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Anonymous, il trolling contro Daesh e le strategie per fermare la propaganda terroristica in rete

Con l’hashtag #Daeshbags oggi Anonymous lancia una giornata di attacchi contro l’attivismo dell’IS in rete. La verità è che questo tipo di attacchi di propaganda, per quanto ci facciano sentire meglio o siano divertenti (cfr gli esempi che illustrano questo articolo), non servono praticamente a nulla dal punto di vista della lotta al terrorismo. O anche al proselitismo in rete che, come probabilmente abbiamo scoperto con la strage di San Bernardino, è ancora uno strumento di enorme forza del Califfato.

C’è un problema di individuazione della filiera di comunicazione e propaganda, uno di lavoro  per isolare culturale per isolare Daesh e il suo messaggio. Su Foreign Affairs, Jared Cohendirettore di Google Ideas e già impiegato dal Dipartimento di Stato (e quindi probabile punto di raccordo tra il colosso di internet e l’intelligence) fa il punto sulla “contro-insurrezione digitale. Partiamo dalle campagne come quella di Anonymous: «Per essere efficaci, queste campagne hanno bisogno di riflettere la diversità dei ranghi del gruppo: combattenti professionisti jihadisti, ex soldati iracheni, studiosi islamici profondamente religiosi, giovani in cerca di avventura, i residenti locali che3-duck-army-isis-628aderiscono per paura o ambizione. Messaggi religiosi moderati possono funzionare per la recluta pia, ma non per l’adolescente britannico solitario che è stato promesso più di una moglie e di un senso di appartenenza in Siria. Questi potrebbe essere meglio servito da qualcosa di più simile alle campagne di prevenzione al suicidio o contro il bullismo». Il messaggio deve essere puntuale e pensato per attori diversi, che altrimenti, le grandi campagne istituzionali (o le prese in giro delle papere dell’ISIS come quelle qui sotto) rischiano di essere viste da persone a cui piace l’idea della campagna, a cui piace prendere in giro ISIS, ma non funzionare sul pubblico a cui dovrebbero essere dirette. Il fuoco di Anonymous, per certi aspetti, rischia di generare una risposta uguale e contraria da parte di coloro a cui piace l’ISIS. Tra l’altro molti dei tweet e delle foto postate online sono insultanti e un po’ razziste.

ISIS-Rubber-Ducks-Huck-3A prescindere dalle papere, capre e meme che la rete sta scaricando contro Daesh, il tema è molto serio, se è vero che uno dei luoghi della guerra tra l’Isis e il resto del mondo – quella della propaganda – si combatte in rete. Se ne parla, si studia e si propone molto. Di questo ha scritto su Medium anche Hillary Clinton, sostenendo che per condurre la battaglia contro il cyber-terrorismo serve l’aiuto della Silicon Valley in maniera da strappare ai terroristi «il territorio virtuale, come vogliamo toglierne loro sul campo». La candidata democratica chiede alla Silicon Valley di chiudere gli account che fanno propaganda ai terroristi.

E’ un tema di cui si parla molto ovunque. Sul New York Times ne ha scritto il presidente di Google, Eric Schmidt. Segno che Silicon Valley sente della pressione addosso e che non sa bene come affrontare il problema. Troppi controlli e collaborazione con le agenzie di intelligence sono qualcosa che Google, Facebook, Twitter &Co vogliono evitare. Lo scandalo Snowden è costato un enorme danno di immagine e di perdita di fiducia nei loro confronti. Al contempo, continuare a sentire i propri marchi collegati agli attentati terroristici, non è una bella propaganda.

CV8GWfYW4AEOdNqSchmidt ha scritto: «Come per tutti i grandi progressi tecnologici, il Web ha anche portato con sé grandi sfide, come le minacce alla libertà di parola e paure per attività terroristiche online». C’è sempre qualcuno pronto a usare nuovi strimenti per fare del male: «Da quando c’è il fuoco, ci sono gli incendi dolosi».
«Dovremmo costruire strumenti per contribuire alla de-escalation delle tensioni sui social media – un po’ come correttori automatici per i discorsi d’odio e le molestie. Dovremmo prendere di mira gli account social dei gruppi e rimuovere i video prima che si diffondano». Dopo un’appassionata difesa del Web, Schmidt chiama alla collaborazione di governi, imprese che lavorano su tecnologia e rete e società civile

Facile a dirsi, quanto difficile a farsi. Un piccolo esempio è proprio la pagina Facebook di Left, che per alcuni giorni dopo gli attentati di Parigi è stata colpita da censure preventive ogni volta che la redazione postava notizie che contenessero la parola ISIS o terrorismo nei titoli. I logaritmi non sono intelligenti e non distinguono bene: il rischio è quello di una censura indiscriminata come quella che vorrebbe Trump. Che sarebbe un danno incalcolabile per Schmidt, Zuckerberg e tutti gli altri. E che sarebbe qualcosa di molto simile a quanto succede in Cina, in Russia o in Arabia Saudita.

Torniamo alla controinsurrezione digitale di cui parla Jared Cohen:

«Un controinsurrezione efficace richiede una buona comprensione della gerarchia dell’ISIS. A differenza di al Qaeda, che comprende un gruppo di cellule isolate, il Califfato ha una struttura simile a quella di una società. Sul terreno in Iraq e la Siria, la leadership imposta il suo programma ideologico, una struttura gestionale he implementa questo programma, e una la truppa dei combattenti, reclutatori, operatori video, mogli di jihadisti, e tecnici di vario ordine e grado. Una gerarchia simile la ritroviamo online con quattro tipi di combattenti digitali: il comando centrale per le operazioni digitali, che dà gli ordini e fornisce le risorse per la diffusione di contenuti. Anche se i suoi numeri sono piccoli, le sue attività sono altamente organizzate».

Secondo un rapporto di Brookings institution che ha monitorato le attività degli accountCV8GTXSWcAAQNxsTwitter di ISIS, la maggior parte del materiale pubblicato può essere ricondotto a un numero ridotto di account con rigorose impostazioni di privacy e pochi seguaci – tra 500 e 2mila, contro le decine di migliaia di account “tifosi”. Poi ci sono i combattenti, che disseminano il prodotto e i cui account vengono individuati e chiusi più rapidamente e che lavorano in coordinamento con la testa. Questi comprano followers per
moltiplicare la visibilità del messaggio o usano tecniche di guerrilla marketing come l’utilizzo di hashtags che nulla hanno a che vedere con il messaggio stesso: ad esempio quelli più diffusi durante la Coppa del mondo di calcio. Infine la base di sostenitori, che non ha collegamenti diretti, ma simpatizza con i contenuti e li diffonde e gli account generati da robot, che a loro volta moltiplicano il numero di tweet e fanno crescere certi hashtag.


I numeri di ISIS su Twitter

Tra settembre e dicembre 2014 lo studio Brookings individua 46mila account Twitter utilizzati da sostenitori dell’ISIS – ma la stima è che ce ne fossero attivi 70mila. La gran maggioranza proveniva dai territori del Califfato tra Iraq e Siria, un quinto degli account usava l’inglese, mentre tre quarti scrivevano in arabo. Gli account avevano in media mille followers e tendevano ad essere più attivi della media degli account del social network da 140 caratteri.

(Brookings Istitution)


 

Il centro sul monitoraggio del Program on Extremism della George Washington University ha prodotto un rapporto sugli account filo-ISIS attivi negli Stati Uniti, monitorandone 300. Un terzo erano donne, quasi tutti comunicavano in inglese usando come foto dei profili leoni, bandiere verdi e uccelli verdi (simbolo del martirio).

Certo è che il centro delle attività resta il territorio controllato direttamente da Daesh. Un segnale aggiuntivo di quanto siano studiate e controllate le comunicazionie. Una controprova di questa centralizzazione è il monitoraggio delle attività online di ISIS condotto dall’International Center for the Study of Radicalization, che segnala come il numero di post, filmati, foto e tweet, dopo un picco della scorsa estate, sia in calo negli ultimi mesi. La spiegazione data dai ricercatori è legata alle perdite sul terreno: molti dei personaggi più noti online sarebbero morti in combattimento in Siria, così come l’area controllata dal Califfato è diminuita. A peggiorare è anche la qualità dei filmati, che prima erano tutti rigorosamente montati come si deve, girati con maestria e utilizzando macchine di qualità e oggi sono meno accattivanti che in passato (eccezion fatta per quelli postati direttamente da Raqqa).

isis online

(ISIS online nel 2015: temi militari/non militari/religiosi.International Center for the Study of Radicalization)

Come fermare questa macchina? Cohen ha in mente due o tre strategie che divergono dal tiro al piccione in stile Anonymous, che a ondate successive hackera account sui social network collegati all’ISIS. Il rischio in quei casi è quello di colpire a casaccio e, magari, far sparire account che è utile monitorare o quello di non riuscire a ricostruire la struttura, arrivare alla fonte del messaggio.

La prima proposta di Cohen è quella di marginalizzare ISIS sui social network separando gli account reali da quelli robot, individuando la struttura e colpendo in forma mirata gli account legati al Comando centrale per le operazioni digitali. Più disarticolata è la rete e più difficile diffondere il messaggio in maniera globale per la testa del Califfato, che a quel punto dovrebbe usare di più il deep web, dove potrebbe coordinare (ed essere più facilmente rintracciato dalle agenzie di intelligence), ma non fare propaganda.

Le ricette, insomma, sono complicate e richiedono grandi investimenti, capacità, esperienza. Chiudere il web come ha suggerito qualche giorno fa Donald Trump serve a guadagnare qualche consenso nell’elettorato repubblicano che chiede soluzioni difficili a questioni enormi.

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La fiducia non è un bancomat

Se fosse una guerra le chiamerebbero “vittime collaterali” e forse troverebbero anche il modo per lasciarci intendere che stia nel computo naturale delle cose: l’anziano suicida dopo avere perso tutti i risparmi di una vita è solo la punta di un danno sociale che difficilmente potrà essere salvato e messo a bilancio. La banca, con il commercialista e il dentista e il parroco e il dottore, era il luogo dove difendere i propri soldi dalla propria ignoranza e avventatezza: la gestione del risparmio è solo il passo successivo alla “cura” che rimane il primo motivo per cui i nostri padri e i nostri nonni decidevano di affidarsi al direttore dell’istituto tal dei tali e di affidarsi a quello sportellista “che era una persona educata e gentile”.

Il ruolo sociale del “tutore del risparmio” è molto di più del ruolo meramente finanziario che ci si ostina ad affibbiare agli istituti di credito: un conto corrente è la stampella psicologica (più che economica) che ogni famiglia si costruisce per rassicurarsi di fronte agli imprevisti della vita, il welfare privato che ogni genitore sente l’aspirazione di rimpinguare per se stesso e i propri figli. Molti dei soldi che si sono polverizzati con un clic in questi ultimi giorni non sono semplicemente soldi a forma di soldi: sono la prova di una vita misurata, attenta, responsabile e previdente.

Mi ricordo, fin da bambino, la fierezza con cui i nonni andavano a versare lo stipendio, con la giacca buona e la gran cassa dell’aver fatto il proprio dovere e, di contro, l’atteggiamento quasi furtivo con cui ci si avvicinava ad un prelievo non previsto e ad una spesa capitata. Aprire un conto corrente, insomma, significava (e significa ancora, per molti) aprire una linea di credito alla proprio autostima, accettare la sfida di quantificare il proprio impegno e la propria morigeratezza.

Non ci vuole un scienziato o un fine indagatore per capire che molti degli “investitori” rimasti in mutande hanno scelto di mettere i propri soldi lì dove erano stati consigliati di farlo. È folle pensare che un pensionato possa decidere, sua sponte, di accantonare i resti di una vita in un qualsiasi fondo di investimento a meno che non sia stato male informato, poco informato o per niente. Per questo credo che il danno più grande che questa vicenda abbia portato sia soprattutto sociale. Niente a che vedere con il soldo in sé ma soprattutto lo sbriciolamento di un’istituzione che perde credibilità. Un’altra che va ad aggiungersi alla folta schiera di personaggi che rendono la vita là fuori una guerra per svicolare dai furbi. E la fiducia non si ripristina per decreto. La fiducia non si distribuisce al bancomat.

Cop21, a Parigi i nodi irrisolti della bozza d’accordo. La protesta della società civile

È stata un’altra intensa notte di negoziati a porte chiuse quella appena trascorsa alla Cop21 di Parigi. Dopo una prima bozza di accordo circolata nei giorni scorsi, ieri sera il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, che coordina i lavori della Conferenza delle parti , ha presentato una nuova bozza – la Versione 2 datata 10 dicembre ore 21 – spiegando che le trattative sono vicine alla meta e dicendosi ottimista sulla possibilità di presentare oggi stesso in plenaria «il progetto finale di testo dell’accordo». Intanto ambientalisti e Ong protestano per la piega al ribasso che stanno prendendo le trattative, la cui conclusione era prevista per oggi ma che potrebbero protrarsi.

La nuova bozza vede ridursi i punti di disaccordo, ma restano aperte ancora alcune importanti questioni. Partiamo da quella relativa al mantenimento dell’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali: i Paesi insulari e quelli con una posizione più avanzata chiedono che il limite al riscaldamento sia contenuto entro i +1,5 gradi (per il perseguimento di questo obiettivo si è anche parlato di un “patto segreto” che coinvolge Usa e Ue). Le 27 pagine del secondo documento adottano però una formula che tiene dentro entrambe le posizioni, affermando che i Paesi devono fare in modo di mantenere l’aumento di temperatura ben al di sotto i 2 gradi e sforzandosi di arrivare anche sotto i +1,5, riconoscendo che questo secondo risultato ridurrebbe drasticamente i rischi legati al global warming. E tenuto conto che attualmente siamo già a +1 grado, gli impegni volontari e le prescrizioni contenute nella bozza potrebbero portarci a un aumento di temperatura anche superiore ai 3 gradi.

I Paesi cosiddetti sviluppati, tra cui Usa e Australia, insistono affinché l’accordo porti a un20151012PHT97120_original sistema univoco di rendicontazione della quantità di emissioni “climalteranti”, con revisioni periodiche degli impegni nazionali. Troppo avanti nel tempo, secondo il fronte ambientalista, la previsione di un primo step di revisione degli impegni nazionali al 2023. Un nodo irrisolto, in questo caso, è che i Paesi in via di sviluppo vogliono mantenere invece la divisione introdotta nel 1992 tra le esigenze di Paesi ricchi e Paesi poveri.

Il disaccordo tra “ricchi” e “poveri” si è palesato anche in relazione agli standard di rendicontazione e verifica degli impegni assunti, con i Paesi ricchi che tentano di ottenere che quelli poveri effettuino controlli più severi sulla effettiva riduzione delle emissioni. Per la seconda volta, poi, con il forte disappunto espresso dall’Europa il trasporto aereo e quello marittimo – responsabili di circa il 5% delle emissioni globali, ma in rapida ascesa – sono stati lasciati fuori dalle prescrizioni dell’accordo e difficilmente potranno rientrare in extremis.

Ma la Cop21 non sfugge al principio per cui è il denaro la leva che spinge ad assumere posizioni più o meno favorevoli a una riduzione delle emissioni di gas serra. I Paesi in via di sviluppo chiedono con insistenza che l’accordo stabilisca nel dettaglio a quanti aiuti finanziari potranno accedere per il loro impegno a rinunciare a inquinare. Una rinuncia che potrebbe valere loro 100 miliardi di dollari l’anno di fondi pubblici e privati dal 2020. I fondi arrivati a destinazione finora però sono di gran lunga inferiori a quelli promessi. Su questo punto Tim Gore di Oxfam ha manifestato ottimismo, perché i Paesi ricchi si sono detti disponibili ad aumentare la loro quota di stanziamenti.

Adriano Campolina di ActionAid parla di un draft che nega la giustizia globale perché nega la possibilità di richieste di indennizzi e azioni di responsabilità a carico degli inquinatori inadempienti. A suo avviso la bozza di accordo «non affronta la realtà del cambiamento climatico e servirà soltanto ad allargare il divario tra ricchi e popoli». Insomma, mentre politica e governi si preparano a celebrare, come nelle precedenti Cop, gli “importanti passi avanti” del vertice di Parigi, la società civile è compatta nel contestare l’esito che si va profilando e nel ritenere che potremmo trovarci davanti a un accordo tutt’altro che risolutivo. Non resta che sperare che la versione finale del “Paris outcome” – così è stato ribattezzato il testo che potrebbe essere sottoposto oggi all’assemblea della Cop21 – dia ragione ai primi e contraddica il pessimismo dei secondi.

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Tutti contro le dichiarazioni di Trump sull’Islam. Ma i sondaggi lo premiano

Donald Trump fa parlare di sé. E quello sembra essere l’importante, a prescindere dalle castronerie che dice e dagli odii che si attira: l’ultimo sondaggio sulle primarie repubblicane dice che il miliardario ha ripreso a correre: 35 per cento contro il 16 di Ted Cruz, che sta scalando la classifica ed ha superato il chirurgo afroamericano e super conservatore Ben Carson. Nel complesso è un disastro per il partito dell’elefantino, che dopo anni di opposizione dura e pura contro Obama, si trova a raccogliere i frutti del populismo che ha cavalcato. O almeno questo direbbe il buon senso applicato alle presidenziali. Manca comunque molto tempo, sia alla conclusione del voto per le primarie che al voto vero e tutto potrebbe succedere. Ad esempio che gli effetti degli attentati a Parigi e a San Bernardino scompaiano o che altre stragi determinino un aumento dell’allarme. Trump ha commentato il sondaggio con un tweet: «Grazie, essere politically correct non renderà di nuovo l’America grande»

Il miliardario candidato che ha giurato di non avere nessuna intenzione di ritirarsi dalla corsa, sente che le sue frasi ad effetto sui musulmani stanno funzionando sulla base repubblicana e ribadisce i concetti espressi nei giorni scorsi. Del resto, un sondaggio Bloomberg rileva che il 65% degli elettori repubblicani è d’accordo con l’idea di tenere i musulmani fuori dai confini Usa. In generale, gli attacchi degli avversari sembrano tornare indietro come boomerang, salvo quando non si tratti di attacchi in stile Trump, ovvero spot Tv che prendono in giro il miliardario e non che spieghino che uno così non dovrebbe fare il presidente. L’elettorato repubblicano, a forza di sentire che Washington è il nemico, credo più a un buffone esagerato che non a qualcuno che vede come espressione dell’establishment politico.

sondaggio trump

La reazione alle uscite di Trump preoccupa per ragioni diverse, che riguardano la comunità musulmana d’America (e non solo) e il pericolo che un clima di ostilità diffusa accentui la voglia di radicalizzazione in alcuni. O spinga qualche gruppo estrema destra a prendere di mira i musulmani o chi gli somiglia, come avvenne con la strage del tempio Sikh di Oak Creek, dove vennero uccise sei persone.

Per questo i media, l’amministrazione Obama, le comunità islamiche e anche molti in Gran Bretagna, stanno cercando di reagire e rispondere con informazione, atti politici, petizioni. La più famosa è quella alla Camera di Comuni, che chiede di negare l’ingresso a Donald Trump per aver diffuso sentimenti razzisti. Mentre scriviamo ha raccolto più di 400mila firme e, per questo, dovrà necessariamente essere presa in considerazione dal Parlamento e dal governo (servono 100mila firme perché una petizione ottenga una risposta ufficiale). A proposito di Gran Bretagna, la Scozia, dove Trump ha enormi interessi legati ai campi da golf, gli ha tolto il titolo onorario di Business ambassador e l’università di Aberdeen gli ha ritirato la laurea onoraria. Trump ha risposto con un tweet sulla politica britannica: «Hanno un problema con i musulmani e lo negano» ha più o meno scritto.

Altra reazione è quella di David Zuckerberg, che ha postato un messaggio sulla sua bacheca nel quale scrive: “Posso solo immaginare la paura dei musulmani di essere perseguitati per azioni intraprese da altri. Come ebreo ho imparato dia miei genitori ad oppormi a qualsiasi attacco contro qualsiasi comunità, anche se non è la tua». Zuckerberg ci crede, ma sa anche di avere un mercato enorme da difendere. A mettere a tacere Trump ci pensa anche Muhammad Alì, forse l’atleta americano più popolare di sempre, che con un commento molto pacato dice: «Sono musulmani e credo che i politici debbano spiegare la vera natura dell’Islam».

Dodicimila sono le firme sotto un appello di leader religiosi americani di varia provenienza che si rivolge «ai nostri fratelli e sorelle musulmani». Il Dipartimento di Stato, ha rilanciato sui social network una serie di video prodotti nel 2014 che presentano la comunità islamica americana per quello che è: un insieme di mille cose diverse tra loro.

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Project X-ile, le irlandesi ci mettono la faccia per chiedere la legalizzazione dell’aborto

Project X-ile-aborto-irlanda

Nella cattolicissima Irlanda dove lo scorso maggio si è votato a favore dei matrimoni omosessuali, facendo un enorme balzo in avanti in tema di diritti civili, è ancora aperta un’altra questione che stride con i valori di libertà e progresso. Perché, ad oggi, in Irlanda abortire è illegale, salvo che in caso di rischio per la vita della madre o problemi di salute fisica o mentale. Le eccezioni alla totale illegalità, stabilita nel 1983 con un referendum costituzionale dove veniva vietata l’interruzione di gravidanza, sono state introdotte solo 2 anni fa, il 12 luglio 2013 con il “Protection of Life During Pregnancy Bill”, una legge che, pur essendo di portata storica, di fatto sancisce un iter talmente tortuoso da costringere le donne irlandesi che possono permetterselo a emigrare nella vicina Gran Bretagna per abortire. Permane inoltre il divieto di aborto nei casi di stupro, malformazione del feto o incesto e, anche nel caso in cui dovessero manifestarsi intenzioni suicide nella madre, la procedura per l’interruzione è a dir poco surreale. La donna infatti viene esaminata da una commissione composta da tre medici, e l’aborto è ammesso solo se tutti e tre daranno un parere favorevole e stabiliranno che il suicidio può essere evitato solo abortendo. In caso contrario la donna potrà presentare ricorso e venire esaminata da una seconda commissione, dovendo dunque sottoporsi a ben sei giudizi. Decisamente troppi, ancora di più nel caso di persone in condizioni di debolezza mentale e sottoposte a un fortissimo stress emotivo, fisico e sociale. Le storie raccolte in questi anni da molte organizzazioni internazionali fra cui il Centre for Reproductive Rights, Doctor for choice o Amnesty International sono a dir poco agghiaccianti. Risale ad esempio all’estate scorsa il caso di una ragazza di 18 anni rimasta incinta a seguito di uno stupro che, dopo aver tentato più volte il suicidio, è stata costretta a partorire con il cesareo alla 25esima settimana di gravidanza.
Le irlandesi che dal 1971 si sono recate in Inghilterra o in Galles per ovviare a tutto questo sono 177.000. Chiunque infatti possa permettersi un “temporaneo esilio” in Inghilterra sceglie quest’opzione per aggirare una legislazione che secondo il Centre for Reproductive Rights è «una violazione assoluta delle norme internazionali sui diritti umani e sul diritto delle donne alla salute e alla dignità». Anche per Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International in Irlanda la situazione è tale che: «I diritti umani delle donne e delle ragazze sono violati su base quotidiana a causa di una Costituzione che le tratta come recipienti». Fra i progetti e le iniziative che vogliono spingere il governo irlandese a cambiare passo sul tema, oltre a una petizione promossa anche in questo caso da Amnesty, esiste anche X-ile, un sito web che raccoglie e documenta le storie delle donne che per esercitare il loro diritto ad abortire sono dovute fuggire in “esilio” all’estero, da qui il nome “x-ile” per il progetto.
«Il nostro obiettivo – spiegano i volontari di x-ile project – è dimostrare che coloro che scelgono di viaggiare per abortire sono persone che fanno una scelta responsabile. A prendere decisioni del genere sono donne comuni, sono i nostri vicini, amici, colleghi, madri, figlie e partner. Project X-ile contribuisce e rafforza una campagna a favore di una libera scelta sul tema dell’aborto e mira ad abbattere lo stigma schiacciante che si genera intorno donne che viaggiano dall’Irlanda verso altri Paesi con l’intento di interrompere una gravidanza».
E proprio attraverso la piattaforma negli ultimi tempi molte ragazze hanno avuto l’opportunità di farsi avanti e condividere le loro storie, hanno messo a confronto le loro esperienze, sono entrate in contatto l’una con l’altra, hanno costruito legami, creato delle reti che creassero un sostegno per chi già c’era passato e per chi aveva scelto di intraprendere la via dell’aborto al’estero. Il 10 dicembre 2015 è stata messa online una prima serie di 11 fotografie che ritrae alcune delle protagoniste di tutto questo e racconta le loro storie. «È il momento di affrontare la questione dell’aborto in Irlanda – ribadiscono gli attivisti di x-ile – e di costruire un futuro più progressista in cui le donne sono ascoltate, rispettate e riconosciute come affidabili. Ci stiamo impegnando moltissimo per la destigmatizzazione dell’aborto in Irlanda. Siamo al fianco di ciascuna di quelle 170.000 donne che hanno lasciato l’Irlanda per usufruire di servizi di aborto. Abrogare l’ottavo emendamento è di vitale importanza per tutte le donne in Irlanda che necessitano di servizi per l’interruzione della gravidanza, in particolare per le donne che non possono viaggiare per vari motivi come la mancanza di mezzi, lo status di migrante o rifugiato, problemi di disabilità o altre circostanze personali».

Qualche numero sull’aborto in Irlanda

177.000 le donne che dal 1971 si sono recate in Inghilterra o in Galles per abortire
3679 le donne che nel 2013 si sono recate all’estero per abortire
1000-1500 il costo medio, in sterline, di un viaggio all’estero per abortire.

4000 la multa prevista, in sterline, per il personale medico che raccomanda un aborto o fornisce tutte le informazioni necessarie circa la procedura da seguire


43 il numero dei Paesi europei che consentono l’aborto quando richiesto o per una serie ampia di ragioni, con l’eccezione di Andorra, Irlanda, Malta, Polonia e San Marino.
24 i giorni in cui, nel dicembre 2014, una donna clinicamente morta è stata tenuta in vita, contro la volontà dei suoi familiari, a causa del battito cardiaco del feto


14 gli anni che rischia chi ha un aborto illegale o chi presta assistenza a un aborto illegale

Le leggi sull’aborto nel mondo

I numeri dell’aborto nel mondo (infografica)

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Testimoni chiedono giustizia al Viminale. Alfano latitante

Troppo spesso vengono confusi con i pentiti. Ma se di qualcosa è probabile che prima o poi possano “pentirsi”, è quella di aver denunciato estorsioni, racket, minacce e prepotenze di stampo mafioso. Sono i testimoni di giustizia, uomini e donne che non solo di quel sistema non fanno parte – a differenza, appunto, dei collaboratori di giustizia -, ma che a differenza di troppi, scelgono anche di denunciarlo.

E lo Stato, li dimentica. Nonostante facciano parte del sistema: sono inseriti nell’ordinamento italiano, riconosciuti dalla legge (n.8 del 1991) e inquadrati nel servizio centrale di protezione, (struttura interforze inquadrata presso il Dipartimento della Pubblica Sicurezza – Direzione Centrale della Polizia Criminale del Ministero dell’Interno italiano), che dovrebbe occuparsi della loro tutela e incolumità fisica. Ma anche qui, accomunati ai collaboratori.

A dicembre dell’anno scorso, i ministri Angelino Alfano e Marianna Madia firmarono decreto per dare attuazione alla legge, partorita nel 2013 dal governo Letta, sulle assunzioni dei testimoni di giustizia.

Tuttora carta non validata, per così dire, perché non ancora approvata, il testo aveva accolto la proposta dall’Associazione nazionale testimoni di giustizia, presieduta da Ignazio Cutrò. Secondo le disposizioni di legge, i testimoni di giustizia dovrebbero essere integrati nella Pubblica amministrazione «con qualifica e funzioni corrispondenti al titolo di studio ed alle professionalità possedute al fine di garantire loro un regime sicuro e nello stesso tempo qualificato di integrazione economica e sociale». Ai tempi, riguardava 84 persone più i loro familiari. Oggi, molte di più.
Avendo dovuto abbandonare la propria terra e il proprio lavoro, spesso non recuperabile anni dopo, l’assunzione da parte di Stato, Regioni e Comuni sembrerebbe un atto di giustizia e riconoscimento del sacrificio fatto. Cosa alla quale ha provveduto la Regione Sicilia, e alla quale invece ha e sta continuando a fare Vincenzo De Luca, al quale la questione è stata più volte sollecitata. Ma evidentemente la questione non rientra nelle priorità dell’agenda del governatore campano.

«Questo provvedimento riconosce il debito morale dello Stato verso persone che si sono messe in gioco per il bene di tutti», aveva commentato ai tempi do Luigi Ciotti, cogliendo il senso alla base del provvedimento. Permettendo, tra l’altro, attraverso le loro denunce e i numerosi arresti e sequestri da esse scaturiti, di recuperare negli anni milioni di euro sottratte alle casse dello stato dalle associazioni mafiose. Un tributo più che dovuto, dunque, a chi contribuisce materialmente a riordinare la nostra società.

Ecco perché oggi si sono ritrovati tutti davanti al ministero degli Interni. Eppure, ancora una volta, sono rimasti inascoltati.

«Da stamane fuori al Viminale, ma come di consueto dal Palazzo emerge un  costante silenzio tranne il via vai degli addetti alla sicurezza che ci controllano a vista», racconta Luigi Coppola, portavoce del Gruppo testimoni di giustizia. «Ciò che a noi davvero interessa stenta ad arrivare», ovvero la promessa che Alfano fece durante il convegno del 28 ottobre, in cui il ministro dichiarò che bisognava stare vicino ai testimoni di giustizia: «Oggi, sia Alfano che Bubbico (viceministro degli Interni, ndr) si sono rintanati nel palazzo – racconta Coppola, che per tutto il giorno assieme a qualche decina di altri testimoni, ha presenziato davanti alle porte  (chiuse) del palazzo – e sembra che non abbiano intenzioni di darci risposte certe sul quando ci saranno le ormai famose assunzioni che ancora vengono strumentalizzate a livello politico e basta».

Nessuna udienza concessa e nessuna legge approvata, dunque, da parte di Alfano. «Siamo veramente stanchi di elemosinare i nostri diritti si sfoga Coppola – Sono le solite prese in giro all’italiana».

«Noi testimoni di giustizia non vogliamo diventare nè eroi da commemorare, nè trame per un film. Noi vogliamo vivere e far vivere dignitosamente le nostre famiglie», aveva già spiegato Luigi Coppola, che fra le altre cose, coordina uno sportello antiracket a Boscoreale. Proprio qui, le sue denunce nel 2001, avevano portato a 30 condanne definitive e alla decapitazione di numerosi clan campani. Ma dal 2010, il ministero dell’Interno gli revoca la scorta e vigilanza, perché essendo arrivato il processo in Cassazione l’anno prima, lui viene ormai ritenuto fuori pericolo e i suoi «impegni giudiziari sono da tempo terminati».

Quello che non è terminato, invece, è il debito che ha lo Stato con queste persone. Se manca quello, manca il riconoscimento reale dell’importanza  della loro scelta. «Cosi si offendono i principi ed i valori della legalità – ci dice a fine giornata Coppola -. Ma noi andiamo avanti e non ci lasceremo intimidire da nessuno».

Facile credergli, viste le scelte da loro compiute. Meno facile, è accettare la latitanza delle Istituzioni.

Cosa cambia a sinistra con l’appello di Pisapia & Co.

Basta una lettera di tre sindaci per mettere in crisi il progetto di Sinistra Italiana e di un nuovo soggetto a sinistra del Pd? «No», dicono un po’ tutti i protagonisti. Ma la realtà è che la lettera scritta da Pisapia, Doria e Zedda ha fatto esplodere tutte le resistenze al percorso avviato, tutte le contraddizioni soprattutto interne a Sel.

È il partito di Nichi Vendola che si è infatti spaccato dopo l’appello dei tre sindaci all’unità del centrosinistra. È Sel che deve fare di più i conti con la lettera (e non solo perché nel Pd da Serracchiani e Guerini in giù hanno già cominciato la campagna del voto utile). È Sel, perché le reazioni di Civati («Pretendere che ora, grazie alla lettera, il Pd cambi rotta e torni a sinistra è un po’ come tentare di far rientrare il dentifricio dentro il tubetto»), così come quella di Cofferati («La stagione del centrosinistra in Italia è finita e occorre dirlo con la dovuta nettezza. È finita perché il Pd ha cambiato composizione, natura ed elementi valoriali») o di Paolo Ferrero, non sembrano molto colpite dall’appello.

Vorrebbero, Pisapia, Doria e Zedda che l’alleanza di centrosinistra si replicasse alle prossime amministrative, anche se segue «uno schema diverso rispetto a quello del governo nazionale, dove Sel è all’opposizione». Vorrebbero quindi, soprattutto l’alleanza tra Pd e Sel, i sindaci. E forse per questo è proprio Sel, guidata da Nicola Fratoianni, ad aver sentito di più il colpo. Sel, infatti, ha recentemente sposato – seppur con meno radicalità – la linea di Possibile di Giuseppe Civati. A Torino, a Bologna, a Napoli, a Roma, è ormai certo che ci saranno candidature indipendenti. E anche a Milano la rottura pareva ormai cosa fatta, con la candidatura dell’indigesto (e destro) Sala alle primarie del 7 febbraio.

Ma la lettera di Pisapia riapre i giochi, almeno in parte. E se fino a un minuto prima della lettera Fratoianni spiegava con Sala candidato Sel non ci sarebbe stata («Perché se Sala vince poi bisogna sostenerlo, e noi non c’entriamo nulla con l’ex city manager della Moratti»), oggi dice: «È evidente che se con la lettera Pisapia oltre ad auspicare il centrosinistra scende in campo con forza per tutelare la sua esperienza, sostenendo un candidato coerente, la questione cambia». Nessuna decisione è presa, però, «abbiamo sempre detto che decideremo con il territorio», continua Fratoianni, «e che il nostro candidato che più garantirebbe la prosecuzione del lavoro di questi anni è Pierfrancesco Majorino».

E se la lettera di Pisapia è stata accolta molto bene da pezzi del partito di Fratoianni, a partire a Claudio Fava (che aveva lasciato Sel ma ha aderito al gruppo parlamentare Sinistra Italiana) e da Dario Stefano, il senatore dato per ovvie ragioni spesso in uscita verso il Pd. Il coordinatore di Sel specifica che nulla cambia però nella linea nazionale, «che non è la linea mia ma è la linea del partito, decisa dalla direzione e dalla segreteria».

 


«Per noi è prioritario il progetto unitario di autonomia», dice Fratoianni, «perché sbagliano i tre sindaci quando immaginano che lo schema di un centrosinistra nazionale possa fermare l’avanzata delle destre. Le destre si fermano quando la sinistra fa e dice cose di sinistra, rinunciando alla subalternità che ha caratterizzato, in Francia come in Italia, le esperienze più recenti». «Ma abbiamo sempre detto», continua, «che lì dove ci sono esperienze di buon governo che si riesce a far proseguire lo faremo, ma senza partecipare alla trasformazione del centrosinistra in un’altra cosa, com’è accaduto in Parlamento e come con Sala accadrebbe a Milano».
Questo complica i rapporti con Civati? «Sono sicuro», dice Fratoianni, «che nella maggioranza delle città noi ci presenteremo insieme a Possibile. Ma il progetto unitario è una cosa che va oltre le sole amministrative».

Le statistiche dicono che il Jobs Act non funziona. I risultati di una ricerca sugli effetti della riforma

Giovani in cerca di lavoro al Lingotto Fiere di Torino in un'immagine del 5 marzo 2010, durante l'ottava edizione di "Iolavoro", una manifestazione promossa da Provincia di Torino e Regione Piemonte. Quasi un giovane su tre in Italia e' senza lavoro. Il tasso di disoccupazione nella fascia di eta' 15-24 anni continua a salire e ad inanellare nuovi record: a maggio - fa sapere l'Istat - e' arrivato a toccare il 29,2%. Il livello piu' alto da quando esistono le relative serie storiche dell'Istituto di statistica, ovvero dal 2004. Un tasso che risulta oltre tre volte maggiore della media generale, la quale si attesta all'8,7%, confermandosi stabile per il terzo mese consecutivo. ANSA / TONINO DI MARCO / li

Il Jobs Act non ha funzionato come motore dell’occupazione, non nei primi mesi della sua applicazione, almeno. In parole povere e chiare è questo il risultato dell’indagine statistica fatta da tre economisti (Labour Market Reforms in Italy: evaluating the effects of the Jobs Act, di Marta Fana, dell’Institut des hautes etudes politiques de Paris, Dario Guarascio e Valeria Cirillo della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa) che hanno incrociato i dati sull’occupazione e i contratti di Istat, Eurostat e Inps. Il lavoro, che certo parte da un punto di vista critico nei confronti delle misure approvate dal governo Renzi, è comunque basato sui numeri e ci dice che le nuove tipologie di contratto non hanno determinato una crescita del tempo indeterminato, che la maggior parte dei nuovi contratti è la trasformazione di una tipologia in un’altra – un dato potenzialmente positivo, se quei contratti a tempo indeterminato dureranno oltre la fine degli incentivi – e che il vero effetto positivo il Jobs Act lo ha avuto nel far crescere in maniera esponenziale il numero dei contratti a termine.

L’obiettivo dell’analisi statistica degli economisti è triplice: «studieremo se la riduzione del costo dei contratti a tempo indeterminato determina l’aumento di quel tipo di occupazione e un conseguente calo delle forme atipiche o del lavoro a tempo determinato»
In secondo luogo, studieremo il contributo di altre politiche per l’occupazione come il fondo di garanzia europeo per la gioventù e infine ci occuperemo delle tendenze emergenti del lavoro atipico, la qualità di quei posti di lavoro in termini di potenziale di crescita e di produttività.

«I dati mostrano che tra gennaio e luglio 2015, solo il 20% delle nuove assunzioni è con un contratto stabile. In particolare, le nuove posizioni a tempo indeterminato sono una minoranza (…) la maggior parte di questi sono posizioni passate dal tempo determinato all’indeterminato» continuano gli economisti.

«Osservando i dati sui nuovi contratti e l’orario di lavoro si osserva che i lavori part-time sono il numero più alto. (…) Nel corso del secondo semestre del 2015, l’incidenza del part-time involontario rappresenta il 64,6% del totale lavoro a tempo parziale. Infine, secondo l’INPS, le assunzioni con il ‘contratto a tutele crescenti’ percepiscono un salario mensile più basso dell’1,4% rispetto a chi è stato assunto prima del Jobs Act».

Altro effetto sorprendente è quello per cui, con l’entrata in vigore del Jobs Act e degli incentivi fiscali per le assunzioni diminuisce il numero di contratti a tempo indeterminato: il 63% dei lavoratori assunti nei primi nove mesi dell’anno – 158 su 253 migliaia – ha un contratto temporaneo. Gli economisti segnalano come la liberalizzazione dei contratti a tempo determinato (prima era fissato un tetto percentuale sul totale degli assunti) abbia quindi avuto più ascolto da parte delle imprese che non gli incentivi sull’indeterminato o la possibilità di licenziare.

Inoltre, sul totale dei nuovi occupati, i contratti stipulati utilizzando l’incentivo della de-contribuzione sul costo del lavoro (che costa 21mila euro di mancate entrate alle casse dello Stato), sono nove su 10.

Il fallimento del Jobs Act è segnalato dall’aumento degli inattivi. I dati Eurostat indicano un passaggio cospicuo di persone dall’inattività alla disoccupazione e numeri più bassi della media europea nella transizione tra disoccupazione e occupazione (tradotto: più gente smette di cercare lavoro che in Europa, meno gente trova lavoro che in Europa).

La legge, come evidenziato anche dagli ultimi dati rilevati dall’Istat Jobs sta riducendo il tasso di disoccupazione dei lavoratori più adulti, mentre «il tasso di occupazione dei giovani, rimane al suo livello più basso – 15,1% alla fine del secondo trimestre del 2015». Gli autori notano infine come tra i nuovi lavori ce ne siano soprattutto nel settore dei servizi a bassa qualifica (una dinamica, del resto, comune a molto Paesi: negli Usa dopo la recessione e fino a pochi mesi fa è successa la stessa cosa). Occorrerà guardare bene i dati degli ultimi due mesi, quando l’avvicinarsi della fine degli incentivi fiscali alle assunzioni potrebbe determinare una crescita dei nuovi contratti a tutele crescenti. Sarebbe però un effetto determinato dal risparmio che sta per scadere. In termini di rilancio dell’occupazione, probabilmente, non servono regole nuove ma una politica economica e industriale. Quella che, anche per causa dei parametri imposti dall’Europa e alla mancanza di risorse, tutti nominano e nessuno che sidea a Palazzo Chigi sa immaginare.

Nati liberi e uguali, la storia della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

Mai come oggi ci sarebbe la necessità di applicare la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Tutti gli uomini nascono liberi e uguali, tutti hanno libertà di pensiero e di espressione, tutti sono uguali davanti alla legge e possono chiedere asilo. Tutti hanno il diritto alla vita. Tutti hanno diritto all’istruzione e a realizzare una vita degna. Tutti, proprio tutti. Al di là della religione, della razza e del sesso e al di là dello Stato in cui vivono.

È vero, sono solo parole, ma mai prima di allora erano state scritte così chiare, nero su bianco. Nel 1948, dopo la tragedia della seconda guerra mondiale gli Stati che nel ’45 avevano dato vita alle Nazioni Unite, compresero che «il riconoscimento della dignità di tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo», si legge nel preambolo della Dichiarazione approvata il 10 dicembre a Parigi. Oggi, in un tempo in cui si avverte forte la minaccia della guerra e del terrorismo, in cui la diseguaglianza ha raggiunto livelli insopportabili nel mondo, in cui i pregiudizi, il fondamentalismo di ogni tipo e il razzismo schiacciano le persone entro confini in cui l’esistenza è sempre più abbrutita, la Dichiarazione del ’48 appare come un faro nella notte.

Eleanor, la donna della Dichiarazione

C’è una donna dietro alla Dichiarazione universale dei diritti umani approvata il 10 dicembre 1948. Eleanor Roosevelt è considerata un po’ l’artefice della Carta nata dalle ceneri della seconda guerra mondiale. Moglie di Franklin Delano Roosevelt, il padre del New Deal, in realtà era sua cugina mentre lo zio di entrambi era Teodore Roosevelt, altro presidente degli Stati Uniti. Eleanor per tutta la sua vita si è battuta per i diritti civili, delle donne e delle minoranze, ha guidato la reazione in patria sotto la seconda guerra mondiale e in seguito è stata una fiera oppositrice del maccartismo e della campagna anticomunista negli Usa sorta con la guerra fredda. Ma non era sola quel 10 dicembre del 1948 a Parigi. Al Palais de Chaillot, davanti alla Tour Eiffel c’erano gli altri membri del comitato di redazione che portò all’approvazione dei trenta articoli più lungimiranti che siano mai stati scritti sui diritti degli esseri umani.

Come si arrivò alla Dichiarazione

Oltre a Eleanor, americana, c’erano altri personaggi che arrivavano dai quattro angoli del mondo. Eccoli: René Cassin, giurista e diplomatico francese, era uno dei principali ispiratori, anzi, è considerato il padre spirituale della Dichiarazione. Del resto la Francia aveva già rotto molti tabù con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Poi c’era il canadese John Peters Humphrey, anche lui giurista e considerato uno dei padri del sistema di tutela dei diritti umani. E ancora: l’australiano William Hogdson, il cileno Hernan Santa Cruz, il sovietico Alexander Bogomolov, il libanese Charles Habib Malik, relatore del Comitato, il cinese Peng Chun Chang e il britannico Charles Dukes.

Il voto dell’assemblea

La dichiarazione venne approvata da 48 dei 58 Stati che allora facevano parte dell’assemblea generale dell’Onu. Due Stati non presero parte al voto: lo Yemen e l’Honduras mentre otto si astennero, e già da questo fatto, si comprende che aria tirasse dentro i loro confini. Per esempio uno fu il Sudafrica che allora era in pieno apartheid e che quindi non poteva votare sì a un’uguaglianza tra gli esseri umani senza distinzione di razza. Ma c’era anche l’Arabia Saudita, che già allora non digeriva la parità di diritti tra gli uomini e le donne. E poi, ad astenersi furono anche dei Paesi del blocco sovietico: Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia e Unione Sovietica (Russia, Ucraina, Bielorussia). Pur professandosi comunisti contestavano il comma 1 dell’articolo 2 che sancisce che «a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origina nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione». Tutti questi principi non andavano bene…

Gli articoli più belli, oggi traditi

 Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.

Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù.

Articolo 5

Nessun indiividuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizioni crdeli, inumani o degradanti.

Articolo 7

Tutti sono uguali davanti alla legge

Articolo 13

Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. E ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio.

Articolo 14

Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni.

Articolo 18

Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione.

Articolo 19

Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione.

Per leggerla tutta qui.

I tre sindaci nel Paese delle Meraviglie

Che si tratti davvero dell’inizio di una presunta scalata di Giuliano Pisapia al PD mi viene difficile pensarlo tenendo conto della cura che il Sindaco ha per la sua Milano e che certo non svenderebbe per interessi personali. Eppure la lettera di Doria, Pisapia e Zedda in cui chiedono (ma esattamente: a chi?) di tenere unita la sinistra (che si può tradurre più prosaicamente “con il PD”) è rivelatrice di alcuni difetti tipici di una realtà politica talmente liquida e destrutturata (nel suo aspetto valoriale oltre che organizzativo) da permettere con estrema facilità di spostare il centro della discussione a piacimento.

Certo è naturale (e paternalistico) che ogni sindaco veda nella propria esperienza amministrativa un piccolo laboratorio ma risulta piuttosto avventato e presuntuoso credere di essere, personalmente, un paradigma buono anche su scala nazionale. Mi spiego: che a Milano, Cagliari e Genova il PD e la “sinistra” abbiano dimostrato di governare più o meno bene è fuori discussione ma non possono credere i moschettieri arancioni che non si sappia quanto questo, molto spesso, sia avvenuto “nonostante il PD”, tanto per citare la battuta scherzosa che in privato ripete spesso uno dei tre. Forse sarebbe utile che, scendendo un secondo dal comodossimo posto del buon pontiere (e pompiere), i tre si prendessero la briga di percorrere il percorso inverso e trovassero una collocazione nazionale ad una sintesi (funzionale e funzionante) che non trova riscontro nel quadro politico e parlamentare.

Perché piuttosto che non leggere l’Italia per salvare il “modello Milano” (o Cagliari o Genova) non si pensa a scrivere quel modello su una scala più ampia? Cosa c’entra la gestione dell’emergenza umanitaria di Perifrancesco Majorino (assessore a Milano e piddino) con la pratica nazionale? Nulla. Cosa ha a che vedere il modello di welfare che hanno in mente i tre “arancioni” con quello del Governo Renzi? Poco. Quanta laicità (milanese, genovese o cagliaritana) c’è nella politica nazionale? Tracce, forse. E allora perché i tre sindaci nel Paese delle Meraviglie non si mettono a disposizione, anche loro in prima persona, per costruire un Paese diverso?

Ha ragione Fratoianni a dire che il disegno prospettato in quella lettera a Repubblica dei sindaci si può realizzare appena il Governo ritira jobs act, riforma della scuola e legge elettorale, tanto per iniziare: non si può fingere di non avere visto, di non esserci stati, in questi anni di Montismo e Renzismo.

Altrimenti sembra come quando si giocava da piccoli a calcio quelle partite interminabili che duravano dal mattino fino a che c’era luce, la sera tardi, e ogni volta qualcuno, convinto di essere scaltrissimo, della squadra dei perdenti, a  pochi minuti dalla fine dei giochi con un’espressione aliena e divertita gridava “chi segna questo vince!”, convinto della supremazia dell’ultima occasione sulla realtà dei fatti. Quando succedeva solitamente gli altri giocatori lo guardavano con un misto di stupore e compassione raccogliendo in silenzio la bici e i giubbotti per tornare verso casa. Ecco, una cosa così.