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Le donne e i bambini contro la mafia nelle foto di Letizia Battaglia

Sono immagini di donne, bambine, sguardi diretti che feriscono. Oppure sognanti e velati di malinconia. Sono gesti quotidiani, nei campi d’estate, per i vicoli ombrosi in città, «catturati nella crudezza del bianco e nero, in una Sicilia fuori dal tempo».

È una Sicilia poetica, dura e selvaggia quella che Letizia Battaglia racconta con le sue fotografie in elegante e scontroso bianco e nero.

Sono foto di una bellezza che non lascia scampo quelle che s’incontrano nella mostra Qualcosa di mio in corso al Museo Civico di Castelbuono. Curata da Alberto Stabile e Laura Barreca, l’esposizione è stata presentata lo scorso agosto presso l’Ex Stabilimento Florio delle Tonnare di Favignana e Formica, e ora approda, fino al 6 marzo 2015, nelle suggestive ex scuderie del Castello di Ventimiglia, in provincia di Palermo, dove si  trova il Museo di Castelbuono, che co-produce questo evento.

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© Letizia Battaglia

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Nella spiaggia dell’Arenella la festa è finita, Palermo, 1986, © Letizia Battaglia

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© Letizia Battaglia

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Marta, Castelbuono, 2011, © Letizia Battaglia

Il lavoro di Letizia Battaglia, fotoreporter di cronaca per L’Ora di Palermo fin dal 1969, fondatrice nel 1974 dell’agenzia Informazione Fotografica, è noto a livello internazionale soprattutto per le sue coraggiose foto di denuncia della violenza quotidiana portata dalla mafia, per le immagini realizzate dalla metà degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta. Qui invece protagoniste sono le donne, che della mafia e della sua mentalità patriarcale e arcaica sono le prime vittime. «Donne inchiodate ad un ruolo primordiale, come le “spose bambine”, di cui parlava in quegli anni Mario Farinella in una sua memorabile inchiesta sui quartieri poveri. Donne tuttofare. Donne cui è negato il sorriso, il gioco, la felicità», come scrive nelle note che accompagnano questa mostra il curatore Alberto Stabile.

Accanto a immagini di donna con il sangue in tumulto, vitali, piene di speranza, in questa mostra di Letizia Battaglia si trovano molti ritratti di bambini. «L’infanzia, quello stato di purezza fragilissimo, e per questo temporaneo – prosegue Stabile – nella carriera di Battaglia funziona come contraltare, o redenzione, al tanto, troppo dolore impresso negli scatti che l’hanno accompagnata negli anni di piombo a Palermo. Quella Palermo che lei stessa sente malata, e con cui ha intessuto un lunghissimo rapporto di rabbia e di dolcissima disperazione».

La ricerca della verità, che sia una verità di cronaca o una verità poetica, è il cuore della ricerca di Letizia Battaglia; una ricerca che l’ha portata con coraggio a fotografare le vittime di omicidi di mafia, ma qui non c’è il sangue, non ci sono i cadaveri, c’è la vita pulsante di donne e bambini protagonisti di una lotta quotidiana per vivere nonostante il pericolo, nonostante la cappa oppressiva; donne e bambini che in silenzio rifiutano la logica della violenza, sentendo tutto il dolore delle ferite che, prima ancora di essere fisiche,  rischiano di essere interiori.  Al termine dell’esposizione un’opera di Letizia Battaglia entrerà a far parte stabilmente della collezione della mostra.

Foto d’apertura: Le ortensie, Trapani, 1992, © Letizia Battaglia

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La propaganda web dell’ISIS, Google e le sciocchezze di Mr. Trump

Ci risiamo, dopo aver detto che ai musulmani, anche i musulmani americani al momento residenti all’estero, dovrebbe essere impedito di entrare negli Stati Uniti, Donald Trump passa a vietare l’accesso a internet. O almeno così ha suggerito durante un comizio in South Carolina partendo dal concetto che il web è un luogo per la propaganda di ISIS. Bisognerà parlare con Bill Gates e gli altri per convincerli, ha aggiunto, per poi concludere: «Qualcuno tuonerà contro questa proposta urlando “libertà di parola, libertà di parola, è uno stupido, siamo pieni di stupidi».

Per il secondo giorno consecutivo il miliardario Usa fa parlare di sé a proposito di proposte anti-costituzionali che toccano i diritti individuali (negare l’ingresso a qualcuno per via della religione) e la libertà di espressione. Trump non sa di cosa parla e probabilmente sa anche che le sue proposte non potrebbero essere applicate, ma sa che il giochino funziona e che gli consentirà di essere di nuovo l’argomento del giorno sui canali all news. E questo sembra bastargli.

Il tema sollevato è però serio, se è vero che uno dei luoghi della guerra tra l’Isis e il resto del mondo – quella della propaganda – si combatte in rete. Di questo aveva scritto su Medium anche Hillary Clinton, sostenendo che per condurre la battaglia contro il cyber-terrorismo serve l’aiuto della Silicon Valley in maniera da togliere loro territorio virtuale, come vogliamo toglierne loro sul campo». La candidata democratica chiede alla Silicon Valley di chiudere gli account che fanno propaganda ai terroristi.

E’ un tema di cui si parla molto ovunque. Sul New York Times ne ha scritto il presidente di Google, Eric Schmidt. Segno che Silicon Valley sente della pressione addosso e che non sa bene come affrontare il problema. Troppi controlli e collaborazione con le agenzie di intelligence sono qualcosa che Google, Facebook, Twitter &Co vogliono evitare. Lo scandalo Snowden è costato un enorme danno di immagine e di perdita di fiducia nei loro confronti. Al contempo, continuare a sentire i propri marchi collegati agli attentati terroristici, non è una bella propaganda.
Schmidt scrive: «Come per tutti i grandi progressi tecnologici, il Web ha anche portato con sé grandi sfide, come le minacce alla libertà di parola e paure per attività terroristiche online». C’è sempre qualcuno pronto a usare nuovi strimenti per fare del male: «Da quando c’è il fuoco, ci sono gli incendi dolosi».
«Dovremmo costruire strumenti per contribuire alla de-escalation delle tensioni sui social media – un po’ come correttori automatici per i discorsi d’odio e le molestie. Dovremmo prendere di mira gli account social dei gruppi e rimuovere i video prima che si diffondano». Dopo un’appassionata difesa del Web, Schmidt chiama alla collaborazione di governi, imprese che lavorano su tecnologia e rete e società civile

Facile a dirsi, quanto difficile a farsi. Un piccolo esempio è proprio la pagina Facebook di Left, che per alcuni giorni dopo gli attentati di Parigi è stata colpita da censure preventive ogni volta che la redazione postava notizie che contenessero la parola ISIS o terrorismo nei titoli. I logaritmi non sono intelligenti e non distinguono bene: il rischio è quello di una censura indiscriminata come quella che vorrebbe Trump. Che sarebbe un danno incalcolabile per Schmidt, Zuckerberg e tutti gli altri. E che sarebbe qualcosa di molto simile a quanto succede in Cina, in Russia o in Arabia Saudita.

Su Foreign Affairs, Jared Cohen, direttore di Google Ideas e già impiegato dal Dipartimento di Stato (e quindi probabile punto di raccordo tra il colosso di internet e l’intelligence) fa il punto sulla “contro-insurrezione digitale”.

«Un controinsurrezione efficace richiede una buona comprensione della gerarchia dell’ISIS. A differenza di al Qaeda, che comprende un gruppo di cellule isolate, il Califfato ha una struttura simile a quella di una società. Sul terreno in Iraq e la Siria, la leadership imposta il suo programma ideologico, una struttura gestionale he implementa questo programma, e una la truppa dei combattenti, reclutatori, operatori video, mogli di jihadisti, e tecnici di vario ordine e grado. Una gerarchia simile la ritroviamo online con quattro tipi di combattenti digitali: il comando centrale per le operazioni digitali, che dà gli ordini e fornisce le risorse per la diffusione di contenuti. Anche se i suoi numeri sono piccoli, le sue attività sono altamente organizzate».

Secondo un rapporto di Brookings institution che ha monitorato le attività degli account Twitter di ISIS, la maggior parte del materiale pubblicato può essere ricondotto a un numero ridotto di account con rigorose impostazioni di privacy e pochi seguaci – tra 500 e 2mila, contro le decine di migliaia di account “tifosi”. Poi ci sono i combattenti, che disseminano il prodotto e i cui account vengono individuati e chiusi più rapidamente e che lavorano in coordinamento con la testa. Questi comprano followers per moltiplicare la visibilità del messaggio o usano tecniche di guerrilla marketing come l’utilizzo di hashtags che nulla hanno a che vedere con il messaggio stesso: ad esempio quelli più diffusi durante la Coppa del mondo di calcio. Infine la base di sostenitori, che non ha collegamenti diretti, ma simpatizza con i contenuti e li diffonde e gli account generati da robot, che a loro volta moltiplicano il numero di tweet e fanno crescere certi hashtag.


 

I numeri di ISIS su Twitter

Tra settembre e dicembre 2014 lo studio Brookings individua 46mila account Twitter utilizzati da sostenitori dell’ISIS – ma la stima è che ce ne fossero attivi 70mila. La gran maggioranza proveniva dai territori del Califfato tra Iraq e Siria, un quinto degli account usava l’inglese, mentre tre quarti scrivevano in arabo. Gli account avevano in media mille followers e tendevano ad essere più attivi della media degli account del social network da 140 caratteri.

(Brookings Istitution)


 

Il centro sul monitoraggio del Program on Extremism della George Washington University ha prodotto un rapporto sugli account filo-ISIS attivi negli Stati Uniti, monitorandone 300. Un terzo erano donne, quasi tutti comunicavano in inglese usando come foto dei profili leoni, bandiere verdi e uccelli verdi (simbolo del martirio).

Certo è che il centro delle attività resta il territorio controllato direttamente da Daesh. Un segnale aggiuntivo di quanto siano studiate e controllate le comunicazionie. Una controprova di questa centralizzazione è il monitoraggio delle attività online di ISIS condotto dall’International Center for the Study of Radicalization, che segnala come il numero di post, filmati, foto e tweet, dopo un picco della scorsa estate, sia in calo negli ultimi mesi. La spiegazione data dai ricercatori è legata alle perdite sul terreno: molti dei personaggi più noti online sarebbero morti in combattimento in Siria, così come l’area controllata dal Califfato è diminuita. A peggiorare è anche la qualità dei filmati, che prima erano tutti rigorosamente montati come si deve, girati con maestria e utilizzando macchine di qualità e oggi sono meno accattivanti che in passato (eccezion fatta per quelli postati direttamente da Raqqa).

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(ISIS online nel 2015: temi militari/non militari/religiosi.International Center for the Study of Radicalization)

Come fermare questa macchina? Cohen ha in mente due o tre strategie che divergono dal tiro al piccione in stile Anonymous, che a ondate successive hackera account sui social network collegati all’ISIS. Il rischio in quei casi è quello di colpire a casaccio e, magari, far sparire account che è utile monitorare o quello di non riuscire a ricostruire la struttura, arrivare alla fonte del messaggio.

La prima proposta di Cohen è quella di marginalizzare ISIS sui social network separando gli account reali da quelli robot, individuando la struttura e colpendo in forma mirata gli account legati al Comando centrale per le operazioni digitali. Più disarticolata è la rete e più difficile diffondere il messaggio in maniera globale per la testa del Califfato, che a quel punto dovrebbe usare di più il deep web, dove potrebbe coordinare (ed essere più facilmente rintracciato dalle agenzie di intelligence), ma non fare propaganda.

Poi ci sono le campagne per isolare culturalmente Daesh e il suo messaggio. «Per essere efficaci, queste campagne hanno bisogno di riflettere la diversità dei ranghi del gruppo: combattenti professionisti jihadisti, ex soldati iracheni, studiosi islamici profondamente religiosi, giovani in cerca di avventura, i residenti locali che aderiscono per paura o ambizione. Messaggi religiosi moderati possono funzionare per la recluta pia, ma non per l’adolescente britannico solitario che è stato promesso più di una moglie e di un senso di appartenenza in Siria. Egli potrebbe essere meglio serviti da qualcosa di più simile alle campagne di prevenzione al suicidio e anti-bullismo». Il messaggio deve essere puntuale e pensato per attori diversi, che altrimenti, le grandi campagne istituzionali (o le prese in giro delle papere dell’ISIS come quelle qui sotto) rischiano di essere viste da persone a cui piace l’idea della campagna, a cui piace prendere in giro ISIS, ma non funzionare sul pubblico a cui dovrebbero essere dirette.

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Le ricette, insomma, sono complicate e richiedono grandi investimenti, capacità, esperienza. Chiudere il web come suggerisce Donald Trump serve a guadagnare qualche consenso nell’elettorato repubblicano che chiede soluzioni difficili a questioni enormi.

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Pisapia, Doria e Zedda rivogliono il vecchio centrosinistra. Ma esiste ancora?

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Geniale è la battuta di Ellekappa: «Appello di Pisapia, Doria e Zedda per l’unità di tutta la sinistra. Poi lo spediscono a Babbo Natale, immagino». I tre però l’hanno spedita a Repubblica, la lettera in cui chiedono di «ritrovare quell’unità aperta e larga del centrosinistra che, sola, può ridare fiducia alle cittadine e ai cittadini italiani».

Lo spauracchio della Francia, dell’avanzata della destra più radicale, è l’attacco. Poi c’è un richiamo a «un approccio ideale e non ideologico». Firmato Pisapia da Milano, Doria da Genova, Zedda da Cagliari. Sono i tre sindaci simbolo del centrosinistra dei tempi di Bersani. «È indispensabile», scrivono, «ripartire dalle forze politiche che, insieme al civismo autentico, compongono, in gran parte d’Italia, il centrosinistra e che, con differenze ma unità di intenti, hanno saputo vincere e governare». «Quelle forze sono principalmente il Partito Democratico, perno e componente maggioritaria, e Sel», e sì, è «uno schema diverso rispetto a quello del governo nazionale, dove Sel è all’opposizione. Ma noi auspichiamo e lavoriamo affinché questa fase sia un momento transitorio».

I tre – tutti eletti in virtù di elezioni primarie che li vedevano sostenuti da Sel e da un fronte “arancione” nel caso di Doria e Pisapia – si pongono così in aperta opposizione alla linea che Pippo Civati, su tutti, sta imponendo alla sinistra. Civati dice che mai ci si può alleare con il Pd. Si è arrivati all’eccezione di Cagliari – dove Zedda ha già in tasca la coalizione che dice di auspicare – ma a Torino, a Roma, a Napoli, a Bologna, il modello sarà quello e anche Sel, guidata da Nicola Fratoianni, è ormai d’accordo. Fratoianni e Stefano Fassina, ad esempio, hanno detto che a Milano alle primarie – dove pure Sel voleva sostenere Francesco Majorino – non si può partecipare se c’è la candidatura di Sala. «Perché se poi vince Sala bisogna sostenerlo», dicono entrambi, ed è meglio non correre il rischio.

Il braccio di ferro è così dentro Sel, in particolare, dove la linea di Fratoianni non è condivisa da tutti. Con alcuni esponenti locali – in Piemonte tra le prime c’è l’assessore regionale Monica Ceruti – che sottoscrivono al volo l’appello e cercano così di riportare la sinistra nella coalizione. L’assist – si spera involontario – è però a Matteo Renzi che già da alcune settimane ha cominciato la campagna del voto utile, sottolineando come sia esclusiva volontà della sinistra, la rottura, come se nulla importasse che ormai da tre governi il Pd stia in maggioranza con Alfano, faccia le riforme che piacciono a Sacconi e a Napoli – ad esempio – abbia composto per la prima volta una coalizione che vanta formalmente l’apporto dell’Udc e di Ncd.

Tutti i giorni succede un “mai più!”

“Nunc et in hora mortis nostrae. Amen.”
La recita quotidiana del Rosario era finita. Durante mezz’ora la voce pacata del Principe aveva ricordato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz’ora altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio ondeggiante sul quale si erano distaccati i fiori d’oro di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e durante quel brusio il salone rococò sembrava aver mutato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimiditi; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era sembrata una penitente anziché una bella biondona, svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva sempre.

(Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo)

Ottanta volte “mai più!”. Il primo fu il piccolo Aylan, spiaggiato morto con i polmoni pieni d’acqua in posa di una moderna pietà, con un poliziotto al posto di Maria e lui raccolto come un fagotto al posto del cristo. Chissà che ne sanno della guerra e dell’Europa quei bambini che si imbarcano in qualche bagnarola del mare in mezzo agli adulti con le dita incrociate per sperare di approdare davvero in un posto qualsiasi.

Il “mai più!” dopo la foto di Aylan Kurdi era risuonato gridato a pieni polmoni da tutte la parti d’Europa, con i leader in prima fila a dirci che “no, non si può continuare così” e che “siamo tutti colpevoli”. E vi ricordate tutti quanto l’immagine sia rimbalzata da tutte le parti, dalle bacheche di Facebook ai giornali, settimanali e blog sparsi in giro. Si era anche pensato che la forza di un’immagine, con tutte i dubbi etici nel renderla pubblica, avrebbe dato un senso a quella morte così osservata, distribuita e commentata. Quel “mai più!” all’unisono forse davvero aveva acceso l’idea che qualcosa cambiasse.

Sette bambini, di cui uno neonato, sono morti nelle scorse ore nella stessa zona del Mar Egeo: alle 2.30 di notte un gommone di profughi afghani diretti a Chios si è rovesciato uccidendo, tra gli altri se bambini tra cui uno di appena sei mesi e a poche ore di distanza sulla spiaggia di Pirlanta, a Cesme, il mare ha restituito il corpo di una bambina siriana di 5 anni. “Mai più! risputati come noccioli sulle spiagge tra le rotte della speranza, solo che questa volta fanno molto meno rumore: del resto sono 80 i bambini morti da quel giorno di Aylan. Ottanta.

È come la continua ultima sigaretta di Zeno che trova sempre un motivo per spostarsi al domani in una lenta e ciclica posticipazione delle proprie responsabilità. Mi chiedo che forma abbiano questi ottanta “mai più!” morti dopo il primo: se sono il frutto di un’indifferenza su cui non riusciamo proprio a non appoggiarci oppure ha il gusto rancido della retorica abusata dalla politica, mi domando se un “mai più!” ripetuto ottanta volte senza che nulla cambi sia un buon capitolo aggiuntivo di un Gattopardo moderno oppure più semplicemente il mantra di una fallimento svuotato dal senso originale.

E chissà che a qualcuno non vengano, prima che ne muoiano altri ottanta, in mente parole nuove che spezzino questa catena che ci ritrova costretti ad abituarci alle tragedie peggiori. Perché un promessa ripetuta senza essere mai rispettata è un colpa che davvero no, non dovremmo farci infliggere. Eppure succede.

 

 

Fucili d’assalto, missili anticarro e non solo. Chi e perché ha armato Isis

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Per costruire uno Stato serve un esercito e a un esercito servono delle armi. È così che almeno a partire dal 2003 il sedicente Stato Islamico non ha solo tentato di reclutare da ogni parte del mondo foreign fighters pronti a commettere le peggiori atrocità, ma anche un vero e proprio arsenale di fucili, pistole, granate, mine, addirittura sistemi di difesa contraerea portatili. Ma quante sono e da dove vengono le armi di Isis? Chi e perché ha armato il gruppo estremista autore di stragi e crimini contro l’umanità? Molte risposte possono essere ritrovate nel report Taking stock: the arming of Islamic State appena rilasciato da Amnesty International dove si traccia un bilancio completo sui materiali bellici finiti nelle mani di Daesh, oltre a proporre una serie di soluzioni per bloccare la corsa agli armamenti di Abu Bakr al-Baghdadi. Lo studio commissionato da Amnesty a Ares (Armament Reserch Services), un’organizzazione politicamente indipendente specializzata in temi reletivi armamenti e munizioni, è stato condotto analizzando migliaia di immagini e centinaia di video clip di cui si era verificata l’attendibilità girati nei territori siriani e iracheni passati sotto il controllo di Is. Questi materiali hanno permesso di stilare una lista dei vari tipi di armi che attualmente sono nelle mani dello Stato Islamico e di capire quale potesse essere la loro provenienza. Le milizie di Daesh possono contare su un arsenale composto da pistole, rivoltelle e altre armi leggere, mitragliatrici e altra artiglieria, ma anche armi più avanzate come i ManPads, ovvero dei sistemi di difesa aerea portabili a spalla, missili anticarro guidati, veicoli blindati da combattimento, fucili d’assalto come gli Ak russi, gli M16 e i Bushmaster statunitensi. Secondo Ares questo “tesoro a mano armata” sarebbe stato trafugato dai depositi d’armi in Iraq e proveniente da circa 25 Paesi, Russia, Stati Uniti e Cina in primis, ma anche Stati europei come l’Italia. «La quantità e la varietà delle armi nelle mani dello Stato Islamico è l’esempio da manuale di come commerci irresponsabili di armi alimentino atrocità di massa» spiega Patrick Wilcken, ricercatore di Amnesty International esperto di controlli sulle armi, commerci di materiali di sicurezza e violazioni dei diritti umani.

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Un miliziano di Is a bordo di un carro che trasporta un missile

«La scarsa regolamentazione e la mancata supervisione sull’immenso afflusso di armi in Iraq a partire da decenni fa – continua Wilcken – sono state una manna dal cielo per Is e altri gruppi armati simili che, in questo modo, si sono trovati a disporre oggi di una potenza di fuoco senza precedenti». Tutto questo in sostanza è la diretta conseguenza dei trasferimenti irresponsabili che ci sono stati in Iraq già a partire dagli anni 70 e poi dall’80 quando l’allora dittatore Saddam Hussein invase parte dell’Iran di Khomeini dando il via a una guerra che si protrasse fino al 1988. All’epoca infatti a fornire armi a Saddam furono ben 34 Paesi, 28 dei quali non disdegnarono lo stesso commercio anche con l’Iran. Dopo una pausa nel traffico a seguito dell’embargo promosso dalle Nazioni Unite nel 1990, con l’intervento militare Usa del 2003 i depositi iracheni hanno ricominciato a riempirsi di armi senza che ci fosse un efficace sistema di monitoraggio ad impedire che quel materiale finisse nelle mani sbagliate. Ad aggravare la situazione hanno poi contribuito anche la carenza di sorveglianza dei depositi militari, facilmente assaltabili, e la corruzione mostrata dai vari funzionari dei governi iracheni che rendevano tutto sommato facile trafugare delle armi o acquistarle illegalmente. Tra il 2011 e il 2013, gli Stati Uniti hanno sottoscritto contratti con l’Iraq per la fornitura di 140 carri M1A1 Abrams, decine di aerei F16, 681 Stinger, dei missili terra-aria che possono essere portati in spalla, batterie antiaeree Hawk e altri equipaggiamenti. Il loro valore si aggira attorno a svariati miliardi di dollari. Solo nel 2014 infatti gli Usa avevano inviato al governo iracheno armi leggere e munizioni per l’ammontare di oltre 500 milioni di dollari e succesivamente le forniture sono proseguite, nell’ambito del Fondo del Pentagono per l’equipaggiamento e l’addestramento dell’Iraq che ammonta a 1,6 miliardi di dollari, comprendendo tra l’altro circa 43.200 fucili M4.
Ora il timore è che tutto questo possa o sia già finito nelle mani degli jihadisti.
Le armi e le munizioni utilizzate da Daesh per portare avanti la Jihad e consolidare l’avanzata in Medio Oriente e trafugate dai depositi iracheni, come abbiamo detto, provengono da almeno 25 Paesi. Gran parte come spiegato sopra era stata originariamente fornita all’esercito iracheno dagli Stati Uniti, ma la Russia e i Paesi dell’ex blocco sovietico non sono stati da meno nel fornire il loro “contributo”. All’epoca il materiale bellico fu acquistato con il petrolio oppure oggetto di accordi presi fra il Pentagono e la Difesa irachena e di donazioni da parte della Nato. Quando poi i depositi sono finiti in mano dello Stato Islamico anche le armi sono passate a Is o, se così non era, venivano comunque acquistate illecitamente da trafficanti e funzionari corrotti. Secondo Wilken: «Ancora una volta dobbiamo constatare che per inviare armi in regioni politicamente instabili e in stato di guerra sono fondamentali un’analisi del rischio da parte di esperti e misure di riduzione del danno. Entrambe sono procedure piuttosto lunghe e complesse che richiedono verifiche approfondite. Una delle cose che va appurata ad esempio è proprio la capacità dell’esercito del paese destinatario di sorvegliare e custodire efficacemente i depositi, oltre che ovviamente rispettare gli standard fissati dal diritto internazionale e i diritti umani». Ad oggi secondo Amnesty, Is avrebbe anche cominciato a produrre in proprio degli armamenti. Tra questi oltre a razzi, mortai e granate, ci sono anche ordigni esplosivi improvvisati, trappole esplosive, autobombe e persino le bombe a grappolo, proibite proprio a livello internazionale. Tra gli ordigni esplosivi improvvisati si contano anche le mine antiuomo, anch’esse messe al bando da un trattato ratificato a livello internazionale.
Il 15 agosto 2014 il Consiglio di sicurezza del’Onu ha rinnovato con la risoluzione 2170 l’embargo sulle forniture di armi al sedicente Stato Islamico e al gruppo armato Fronte al-Nustra, affiliato di al-Qa’ida. Secondo Amnesty International questa misura risulta però insufficiente per contrastare un traffico di armi che sembra non solo fuori controllo, ma anche il mezzo attraverso il quale Daesh mette in atto, con torture e violenze di ogni tipo anche sui civili, un vero e proprio regime di terrore. È per questo che l’organizzazione chiede a tutti gli stati di stabilire un embargo totale nei confronti del governo siriano e dei gruppi armati di opposizione, dove si sta combattendo una guerra di logoramento e le milizie di Is avanzano con il rischio, come è già accaduto in Iraq, di conquistare nuovi depositi di armi o di avere accesso a rifornimenti bellici in modo illegale corrompendo dei funzionari. Secondo Amnesty gli Stati dovrebbero inoltre adottare la regola della “presunzione del rifiuto” nei confronti delle esportazioni di armi verso l’Iraq, ossia autorizzare i trasferimenti solo dopo aver accertato i rischi e l’effettiva capacità delle forze militari irachene nel gestire e tenere al sicuro il materiale, evitando così in ogni modo che le forniture vengano girate a gruppi armati.

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Deposito d’armi in Siria

Secondo Wilcken: «Le conseguenze della proliferazione delle armi e delle violazioni dei diritti umani in Iraq e nelle zone circostanti hanno già distrutto la vita e i beni di milioni di persone e costituiscono una minaccia ancora in corso. Le implicazioni di una fornitura irresposabile di armi all’Iraq e alla Siria e il rischio concreto di una loro “cattura” da parte di Daesh, devono essere un campanello d’allarme per gli esportatori di armi di tutto il mondo». Tra questi ovviamente non manca l’Italia. Secondo il rapporto di Amnesty International infatti anche il nostro Paese può aver giocato un ruolo non indifferente nell’armare ls, visto che secondo fonti ufficiali statunitensi avrebbe rifornito durante la guerra del 1980-88 sia l’Iraq che, in maniera meno trasparente, l’Iran.
Inoltre come si legge nel report di Amnesty:

Dal 2003, l’Italia ha partecipato alla cosiddetta “guerra al terrore”, nel cui contesto fu concessa ulteriore libertà di trasferire armi all’Iraq, attraverso l’Iraq Relief and Reconstruction Fund, prima, e tra il 2004 e il 2007 l’Iraq Security Forces Fund. Ciò esentava il Pentagono dal doversi conformare a qualsiasi disposizione di legge, incluse quelle relative ai diritti umani. In quegli anni, mentre finivano in circolazione le scorte eccedenti delle forze armate irachene sconfitte e poi congedate, la coalizione guidata dagli Usa firmò contratti per almeno un milione di dollari in ulteriori armi leggere e milioni di munizioni, provenienti anche dall’Italia. L’ascesa dello “Stato islamico” e le sue conquiste territoriali tra giugno e agosto 2014 hanno determinato un grande cambiamento nelle politiche internazionali relative alla fornitura di armi nella regione. Nel 2014, infatti, gli Usa hanno coordinato sforzi congiunti per rispondere alla domanda di armamenti dell’Iraq cominciando a rifornire regolarmente, insieme ad altri 11 paesi europei tra cui l’Italia, anche le forze curde che si opponevano nel paese allo “Stato islamico”.

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Noi che non gioiamo per il giubileo. Ecco come fu inventato l’affare del perdono dei peccati

giubileo della misericordia

Che non siamo il giornale giusto per gioire del giubileo… lo sapete, salviamo niente persino di questo papa che piace tanto. Vivere a Roma rende questo giubileo pesantissimo e assurdissimo. Mentre chiudono luoghi di accoglienza, anzi direi luoghi di uguaglianza come il Baobab, si militarizza la città e si celebra l’ennesima assurdità. Il perdono dei peccati. Lo abbiamo scritto sulla carta questa settimana, l’affare del perdono dei peccati è antico e semplice. Terribilmente terreno, frutto “non” proibito della Roma papalina peggiore. Che ebbe come unico risultato la ribellione di Lutero. Oggi, storditi e militarizzati, possiamo solo cercare di evitare il peggio, di proteggerci dalla melassa dei giornali italiani, dalla spettacolarizzazione di una sofferenza personale deformata in peccato da perdonare. Possiamo solo cercare di raccontarvi come e perché siamo arrivati a questo. Come e perché Bonifacio VIII sfruttò la “perdonanza” istituendo il primo Anno santo. E poi occuparci di altro.

Benedetto Caetani, alias Bonifacio VIII, inventore del primo anno santo, è uno di quei personaggi che fa tanto “secoli bui”. Esponente di una delle famiglie romane più potenti, in eterna lotta con l’altra, quella dei Colonna, con la bolla Antiquorum habet fide relatio (Un documento degno di fede), il 22 febbraio del 1300 pensò bene di offrire ai pellegrini in arrivo nella città santa la “grande indulgenza”. E cioè “piena perdonanza” a tutti quei romani che per 30 volte avessero visitato le due basiliche di San Pietro e di San Paolo. Mentre per i pellegrini che provenivano da fuori Roma ne bastavano 15. Il risultato? La salvezza dell’anima ma anche del corpo. Perché con l’indulgenza plenaria si cancellavano per intero gli effetti negativi (pena temporale) di qualsiasi peccato. Più o meno lo stesso trattamento che veniva riservato a chi partiva per la Crociata. Eccezioni? Certo! Erano esclusi dalla salvezza: i cristiani che commerciavano con i Saraceni, il re Federico di Sicilia, con i siciliani, tanto per dare una bottarella al nemico (Federico occupava il regno contro il volere della Chiesa) e i Colonna (inclusi tutti i loro fiancheggiatori, finché non si fossero sottomessi alla Sede apostolica). Insomma, il giubileo sin dal suo “concepimento” fu legato a logiche di consolidamento del potere. Non solo economico.

Le migliori gif del “Confused Travolta” virale sul web

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Da qualche giorno la gif di un Vincent Vega/ John Travolta confuso ha letteralmente invaso le nostre bacheche facebook e i nostri profili twitter. Da quei dodici secondi di Pulp Fiction, film cult di Quentin Tarantino, sono scaturiti una serie di fotomontaggi ironici che letteralmente catapultano il povero Travolta in ogni genere di situazioni, da film e serie tv a scene di attualità o vita quotidiana come la coda alla posta o il portafoglio vuoto. Ancora non abbiamo avvistato un Confused Travolta con un Matteo Renzi in bicicletta o impegnato a dire “Shish”, ma siamo fiduciosi e sappiamo che presto qualcuno rimedierà a questa terribile mancanza. Nel frattempo ecco le migliori gif in circolazione:


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Nel labirinto non sense di Escher

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Al cinema con Donnie Darko e il coniglio Frank

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Nella serie tv The walking dead

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Nella doccia del motel di Norman Bates dello Psycho di Hitchcock

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Con l’Adolf Hitler isterico del film “La caduta”

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“lost” in Lost

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Di fronte alla chiesa di Scientology, di cui Travolta è seguace, a Los Angeles

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Alla ricerca dei nostri marò…

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del Molise

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dei soldi che non ci sono

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Nella cucina di Gianni Morandi

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Perplesso di fronte alla doppia spunta di WhatsApp.

Insomma per dirlo con un altro meme:

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Tutti a grufolare nella moderna lettiera a forma di Scala

Alessandro Sallusti con Daniela SantanchË all'apertura della stagione del Teatro alla Scala di Milano con la prima dell'opera "Giovanna d'Arco" di Giuseppe Verdi diretta dal maestro Riccardo Chailly, 7 dicembre 2015. ANSA / MATTEO BAZZI

Ci sono delle mattine in cui mi sento un marziano. Non che mi dispiaccia, per carità: vivere qualche ora da estraneo può essere anche un buon momento di decompressione ma mi turba il senso di lontananza dal mondo e, mi dico, magari sto invecchiando, diventando terribilmente barboso o peggio mi sto rincoglionendo. O forse tutte e tre le cose insieme. Comunque la rassegna stampa di questa mattina è il ritorno al medioevo, peggio: il trionfo del barocco nonostante sia tutto tranne che il tempo degli orpelli, come se ogni anno, in questo benedetto (ma laico) momento ci sia un’ubriacatura generale, un carnevale, per cui ci si mette tutti d’accordo nell’essere tronfi e spostati.

La notizia del giorno in un mondo di Gaza, lavori come miraggi, economie in bilico, terrorismi e genuflessioni, riforme mai realizzate, corrotti a flusso continuo, spari come petardi, mafie galoppanti, poveri invisibili, blocchi mondiali in cagnesco, poteri sibilanti, annegati al chilo, disuguaglianze non curate, passati insabbiati, schiavismi ripetuti, banche pericolanti, democrazie stanche, patti osceni, informazioni ammaestrate, economie dopate, crocchi di olocausti, provvidenziali suicidati, popoli fiacchi, aridità di massa, barbarie legalizzate, crimini legali, diritti solo declamati, oscene comari come classe dirigente, estremismi à la page, cattivismo prêt-à-porter e solitudini croniche, in questo mondo qui, tutti gli anni, come un messa agnostica della bava che diventa grumo tutta nella stessa stanza si celebra la “Prima alla Scala”.

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“Prima alla Scala” scritta con la maiuscola anche sulla “Prima” come diventano maiuscole le parole che non hanno più significato, come se fosse l’acronimo di un feticcio oppure la sigla di un evento sclerotizzato. E così anche oggi è una sfilza di foto, minutaggi applausiferi e pose imparruccate di questo moderno G100 degli esibizionisti dello starci, della volgarità di posizionarsi in un momento che vorrebbe essere cerimonia, arte e invece diventa la riproposizione del vestito del re. Nudo.

La “Prima alla Scala” è l’haka italiana, la danza maori di cui si è perso il significato ed è rimasto solo il rito. Alla “Prima alla Scala” potrebbero anche, l’anno prossimo, mettere in scena una partita di squash tra macachi ma intorno tutto sarebbe identico lo stesso: la “Prima alla Scala” è come il rassicurante, ammaestrato, ritorno alla lettiera del nostro gatto appena sveglio. Uno svuotamento rumoroso e fiero che produce baldanza per le ore successive. Se ci pensate la “Prima alla Scala” non ha niente a che vedere con la musica, men che meno con la lirica, è lontanissima dall’essere esibizioni di canto orchestrale: la “Prima alla Scala” ha lo stesso odore ammuffito delle feste tra colleghi quando si va in pensione e si scarta l’orologio. E, in fondo, ci si ritrova a solidarizzare con chi indossa un patetico tubino stretto di animale morto o con la megera truccata da bambina: provano a toccare i limiti del buongusto perché sanno che sono porte aperte. Tutto è concesso, tutto è spettacolo. Conta esserci. Ma esserci forte. Esserci evidente. Chi grufola con il volume più alto e gutturale vince. Mentre degli sconosciuti in sottofondo cantano parole incomprensibili. In tutti i sensi.

Donald Trump vuole impedire ai musulmani di entrare in America

Il sito è sovraccarico, tornate tra poco. Questo è il messaggio che si poteva leggere sulla pagina web della campagna di Donald Trump. Il motivo è semplice: il miliardario in testa ai sondaggi per le primarie repubblicane aveva appena diffuso un comunicato stampa in cui sosteneva che occorra «una chiusura totale e completa delle frontiere ai musulmani fino a quando non capiremo cosa sta succedendo».
La questione è presto spiegata: secondo Trump un sondaggio non esattamente affidabile commissionato dal Center for Security Policy sostiene che il 25% dei musulmani d’America ritiene che la violenza contro gli Usa sia giustificata, mentre il 50% ritiene che sia suo diritto vivere secondo la sharia. I dati sono discutibili e improbabili, ma anche fosse così, la differenza tra ritienere giusto qualcosa e praticarlo è enorme. Nel primo caso siamo di fronte a un’opinione, nel secondo a un reato. Il reato di opinione, invece, non esiste: lunico reato collegato alla manifestazione del pensiero è l’incitamento all’odio razziale, quello che negli Usa si chiama hate crime (e che diventa aggravante in altri reati in cui il razzismo assume forme violente).

Che a cavalcare l’idea del razzismo istituzionale in un Paese in cui ha fatto scalpore una legge sull’immigrazione in Arizona che consentiva di fermare le chiedere documenti a persone sospette di non essere in regola – che sarebbero state fermate perché ispaniche, e quindi sulla base di una profilazione razziale – è incredibile. Che l’argomento per farlo sia, testualmente: «Da dove questo odio venga e perché si dovrà determinare. Fino a quando non saremo in grado di capire questo problema e la pericolosa minaccia che pone, il nostro Paese non può essere vittime di attacchi orrendi da parte di persone che credono solo nel Jihad, e non hanno alcun senso della ragione o di rispetto della vita umana». Stiamo cercando di capire ma non capiamo, quindi sospendiamo la democrazia per un po’. E’ vero che anche Hollande si è lasciato prendere la mano, ed è vero che siamo in campagna elettorale, ma il fatto che Trump sia un potenziale presidente della prima potenza mondiale fa spavento.

Specie ai musulmani, che si dividerano tra quelli che hanno paura e quelli a cui monterà l’odio nei confronti dell’America.
Come ha twittato Ari Beriman, giornalista progressista Usa, parlando di Faharana Khera, avvocata e presidente di un’associazione di advocacy pro-comunità musulmana, Oggi la comunità islamica è più spaventata che dopo l’11 settembre. E non avevano ancora sentito Donald Trump.

Obama ha condannato la frase di Trump come anti-americana e anche alcuni candidati repubblicani, Jeb Bush in testa, hanno preso le distanze gudicando l’intervento poco presidenziale. Il dato reale è però che la strage di San Bernardino ha fatto irrompere il terrorismo tra i temi di cui discutere in campagna elettorale. E che Trump (e Ted Cruz, che sta crescendo in maniera costante nei sondaggi) lo usano in maniera grave e grottesca. Della dichiarazione di Trump di potrebbe ridere. Così come abbiamo riso del Bush che legge le fiabe ai bambini con un libro al contrario. Un sindaco della Florida gli ha risposto con il tweet piuttosto spiritoso qui sotto: «Bandisco Donald Trump fino a quando non avremo capito meglio». COn Bush, però, c’è stato poco da ridere e sarebbe meglio non sapere come sarebbe Trump.

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Fare cultura in rete: il caso di Storie dell’arte

La storia dell’arte non si insegna più nelle scuole dopo la riforma Gelmini, ma riscuote sempre più interesse in rete, dove negli ultimi anni sono nati molti siti che parlano di arte in modo competente, intercettando un interesse forte da parte anche dei giovani. Uno degli esempi migliori è Storie dell’arte. Abbiamo chiesto al critico e storico dell’arte Sergio Momesso che è il fondatore di raccontarci come è nata questa bella avventura.

Sergio, come è nato il sito Storie dell’arte?

Il primo post è uscito nel gennaio 2011, ma avevo cominciato a pensarci seriamente alla fine del 2010. Allora, dopo anni di esperimenti, mi limitavo ad usare i social, soprattutto Twitter, per condividere conoscenze e informazioni utili allo studio e alla ricerca, ma i miei interlocutori stavano quasi tutti fuori d’Italia, anche molto lontano. In Australia, per esempio, avevo amici attivissimi. Invidiavo molto la disinvoltura con cui i colleghi stranieri trattavano sul web di Raffaello e Michelangelo, Giorgione e Tiziano con la stessa cura e precisione con cui avrebbero scritto su una rivista accademica. Qui da noi invece questa apertura in fondo era guardata ancora come una macchia nel curriculum di uno storico dell’arte. Ovviamente, ciò mi sembrava una ristrettezza culturale insopportabile. Tra un social e l’altro avevo conosciuto anche colleghi italiani molto più giovani, liberi dai pregiudizi sull’uso della rete, e che spesso stavano completando il loro dottorato di ricerca. Tra questi c’era Serena D’Italia. A lei una sera di dicembre, via chat, anche se non ci eravamo mai incontrati (lei stava a Torino io a Treviso), ho chiesto di aiutarmi ad aprire un blog. Volevo creare un gruppo di lavoro non per far nascere l’ennesima rivista accademica, magari online, ma per una forma molto più semplice e informale di pubblicazione, alla portata di tutti e pure un po’ anarchica, per far circolare, con profondità, leggerezza e rapidità, conoscenze, bibliografie, segnalazioni e materiali troppo spesso confinati nelle università o in pubblicazioni quasi inaccessibili. Il gruppo si è subito ampliato e con l’aiuto di Marialucia Menegatti abbiamo trovato modi e strategie per farci conoscere ad un pubblico molto vasto.

 Perché facendo un lavoro di studio e di ricerca hai sentito l’esigenza di confrontarti con il mondo della rete? Qual è l’obiettivo?

È stata l’esigenza di una apertura verso l’esterno, come raccomandava pure Giovanni Romano in quel libretto da cui abbiamo tratto il nome “Storie dell’arte”. Confrontarsi con la rete significa rendersi disponibili a discutere e a confrontarsi con chiunque, obbligandoci, in primo luogo, a parlare una lingua comprensibile. Ci si confronta infatti con problemi di comunicazione e di linguaggio. L’obiettivo iniziale di “Storie dell’arte” è stato quindi il desiderio di creare uno spazio, fatto di pubblicazioni quotidiane sul blog e sui social, dove mettere in circolazione conoscenze ed esplorare le potenzialità comunicative della rete, ricercando un linguaggio nuovo, adatto a questo tipo di strumento. Uno spazio sempre in evoluzione, che ci costringe positivamente a ricercare soluzioni nuove e a confrontarci con la realtà costantemente.

Roberto Longhi diceva che la storia dell’arte è una lingua viva, ma in molte scuole italiane, dopo la riforma Gelmini non viene più insegnata. Non è una contraddizione in termini per il cosiddetto Bel Paese?

In realtà le conseguenze di quella riforma sono un po’ più complesse. Le abbiamo discusse a lungo l’anno scorso: se nei licei classici le ore di storia dell’arte sono aumentate, seppur poco, nei professionali e nei tecnici sono sparite o ridimensionate. La vera cancellazione è avvenuta con l’eliminazione delle sperimentazioni. Ma il risultato, in ogni caso, è che la storia dell’arte nelle scuole è una materia che soffre da anni di un pericoloso ridimensionamento. Certo, è una delle molte contraddizioni del nostro Paese, ma credo lo sia ancora di più in un mondo dominato dalle immagini, dove tutto è stimolo visivo e dove quasi tutti i ragazzi ormai ragionano per immagini e avrebbero bisogno di sviluppare l’intelligenza visiva: quanto sono molto più ricchi di immagini e poveri di testi i  manuali scolastici di oggi rispetto a quelli del passato! Studiare la storia dell’arte – e lo stesso potremmo dire per la musica – può essere fondamentale per l’educazione visiva di ogni persona sotto tutti gli aspetti. A mio avviso, che si chiami storia dell’arte o educazione visiva o qualcos’altro, questa materia dovrebbe essere fondamentale come l’italiano, l’inglese e la matematica. Ma ci si dovrebbe anche interrogare sulla qualità dell’insegnamento. Spesso mi viene in mente Amarcord di Fellini e la famosissima scena dell’insegnante di storia dell’arte di liceo che presenta ai ragazzi “Giotto, l’inventore della prospettiva”, inzuppando biscotti nel tè. È una stupenda presa in giro. Ma quante volte la storia dell’arte è stata bistrattata a scuola, tanto da dare ampio spazio a noia o disinteresse o ironia? Perché – ne ha parlato diverse volte Claudio Giunta – chi ha studiato storia dell’arte nelle facoltà di lettere, in quanto materia umanistica, e poi magari ha anche ottenuto un dottorato di ricerca in storia dell’arte non può insegnare ai licei scientifici o non può avere almeno un canale privilegiato per l’abilitazione all’insegnamento? Non credo sia solo un problema di classi di concorso, ma un problema politico e culturale molto serio.

 Sul sito avete dedicato un interessante spazio proprio a Longhi, perché questa scelta? Si possono trasmettere e divulgare contenuti alti anche in rete? Che risposta avete avuto?

Non abbiamo mai nascosto la nostra formazione, nella quale il modo particolare di fare storia dell’arte di Longhi ha avuto un peso enorme. Il nostro primo post infatti parlava di “Storie dell’arte”, un libretto di Giovanni Romano che raccoglie saggi su Pietro Toesca, Roberto Longhi, Rudolf Wittkower e Giovanni Previtali. Abbiamo dato spazio a testi di Longhi, ma anche di Previtali, di Romano e rimesso in circolazione, traducendolo dal francese, un vecchio testo di Castelnuovo. Alcuni nostri post sono finiti nei programmi d’esame di alcuni corsi universitari. Quando ci è possibile utilizziamo o mettiamo semplicemente in circolazione testi importanti per la storia della critica d’arte o fonti antiche o testi letterari. Ogni tanto, da bravi blogger, pubblichiamo qualche intervista e ricerchiamo qualche intervento esterno. Tutto questo vorremmo continuare a farlo in modo informale, possibilmente senza retorica. A ciò si presta molto bene il linguaggio del blog. Intendiamo cioè perseguire l’idea che il web va “colonizzato” con contenuti alti, senza alcun limite in altezza, così come, sempre nel web, spessissimo, non c’è limite a cose di segno opposto. Vorremmo che dai motori di ricerca uscissero sempre più di frequente testi importanti e curati tanto quanto in un libro. Per questo crediamo sia importante, a discapito della velocità, controllare la redazione dei testi, anche solo le didascalie delle immagini. È un rigore che abbiamo imparato dai nostri maestri e ci pare ogni giorno più valido.

Il pubblico della rete è globale, ovviamente. Le nostre scelte hanno trovato un po’ alla volta un pubblico selezionato, che aumenta di giorno in giorno, grazie ad un mix di contenuti “alti”, più complessi e articolati nel blog, accanto a contenuti più semplici e apprezzabili in fretta nei social media. Beninteso, senza mai derogare al rigore di cui s’è detto: anche quando pubblichiamo una immagine su Facebook (circa una dozzina al giorno), ne controlliamo l’attribuzione, la cronologia, l’ubicazione e le informazioni tecniche per redigere una didascalia che è già, per noi, un frammento affidabile di ricostruzione storica e nello stesso tempo un esempio qualitativo da mandare in giro per il web.

 In Italia negli ultimi trent’anni, con l’infelice slogan «beni culturali petrolio d’Italia» sono state attuate politiche di de-tutela, di indebolimento di presidi come le soprintendenze e talora anche di svendita di parti del patrimonio pubblico. Quale pensiero sostiene questa visione politica e dove porta?

Personalmente, non mi sembra ci sia un pensiero consapevole, quanto piuttosto il risultato di una cultura dove dominano incontrastate, come si dice, le logiche del mercato. Ma è una sofferenza che investe la cultura in generale. Se un’opera o un paesaggio o un documento storico non ci appaiono solo beni materiali, questo avviene perché li conosciamo, li abbiamo compresi e ne apprezziamo il valore o, meglio, i valori spirituali, come si diceva una volta. Ho la sensazione che, purtroppo, le politiche e gli interventi sulle strutture della tutela del patrimonio pubblico siano state spesso compiute da chi non solo non conosceva la storia dell’arte, ma non aveva talvolta neppure i rudimenti di una cultura visiva accettabile.

L’articolo 9 della Costituzione lega la tutela del patrimonio d’arte e del paesaggio alla ricerca e alla conoscenza, mentre l’articolo 3 dice che la Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona umana. Il rapporto con l’arte è un’esigenza profonda?

Certo. Come ho detto, il rapporto non solo con l’arte, ma con ogni testimonianza visiva – notoriamente il nostro paese è ricchissimo in questo senso – dovrebbe essere un momento fondamentale nella formazione di una persona. Non si tratta solo di aumentare le ore di storia dell’arte a scuola, ma di promuovere lo sviluppo di una cultura visiva consapevole. In questi anni sul web abbiamo imparato che la domanda di informazioni, precisazioni, materiali e, in una parola, di conoscenze è altissima, ma l’offerta è ancora troppo scarsa, non sempre all’altezza, raramente con un linguaggio comprensibile e spesso non sempre onesta. Non possiamo aspettarci che sia solo il sistema scolastico a dare questo tipo risposte. Molto si sta facendo, ma molto è ancora da fare.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel