Home Blog Pagina 1239

Sguardi di donna alla Giudecca

Sono ritratti “rubati”, catturati quasi per caso, e che riescono a cogliere l’unicità e la personalità  dei soggetti ritratti, il non detto, ciò che non si coglie al primo sguardo ma che si può intuire, quando si è in rapporto con una persona. Per riuscire a cogliere questa realtà “invisibile” con la macchina fotografica non basta essere bravi tecnicamente, ma occorre avere una sensibilità particolare. Ed è proprio questa capacità di sentire, non solo una straordinaria tecnica, a fare da filo rosso della mostra  Sguardo di donna che nei nuovi spazi della Galleria Tre Oci a Venezia – attraverso 250 opere – racconta il lavoro di 25 fotografe selezionate da Francesca Alfano Miglietti.

Sull’isola della Giudecca (in zona San Marco) fino al 10 gennaio 2015  s’incontrano ritratti e scatti realizzati in giro per mondo e organizzati intorno a nuclei tematici forti come identità,  diversità, responsabilità, compassione, giustizia.

«L’arte è un punto di partenza per parlare del senso, della ricerca del senso nella vita umana», ha scritto John Berger ed è partita proprio da questa riflessione del grande critico e scrittore  inglese la curatrice per costruire il percorso di questa mostra , tenendo a mente anche un suggerimento di Maria Nadotti, ovvero che «nessun sapere è veramente tale se non nell’intreccio con gli altri saperi», con l’uso ordinario o straordinario che se ne riesce a fare». Così  in Sguardo di donna Alfano Miglietti fa dialogare linguaggi diversi, dal realismo più crudo e feroce di Diane Arbus a quello onirico e poetico di Sophie Calle. Evoca memorie del passato con eleganti scatti in bianco e nero e cerca di intravedere il futuro attraverso il cambiamento continuo che propongono le donne con la loro vita di bambine, ragazze, mamme, donne impegnate nel lavoro e nel sociale, nella quotidiana “lotta” per realizzare la propria identità nonostante i pregiudizi e le barriere che anche nei Paesi “più evoluti” le donne devono affrontare per potersi esprimere e vivere liberamente.    @simonamaggiorel

Sguardo di donna, ecco tutte le protagoniste:

Diane Arbus, Martina Bacigalupo, Yael Bartana, Letizia Battaglia, Margaret Bourke-White, Sophie Calle, Lisetta Carmi, Tacita Dean, Lucinda Devlin, Donna Ferrato, Giorgia Fiorio, Nan Goldin, Roni Horn, Zanele Muholi, Shirin Neshat, Yoko Ono, Catherine Opie, Bettina Rheims, Tracey Rose, Martha Rosler, Chiara Samugheo, Alessandra Sanguinetti, Sam Taylor Johnson, Donata Wenders, Yelena Yemchuk.

03_BARTANA_The_missing_negatives_of_the_Sonnenfeld_Collection_2008Yael_Bartana_courtesy_Annet_Gelink_and_Galleria_Raffaella_Cortese

UNITED STATES - CIRCA 1937: African American flood victims lining up to get food and clothing from a relief station in front of a billboard ironically proclaming WORLD'S HIGHEST STANDARD OF LIVING/THERE'S NO WAY LIKE THE AMERICAN WAY. (Photo by Margaret Bourke-White/Time & Life Pictures/Getty Images)
(Photo by Margaret Bourke-White/Time & Life Pictures/Getty Images)

06_CALLE_Aujourdhui_ma_mere_est_morte_My_mother_died_today_2013_Sophie_Calle-ADAGP_Paris_2015_courtesy_Galerie_PerrotinParis
My mother died today 2013 Sophie Calle courtesy Galerie Perrotin Paris

07_CARMI_Ezra_Pound__Sant_Ambrogio_di_Rapallo_1966Lisetta_Carmi
Ezra Pound a Sant’Ambrogio di Rapallo, fotografia di Lisetta Carmi

08_DEAN_Teignmouth_Electron__Cayman_Brac_underneath_1999__Tacita_Dean_courtesy_Frith_Street_and_Marian_Goodman_Gallery
Teignmouth Electron Cayman Brac underneath 1999 foto di Tacita Dean courtesy Frith Street and Marian Goodman Gallery

15_NESHAT_Stories_of_a_martyrdom_From_the_series_Women_of_Allah_1994__Fondazione_Sandretto_Re_RebaudengoShirin_Neshat
Stories of a martyrdom From the series Women of Allah 1994 Fondazione Sandretto Re Rebaudengo foto di Shirin Neshat

18_RHEIMS_Valentin_P__III_From_the_series_Gender_Studies_2011Bettina_Rheims
Valentin P III dalla serie Gender Studies 2011della fotografa Bettina Rheims

MUHOLI ZANELE,
Skye Chirape, Brighton, Regno Unito, 2010 (dalla serie Faces and Phases) foto di Muholi Zanele

In aperture Goldin Trixie, On the cot – New York 1979 cortesi dell’artista e di Guido Costa projects Torino

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/simonamaggiorell” target=”” ][/social_link]  @simonamaggiorel

Ma quali gaffe? Poletti quelle cose le pensa. E le fa

Notte di Capodanno, in piazza un presidio di lavoratori infreddoliti e preoccupati, con loro c’è il ministro del Lavoro che, senza esitazioni, afferma: «Sento il dovere di dirvi che, in un caso come questo, il ministro del Lavoro non pretende di collocarsi al di sopra delle parti, ma che sta con tutto il cuore da una sola parte: dalla vostra parte».
No, non è un film di fantascienza. Semmai è un film di storia. Si apre così, infatti, il 1969, l’inizio della parabola dell’articolo 18: Giacomo Brodolini, socialista, già gravemente malato, era appena diventato ministro. Ministro «dei lavoratori», come si definiva lui, e non semplicemente «del lavoro». In pochi mesi Brodolini avvia molteplici riforme: l’abolizione delle “gabbie salariali” (i salari differenziati su base locale, idea rilanciata più volte in anni recenti, dalla Lega Nord), la previdenza, il contrasto del caporalato. Poco prima delle ultime cure palliative, Brodolini fa poi approvare dal Consiglio dei ministri il disegno di legge sullo Statuto dei lavoratori, promulgato dopo la sua morte, nel 1970.
Vediamo un altro film. È un horror, e protagonista è un altro ministro del Lavoro. Un ministro post-comunista. Nella sua prima intervista su la Repubblica il nostro afferma sicuro: «Dobbiamo cominciare a pensare che l’impresa è un bene della collettività e che il primo maggio sarebbe giusto celebrare la Festa del lavoro e dell’impresa». Del lavoro. E dell’impresa. Dice. E i lavoratori sono così spariti. A parlare è Giuliano Poletti che, come Brodolini, sta con tutto il cuore da una sola parte: ma è l’altra. Dopo appena dieci giorni dalla prima intervista, nel marzo 2014, il Consiglio dei ministri liberalizza i contratti a termine e avvia il disegno di legge detto Jobs act. “Jobs” appunto, lavori – perché le parole sono importanti – e non lavoratori. È la condanna dell’articolo 18, il diritto di avere diritti, l’eredità di Brodolini.
In quella prima intervista – già allora rivelatrice dell’impronta del nuovo governo Renzi – il ministro sosteneva la necessità di una «piccola rivoluzione culturale». Cosa intendeva? Scopriamolo con un piccolo bestiario di esternazioni.
La più recente è: «L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio». Poletti voleva davvero aprire la strada a nuove forme di retribuzione a cottimo? Lo vedremo, ma certo è che queste è stata l’interpretazione data dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che ha subito lodato le «centinaia di dipendenti che non hanno mai guardato l’orologio» e invitato gli altri a non «restare ancorati a schemi medievali»: forse nella sua azienda chimica resistono tenebrose gilde di alchimisti. Certo è poi che la Legge di stabilità prevede ennesimi incentivi economici per il salario aziendale di produttività, che sotto spoglie efficientiste premia al contrario l’allungamento e la flessibilità degli orari: molte imprese italiane sembrano ormai biciclette arrugginite che pretendono di inseguire i treni dei Paesi avanzati facendo pedalare i dipendenti più veloce e più a lungo.
Ma forse Poletti non alludeva a tutto ciò. La platea a cui si rivolgeva era quella della prestigiosa università privata Luiss Guido Carli, nel quartiere Parioli di Roma: di fronte a giovani “vincenti”, il ministro ha semplicemente offerto un’ennesima declinazione dell’ideologia meritocratica: scomparso ogni orizzonte collettivo, è tempo che i singoli individui valorizzino il proprio “capitale umano”. Norme e contratti devono così assecondare la competizione, spostando quote progressive di salario dalle tabelle nazionali fisse, uguali per tutti, alle voci variabili, spettanti solo ai “meritevoli”. E i meritevoli, oltre ad andare in costose università private, di solito, non si ammalano, non fanno figli, non si iscrivono al sindacato e offrono piena devozione all’impresa: lavorano in una sorta di cottimo volontario forse peggiore di quello imposto.
Il punto allora è: ma poi, assunto pure che alcuni siano più bravi di altri, che dovremo mai fare di quelli meno meritevoli, per limiti personali, gap scolastici, percorsi di vita accidentati? Svuotati i contratti nazionali, un misero salario minimo fissato per legge li renderebbe tutti working poor. E che fine fa una delle pietre angolare della tradizione politica da cui proviene anche il ministro? Recitava: «Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni». I suoi bisogni, si diceva, non il suo contributo al Margine operativo lordo.
Negli stessi giorni, il cantore del merito ha offerto un altro suggerimento, apparentemente di segno opposto: «110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21 anni. Se si gira in tondo per prendere mezzo voto in più, si butta via del tempo che vale molto di più di quel mezzo voto». Si apprezzi questa volta la logica classista del ministro. In questo caso si trovava in un salone dell’orientamento professionale, parlava a gente comune, pure un po’ “sfigata”. A loro ha spiegato che quando la mobilità sociale è bloccata – se nasci povero muori povero – l’eccessivo investimento in capitale umano è “sbagliato”, perché costa molte risorse e offre scarse prospettive di rendimento. Mastica amaro il giovane vignettista del Fatto quotidiano Mario Natangelo: «La cosa che più mi fa incazzare è che il ministro ha ragione». Indirizziamo allora l’alta formazione alle richieste delle imprese e riserviamola ai figli dei ricchi, così risolveremo il problema degli occupati sovra-qualificati, i master sperperati nei call-center, i giovani troppo choosy di Elsa Fornero.


 

L’articolo completo sul numero 48 di Left in edicola dal 12 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Il baobab e la scala. Everyone is welcome. Anzi no

Anna Hidalgo ha ringraziato i parigini per non aver scelto il Front national. Li ha ringraziati e poi li ha incoraggiati a fare ancora meglio questa settimana. I più colpiti dal terrore non hanno risposto votando le due Le Pen. Questo è un dato. Teniamolo a mente. Ha un valore. Quello di cercare un’altra risposta alla violenza e alla paura che la violenza genera. E implica un “Forse” grande come una casa. Forse se si amministra bene non si obbliga la gente a votarti contro, neanche di fronte al terrore e alla paura che genera il terrore. Forse se la politica ha delle risposte non si obbliga la gente a cercarle nell’antipolitica, o peggio, in qualche fede. Forse se si è di destra bisognerebbe lasciare i partiti della sinistra e candidarsi, coraggiosamente, lì dove va il cuore e il ragionamento (messaggio per Renzi), e forse se si è di sinistra (veramente) bisognerebbe cominciare a chiedersi, coraggiosamente, cosa fa stare bene le persone. Non cosa le fa stare male. Quello lo sappiamo. Da innumerevoli anni, ci abbiamo rimestato dentro fino alla nausea. Forse la sinistra, quella vera (quella da fare), deve capire cosa fa stare bene le persone. Per esempio, cosa faceva stare bene i volontari del Baobab (per chi non lo sapesse, il Baobab era un centro di accoglienza nato a Roma dal lavoro spontaneo e volontario di molti)? Forse bisogna cominciare a chiederselo seriamente. Era l’esercizio della buona vecchia carità, o quello di quell’uguaglianza così “concreta”? Era la possibilità di sentirsi uguali e liberi di vivere insieme senza paura di farlo, o il sollievo di donare ai poveri? Era «viaggiare, leggere, baciare, litigare, annoiarsi, montare la tenda, mirar le stelle, insomma sperimentare la pienezza della vita», come scrive Craviolatti su questo numero di Left, o l’esercizio della misericordia celebrata dal nostro “magnifico” Giubileo?
Avranno «sperimentato la pienezza della vita» insieme a dei perfetti sconosciuti al Baobab? Avranno scoperto che, nonostante Poletti & Co, tutto ciò non «equivale a fare nulla»?
Penso che chi è di sinistra (veramente) debba iniziare a chiedersi, coraggiosamente, anche cosa facesse stare bene le persone che arrivavano lì, al Baobab, da Paesi lontani, in miseria o in guerra. Se fosse il letto caldo o le persone che li accoglievano. Se fosse il pane o quell’uguaglianza. Che era tutto. Era «la pienezza della vita». Everyone is welcome, “tutti sono benvenuti” c’era scritto a via Cupa. Ora dentro è chiuso e fuori c’è un camper. Tutto il Baobab che resta. E che aspetta chi arriva.
Everyone is not welcome, c’era scritto fuori dalla Scala di Milano nel giorno della Prima. E fuori, non benvenuti, erano in tanti. I soliti: operai, precari, disoccupati, giovani. E dentro, benvenuti, erano in pochi. I soliti: i Renzi, i Pisapia, i Sallusti, i Sala… e 700 agenti a proteggere i vestiti e la vita dei Renzi, dei Sala, dei Pisapia, dei Sallusti…
E «la pienezza della vita» dov’era? Dentro o fuori? Dentro, vestiti di tutto lustro ad ascoltare la Giovanna d’Arco di Verdi o fuori a chiedere, per esempio, una vita senza Eternit per tutti? Strana scelta anche quella della Giovanna d’Arco, l’avreste fatta voi in questi tempi di guerra? Avreste scelto per una Prima, la storia della pulzella d’Orleans che vinse la Guerra dei Cent’anni convinta di parlare con Dio, bruciata viva dalla Chiesa come strega, e poi santificata cinque secoli dopo, in perfetto stile Vaticano? O vi sareste orientati verso scelte diverse, anche su un banale Ballo in maschera?
Fuori, everyone is welcome, chiunque sarebbe stato il benvenuto in piazza. Dentro no. Eppure me lo chiedo: come hanno fatto i Renzi, i Pisapia… a non restare fuori? A non guardarli? A non sentirsi uguali? O ugualmente feriti? Come hanno fatto a non spalancare le porte e lasciar entrare tutti? Verranno i Salvini, verrà l’antipolitica e l’astensionismo (anzi quello è già venuto). Verrà la guerra anche. Se non ci sbrighiamo. E non mettiamo insieme due grandi amori, uguaglianza e libertà. Come al Baobab.

Questo editoriale lo trovi nel numero 48 di Left in edicola dal 12 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/ilariabonaccors” target=”” ][/social_link]  @ilariabonaccors

Non c’è guerra giusta e tantomeno necessaria

Gino strada guerra siria pace
20070912-MILANO-CUL-PRESENTAZIONE RIVISTA PEACE REPORTER Gino Strada durante la presentazione della rivista di Peace Reporter. MATTEO BAZZI / ANSA

Essere definito un “utopista” per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in questo caso penso di essere un “realista”. Perché non c’è niente di più “realista” che battersi per abolire la guerra. E trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno». L’utopista-realista è l’uomo che ha recentemente ricevuto dal Parlamento svedese il “Right Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel alternativo: Gino Strada, fondatore di Emergency. La motivazione del premio racchiude in sé il senso di un impegno che ha saputo unire nel tempo, valorizzando al massimo la “cultura del fare”, idealità e concretezza. Gino Strada è stato premiato «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Ed è quello che il fondatore di Emergency fa anche nell’intervista esclusiva concessa a Left. Idealità, passione e concretezza. È il fecondo “impasto” che Gino Strada ha rivolto alla comunità internazionale, parlando davanti ai parlamentari svedesi in occasione della consegna del premio: «Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. è quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della guerra?».

Abolire la guerra. Per averlo affermato, anche in occasione del Nobel alternativo, è stato tacciato di essere un “utopista”.
Per me è un complimento, non un insulto. “Utopia” era abolire la schiavitù duecento anni fa, eppure è stata abolita. L’accusa di “utopia” è un’assoluta sciocchezza. L’utopia è qualcosa che non si è ancora verificata ma non è detto che non debba o possa realizzarsi. è il sale della vita, dà un senso all’impegno quotidiano, crea movimento, dà una ragione forte per passare dall’“io” al “noi”. Qualsiasi conquista che ha segnato il cammino dell’umanità, in ogni campo, a partire da quello scientifico era un’illusione, un’intuizione, fino al giorno prima di diventare realtà. Oggi non siamo ancora riusciti a debellare il cancro, ma questo non ci porta a sostenere l’inutilità della ricerca, degli investimenti in questo campo. E nessuno liquida la lotta contro il cancro come una “utopia” da abbandonare. Questo, per me, vale anche per la guerra, che è il cancro dell’umanità. La guerra, come il cancro, continua ancora a esistere, e dovrebbe essere un impegno condiviso, a tutti i livelli. Ognuno, per quel che può, deve cercare la soluzione, l’“antidoto” per debellarla. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, ma uccide il paziente. «Siamo l’unica specie animale che fa la guerra»: non è un’affermazione dei giorni nostri, a dirlo fu Erasmo da Rotterdam, che già 500 anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”. In un mondo come quello di oggi, dove i conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il problema di come se ne esce? Io credo che sia la cosa più ragionevole. Abolire la guerra è una prospettiva molto più ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa pratica devastante. Il fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato, non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro. La guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!
Stabilito che non esistono guerre “giuste” nell’orizzonte concettuale di Gino Strada, esistono guerre “necessarie”? Combattere Hitler, il nazifascismo, è stata una guerra “necessaria”…
Vorrei essere io a porre una domanda: è finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo spirito del nazismo, del fascismo. Emergency, nel suo piccolo, è testimone sul campo di guerre che erano spacciate come “giuste” o “necessarie”, e che hanno solo finito per accrescere l’oppressione, moltiplicare il dolore di popolazioni intere, depredare quei Paesi teatro di guerre delle loro ricchezze. Perché non va mai dimenticato che è la povera gente, il popolo, la grande vittima delle guerre. E allora, torno a chiedere: tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito con Hitler e Mussolini? No, non è sparito. La Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, sarebbe dovuta essere la guerra per far finire tutte le guerre, come affermò il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson. Ma le cose non sono andate così. Dopo la Grande guerra, nella maggior parte dei Paesi europei si insediarono dittature feroci. Poi, si è arrivati alla Seconda guerra mondiale, che è costata almeno 50 milioni di morti e che ha lasciato un’Europa in macerie, semi-distrutta. E dopo quella guerra, che tutti continuano a ritenere non solo necessaria ma indispensabile, cosa è successo? Si è aperta un’epoca di pace, di stabilità? No. In tutto il mondo ci sono stati oltre 170 conflitti, molti dei quali sono ancora in corso; conflitti che hanno provocato più di 25 milioni di morti. A cambiare sono state solo le definizioni di guerra, quelle sì. Tra questi neologismi c’è la guerra “umanitaria”: la bestemmia più grande che abbia mai sentito. Nella guerra non c’è nulla di “umanitario” ma tanto, tutto, “contro” l’umanità. Quanto ancora dobbiamo aspettare, quanti altri conflitti e morti dovremo contare, per capire che è quella cosa lì, la guerra, il vero mostro? Questa domanda è stata posta, sessant’anni fa, da alcuni dei più grandi cervelli che l’umanità abbia mai conosciuto. Mi riferisco a Bertrand Russell e ad Albert Einstein, e al loro Manifesto firmato dai più grandi scienziati al mondo. Da Percy Bridgman, Joseph Rotblat, Frédéric Joliot-Curie, Max Born, solo per citarne alcuni. Quel Manifesto poneva una domanda molto semplice: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità deve rinunciare alla guerra? Quella domanda, sessant’anni dopo, attende ancora una risposta. E una risposta credibile non può non partire dalla constatazione che la situazione è diventata più critica e pericolosa ovunque. Gli stessi cittadini europei si sentono oggi più insicuri di quanto lo fossero anni fa. L’unica soluzione è discutere a livello internazionale di questo tema. Ripeto: devono discutere di questo alle Nazioni Unite. Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù, e dobbiamo capire seriamente come liberarcene. Senza l’abolizione della pratica delle guerre questo pianeta non ha futuro. (…)


 

L’articolo completo sul numero 48 di Left in edicola dal 12 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Che senso ha una Leopolda dei potenti?

L’attenzione mediatica c’è sempre, per carità. E l’evento è atteso. È il week end della Leopolda, ancora una volta. Ma più stancamente (e ancora più stancamente si registra il contro evento della minoranza dem). Il giornalista David Allegranti – esperto renzologo in quanto fiorentino – con una battuta fotografa bene la mutazione dell’appuntamento del renzismo. Sempre più simile a un appuntamento in centro per l’aperitivo. Se siete romani e passate a piazza di pietra, subito dietro il parlamento verso le 19, troverete metà delle facce che vedrete a Firenze, nella vecchia stazione riconvertita a sala eventi.

Lontani sono i tempi della politica trendy ma carbonara, lontano è il tempo della rottamazione. Che senso ha fare un evento come la Leopolda, servito a far partire il treno della rottamazione, quando la rottamazione è ormai potere? La domanda è la stessa da ormai un paio d’anni. Renzi e i suoi sono il potere, e la kermesse è ormai una passerella. Al massimo il luogo dove alcuni sperano di brillare e conquistarsi così un posto alle prossime politiche, quando Renzi dovrà completare la trasformazione del Pd (che oggi ha gruppi parlamentari ancora tutti dell’era Bersani).

A far saltare agli occhi la mutazione, conclusa con questa sesta edizione, ci pensa la più classica delle facce del potere: il conflitto d’interessi. Sempre madrina ma più defilata è Maria Elena Boschi, che in quanto potente è al centro di una polemica che riguarda il suo ruolo nel governo, il suo babbo e la banca di cui il suo babbo è dirigente, la Banca Etruria.

Anche le misure di sicurezza ci raccontano di un luogo di potere. I metal detector all’ingresso e le ispezioni delle unità cinofile antiesplosivo ci ricordano che dopo Parigi qualcosa è cambiato, ma anche che lì, alla Leopolda, passerà chi conta. Chi conta e chi governa, e allora avrebbe avuto forse più senso, invece che la solita carrellata di interventi in piedi, con alle spalle una scenografia vintage, un bel question time. Rottamatori che chiedono al rottamatore a che punto siamo e se ha rottamato altro oltre – chessò – al jobs act. Cosa ha prodotto l’occupazione del potere, dalla Rai (con il consigliere Guelfo Guelfi e l’ad Campo Dall’Orto), all’Eni?

Banche e risparmiatori: «Vi spiego il conflitto di interesse»

Che cosa ci insegna la vicenda di Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca Etruria, Banca Marche e Carichieti, le quattro banche “salvate” dal decreto del governo che però ha penalizzato circa 125mila tra azionisti e possessori di obbligazioni subordinate? Gli italiani stanno aprendo gli occhi sulla banca come totem? Istituzione quasi “di famiglia”, o comunque legata al territorio?

«Il risparmiatore deve prendere coscienza che la banca è un ente necessario ma che di sicuro nel suo operato si profila il conflitto di interesse». A parlare è Stefano Monaldo, vent’anni di esperienza come promotore finanziario a Roma. I primi dieci ha lavorato come consulente presso un istituto bancario – quindi sa come funzionano i prodotti interni degli istituti – , gli ultimi dieci invece come consulente indipendente per la Solfin, una delle prime società in Italia di questo tipo, nata nel 1998.

Cosa significa conflitto di interesse?

Gli interessi della banca confliggono con quelli del cliente. La banca è un ente commerciale a fine di lucro, e deve fare i suoi interessi. Con la propria attività cerca di portare il bilancio in utile, o come nel caso delle quattro banche, deve ripatrimonializzare per risolvere i problemi di gestione interna. Poi ci sono gli interessi del cliente stesso, ma se non se li tutela da solo, può accadere che la banca non lo faccia, come è avvenuto adesso. Il problema è che spesso il cliente non ha gli strumenti conoscitivi per tutelarsi. Va anche detto che in Italia non esiste cultura finanziaria e che magari prevale il rapporto di fiducia piuttosto che la conoscenza delle norme. Per cui si conosce il direttore oppure c’è un amico che lavora in quella banca e allora si accetta tutto. Infine, c’è anche l’interesse privato del dipendente che può essere spinto a vendere quei prodotti per avere un incentivo.

Come fa il cliente a tutelarsi?

Ci sarebbe la normativa che deriva dalla direttiva europea del 2004 Mifid (Markets in financial instruments directive), recepita in Italia nel 2007. La direttiva Mifid a livello comunitario cerca di riorganizzare tutta la normativa a disciplina del settore bancario e degli investimenti e cerca di aumentare le tutele nei confronti del risparmiatore. Da qui è nato il questionario in base al quale si deve valutare l’appropriatezza e l’adeguatezza del cliente rispetto agli investimenti che va a sottoscrivere.

C’è chi ha fatto notare, come il giornalista del Sole24ore Moyra Longo questa mattina su Radio Tre che i rendimenti delle obbligazioni non erano altissimi e quindi i risparmiatori non si sono nemmeno potuti allertare sul rischio che correvano.

Il rendimento di un titolo è legato al tempo (durata) e alla rischiosità dell’emittente. Un’obbligazione è un investimento a capitale garantito perché c’è un prestito che un investitore fa a una banca, a uno Stato a una società, a fronte del quale riceve un interesse periodico e alla scadenza riceve il rimborso. La garanzia del capitale però non è assoluta, è dovuta a chi si prestano i soldi e il rendimento legato a questo titolo deve essere tanto più elevato quanto maggiore è il rischio dell’ente a cui si prestano soldi. Spesso le banche che hanno un rating inferiore allo Stato italiano emettono obbligazioni con rendimenti pari o inferiori a quelli dei titoli di Stato e quindi, è vero, non pagano correttamente il rischio. E sì, questo può creare confusione.

In molti adesso fanno il paragone con la Germania. Là lo Stato intervenne a salvare le banche.

Sì, mentre l’Italia, escluso il salvataggio del Monte dei Paschi, non è mai intervenuta, la Germania ha speso centinaia di miliardi per salvare le proprie banche.  Solo che adesso è intervenuta la normativa europea con il  cosiddetti bail-in , salvataggio interno. La direttiva Brrd (Bank Recovery and Resolution Directive), che entrerà in vigore il 1° gennaio 2016, stabilisce che una banca in difficoltà si deve arrangiare da sola. A pagare saranno prima gli azionisti, poi a cascata gli obbligazionisti subordinati, poi quelli normali e infine i correntisti sopra i centomila euro.

Quindi il decreto “salva banche” del governo ha impedito un crollo più grave?

Premesso che tale decreto non ha nulla a che vedere con il bail-in, paradossalmente sì, anche se il governo l’ha fatto in modo un po’ “selvaggio”. Con questo decreto insieme al Fondo interbancario di risoluzione che ha finalizzato l’operazione per 3,6 miliardi di euro hanno scorporato la parte di passività delle banche facendo fallire gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati e hanno salvato la parte attiva della banca, i conti correnti, i depositi, così come i posti di lavoro dei dipendenti.

Il risparmiatore insomma, nel caso delle quattro banche, è stato un soggetto passivo. Ma il consulente finanziario indipendente è davvero indipendente?

Il cliente lo paga direttamente per ricevere questo servizio: essere al suo fianco affinchè le scelte finanziarie che andrà ad effettuare siano pienamente consapevoli e nel suo esclusivo interesse. Adesso, poi, c’è una forte spinta a livello europeo in tal senso. Infatti la Mifid2 che entrerà in vigore forse nel 2017 dà  indicazioni precise: l’orientamento è quello di rendere obbligatoria l’indipendenza nella consulenza agli investimenti. Vedremo come il sistema bancario si organizzerà per il recepimento di questa direttiva comunitaria che a dir poco risulta essere rivoluzionaria.

Leggi anche: i consigli di Vincenzo Imperatore su come difendersi dagli inganni dei bond subordinati sul sito del Test Magazine

Gino Strada: «La guerra non è la medicina giusta. Non cura, uccide. E va abolita»

left gino strada

«La guerra non è scritta nel destino dell’umanità. Abolire la guerra non è un’utopia, anzi, è qualcosa di molto realista. E non esiste la guerra giusta». È Gino Strada che parla, con passione, in una intervista esclusiva su Left in uscita il 12 dicembre. Il fondatore di Emergency, testimone diretto della disumanità della guerra che miete vittime tra i civili, lancia un appello alle Nazioni Unite. «Perché non sono mai intervenuti? Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù e dobbiamo capire come liberarcene». Il medico chirurgo paragona la guerra al cancro: «Occorre cercare la soluzione. E la violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente». Nell’ampio sfoglio dedicato al pacifismo di fronte alla violenza dell’Isis, Left pubblica un “Dialogo per pacifisti pieni di dubbi” tra il critico Filippo La Porta e lo storico Alberto Castelli, sul concetto di guerra “giusta”. Abbiamo poi scritto di pacifisti “concreti” che nella storia hanno evitato conflitti armati, quelli che alla crisi del pacifismo hanno risposto con la nonviolenza.  Infine le cifre: l’Italia spende per militari e armamenti 23,6 miliardi di euro all’anno, per la cooperazione allo sviluppo 3 miliardi e per la diplomazia 1,8 miliardi.

Dalla guerra al lavoro, o meglio alle dichiarazioni del ministro del Lavoro Giuliano Poletti che non sono banalità o provocazioni ma parte di un vero manifesto politico che ripete come fosse un mantra: lo studio è inutile, così come il tempo libero e la vita privata, conta solo la dimensione utilitaristica e produttiva. Poi il racconto di un fenomeno tristemente in ascesa e poco contrastato nel nostro Paese: la tratta di esseri umani. Left pubblica la “storia di G.” una ragazza nigeriana venduta da bambina ad una maman e arrivata poi in Italia. Giacomo Russo Spena è entrato in una delle prime Rems (Residenza per le misure di sicurezza detentive) e ci fa capire come vivono i “rei folli” dimessi dagli ex Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari).  Infine, un focus sul “mercato” delle fotocopie che un ddl prova a liberalizzare. Negli Esteri l’analisi del manuale del Terrore, La gestione della ferocia; la Spagna che si avvicina alle elezioni del 20 dicembre sempre più frammentata a sinistra e l’intolleranza della destra indiana che arriva a colpire le megastar di Bollywood.

La cultura apre con l’incontro con il premio Nobel Orhan Pamuk, lo scrittore turco racconta a Left il suo Paese martoriato ma svela anche i segreti dell’amore che attraversa il suo ultimo romanzo.  E ancora: Michela Murgia che parla del suo romanzo “politico” Chirù, mentre il regista Gianni Zanasi racconta il senso del suo film La felicità è un sistema complesso. Per la scienza, Pietro Greco ci racconta della ricerca sulle zanzare geneticamente modificate contro la malaria e Left lancia insieme all’associazione Amica un appello al ministro Lorenzin per la demedicalizzaizone dell’interruzione di gravidanza attraverso la corretta procedura della pillola abortiva Ru486.


 

Tutte le storie sul numero 48 di Left in edicola dal 12 dicembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Bologna, il Movimento 5 Stelle blocca le liste e lascia fuori la democrazia

Sotto le Due Torri, dove è nato, il Movimento 5 stelle non trova pace. Torna a dividere, l’orizzonte delle prossime elezioni comunali.
E mentre a Milano si è scelto con vere e proprie votazioni in carne e urne; a Roma si sta precedendo per usuali candidature e selezioni a mezzo web, a Bologna no. A Bologna ha deciso lui, il consigliere comunale Massimo Bugani.

Già candidato sindaco alle scorse amministrative – con una campagna per la quale aveva chiesto sostentamento ai due (poi tanto odiati) consiglieri regionali (l’ex capogruppo Andrea Defranceschi gli prestò, come ad altri comuni, due degli 8mila euro della campagna, provenienti dal proprio extrastipendio – pratica che l’assemblea regionale del Movimento votò pubblicamente) – ora ci riprova. Saltando a piè pari primarie, consultazioni, o qualsiasi forma di candidatura diretta.

Per chi lo conosce, non è una novità. La baldanzosità con cui si erge a difensore (e detentore) dei principi del Movimento 5 stelle, sono noti ben da tempo. Come anche che, a dispetto dei suoi sforzi per eliminare i “dissidenti”, a Bologna il Movimento non navighi in acque quiete. Espulsioni, il meet up originale cancellato proprio dall’oggi leadrino locale; i parlamentari che non partecipano alla campagna elettorale regionale in segno di protesta contro il sistema dei due pesi e due misure usate per i non allineati: tante altre se ne potrebbero raccontare, per ricostruire, a chi non conosce la realtà del Movimento felsineo, in che consiste l’opzione che Grillo e Casaleggio si stanno accontentando di offrire alla città.

o-GRILLO-CASALEGGIO-facebook

Ma poi si sa: essere fedeli al capo, più che ai principi, paga. E dunque, come raccontano cronache locali, attivisti e fuoriscuti, Massimo Bugani, che a differenza di Favia e Defranceschi non si è mai sottoposto alle verifiche semestrali davanti ai cittadini, promesse in campagna elettorale e baluardo del Movimento delle origini, ha potuto auto-nominarsi candidato sindaco, scegliendo un gruppo di fedelissimi a formare l’ipotetica squadra – anche questa non discussa con la base. L’ha annunciato già da prima dell’estate, con la benedizione postuma del leader Di Maio (Di Battista ha preferito sfilarsi in sordina), che ormai ai fuoripista regolamentari ci ha fatto il callo. Se davvero il Movimento 5 stelle rispettasse le regole originarie, non ci sarebbe un direttorio, tanto per dirne una.
Ma le regole stanno cambiando, subentrano esigenze di governo, e abilità (più che competenze) che rendono alcuni più funzionanti di altri.
«Io so di avere il rispetto e la stima di Grillo e Casaleggio e di tutti i parlamentari più in vista, so di essermi guadagnato sul territorio una discreta visibilità nazionale», raccontava qualche mese fa al Corriere.it.

o-BUGANI-facebook

Visibilità, è la parola magica. Se Bugani – che come copertina di fb ha una foto con Di Maio e Dibba, e come immagine del profilo lui presentatore alla Convention di Imola – riscuote l’appoggio dei parlamentari “più in vista”, di certo non ha quello degli eletti bolognesi e la maggioranza di quelli emiliani-romagnoli. E sul territorio avrà la visibilità concessagli dai palchi sui quali alcuni eletti hanno trasferito la loro azione, ma certo non la stima: non si contano infatti gli ex grillini cancellatisi dal blog o che hanno smesso di frequentare lo storico circolo Mazzini.

Ma a rompergli le uova nel paniere, è arrivato Lorenzo Andraghetti. Storico attivista, collaboratore del parlamentare bolognese Paolo Bernini e contrario a certi metodi da tempo, Andraghetti ha risposto alla provocazioni di Bugani che sosteneva di aver saltato le primarie semplicemente perché non ci fossero altri candidati, scendendo in campo: “Da adesso non gli concederò più di diffamare in tranquillità il sottoscritto e tutti gli attivisti che danno la vita per il M5S da più anni di lui.”, si presenta. Riscuote un gran successo, e colleziona un centinaio di firme, tra cui parlamentari e molti consiglieri della provincia di Bologna (Loiano, Pianoro, Castello d’Argile, San Giorgio di Piano, Castel San Pietro), che con una lettera indirizzata allo staff, chiedono primarie pubbliche dato che la lista attuale è “in aperta violazione degli articoli 4 e 7 del Non statuto”.
Tra loro, anche l’eurodeputato Marco Affronte: «A Bologna si è deciso di non rispettare le nostre regole. Semplici, democratiche, condivise. Questo ha aperto una ferita che resta scoperta e sta creando problemi. Forse ci sono ancora i tempi per rimediare: fare un passo indietro e consultare gli attivisti», scrive in una lunga riflessione identitaria e di metodo su fb. «Il metodo con il quale scegliamo e sceglieremo i nostri candidati sindaco non è per nulla secondario. Niente liste bloccate, niente investiture dall’alto, niente candidati unici». E attacca: «Per ora abbiamo assistito alla scelta di tre candidati sindaco delle città principali con tre metodi diversi», in uno dei quali, Bologna, «con l’investitura dall’alto. Sono sconcertato: che messaggio trasmettiamo così?».
Non è da meno la senatrice Bulgarelli: «Se qualcuno in corso d’opera intende cambiare direzione e fare diventare i 5 Stelle un partito verticistico troverà in me un immenso ostacolo».
Rincara Pizzarotti: “Emerge una mancanza di omogeneità di regole a livello nazionale. Il metodo va discusso in modo condiviso, anche per quello auspico di trovarci insieme in un meet-up nazionale”. Non è la prima volta che il sindaco pentastellato chiede un confronto allargato e pubblico, di democrazia partecipata. L’ultima volta, alla convention di Parma, rischiò l’espulsione, per aver osato tanto.

E allora lui, Max, che la sera del confronto pubblico con gli attivisti non si è presentato, concede ciò che non sta a lui ma alla normativa e volendo alle leggi della democrazia (nonché, eventualmente, ai proprietari del logo, sempre Grillo e la Casaleggio Associati, leggi qui) autorizzare: “io e i ragazzi della lista diamo la possibilità di presentare candidature e liste alternative”, come riportava ieri il Resto del Carlino.

Peccato che, a dover approvare l’eventuale lista e concedere l’utilizzo del logo ai “dissidenti”, siano sempre loro: Grillo e Casaleggio.  Sicuri sarà una sfida alla pari?

 

Di cosa abbiamo parlato sui social nel 2015?

cosa è successo nel 2015 sui social

Facebook si sta sempre di più imponendo come il mezzo in cui registrare la nostra memoria storica, non solo per quanto riguarda le nostre vite personali, ma anche per quello che accade nel mondo. Il social di Zuckerberg, arrivato alla fine dell’anno, ha diffuso un video in cui ripercorre un anno di temi sui social network e realizzato un sito interattivo dove è possibile rivivere gli eventi principali dell’anno attraverso i social. Ecco quello di cui si è parlato di più:


2015 Year in Review from Facebook on Vimeo.

 

Ed ecco come abbiamo raccontato su Left questi stessi temi, buona lettura!

 

42-76928666

#IstandWithAhmed

Ahmed Mohamed: da presunto terrorista a studente modello in meno di 24 ore

 


#Nepal

Terremoto in Nepal, sul tetto del mondo che crolla

 


 

migranti 2015 lesbo

#RefugeesWelcome

Rifugiati e immigrati, i numeri di Frontex

Fortezza Europa: quando i muri non bastano

Europa blindata. Il blocco dell’Est adotta la linea dura

Ecco la guida Routard per rifugiati

Migranti, quando lo smartphone è un prezioso compagno di viaggio

Da refugees welcome per le foto di Aylan Kurdi, alle frontiere sigillate in due mesi

 


 

#Grexit

Noi siamo la Grecia

In Grecia al voto una generazione tra speranza e disillusione

Atene fa paura. Alla Bce

Wolfgang Schäuble il signor “no” d’Europa

 


 

jesuischarlie

#JeSuisCharlie

La Francia va a destra. Paura e razzismo dopo la strage a Charlie Hebdo

Le ragioni dell’odio delle banlieue parigine

 


 

#BlackLivesMatters

Black Lives Matters: proteste a Chicago e spari a Minneapolis

Charleston e i numeri dell’odio razziale negli Stati Uniti

La morte in diretta: perché in America circolano tante armi

 


 

bernie-hillary

verso #Usa2016

Quel che c’è da sapere sul circo delle primarie repubblicane

Sanders contro Clinton, ma non troppo.

Donald Trump vuole impedire ai musulmani di entrare in America

 


 

#ParisAttacks

Diario da Parigi: il giorno dopo

Passeggiare nelle strade di Parigi a due giorni dagli attentati

Il gap emotivo tra Beirut e Parigi, Boko Haram e il cane Diesel

Traffico di armi e terrorismo, la Francia ha un problema (e anche l’Europa)

Parigi e l’Isis: l’intelligence, le strategie, la guerra contro sciiti e Occidente

 


 

#Siria

Domande e risposte per capire il conflitto siriano

 

 


 

#Isis (Daesh)

Dal petrolio al porno. ecco il tesoro dell’Isis: 2 miliardi di dollari per finanziare il terrore

Arabia Saudita, condannato a morte un poeta per apostasia. Il sistema giuridico è uguale a quello dell’Isis

Anonymous, il trolling contro Daesh e le strategie per fermare la propaganda terroristica in rete

La destra italiana sul carro di Le Pen. Tutti gli aspiranti lepenisti

Come prevedibile, la destra italiana prova a cavalcare l’onda lepenista d’Oltralpe. I risultati di Marine Le Pen e del Front national alle regionali francesi del 6 dicembre ci dicono che gli esclusi francesi hanno scelto lei, inutile negarlo. «Domenica, il popolo francese ha fatto vacillare l’oligarchia, le sue certezze, la sua indifferenza, la sua arroganza», ha dichiarato madame Le Pen, che butta paglia sul fuoco nello scontro fra centro e periferia, emarginati e garantiti. La dicotomia popolo-élite, nel populismo lepeniano, prende il posto di destra-sinistra. E la destra italiana già monta la sella per cavalcare e sono tanti i pretendenti “cugini” di Marine Le Pen.

Il primo a tentare di intestarsi la vittoria francese è Matteo Salvini. Con le sue forze, la Le Pen ha più volte manifestato le sue simpatie per il leader padano. Ricordate il «Mi manda in estasi» che la leader del Front national ha ammesso all’indomani delle Europee di maggio? Ecco, e poi conta pure sull’affetto di papà Jean-Marie. E con le sue debolezze, che stanno proprio nell’essere il leader padano. La Lega Nord di Salvini è cosa assai lontana dall’identitarismo nazionalista della Le Pen, toccherà capire quanto abbia azzeccato con le sue manovre di vicinanze a movimenti come CasaPound e con il progetto Noi con Salvini per accaparrarsi il Mezzogiorno.

Nel lepenismo vincente, si butta pure Luca Romagnoli. Il suo grado di “discendenza dai Le Pen? Romagnoli è stato eurodeputato con Jean Marie Le Pen, oltre che segretario nazionale della Fiamma Tricolore di Pino Rauti. E adesso sperimenta la “Destra possibile”. La chiamano così, loro, l’estrema destra lepenista. Il 10 dicembre Romagnoli è sbarcato a Milano dove, a porte chiuse, ha incontrato rappresentanti di una decina di movimenti europei. La riunione organizzativa, promossa dall’Alleanza europea dei movimenti nazionali (Aemn), ha visto la partecipazione del Front National francese, del movimento ungherese Jobbik e del British National Party. Al suo fianco il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, portavoce lombardo della Destra sociale e delegato italiano del World national conservative moviment (Wncm), con sede in Russia, a Sanpietroburgo.

Mentre con la mano europea, la Destra Sociale, prova a mettere il cappello tricolore sul lepenismo, con la mano italica, ha deciso di partecipare al congresso ri-costituente della destra italiana promosso da Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia, e Marcello Veneziani, presidente del comitato culturale e scientifico della Fondazione Alleanza Nazionale. «Nostro dovere, in questo momento storico, è fare fronte anche in Italia, partendo, dalla necessaria riunificazione della destra nazional-popolare», ha dichiarato Luca Romagnoli.

Infine, non resta a guardare Gianni Alemanno che lo scorso ottobre ha organizzato la “Leopolda” di Orvieto per lanciare il manifesto del lepenismo per la destra italiana: il “Manifesto della rivoluzione italiana contro la crisi e il declino”. Per l’ex sindaco di Roma «del lepenismo riprendiamo i temi della difesa dell’interesse nazionale contro l’immigrazione di massa e contro i vincoli dell’euro e del commercio globale». Senza scordare che, nella scalata lepenista-populista, c’è un altro competitor da non sottovalutare. Con Beppe Grillo, padre dell’anticasta e della guerra tra ultimi e penultimi, dovranno pure fare i conti.

La costruzione del fronte nazionale, per seguire la linea europea di Marine Le Pen, è in corso. E la partita per assumerne la guida è già cominciata. Quando la sinistra non c’è, i topi ballano.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla