Licio Gelli, il venerabile della loggia P2, è morto ieri sera nella sua casa di Arezzo. Oltre che alla vicenda della loggia P2 il nome di Gelli è legato a decine di inchieste giudiziarie e a vari lati oscuri della storia recente d’ Italia: dal tentato golpe di Valerio Borghese a tangentopoli, passando per Calvi, Sindona, il caso Moro e la strage di Bologna. Sul web sono dunque comparse una serie di battute sarcastiche sul personaggio che ironizzano sul ruolo che Gelli ha avuto nelle vicende politiche italiane dal dopo guerra ad oggi.
Il povero Aylan Kurdi – che purtroppo non è il solo bambino vittima della guerra in Siria e del tentativo di cercare rifugio altrove – ha cambiato il dibattito sull’immigrazione. Non è una consolazione, ma la foto del corpo del bambino morto sulla spiaggia di Bodrum ha determinato un cambio di percezione delle cose. Si tratta di una valutazione che chiunque può fare a naso, ma che i ricercatori del Visual Social Media Lab dell’università di Sheffield hanno fatto osservando i dati. Numero di retweet della foto e modalità di diffusione, articoli pubblicati e conseguente cambio di tono nel dibattito politico e nei comportamenti delle persone che cercano informazioni online.
I ricercatori hanno ricostruito come la foto è diventata virale e, poi, come nei giorni successivi il discorso in rete sia cambiato.
La foto viene postata alle 10.23 del 2 settembre da Michelle Dviscevitch senza link e con due hashtag (#refugeeswelcome e #syrianrefugees) alle 10.23 e comincia a essere rilanciata soprattutto in Turchia e in altri Paesi mediorientali. Non granché.
Se una manciata di tweets con poche centinaia di retweet sono stati sufficienti per determinare la viralità della foto, è il tweet di Liz Sly, dell’ufficio di Beirut del Washington Post che genera lo tsunami sul social media: in mezz’ora il tweet viene rilanciato 7421 volte e su una scala geografica planetaria. Fino a quel momento i tweet erano soprattutto mediorientali. Qui verifichiamo la forza degli influencer, il prestigio del media e anche l’importanza del mondo anglosassone sui social media. O almeno quanto il mondo anglosassone sia capace di cambiare il ritmo del discorso in Europa e in Occidente.
Poi arriva il primo articolo di un media globale, quello del Daily Mail, con un titolo che parla della «disperazione di migliaia» e che innesca il diluvio di articoli sui media di tutto il mondo – e anche il dibattito sull’opportunità di pubblicare la foto di Aylan Kurdi.
Cosa ha determinato la diffusione virale della foto? Intanto abbiamo smesso di pensare che quelli che sbarcano, camminano, fuggono a decine di migliaia siano migranti. E abbiamo finalmente scoperto che esistono i rifugiati. Le due foto qui sotto mostrano come nel numero di tweet e di ricerche su Google la parola rifugiato sostituisce quella immigrato – e anche come il numero di ricerche in materia si moltiplichi.
Interessante da notare anche come non è solo la foto di Aylan a essere ritwittata ma anche tutte le foto celebrative, le opere d’arte, i meme (il 17% del totale) così come le foto del bambino vivo (ancora il 17%). Man mano che emergevano particolari le persone cercavano la storia usando il nome del bambino. Gli hashtags più usati erano quelli con il suo nome o #RefugeesWelcome, segno di un’ondata emotiva che cambiava di segno. Meno invasione e più preoccupazione: la scoperta che stava accadendo qualcosa di epocale. L’Europa, dove il dibattito è più acceso, è anche il luogo dove i social media e le richerche cambiano di tono in maniera più accentuata.
Le ricerche su Google Paese per Paese ci dicono qualcosa su come reagiamo e ragioniamo, facciamo tre esempi. Se in Germania la prima richiesta è relativa alla provenienza dei rifugiati, la seconda su come aiutare e fare volontariato e la terza sulla distinzione tra rifugiati e migranti, in Italia ci si chiede come adottare un orfano siriano, quanti immigrati ci siano davvero nel Paese (dalle iperboli politiche ai fatti, insomma?) e anche cosa dica il papa. Gli ungheresi, che in questo anno non si sono dimostrati particolarmente commossi dall’ondata di rifugiati arrivati ai confini, cercano su Google «Come dovrebbero rispondere i cristiani alla crisi dei rifugiati?».
La foto e la reazione online determinano un cambiamento nelle opinioni pubbliche – quella francese è segnalata da indagini demoscopiche – e dei governi: da qui in poi Angela Merkel, almeno per qualche settimana, cambia atteggiamento nei confronti degli immigrati. Lo studio riflette anche sul caso delle elezioni norvegesi, dove un numero di giovani pro-immigrazione avrebbe deciso di andare a votare invece di non farlo.
Quanto durano questi effetti e come le stragi di Parigi hanno contribuito a cambiare di nuovo la percezione del pubblico? Con quanta velocità cambiano le opinioni su temi forti e difficili? Per scoprirlo serviranno indagini come questa su set di dati di lungo periodo e un incrocio con altri numeri. La speranza è che la foto di Aylan Kurdi non venga dimenticata in fretta. Nessuno dei rifugiati morti in mare lo merita. (Qui sotto il testo del rapporto in inglese)
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Tutto inizia nel 2011 in Siria, con la storia di Caesar. Caesar un nome di fantasia scelto per tutelare la vera identità di chi ha permesso di ricostruire i racconti agghiaccianti delle torture praticate dal regime del presidente siriano Bashar al-Assad contro chi era stato imprigionato con l’accusa di opporsi al regime. Caesar era un membro della polizia militare e prima dell’inizio della guerra civile fotografava le scene del crimine, dalla primavera del 2011 venne trasferito in un ospedale militare a Damasco dove per la prima volta gli venne ordinato di fotografare i cadaveri di alcuni prigionieri incarcerati come oppositori politici, torturati e uccisi. All’inizio gli scatti riguardano singoli corpi, ma verso la fine del 2012 e nel 2013, l’attività a cui è costretto Caesar lo porta a ritrarre e documentare il decesso di dozzine di persone alla volta. Le brutalità di fronte a cui si trova giorno dopo giorno il militare siriano sono sempre più acute e sconvolgenti, fino a che finalmente C. riesce a contattare dei parenti all’estero e a organizzare con il loro aiuto la sua fuga dalla Siria. Abbandona così il Paese, ma riesce a portare con sé circa 55.000 foto che mostrano in modo inequivocabile i crimini di cui si è macchiato negli anni il regime di Assad. Alcune immagini ritraggono una grande stanza dove sono stesi una cinquantina di corpi, l’impressione è che tutto sia organizzato come una sorta di catena di montaggio. La maggior parte dei cadaveri infatti è addirittura accompagnata da un biglietto, che viene apposto sulla fronte o a fianco del morto, sul quale è indicato un numero di riferimento e altre generalità o annotazioni. Altri scatti invece sono molto ravvicinati e permettono di vedere chiaramente i segni evidenti della tortura che ha portato al decesso del prigioniero: segni di elttrodi, mutilazioni, occhi fuori dalle orbite. I documenti mostrano l’orrore e la follia razionale e programmatica del regime con cui venivano perpetrate le violazioni dei diritti umani. Nel 2014 le fotografie di Caesar vengono presentate al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e nell’agosto dello stesso anno viene stilato un report che fornisce una stima delle vittime eliminate dal regime. Si tratta di 191 mila 369 vite.
«Abbiamo meticolosamente verificato dozzine di testimonianze e siamo sicuri che le fotografie fornite da Caesar siano autentiche e dimostrano in modo evidente i crimini contro l’umanità che si stanno perpetrando in Siria»
Dal momento in cui sono venuti alla luce gli scatti trafugati da Caesar ci sono voluti circa nove mesi di ricerca e di lavoro, su circa 28.000 di quelle immagini, per cercare di restituire un’identità a quei corpi e almeno in parte le storie delle vittime. Il risultato è stato raccolto da Human Rights Watch nel report Se i morti potessero parlare: torture e uccisioni di massa all’interno del sistema di detenzione siriano. L’organizzazione internazionale è riuscita a ricavare nuove prove della veridicità dei documenti forniti da Caesar, rintracciare e intervistare parenti e amici di 27 delle vittime oltre che circa 37 ex detenuti che hanno fornito delle testimonianze sui decessi avvenuti in carcere. Grazie alle immagini satellitari e alle tecniche di geolocalizzazione Hrw è riuscita a confermare che alcune delle foto sono state scattate nel cortile dell’ospedale militare a Mezze.
«Ognuno di questi detenuti era il figlio, il padre, l’amico, il marito amato di qualcuno. Amici e parenti hanno sicuramente speso mesi e anni a cercare queste persone» commenta Nadim Houry, direttore del dipartimento di Human Rights Watch impegnato in Medio Oriente. «Abbiamo meticolosamente verificato dozzine di testimonianze e siamo sicuri che le fotografie fornite da Caesar siano autentiche e dimostrano in modo evidente i crimini contro l’umanità che si stanno perpetrando in Siria». Secondo l’organizzazione internazionale le prove di tutto questo dovrebbero essere prese in considerazione dai Paesi che stanno lavorando a possibili negoziati di pace in Siria e in particolare dalla Russia che al momento è il principale sostenitore del regime di Assad. I governi dovrebbero infatti fare pressioni affinché venga dato immediato accesso nei centri di detenzione agli osservatori internazionali e si ponga immediatamente fine alle sparizioni e alle torture sui detenuti. Le oltre 28 mila immagini su cui si concentra Se i morti potessero parlare: torture e uccisioni di massa all’interno del sistema di detenzione siriano ritraggono circa 7 mila oppositori incarcerati e uccisi durante il periodo di detenzione o a seguito del trasferimento dalla prigione a un ospedale militare. Le restanti foto invece mostrano i siti attaccati, altre volte i corpi senza vita di soldati regolari dell’esercito siriano identificati con il loro nome, altre ancora civili uccidi durante i bombardamenti o gli attentati dei ribelli.Tra le vittime identificate ci sono un ragazzo che all’epoca dell’arresto era solo 14enne e un’attivista di appena vent’anni. In questo video sono raccolte alcune delle impressionanti testimonianze fornite dai loro cari rintracciati e intervistati da Hrw.
Tutti i 27 familiari interpellati hanno spiegato di aver cercato per mesi notizie, a volte addirittura anni, notizie sui propri cari scomparsi. A volte addirittura pagando delle ingenti somme ai funzionari del governo nel tentativo di ottenere grazie alla tangente qualche informazione. Solo in due casi le famiglie hanno ricevuto un certificato di morte che indicava come causa del decesso insufficienze cardiache o respiratorie. In nessun caso invece è stato restituito il cadavere o è stato possibile celebrare un funerale.
Le ricerche di Human Rights Watch sono riuscite a ricostruire l’identità di 27 persone il cui identikit corrisponde a quello registrato dall’intelligence siriana al momento dell’arresto e in alcuni casi addirittura ai referti che documentano l’internamento e le torture durante il periodo detentivo. Sono stati confrontati tutti i segni particolari, marchi particolari, tatuaggi, ferite, che venivano registrati al momento dell’arresto con i dati e le informazioni che potevano essere ricavati dalle foto di Caesar.
«Se scattaste delle foto dei detenuti ora, vedreste persone che appaiono esattamente come quelle che appaiono nelle immagini trafugate da Caesar, solo che da vive…Quelli che sono morti sono stati i più fortunati»
Sami, ex detenuto in una prigione siriana
Hrw ha inoltre condiviso una parte delle fotografie che identificano 19 vittime con un team di medici legali dell’organizzazione Physicians for Human Rights. Il team ha analizzato gli scatti, gli evidenti segni di abusi e sulla base di questi cercato di determinare le effettive cause del decesso. I medici legali hanno così potuto definire le tipologie di torture a cui i prigionieri sono stati sottoposti: fame, soffocamento, ferite provocate da varie violenze, e in un caso addirittura un colpo di pistola alla tempia sparato da una distanza ravvicinata.
«Non abbiamo alcun dubbio che le persone ritratte nelle foto di Caesar siano state affamate, picchiate e torturate sistematicamente e su larga scala» ha commentato Houry di Human Rights Watch – Medio Oriente. «Questi scatti – ha continuato – rappresentano solo una piccola parte delle persone che sono morte mentre erano sotto la custodia del governo siriano in molte sono ancora prigioniere del regime e stanno subendo le stesse atrocità».
Su questo fronte l’appello di Human Rights si rivolge in particolare a Russia e Iran che, in quanto principali sostenitori del governo siriano, hanno enormi responsabilità oltre che la possibilità di fare pressioni su Assad affinché fermi subito gli abusi. Così come ai Paesi membri del Gruppo internazionale di Supporto alla Siria che si sono riuniti a Vienna per promuovere il processo di pace in territorio siriano. Le potenze internazionali dovrebbero infatti garantire che vengano rispettate le responsabilità dei crimini e degli abusi di guerra commessi e delle violazioni dei diritti umani.
I numeri delle atrocità in Siria secondo il New York Times
A settembre il New York Times mettendo insieme svariati database è riuscito a stilare un’infografica “Come si muore in Siria” che mostra i numeri dei morti in Siria dall’inizio della guerra civile ad oggi. Si parla di più di 200mila vittime, 28 mila delle quali per lo più civili sono state uccise perché coinvolte nei combattimenti fra l’esercito siriano e i ribelli, 27 mila sono invece i morti per colpi di mortaio e artiglieria, 18mila le vittime dei raid aerei. Mentre sono quasi 9000 sempre secondo il Nyt le vittime imprigionate e torturate a morte dal regime di Assad. Non stupisce quindi un altro numero, quello delle persone che dalla Siria e da questa guerra stanno scappando: circa 4 milioni all’estero, senza contare chi, non potendosi permettere di espatriare, cerca di ripararsi nelle poche zone più tranquille del Paese.
(cliccando sull’immagine sopra potrete vedere l’infografica interattiva sul sito del New York Times)
Domani la Libia potrebbe avere un nuovo governo nazionale. O averne tre, che è un po’ come dire nessuno. Nella città marocchina di Skhirat si dovrebbero incontrare le delegazioni dei due parlamenti libici – quello riconosciuto internazionalmente di Tobruk e quello sostenuto da milizie islamiche a Tripoli – e, a seconda di quanto nutrite saranno quelle rappresentanze, capiremo se la conferenza svoltasi a Roma il 13 dicembre ha prodotto dei risultati. La dichiarazione congiunta firmata alla Farnesina da 21 tra Paesi e entità sovranazionali(Ue, Onu, Stati Uniti, Germania e molti Paesi arabi compresi) sostiene la creazione di un «Governo di concordia nazionale» che comprenda «i rappresentanti della maggioranza dei membri della Camera dei Rappresentanti e del Congresso Nazionale Generale, degli indipendenti, delle Municipalità, dei partiti politici e della società civile riunitisi a Tunisi».
Sempre che a Skirhat si presenti qualcuno. Il primo appuntamento era infatti fissato per oggi, ma le defezioni e i distinguo da parte dei politici libici hanno consigliato di prendere un giorno di tempo per verificare se sia meglio andare avanti o rinviare ancora pur di evitare un flop dopo che a Roma tutti si sono detti ottimisti. La verità è che in Marocco si negozierà ancora e, se i colloqui andranno bene, solo allora si firmerà. Con il piccolo problema che nel frattempo, a Malta si sono incontrati per la prima volta i presidenti dei due Parlamenti e hanno annunciato l’avvio di colloqui. «Si tratta degli esponenti che mai hanno voluto il dialogo e probabimente usano l’appuntamento di Malta per rendere più complicato il processo sotto egida Onu» ci spiega Mattia Toaldo esperto di Libia dello European Council on Foreign Relations.
Le potenze occidentali, i Paesi confinanti e molti Paesi sunniti si preoccupano per il caos che regna in Libia: ai confini dell’Europa si intrecciano la crisi dei rifugiati, l’avanzata dell’ISIS o di altri gruppi islamisti e la presenza di interessi economici legati ai giacimenti di idrocarburi. Persino il Segretario di Stato Usa Kerry, che tutto sommato della Libia potrebbe infischiarsene, è venuto a Roma per dire assieme al ministro Gentiloni, che «Lo status quo non è più tollerabile, è pericoloso per i libici e, con l’avanzata di Daesh, è pericoloso per tutti».
John Kerry, Paolo Gentiloni e l’inviato speciale Onu per la Libia Martin Kobler a Roma. Mandel Ngan/Pool Photo via AP
Come questa pressione internazionale che comprende Paesi occidentali dai grandi interessi nel Paese (Italia e Francia), Stati confinanti e potenze regionali o economiche (Egitto, Turchia, Stati del Golfo) non riesce a creare un appuntamento unitario? Intanto perché in Marocco saranno presenti gruppi di eletti, leader vari e rappresentanti di municipalità, ma non due rappresentanze ufficiali dei parlamenti che si incontrano e firmano per un nuovo governo con sede a Tripoli. Se un accordo si avrà, questo sarà sottoscritto dai singoli. Più autorevoli e numerosi saranno e più l’ipotesi di governo nazionale a Tripoli funzionerà. Con molti se e ma.
Se in Marocco sarà presente la maggioranza degli esponenti dei due governi e parlamenti, allora il processo passato per Roma avrà speranza di andare avanti. Il riferimento nel comunicato alla «società civile riunitasi a Tunisi» è un ulteriore complicazione: nella capitale tunisina si sono infatti visti esponenti politici libici poco propensi a trovare una soluzione a breve che, parlando di un processo di pace che va rilanciato, si sono detti contrari all’accordo Onu e hanno creato un comitato che ricominciava da capo il processo. Come del resto ha dichiarato il presidente del Parlamento di Tripoli, Bouri Abusahmen a Malta: non vogliamo interferenze internazionali. Roma, Tunisi, Malta: una bella confusione.
A quel punto potremmo avere il governo di Tripoli figlio del processo di mediazione dell’Onu, quello di Tripoli che sostiene il percorso libico-libico abbozzato a Tunisi e poi quello di Tabruk. Sempre che a Skirhat succeda qualcosa. E’ pur vero che nelle prossime ore l’Occidente e i vari sponsor internazionali di milizie e partiti cercheranno di fare pressioni.
I nodi da sciogliere non sono finiti. La sicurezza in Libia è gestita dalle milizie, che nel Paese un esercito non c’è più. Se la parte diplomatico-politica funzionasse, ci sarebbe il problema di insediare un governo legittimo in una capitale sotto il controllo militare di alcune fazioni. A occuparsi di questa vicenda e a tentare la mediazione tra milizie per creare un clima accettabileè il neo incaricato per la sicurezza Onu, il generale Paolo Serra, che affianca il nuovo inviato delle Nazioni Unite, il tedesco Martin Kobler – l’inviato uscente Bernardino Leon non è uscito di scena nel migliore dei modi, avendo accettato un lavoro negli Emirati Arabi, uno dei Paesi parte in causa in Libia.
Il compito di Serra è delicato: senza un accordo tra milizie, anche un successo diplomatico a Skirhat rischia di essere inservibile. «In ogni caso è necessario che, sebbene sotto l’egida Onu, il processo chi si avvia in questi giorni abbia una chiara matrice libica – dice ancora Toaldo – La fretta generata dall’allarme terrorismo, pure un po’ esagerato e fatto di notizie talvolta false e altre fuorvianti, non è una buona consigliera. C’è fretta, certo, trovare una soluzione e avviare un processo di ricostruzione delle istituzioni è urgente, ma probabilmente serve pazienza per cercare di coinvolgere più attori possibile. Il rischio è avere un processo che funziona solo nominalmente». Avere firme di individui – per quanto molti – e non accordi tra partiti e coinvolgimento delle milizie è appunto un grande rischio. Tra l’altro i presidenti dei Parlamenti di Tobruk e Tripoli hanno dalla loro quella di poter dire: noi negoziamo senza mediazioni altrui, noi siamo la Libia.
C’è poi il problema delle pressioni e interferenze non dette. Il governo riconosciuto è molto legato all’Egitto, per dirne una. E gli egiziani non sono entusiasti dell’idea di un compromesso tra Tobruk e Tripoli, perché in casa loro di una cosa simile non vogliono nemmeno sentir parlare. E il caso Leon, pure ci dice qualcosa di quanto pesino altri Paesi, se sono vere le mail pubblicate da The Guardian, di determinare i contenuti delle proposte diplomatiche dell’inviato Onu. Il quotidiano britannico ha infatti pubblicato delle email dalle quali si evince che Leon lavorava per gli Emirati anche prima di firmare un contratto. In questo senso l’appuntamento di Roma è stato un successo nel senso che tutti i Paesi che combattono per interposta persona in Libia – o che scommettono su un attore piuttosto che su un altro, non privilegiando il processo di riunificazione del Paese – hanno dichiarato congiuntamente di essere pronti a riconoscere un governo che esca dal processo Onu e di smetterla di interlocuire, almeno ufficialmente, con altri auto-nominatisi rappresentanti del governo libico. Se e quando un governo unico ci sarà.
(ANSA/ WEB/ EL MINBAR)
Infine c’è il tema di Daesh e della sua presenza in Libia. Tutti sono molto preoccupati e riconoscono che un vuoto di potere come quello libico è esattamente il luogo in cui il Califfato punta a penetrare. Ha fatto così in Iraq e in Siria. Di ieri è l’allarme francese secondo il quale Daesh sta cercando di muoversi da Sirte verso l’interno per avvicinarsi ad alcuni giacimenti libici. Mettere le mani sul petrolio consentirebbe, tra le altre cose, di finanziare le attività e di dare forma istituzionale al Califfato anche in Libia. Certo è che il diffondersi irrazionale della paura Daesh in Libia non aiuta. In altre occasioni l’Occidente ha agito spinto dall’ansia di agire, bombardando e inviando droni come cavallette. Non ha funzionato quasi mai. Anzi: alcune reazioni nel triangolo sunnita dell’Iraq sono la prima scintilla che genera l’ISIS.
I civili morti nei bombardamenti ne alimentano la propaganda. Meglio lavorare a un accordo per favorire la formazione di forze anti Isis interne alla Libia capaci di controllare il territorio. Meglio fermare le eventuali fonti di approvigionamento di armi e risorse e aspettare che la fiammata Daesh libica si consumi. E impedire attraverso un lavoro diplomatico e di intellignce che soldati e ufficiali esperti che furono di Gheddafi si uniscano ai ranghi di Daesh per opportunismo o perché non sanno dove altro andare. In Iraq è successo con i Baathisti ed è stata una catastrofe. Le notizie che arrivano da Mosul, città iracheno sunnita controllata da Daesh, ci dicono che è sempre più isolata ma non presa di mira oltre misura dagli aerei occidentali, e che sconforto e malcontento crescono tra la popolazione. Meglio utilizzare strade così.
Nel clientelistico balletto della legge di stabilità, quella medievale lista della spesa di costose mancette a forma di un paio di righe di emendamenti, il Governo ha deciso di abolire la super tassa sugli yacht e quella sulla compravendita dei calciatori. Nonostante la recita di un governo pancia a terra per risolvere annosi problemi sociali, lavorativi e imprenditoriali (e nonostante un parlamento ormai frammentato dai numerosi cambi di schieramento) ancora una volta si ritaglia il tempo (bastano pochi minuti) per favorire questo o quell’amico che lamenta alla persona giusta le proprie ingiustizie.
Si ripete tutti gli anni e tutti i governi, come se di fondo ci sia una maggioranza che, nonostante governi ed evoluzioni politiche, sa di potere contare su quei momenti di disattenzione generale in cui infilare il proprio colpo. Così escono tre milioni per bande e cori, 500 mila euro all’Istituto Suor Orsola e tutta una serie di finanziamenti a pioggia che, per qualche strano motivo, devono essere votati con carattere d’urgenza in seduta notturna piuttosto che inseriti in una più ampia discussione sul tema o, meglio ancora, in un organico piano nazionale di finanziamenti.
Tra i pacchetti prenatalizi non è passato (ed è un bene) anche la richiesta deroga al piano paesaggistico che avrebbe permesso una più agevole costruzione del nuovo aeroporto di Firenze, come se anche la sospensione temporanea delle leggi fosse un pacchetto possibile da incartare.
Sembra uno scherzo ma ancora oggi, come ai tempi dei guelfi e dei ghibellini, rimane vivo un mecenetasimo ristretto per piccoli gruppi di potere come punto in agenda della politica. Solo che nel 2015, poichè evidentemente siamo diventati moderni, il piccoli favori vengono pagati da tutti. Discussi da pochi. E votati di notte.
Su twitter il Movimento 5 stelle lancia l’hashtag #IoSeFossiBoschi per chiedere la sfiducia del ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il parlamento, tacciato recentemente anche da Roberto Saviano di conflitto di interessi a causa dei legami della sua famiglia con Banca Etruria.
L’hashtag prende spunto da un estratto di Ballarò dove Maria Elena Boschi, all’epoca non ministro, ma semplice parlamentare Pd, affermava in merito al caso Cancellieri (accusata di aver fatto pressioni per la scarcerazione Giulia Ligresti) che se fosse stata nell’allora ministro dell’interno del governo Letta si sarebbe dimessa. Qui potete rivedere il video con le parole della Boschi:
In apertura una foto che ritrae Maria Elena Boschi con Maurizio Lupi, ex ministro delle infrastrutture del governo Renzi dimessosi per uno scandalo che implicava il figlio su pressioni dello stesso presidente del Consiglio Matteo Renzi.
The First Lady Visits London As Part Of Her Let Girls Learn Initiative...LONDON, ENGLAND - JUNE 16: A student gives flowers to, embraces and welcomes with other young students US First Lady Michelle Obama in the courtyard before an event as part of the 'Let Girls Learn Initiative' at the Mulberry School for Girls on June 16, 2015 in London, England. The US First Lady is travelling with her daughters, Malia and Sasha and her mother, Mrs. Marian Robinson, to continue a global tour promoting her 'Let Girls Learn Initiative'. The event at the school was to discuss how the UK and USA are working together to expand girl's education around the world. (Photo by Jeff J Mitchell/Getty Images)
La fine dell’anno è sempre tempo di bilanci e di classifiche. Mentre la rivista Time ha nominato Angela Merkel “Person of the Year” e Forbes compila una serie di liste de “i più pagati” fra attori, musicisti e personaggi vari, il Financial Times ha stilato invece la lista delle donne che secondo il giornale americano hanno influenzato di più e positivamente questo 2015. Secondo la testata si tratta di: Michelle Obama, Laurence Tubiana, Michelle Payne, Genzebe Dibaba, Deepika Padukone, Janet Yellen, Thuli Madonsela, Anne-Marie Slaughter, Tsai Ing-wen, Eliza Manningham-Buller, Samantha Cristoforetti, Elena Ferrante. Noi ve ne raccontiamo quattro, le altre le trovatequi.
Michelle Obama
«Lasciate che le ragazze studino e che possano dire a voce alta quel che pensano»
Indubbiamente una delle donne dell’anno. Non solo perché stiamo parlando della First Lady degli Stati Uniti d’America, ma soprattutto perché in quest’ultimo anno Michelle si è impegnata nel progetto Let the girls learn a favore dell’istruzione femminile. «Al mondo sonocirca 62 milioni le ragazze a cui è preclusa un’istruzione. Molte di loro non ricevono alcun tipo di educazione, non sanno scrivere, non sanno leggere, non gli viene insegnata alcuna nozione di matematica, non gli viene trasmessa alcuna competenza che le possa far crescere come cittadine in grado di contribuire pienamente al benessere di loro stesse, delle loro famiglie e dei loro Paesi» ha spiegato la First Lady. Proprio per questo secondo Michelle Obama era necessario lanciare Let the girls learn e investire sulla diffusione dell’educazione femminile nel mondo può cambiare davvero le cose, aiutando a scardinare credenze e pratiche culturali che impediscono di affrontare a pieno le sfide del prossimo futuro.
«Sappiamo che il cambiamento giuridico e culturale è possibile – ha scritto la stessa Michelle su The Atlantic – perché lo abbiamo visto avvenire in molti paesi del mondo, compresa il nostro. Un secolo fa, le donne in America non potevano nemmeno votare. Qualche decennio fa, era perfettamente legale per i datori di lavoro rifiutarsi di assumere delle donne e la violenza domestica non era visto come un crimine, ma come una questione privata famigliare. Eppure in ogni generazione, ci sono state delle persone – sia uomini che donne – che si sono alzati in piedi per cambiare le cose. Lo hanno fatto attraverso singoli gesti, oggi forse abbastanza ordinari, ma rivoluzionari all’epoca, quando alcuni diritti non erano nemmeno lontanamente contemplati. Lo hanno fatto portando i propri capi in tribunale, lottando per perseguire i propri stupratori, e lasciando i mariti violenti». Quando si chiede a Michelle Obama quale lezione di vita vorrebbe che le sue figlie avessero imparato meglio, la risposta della First Lady è questa: «Ho sempre detto alle mie ragazze: avete una voce, dovreste usarla. E darei lo stesso consiglio ad ogni ragazza: quando avete un’idea, a scuola, in classe, ditela! Quando vedete un’ingiustizia nella vostra comunità, ditelo, parlate! Raccontate tutte quelle verità difficili che altri hanno troppa paura di raccontare».
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Laurence Tubiana
Negoziatrice durante gli accordi sul clima di Parigi
Laurence Tubiana ha 64 anni ed è un’economista, esperta in politiche ambientali. L’anno scorso stava lavorando come visiting professor alla Columbia University di New York, lontano dalla sua Parigi, quando ricevette una chiamata di Laurent Fabius , ministro degli Esteri francese. La Francia aveva appena avuto la conferma che avrebbe ospitato Cop21, la grande conferenza delle Nazioni Unite doveva stilare il primo nuovo accordo globale sui cambiamenti climatici in 18 anni, e Fabius voleva che Tubiana fosse la sua ambasciatrice durante i negoziati di Parigi.
Una foto pubblicata da Inezandvinoodh (@inezandvinoodh) in data:
«Non ho esitato , naturalmente» spiega lei al Financial Times «Ma allo stesso tempo ho capito che era un lavoro enorme , molto impegnativo, molto rischioso». Vista di persona infatti Laurence Tubiana non sembra esattamente essere il modello convenzionale di ambasciatore. Con quel suo ciuffo di capelli bianchi e l’abitudine di indossare nelle occasioni ufficiali pantaloni attillati, gioielli forse troppo vistosi, ma mai i tacchi a spillo ai quali, a differenza di tutte le altre diplomatiche, sembra preferire le scarpe da ginnastica. Di lei Michel Colombier, direttore della ricerca all’ Iddri, l’Istituto per lo sviluppo sostenibile e le relazioni internazionali ha detto: «Conosce il mondo intero». Colombier conosce bene Laurence Tubiana con cui ha collaborato per anni proprio all’Iddri. La incontrò nel 1997, quando facevano parte entrambi della delegazione francese ai negoziati delle Nazioni Unite sul clima che si svolsero in Giappone e produssero il protocollo di Kyoto, l’ultimo trattato d’intesa globale sul clima che era stato firmato dai governi di tutto il mondo. E dal 97 a oggi Colombier conferma che Tubiana è ancora molto vicina alla maggior parte dei negoziatori cinesi, dei funzionari indiani e degli inviati statunitensi coinvolti nei colloqui di Cop21 a Parigi. Un fatto che da solo può spiegare perché il Financial Times l’abbia inserita al secondo posto nella lista delle 10 donne più importanti del 2015. A confermare la scelta il fatto che di lei si dica: «Possiede una capacità incredibile di mettere insieme le persone e trovare una soluzione. Inoltre è una persona che sa bene quel che vuole e che generalmente riesce a ottenerlo».
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Genzebe Dibaba
Atleta etiope, ha stabilito il nuovo record mondiale nei 1500 metri
24 anni, veloce, snella, elegante, sorella della tre volte campione olimpica Tirunesh Diababa e cugina della due volte campione olimpica Derartu Tulu. Per queste donne correre sembra essere un vizio di famiglia e sarebbe fin troppo facile paragonare Genzebe a una gazzella. Lei che quest’anno a Monaco, durante la Diamond League, è stata la protagonista di una gara che definire straordinaria è poco.
Una corsa sfrenata lunga 1500 metri e durata 3 minuti 50 secondi e 7 decimi in cui l’atleta etiope ha battuto quel primato mondiale che sembrava fisso lassù e intoccabile fin dal 1988, quando a stabilire il record era stata la rumena Paula Ivan alle olimpiadi di Seul.
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Deepika Padukone
Attrice e modella indiana star di Bollywood
Deepika Padukone è decisamente bella, anzi bellissima, ma è ben lontana dall’essere la classica attrice di Bollywood. In un cinema noto per la sua tendenza a ritagliare per le sue protagoniste femminili, solo dei ruoli decorativi, Deepika è riuscita a ottenere una parte che decisamente rompe con il tradizionale ideale di donna. Si tratta del ruolo di protagonista in Bajirao Mastani, una saga epica ambientata nel 18° secolo fre le più costose produzioni indiane mai realizzate. Il cast offre una vasta gamma di altre stelle, ma è Padukone, principessa guerriera con arco e frecce in sella al suo cavallo, a colpire il pubblico indiano e a distinguersi anche fuori dal set come una delle donne che nel Paese si stanno maggiormente esponendo per sfidare le convenzioni in un mondo dominato dagli uomini non solo in ambito cinematografico. Deepika Padukone si è fatta portavoce anche di altre tematiche importanti per la parità di genere e le rivendicazioni femminili come ad esempio la necessità di eliminare l’enorme disparità di salario che esiste tra donne e uomini, nella società come anche fra gli attori e le colleghe attrici della Hollywood indiana. Eppure il coraggio e la forza di Deepika stanno anche nella capacità di rompere un altro tabù e parlare apertamente ai media della propria vita personale e soprattutto di un difficile periodo di depressione che l’attrice si è trovata a affrontare. È così che lo scorso marzo seduta in un salotto televisivo l’attrice ha raccontato la sua battaglia per guarire da quel momento della sua vita in cui si sentì improvvisamente cadere a pezzi.
«È stata la peggiore esperienza della mia vita» ha raccontato Deepika alla stampa «sembrava un tunnel senza fine, ogni giorno dovevo lottare per andare avanti e quando finalmente ne sono uscita per me erano cambiate un sacco di cose, compresa la mia visione della vita. La depressione mi ha aiutato a capire quanto proprio la vita sia fragile. Recentemente ho letto un’intervista a Nicolas Hénin , il giornalista francese che è stato prigioniero dell’Isis in Siria per 10 mesi, prima di venire rilasciato lo scorso anno. Ricordo di aver letto una frase in cui dice più meno una cosa del genere: “ci sono due vite e la seconda inizia quando si accorge di avere una vita sola”. Ecco anche per me è stato così».
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Tsai Ing-Wen
Candidata alla presidenza di Taiwan
Tsai Ing-Wen è nata nel 1956 in una famiglia benestante di Taipei. All’epoca il suo Paese era nel bel mezzo di schermaglie della guerra fredda con la Cina. Il padre di Tsai gestiva un’officina che si occupava di riparare automobili, le aveva insegnato a lavorare sodo, ma non l’aveva mai incoraggiata ad avere grandi ambizioni. Quella era una cosa che lui non concepiva, le ambizioni erano in qualche modo tempo prezioso sottratto all’attività lavorativa. «Mio padre – ha raccontato Tsai a una stazione TV di Taiwan – non desiderava che i suoi figli avessero una vita troppo agiata. I miei genitori desideravano solo che crescessimo come delle persone responsabili e che si danno da fare». E Tsai effettivamente si è data da fare, ma ha anche fatto tanta strada. Si è iscritta alla facoltà di legge a Taipei, si è laureata e ha poi conquistato un master alla Cornell negli Stati Uniti e poi un dottorato alla London School of Economics. È tornata in patria per insegnare e ha cominciato ad essere conosciuta nel suo Paese quando nel 2000 è stata nominata negoziatore per conto di Taiwan con la Cina. Visto che ancora oggi Pechino continua a non riconoscere l’indipendenza di Taiwan e a rivendicare la sovranità sull’isola, vista dai cinesi come una provincia ribelle, e sui 23 milioni di persone che ci abitano.
Tsai è una convinta sostenitrice dell’indipendenza di Taiwan dalla Cina e, proprio per questo nel 2004 ha cominciato a militare nelle file del Partito democratico progressista pro-indipendenza. A giugno durante una conferenza a Washington ha dichiarato: «Mentre in molti paesi asiatici si soffre ancora l’autoritarismo, a Taiwan siamo immensamente orgogliosi della nostra democrazia, amiamo i diritti sociali e politici e la libertà individuale che abbiamo faticosamente conquistato». E per molti Tsai sembra essere la persona giusta per mantenere saldi gli equilibri fra la piccola Taiwan e il potentissimo gigante cinese. I suoi sostenitori sono infatti pronti a scommettere su di lei e dichiarano convinti: «Sappiamo che una piena indipendenza dalla Cina in questo momento è impossibile. Per questo abbiamo bisogno di qualcuno come lei che è un buon negoziatore per ottenere le condizioni migliori per Taiwan». Un negoziatore che a gennaio potrebbe anche diventare il prossimo presidente dell’isola ribelle.
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Due italiane nella lista del Financial Times
Fra i 10 nomi scelti dal Ft per questo 2015 ci sono anche due italiane, o quasi. Una è l’astronauta Samantha Cristoforetti, unica donna a far parte del programma spaziale internazionale Futura che ha trascorso ben 200 giorni nello spazio. L’altra è invece la scrittrice Elena Ferrante, figura misteriosa la cui identità rimane un mistero, autrice della serie best-seller L’amica geniale che è riuscita a conquistare anche l’America. Sul fatto che la Ferrante sia realmente una donna però in molti hanno dei dubbi. Ma il Financial Times non sembra dopo tutto preoccuparsi di queste formalità.
Dopo sei anni, forse si saprà come è morto Stefano Cucchi. La V sezione penale della Cassazione ieri a tarda sera ha confermato la richiesta del procuratore generale Nello Rossi. Ci sarà un nuovo processo per cinque medici del Pertini mentre è confermata l’assoluzione per i tre agenti penitenziari. Intanto va avanti l’indagine bis della Procura di Roma che ha iscritto nel registro indagati – a vario titolo – cinque carabinieri. Qui di seguito il pezzo pubblicato ieri e un colloquio con l’avvocato della famiglia Fabio Anselmo, prima dell’udienza della Cassazione. Il legale parla del clima che si è creato attorno al caso.
Per la morte di Stefano Cucchi, due le notizie che forse porteranno spiragli di luce su un buio che si trascina dal 2009. Un buio fatto di omertà e depistaggi continui, come a più riprese hanno denunciato i familiari, la sorella Ilaria in prima fila.
Una notizia è la richiesta avanzata oggi dal procuratore generale della Cassazione Nello Rossi che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’assoluzione di cinque medici dell’Ospedale Pertini che erano stati assolti in appello. Mentre viene confermata l’assoluzione degli agenti penitenziari, viene richiesto il processo dunque per i medici: troppo evidente il pessimo stato di salute del ragazzo (pesava 34 chili) per essere fatto «sparire». L’altra notizia è l’indagine da parte della Procura di Roma con cinque carabinieri – a vario titolo – già nel registro degli indagati. Secondo il pm Giovanni Musarò, Stefano, dopo essere stato arrestato nella notte del 16 ottobre del 2009, sarebbe stato sottoposto «a un violentissimo pestaggio» tra la stazione Casilina e Appia. Agghiacciante, come si legge nelle cronache di questi giorni, anche la frase intercettata al telefono della moglie di un militare sospettato: «A picchiarlo vi siete divertiti».
Per l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi, siamo di fronte alla svolta positiva di un’indagine che non esita e definire “etica”. Nel senso che il caso della morte violenta di Stefano, così come quella di Federico Aldrovandi o di Riccardo Magherini – il processo è in corso a Firenze – sono tutti casi in cui una persona muore mentre è affidata alle forze dell’ordine. Ed è giusto, “etico” che in questi casi tutti coloro che sono sospettati di aver compiuto un reato siano uguali davanti alla legge e che quindi si arrivi a un processo per dimostrarne le effettive responsabilità. Per la morte di Federico, diciottenne di Ferrara, avvenuta nel 2005, la sentenza della Cassazione nel 2012 ha confermato la condanna per omicidio colposo nei confronti di quattro poliziotti evidenziando come questi avevano avuto «condotte specificatamente incaute e drammaticamente lesive», immobilizzando il ragazzo e facendo pressione sul corpo.
Fabio Anselmo racconta che la svolta nelle indagini «non è nuova, ci stiamo lavorando da un anno. I primi testimoni li abbiamo portati noi in Procura». Così come sono state trovate le lastre che contraddicevano i referti della perizia. «Poi la procura è andata avanti come un treno, un’indagine mastodontica che non è finita. Io penso che ci saranno altre sorprese, altri imputati», afferma l’avvocato che Left ha sentito prima dell’udienza in Cassazione.
Nell’attesa della sentenza della suprema Corte con Fabio Anselmo abbiamo parlato anche del clima che si è creato attorno alla riapertura dell’indagine. Come valuta per esempio la dichiarazione del generale dei carabinieri Tullio Del Sette che ha affermato che è «inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti», dicendosi convinto «nel ricercare la verità», ma senza delegittimare l’Arma?
«L’intervista di Del Sette è molto importante, il generale ha ragione sul fatto che non bisogna generalizzare, magari una parola in più nei confronti della famiglia la poteva dire, ma le sue parole sono sacrosante», afferma Anselmo.
Sempre a proposito di clima che si respira attorno a questi casi, gli sviluppi dell’indagine Cucchi, potrebbero accelerare l’iter del disegno di legge che criminalizza la tortura che come denuncia Antigone, è scomparso dai lavori parlamentari?
«Io penso che non si può non prendere atto di queste cose. Noi sappiamo che Stefano è morto a causa di quel pestaggio, l’abbiamo sempre sostenuto e avevamo ragione. Se non dovesse essere riconosciuto il nesso causale, questi sarebbero reati che andrebbero in prescrizione, ma ci rendiamo conto? Ma davvero possiamo ancora pensare che introdurre il reato di tortura sia inutile?», sottolinea indignato Anselmo che si chiede: «se si dice che un reato non serve allora perché dobbiamo osteggiarlo?».
Chiedere giustizia significa tutelare tutti, continua l’avvocato. «Il nostro lavoro non è stato quello di delegittimare, tutt’altro. Noi abbiamo tentato di tutelare il buon funzionamento e l’immagine delle stesse forze dell’ordine. Il problema è che abbiamo purtroppo avuto come controaltare un’attività della rete dei sindacati di polizia costantemente avversaria». «Non siamo noi a generalizzare ma chi interviene, chi depista, chi cerca di difendere dietro l’egida sindacale colleghi che sono coinvolti in reati di questo genere», sottolinea Anselmo. «Alla fine cosa vogliamo dire? Che valga il principio delle legge uguale per tutti: che sia giudice, carabiniere, avvocato, extracomunitario, operaio, ognuno deve essere chiamato a rispondere davanti alla legge nel momento in cui compie un reato».
Ma il clima, spesso è di tensione. Fabio Anselmo è appena tornato da un’udienza del processo a Firenze per la morte di Riccardo Magherini, con quattro carabinieri tra gli imputati. «Si avverte sempre un atteggiamento di ostilità. Addirittura ci sono dei problemi ad acquisire la sentenza di Federico Aldrovandi, che ricordo, è passata in giudicato e che quindi un avvocato può produrre agli atti come precedente, visto che il caso è analogo. Ecco, è come nominare Belzebù in un convento di suore! Ma come è possibile che la richiesta di acquisizione di questa sentenza generi tensione? Ricordo che è un atto sacramentato da una legge, oltretutto con l’egida di un presidente di Cassazione particolarmente noto e stimato per la sua giurisprudenza». Anselmo sottolinea anche il fatto che a Firenze non sono state ammesse nemmeno le telecamere, cosa che è avvenuto nel processo Aldrovandi o Ferrulli. «Questi sono processi che devono essere fatti sotto gli occhi di tutti», conclude.
Nulla di fatto. Nove giorni dopo lo sgombero pacifico di via Cupa e un’intensa mobilitazione, l’incontro tra i volontari del Baobab e i commissari Tronca e Vaccaro non ha portato ad alcuna soluzione. «È stato un incontro interlocutorio e abbiamo percepito un’accelerazione, ma ci sono troppi vincoli burocratici nell’individuazione di una nuova sede», dice a Left Roberto, uno dei tre volontari seduto al tavolo con il Campidoglio.
Niente soluzione per una struttura adeguata a lungo termine e, soprattutto, niente soluzioni per stanotte.
Per la soluzione a lunga durata, quindi per una struttura stabile: «Ci siamo mossi noi stessi per cercare una struttura in grado di ospitare i transitanti a Roma», prosegue Roberto. «L’abbiamo individuata, oggi abbiamo persino presentato la planimetria ricavata da google maps, ma siamo sempre bloccati dai passaggi burocratici». La struttura trovata dai volontari è un edificio dismesso, attualmente di proprietà della Regione Lazio che non è stato ancora trasferito al Comune di Roma. E, poi, spiega ancora Roberto, ci sono i sopralluoghi da fare, i controlli: «Noi e il Campidoglio remiamo nella stessa direzione, ma non possiamo aspettare i loro tempi», avverte il Baobab: «Abbiamo il problema pratico di trovare un tetto per stanotte, la temperatura continua a scendere e siamo pronti a tutto. Anche, in estrema ratio, a una tendopoli».
Nei giorni scorsi e in queste ore, i volontari hanno continuato a fornire pasti caldi, vestiti invernali e un posto al coperto a circa 20 persone al giorno, gestendo un presidio ancora più numeroso davanti ai cancelli chiusi di via Cupa. Di giorno, grazie al camper fornito da Medu, per l’assistenza medica e legale, di notte nelle sedi di partito di Sel e Sinistra italiana, che hanno dato la disponibilità. «Dobbiamo lasciare presto la struttura messa a disposizione da Sinistra italiana e Stefano Fassina, lo ringraziamo molto ma non è un posto in cui venti persone possono restare a lungo», spiega Roberto.
Questa sera si terrà una riunione per decidere il prosieguo. Pronti a tutto al Baobab perché, come non si stancano mai di ripetere, «la migrazione di chi scappa è un processo continuo, e i transitanti in fuga da dittature e luoghi di dolore bussano ancora alle nostre porte».
Antonio Minzolini mentre arriva alla Camera per la riunone Gruppi Parlamentari di Forza Italia. Roma 20/02/2014. ANSA/GIUSEPPE LAMI
Un’altra condanna per Augusto Minzolini. Ormai non fa più notizia, secondo il principio tutto italiano secondo il quale alle nefandezze si fa il callo, e alle eccezioni rispetto alla legge – e soprattutto all’etica – ci si anestetizza. Suvvia, sono solo 4 mesi per abuso d’ufficio, c’è di peggio. Per altro, la condanna non è nemmeno definitiva, cosa volete che sia. Non come quella di un mese fa, “appioppatagli” in Cassazione: due anni e mezzo per aver usato impropriamente le carte di credito della Rai. Due anni e mezzo per peculato continuato (e convinto, aggiungiamo noi) e interdizione dei pubblici uffici. E, difatti, Augusto Minzolini è ancora senatore.
La legge Severino imporrebbe che per una condanna superiore ai due anni per un reato a danno della pubblica amministrazione, si decadesse dalla carica. Ma questa è solo la legge. La pratica è un’altra faccenda. Ne sa qualcosa il governatore campano Vincenzo De Luca.
In attesa che la giunta per le elezioni del Senato esamini la pratica (cioè la condanna) del parlamentare di Forza Italia, per decretare se debba seguire le sorti del suo faro – e decaduto – collega Silvio Berlusconi, lui ne colleziona un’altra. Proprio per difendere l’ex Cavaliere, nel 2010 l’ex direttore del Tg1 aveva fatto rimuovere la giornalista Tiziana Ferrario dalla conduzione serale del notiziario (assieme a Paolo Di Giannantonio, edizione delle 13.30, e Piero Damosso, edizione del mattino). L’accusa – confermata dal giudice: «una vendetta» a seguito dei dubbi della giornalista «sulla imparzialità del direttore a proposito delle notizie diffuse dopo la conclusione del processo Mills». Come le sarà venuto in mente?
In fondo, lui nel 1994 professava – e praticava, in effetti – la sua contrarietà alla tutela della privacy per gli uomini politici: « un politico è un uomo pubblico in ogni momento della sua giornata e che deve comportarsi e parlare come tale». Nel ’94. Poi, deve aver cambiato idea. Note sono le sue battaglie in favore di Berlusconi (nel vocabolario ricordiamo: “gogna mediatica pre-elettorale”, “balle”,”clima d’odio”, et altre espressioni del vocabolario deontologico).
Tanto che nell’ottobre del 2010, il Tg1 di Minzolini viene diffidato dall’AgCom per «forte squilibrio» a favore della maggioranza e del governo. Al quale seguirà un «ordine di riequilibrio immediato» e, un anno dopo, una bella sanzione nella misura massima prevista dalla legge (258.230 euro) a Tg1, Tg2, Tg4 e Studio Aperto «in quanto recidivi, e sanzioni di 100 mila euro ciascuno» perché «le interviste (all’allora presidente del Consiglio uscente Silvio Berlusconi, ndr), tutte contenenti opinioni e valutazioni politiche sui temi della campagna elettorale, ed omologhe per modalità di esposizione mediatica avevano determinato «una violazione dei regolamenti elettorali emanati dalla Commissione parlamentare di Vigilanza e dall’Agcom». Quindi: per parzialità. Pagata da noi, per inciso, essendo la tv pubblica solo nelle spese, ma non nel servizio.
Diffide, avvertimenti, sanzioni e richiami. Ma niente di più, per il giornalista che nonostante indagini (come quella, poi archiviato, che lo vide coinvolto nell’inchiesta di Trani per violazione del segreto istruttorio in favore di Silvio Berlusconi, sempre lui) e condanne penali a carico, e la rimozione da direttore del telegiornale nel 2013, per l’Ordine resta tale. Augusto Minzolini è tutt’ora registrato all’ordine come giornalista professionista (guarda qui).
Tra i suoi “editoriali del direttore”, resta famoso quello contro la manifestazione per la libertà di stampa indetta dalla FNSI. Ebbene, giudicate voi.