanti! e per L’Unità, poi fu assunto da Milano Sera.
I suoi primi passi, Dondero li mosse nella Milano di Luciano Bianciardi, una città ancora popolare che ancora non aveva fatto il grande balzo economico. Nel 1954 poi si trasferì a Parigi. Risale a quel periodo la foto in cui ritraeva i protagonisti del Nouveau Roman, «in cui immortalava tutti gli intellettuali del gruppo ancor prima che fossero consapevoli di aver creato una nuova forma di scrittura», come ricordano i curatori. In questo suo lavoro quotidiano Dondero maturò un altro modo di fare giornalismo, come raccontano Uliano Lucas e Tatiana Agliani nel volume La realtà e lo sguardo, storia del fotogiornalismo in Italia(Einaudi, 2015). Per lui diventò un “viatico per incontrare uomini e donne di origini e paesi diversi, gente famosa e non, ma carica di una speciale umanità”. Fu così che coraggiosamente prese a fare il freelance in giro per il mondo. Dondero coraggiosamente raccontò la guerra algero-marocchina e il processo Panagoulis. L’Italia degli anni Sessanta ma anche la Francia degli Settanta e poi fino agli anni Novanta sono state al centro della sua attenzione e della sua passione intellettuale e politica. Insieme al grande continente africano a cui Dondero dedicò la serie di fotografie dal titolo “Verso il mondo”.
Ma non solo. Dondero è stato un grande testimone della guerra a Cuba, del genocidio in Cambogia e delle trasformazioni del Brasile. Indimenticabile il suo reportage sulla caduta del muro di Berlino, sulla Russia di Putin e l«’Afghanistan senza pace». Come dimostra il volume Electa che, dopo aver accompagnato la mostra, ora diventa un testo importante per ricordare e trasmettere la conoscenza del suo lavoro. Insieme al suo libro testimonianza dal titolo Scatti umani, uscito per Laterza.
Diverse centinaia di persone hanno partecipato a una manifestazione a Szekesfehervar, cittadina ungherese dove le autorità locali hanno pensato bene di erigere un monumento di bronzo a grandezza naturale a Balint Homan, architetto delle leggi antisemite degli anni ’30.
Il progetto è della fondazione che porta il nome dell’antisemita filo nazista che nel 1944 chiese la deportazione degli ebrei nei campi. Della fondazione fanno parte diversi membri di Jobbik, il partito di estrema destra erede degli alleati politici dei nazisti, il partito delle croci frecciate di cui riprende molta dell’iconografia.
Homan è stato ministro negli anni ’30 e alleato degli occupanti nazisti e membro del partito che governò una parte del Paese dal 1944 alla fine della guerra e che massacrò decine di migliaia di ebrei o li fece deportare. Alla fine della guerra gli ebrei ungheresi morti furono quasi 600mila.
Il sindaco della città, membro di Fedesz, il partito del premier Viktor Orban, ha chiesto alla fondazione di ripensare alla statua – che dovrebbe essere scoperta il 29 dicembre prossimo, anniversario della nascita di Homan. La verità è che il comune ha concesso fondi per costruirla e che la decisione di provare a fermarla viene solo dopo che anche gli Stati Uniti e il Congresso mondiale ebraico hanno protestato con il primo ministro ungherese per il monumento. Del resto, tre ministri del governo si sono pronunciati contro il monumento, ma nessuno ha detto che, qualora venisse scoperta, la statua andrebbe demolita.
Proibire a livello globale la maternità surrogata? è di poco tempo fa il lancio di un’iniziativa di alcune persone che, attraverso un appello, vogliono decidere per altre ciò che è moralmente lecito e ciò che non lo è. Ma perché proibire e a chi è imposta la proibizione? Nel dibattito che si è acceso poco si mettono a fuoco i soggetti su cui ricadrebbero questi divieti: sono le persone che non possono avere una gravidanza e le donne disposte a portare avanti quella gravidanza, da una parte persone in difficoltà, dall’altra persone pronte ad andare in soccorso a quelle difficoltà.
Dunque, una considerazione e una domanda: il desiderio di avere un figlio ricade in quegli interessi di un individuo che uno Stato dovrebbe tutelare; ma se la natura impedisce la maternità, cosa c’è di immorale, che si vorrebbe trasformare in illegale, nell’avere un figlio in un altro modo?
Regolamentare la possibilità di portare avanti una gravidanza per un’altra persona significa fornire risposte in termini di tutele per tutti i soggetti coinvolti; significa evitare che l’accesso di questa tecnica all’estero diventi una discriminazione su base di censo; significa rispettare il principio di uguaglianza; significa evitare che i divieti in un Paese possano alimentare in altri situazioni di sfruttamento delle donne. Nella nostra epoca gli sviluppi del processo scientifico determinano l’affermazione del corpo umano come “oggetto giuridico nuovo”: gameti al di fuori del corpo sono impiegati per la fecondazione in vitro; organi umani e parti del corpo sono utilizzati per trapianti attraverso donazioni. La Corte costituzionale ha ritenuto di poter considerare la libertà di disporre del proprio corpo, come esplicazione della libertà personale, tutte le volte in cui la volontà del soggetto è liberamente determinata, non sottoposta a condizionamenti esterni e, soprattutto, non risulti in contrasto con altri principi costituzionali. Il carattere di gratuità delle forme di disposizione del proprio corpo è confermato dalla legge che prevede il trapianto del rene tra persone viventi.
Questo atto determina una diminuzione permanente dell’integrità fisica del donante (limite di cui all’articolo 5 c.c.), ma trova fondamento nei «fini umanitari dell’atto e nel fatto che esso è espressione dell’adempimento di un dovere morale e sociale ricollegabile al principio di solidarietà umana». Nel nostro Paese la legge sulla procreazione medicalmente assistita prevede che sia punito anche con la reclusione chiunque realizza la commercializzazione di gameti, di embrioni o la surrogazione di maternità. Questo divieto viola alcuni diritti costituzionalmente garantiti salute e uguaglianza ed è giuridicamente è attaccabile, perché da una parte non è chiaro se la surrogazione di maternità sia vietata sempre o solo quando è “commerciale”, dall’altra la norma non fornisce una definizione della surrogazione, il che non è accettabile per un precetto penale che deve essere preciso e circostanziato. In Italia la gestazione per altri è stata oggetto di un procedimento dinanzi al Tribunale di Roma che nel 2000 la autorizzò in base ad un principio di solidarietà. Proprio sulla base del principio di solidarietà la fattispecie può essere normata. Il Parlamento in un’ottica che concepisce la società come un organismo in continua evoluzione, che afferma la tutela dei diritti dei propri cittadini, dovrebbe emanare una legge affinché questo tipo di gestazione, sia normata nella tutela dei diritti fondamentali della persona.