Anche gli ultimi 25 ospiti hanno lasciato il centro. Il Baobab è ufficialmente chiuso. Ma la lunga trattativa tra il prefetto Tronca, facente funzioni di sindaco della Capitale, e i volontari, che chiedevano la ricollocazione di tutti i rifugiati e transitanti prima di abbandonare la struttura, non è stata vana. I volontari saranno nuovamente ricevuti in Campidoglio martedì 15 dicembre, per cercare di individuare una nuova struttura in cui far risorgere il Baobab.
Migranti. Il Baobab ha chiuso, ma trattative e solidarietà continuano
Pechino con e senza inquinamento
In questi giorni i leader mondiali sono riuniti a Parigi per discutere dell’emergenza climatica, tra i punti più cruciali c’è anche la questione cinese. L’inquinamento nel Paese ha assunto infatti livelli altissimi come testimoniano queste foto scattate da Kevin Frayer fra il 30 novembre e 1 dicembre, quando alcuni dei dispositivi di qualità dell’aria non erano nemmeno in grado di leggere il livello di inquinamento, tanto i livelli di smog erano elevati. Nelle foto si vedono il mausoleo di Piazza Tiananmen scomparire completamente in una nebbia tossica e turisti che indossano mascherine chirurgiche per proteggersi. A Pechino, i livelli di polvere sottili presenti nell’aria, sono considerati pericolosissimi e oltrepassano spesso le 600 unità, 25 volte il livello accettabile stabilito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
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Per i lettori di Time Bernie Sanders è l’uomo dell’anno
Alla fine dell’anno arriva sempre il momento in cui la rivista americana Time fa il punto su quelle che sono state le personalità più importanti degli ultimi 365 giorni. Dal 19 novembre la redazione ha fornito una lista di nomi sulla quale gli utenti potevano esprimere la propria preferenza. A spopolare è stato il senatore democratico Bernie Sanders, in corsa per le primarie democratiche e campione della sinistra Usa. Tra i nomi noti in lizza per il titolo di Person of the Year sottoposte al giudizio dei lettori anche l’avversaria e compagna di partito Hillary Clinton, più famosa e forte di Sanders sul terreno elettorale, ma a quanto pare meno capace di entusiasmare una community di fan. Mentre infatti Bernie si è piazzato al primo posto con oltre il 10% delle preferenze totali Hillary è solo a metà della lista con un 1,4%, praticamente solo una posizione sopra a Taylor Swift, giovane cantante pop idolo dei teeneger.
Invece “nonno” Bernie, classe 1941 e capace di sdoganare negli States la parola “socialismo”, piace di più di Taylor, dell’ attivista pakistana Malala Yousafzai, di Adele, di Barack Obama, della star tv Stephen Colbert, dell’Emmy Award Viola Davis o della tennista Serena Williams.
E in effetti un motivo, anzi forse più d’uno, per tutto questo successo c’è. In primis Sanders ha contribuito a ridefinire la corsa presidenziale tra le file democratiche, spostandola decisamente a sinistra e portando con sé i propri avversari tra cui la stessa Clinton famosa per delle posizioni ben più moderate di quelle che ha espresso pressata dal progressismo del senatore del Vermont. Un progressismo che guarda alla spesa sanitaria in modo moderno , alle università e all’istruzione pubblica e che in economia rispolvera la MMT (Modern Monet Theory) promuovendo il lavoro per esempio di Stephanie Kelton e James Kenneth Galbraith. All’inizio dell’anno in un articolo apparso su Vox che prevedeva l’impatto dirompente di Sanders sulla scena politica americana a sinistra si poteva infatti leggere questo:
Una sfida netta alle tradizionali posizioni dei democratici sulla programmazione economica – espresse da Barack Obama, Bill Clinton, Walter Mondale tra gli altri – è lanciata da Bernie Sanders, senatore del Vermont e nuovo capogruppo dei democratici alla Commissione Bilancio.La nomina a economista capo di Stephanie Kelton, professoressa della University of Missouri-Kansas City, è la grande mossa di Bernie Sanders.
E anche se, come si può vedere, nella corsa per la nomination democratica nel 2016, pur avendo guadagnato moltissimi punti, rimane un lontano secondo rispetto a Clinton.
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Il punto di forza di Sanders è il suo essere un visionario, in grado di ricostruire dal basso una sorta di American Dream di sinistra, di felicità equa e condivisa. Bernie è un candidato che propone cose che sembrano inimagginabili per gli Usa che siamo abituati a conoscere. Cose come: l’accesso gratuito alle Università pubbliche, una concreta regolamentazione di Wall Street, cancellare la sentenza della Corte Suprema che consente finanziamenti anonimi alle campagne dei politici, proibire le carceri private, tassare di più quell’1% ricco della popolazione per agevolare e consentire una vita migliore per il 99% che ricco certo non è.
Per Sanders l’obiettivo è evidente: una rivoluzione politica che rivitalizzi l’elettorato, che porti la gente a partecipare, a scendere in campo per cambiare le cose. «Un sacco di persone hanno rinunciato a prendere parte alla vita politica, io voglio coinvolgere di nuovo», ha detto dichiarato Bernie alla rivista Time «Ci stiamo accingendo a una lotta contro l’avidità della classe sociale dei miliardari. Una classe molto, molto potente, e che sta lottando furiosamente per mantenere i propri privilegi. C’è un unico modo per avere successo ed è quando milioni di persone si alzano e decidono di impegnarsi». E, a quanto pare, il senatore del Vermont sembra essere davvero bravo nel fare tutto questo.
Nessun candidato alla presidenza è mai stato nominato “Person of the Year” prima della fine della campagna elettorale, anche se negli anni un gran numero di Presidenti eletti da Franklin Delano Roosevelt nel (1932, 1934 e 1941), passando per Ronald Reagan (1980, 1984) e Barack Obama (2008 , 2012) hanno guadagnato l’ambita cover del Time.
La scelta ora spetta alla redazione che renderà nota la decisione mercoledì durante il Today Show della Nbc. E chissà se davvero avranno avuto ragione i fan di Bernie votandolo.
In apertura la copertina che Time aveva dedicato a Bernie Sanders il 28 settembre
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È morta Holly Woodlawn, volto degli anni 70 per Capote e superstar di Andy Warhol

«Holly came from Miami, F-L-A / Hitchhiked her way across the U.S.A / Plucked her eyebrows on the way / Shaved her legs, and then he was a she».
Holly era un simbolo di libertà e trasgressione, ebbe più volte guai con la legge e finì anche in carcere per dei brevi periodi. Negli ultimi anni si è dedicata a spettacoli e cabaret ed è comparsa in pellicole e telefilm con dei cameo. L’ultimo nel 2014 in Trasparent – serie tv che al centro ha proprio la storia di un uomo che inizia a 70 anni il suo percorso di transizione – in due episodi dove interpreta Vivian.
La straordinaria vita di Holly Woodlawn, raccontata in modo spregiudicato e esilarante, è raccolta nel libro autobiografico Coi tacchi alti nei bassi fondi. Dall’infanzia come ragazzino malinconico a Portorico fino alla conquista dei palcoscenici in abiti femminili, passando per la Factory del padre della pop art, le memorie di Holly sono lo stupefacente ritratto di un’esistenza vissuta col piede costantemente premuto sull’acceleratore. Sempre senza rimpianti e con piglio da vera combattente.

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Le banche sono i nuovi “compagni che sbagliano”
Fosse accaduta in Grecia questa ultima settimana italiana probabilmente avremmo avuto decine di foto e riprese televisive: pensionati in lacrime, vecchie signore con lo sguardo disincantato e il logo di qualche banca opportunamente di sfondo oppure avremmo avuto in copertina il primo piano di qualche mano nodosa per gli anni mentre apre un portafoglio vuoto, le notizie pesano in base all’abbigliamento e quindi succede che la Grecia sia stata sventolata come paradigma del rischio che si corre a non allinearsi all’Europa mentre l’Italia che salva le banche (e non i contribuenti) scivola tra le notizie di costume. Oggi su Libero la Serracchiani, elemento di punta del partito di governo, si dichiara incazzata per avere perso diciotto mila euro e ci dice “non preoccupatevi, ci ho perso anch’io” come se il mal comune mezzo gaudio fosse una norma valida e sufficiente in quest’Italia che avrebbe dovuto cambiare verso.
Il Governo Italiano salva istituti privati con soldi pubblici, garantendo la liquidità delle banche prima che dei loro correntisti e riesce, in un colpo solo, a tradire tutta l’immagine che vorrebbe elaborare di se stessa eppure il gesto (incauto e ben poco democratico) viene vestito con tutti gli orpelli della presentabilità e finisce per interessare solo una categoria sparuta di persone: quelle direttamente coinvolte. E non importa se la mancanza di empatia con le minoranze sia uno dei fondamenti di una democrazia in salute, perché Matteo Renzi ci dice “abbiamo dovuto farlo anche se non si dovrebbe fare ma adesso basta”. In sostanza il governo ha deciso di dare un’ultima occasione agli istituti di credito ma a spese degli altri, con una leggerezza di cui Ponzio Pilato ne farebbe una religione.
Leggi anche: Salvateci dai salvataggi alle banche, il punto di vista della finanza etica
Il “colpo” è riuscito anche per lo sferzante ottimismo che viene servito tutti i giorni, prima e dopo i pasti, a cannon battente dai media nazionali, tanto che un pensionato /che ha perso tutto) intervistato proprio ieri diceva di non avere “nemmeno avuto lontanamente il dubbio che potesse finire così”. La fregatura è stata indolore, inconsapevole e condita e così in Italia accade un “pezzo di Grecia” eppure non se ne parla. Per la vulgata televisiva Matteo Renzi indossa ancora l’armatura del paladino contro l’Europa della finanza e dei mercati, la ripresa è una solida realtà (e se non la percepite siete insensibili, stupidi o gufi) e le banche sono i nuovi “compagni che sbagliano”.
Se esistesse il reato di “favoreggiamento alla manipolazione della realtà” la classe politica degli ultimi vent’anni in Italia sarebbe reo confessa, tutti probabilmente collaboratori di giustizia in cerca di uno sconto di pena e condannati a servire i ristoranti pieni oppure a fare gli sportellisti di banche in ottima salute. Non ci sono file alle banche, non ci sono famiglie sul lastrico e non esistono i pensionati depredati dai loro risparmi di una vita: va tutto bene. Tutto va meravigliosamente bene. E tutti debbono esibire una misurata gioia medio borghese. Mi raccomando.
Terrorismo, cosa ha detto Obama nel suo discorso
Un messaggio per rassicurare, ma anche per attaccare senza dirlo i repubblicani su due fronti: la circolazione delle armi e la retorica anti-islamica. Per la prima volta dopo 5 anni il presidente Usa Barack Obama si rivolge agli americani dallo studio ovale per parlare della minaccia terroristica e della strage di San Bernardino portata a termine da un cittadino americano di origine pakistana e da sua moglie, entrata in America con un visto di ricongiungimento familiare.
Obama non ha annunciato grandi cambiamenti nelle politiche, ma ha piuttosto voluto ricordare cosa si sta facendo, rassicurare sull’impegno e tenere a bada i bassi istinti di una parte della società americana. Qui sotto l’elenco delle linee guida nella lotta anti-ISIS: campagne militari aeree e con le Special Operation Forces, addestramento a iracheni e siriani, chiusura dei canali di finanziamento dell’ISIS, individuazione di rischi e tentativo di impedire nuovi reclutamenti, lavoro per un cessate-il-fuoco in Siria.
Due cose Obama non dice: che alcuni di questi sforzi rischiano di essere complicati dalle diverse parti in commedia che alcuni Paesi giocano – dai sauditi, ai russi, ai turchi, alleati degli Usa di cui Washington hanno preso le difese nella crisi con Mosca. L’altra cosa che il presidente non spiega è come mai per due-tre anni gli Usa, atterriti dall’idea di intervenire e trovarsi nuovi problemi in casa, hanno lasciato incancrenire la situazione siriana senza provare una poderosa iniziativa diplomatica.
La strategia Usa non cambia: le novità sono solo relative agli ingressi negli Usa, che tornano a essere più complicati e all’impegno messo. Obama ribadisce che la guerra di terra non serve perché è esattamente quello che l’ISIS vorrebbe per «tenerci anni a combattere, pur sapendo di non poter vincere, e per reclutare nuovi militanti». In fondo la forza dell’ISIS è in buona parte un regalo della guerra di Bush in Iraq.
L’ultima parte del discorso è politica ed è un attacco diretto contro quei candidati repubblicani che stanno usando in maniera sporca la strage di San Bernardino: «Se vogliamo battere il terrorismo dobbiamo sapere che le comunità islamiche devono essere al nostro fianco (…) dobbiamo respingere l’idea che i musulmani d’America vadano trattati diversamente, perché quando prendiamo quella strada, perdiamo. Tradiamo i nostri valori e facciamo un gran favore all’ISIS». Il messaggio al senatore Ted Cruz e a Donald Trump, che usano parole di fuoco, che chiedono registrazione di persone basate sulla provenienza, è chiaro.
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Francia, il Front National ripulito di Marine e Marion Le Pen trionfa alle regionali
Era il primo termometro dell’umore dei francesi dopo gli attentati di Parigi ed è stato un disastro per la sinistra e per i Repubblicani di Sarkozy. Un trionfo per il Front National di Marine Le Pen e di sua nipote Marion Marechal-Le Pen candidata nettamente in testa nella macro regione di Provence-Alpes-Cote d’Azur e un terremoto per il sistema politico francese.
Al primo turno delle regionali francesi il FN ripulito e modernizzato di Marine è in testa in sei regioni su 13. Oltre che nella regione del Sud dove c’era la giovane pasionaria (e ala destra del partito) Marion a guidare la lista, il Front è primo anche nel Nord-pas-de-Calais, dove aveva già ottenuto risultati ottimi. Poi è in testa in quattro altre, insegue di un punto i Repubblicani in Normandia.
L’alleanza di centrodestra guidata dal partito di Sarkozy è in testa in 4 regioni, ma non è detto che riesca a tenerle e sperava di portarne a casa sei.
Les principaux rapports de force résumés par @BIGinfographie. La suite sur liberation.fr pic.twitter.com/G1KlnWNGy9
— Six Plus (@libe_sixplus) 6 Dicembre 2015
Nelle due regioni dove il partito della destra nazionale sarà il probabile vincitore, i socialisti hanno immediatamente annunciato il ritiro delle liste della sinistra al secondo turno per favorire il candidato repubblicano.
La speranza è di vedersi restituito il favore altrove, anche se Sarkozy ha immediatamente detto: niente fusioni di lista e niente fronte repubblicano. La cosa potrebbe costargli dei voti di elettori PS in alcune regioni: se non c’è fronte repubblicano antifascista allora perché votare il candidato di centrodestra? Si chiederanno gli elettori di sinistra. In termini di voti assoluti i primi risultati parziali del ministero dell’Interno dicono Fronte Nazionale 29.88% , Unione della destra, formata da Repubblicani, Modem e UDI (26.48%). A sinistra, il PS affonda al 22,89%.
Alle europee del 2014 il partito di Hollande aveva preso il 13%, mentre i Repubblicani con Modem facevano quasi il 35% e alle municipali erano stati primi a sorpresa superando il FN, che rispetto al voto per il Parlamento di Strasburgo guadagna circa 5 punti. «Il Fronte Nazionale l’unico veramente repubblicano», ha detto Marine Le Pen, assicurando che il suo partito è «destinato a realizzare l’unità nazionale di cui il Paese ha bisogno.» Per lei e per la sua antagonista Marion, più vicina al nonno fondatore del movimento e propensa all’uso di retorica nazional-fascistoide, è un vero trionfo: mai il FN ha governato una regione. Che non contano granché, ma che sono sempre una platea e un luogo di gestione del potere. Il risultato per il FN è soprattutto simbolico.
Va male a Sarkozy: non ha funzionato la sua “destra senza complessi” – che vuol dire siamo di destra quasi come il Front, non temiate, ma anche più rassicuranti. Se alle municipali i francesi avevano deciso di tornare a votare il centrodestra che conoscevano, gli attentati e l’incapacità di generare entusiasmo, hanno fatto accusare all’ex presidente un grave colpo. Ha promesso di non fare alleanze con i socialisti proprio in virtù del fatto di non avere complessi. Chissà che la cosa non gli costi anche un paio di regioni.
I socialisti vanno male, per loro è un disastro, ma annunciato e forse di proporzioni meno gravi del previsto. Sono primi in tre regioni (Corsica compresa) e potrebbero anche spuntarla nell’Ile-de-France, dove sono secondi ma dove la sinistra ecologista e il fronte delle sinistre ottengono percentuali alte. Certo è che per il PS la linea dura anti-terrorismo, l’unità di una sinistra che dichiara lo stato d’emergenza senza riflettere sulle conseguenze (e facendo le stesse cose che avrebbe fatto la destra), non ha pagato: forse ha fatto perdere qualche voto, probabilmente non ne ha fatti guadagnare.
A Parigi le liste di sinistra arrivano in testa, segno che la città non è stata presa dal panico oltre misura. La sindaca socialista Anne Hidalgo ha scritto su Facebook: «Mi felicito con la città che è rimasta fedele ai suoi valori e faccio appello ai cittadini affinché si raddoppino gli sforzi per il secondo turno».
La sinistra del Front de Gauche e ambientalista esiste ma non approfitta del calo di consensi del PS. Il FN in queste settimane aveva invece guadagnato 4-7 punti nei sondaggi. L’ISIS, insomma, è ancora una volta il miglior alleato dell’estrema destra.
Resta un fatto importante: se i socialisti hanno come leader un vecchio segretario di partito che ha vinto le primarie in quanto ripiego (e con il voto dell’apparato) e i Repubblicani un leader che è già stato presidente e ha perso le elezioni, il Front National (pure un partito familiare) ha come leader una donna, come astro nascente una donna di 25 anni e come vice segretario e stratega un 34enne omosessuale. Se ve lo avessero detto 10 anni fa non ci avreste creduto.
Due protagonisti della vittoria del Front National Marion Marechal-Le Pen e Florian Philpot
Marion Marechal-Le Pen non le manda a dire. «L’Islam radicale ha preso piede in certe aree della Francia grazie all’immigrazione di massa. Questo ha creato francesi che prendono le armi contro il Paese che li ha accolti. Dobbiamo ripensare le politiche in termini di controllo dei confini e di acquisizione della nazionalità e ridimensionare i flussi migratori se vogliamo che le cose non peggiornio». Semplice e chiaro: nata nell’anno del crollo del Muro di Berlino, nipote di Marine, è il suo opposto. Marine è una politica vecchio stile, comiziante e popolare, ma tutto sommato più moderna nella visione del futuro. Marine è divorziata e si circonda di gente diversa e poco affine alla cultura nazionale e fascistoide che il partito ha sempre avuto (qui sotto parliamo di uno dei suoi consiglieri come un esempio).
Marion è meno abile in piazza e più brava in Tv (ha demolito l’ex premier centrista Alain Juppé, attuale sindaco di Bordeaux in un dibattito), è più religiosa, tradizionale, nazionale e fondamentalmente di destra. Se Marine ha diversi omosessuali nel suo cerchio magico – e anche grazie a questi ha saputo dare un’immagine digeribile al partito, Marion è una crociata contraria al matrimonio omosessuale. Se Marine ha avuto uno scotro feroce con il padre per la natura del partito, Jean Marie ha sempre detto di avere un debole per Marion. Se una raccoglie il voto della sinistra ex operaia delusa che si sente abbandonata – il Nord-pas-de-Calais, appunto – l’altra raccoglie il voto tradizionale del partito, la destra conservatrice, il voto anti-immigrati del Sud.
La25enne parigina è candidata qui, dove un tempo si candidava il nonno, usa la stessa retorica, ma lo fa senza una benda sull’occhio e usando argomenti di xenofobia nuovi anziché vecchi (e mettendo da parte l’antisemitismo e la rozzezza el nonno). E a giudicare dal 42% preso la cosa funziona.
“Nous sommes prêts !” #AvecMarion pic.twitter.com/5nx4xNaH45 — Marion Le Pen (@Marion_M_Le_Pen) 6 Dicembre 2015
L’altro trionfatore (oltre alla famiglia Le Pen) della serata è probabilmente Florian Philipot, il 34enne stratega di Marine e del moderno FN, che per anni ha scritto i discorsi di Marine, che non è particolarmente ossessionato dall’immigrazione, ma vede nel ritorno alla sovranità nazionale il centro del discorso politico del FN. Giovane e omosessuale, è diventato il vicepresidente del partito dopo aver fatto non poca fatica per riuscire ad accreditarsi all’interno di un partito ostile. Ci è riuscito anche grazie a Marine, alla quale ha dato a sua volta una bella mano a partire dal 2009. Lei non era entusiasta all’idea di lavorare con un tecnocrate, ma tra i due la chimica ha funzionato benissimo.
Merci à tous les militants patriotes pour cette extraordinaire campagne de 1er tour ! Dimanche, aux urnes ! #ACAL pic.twitter.com/b0BaJZ2u6Y
— Florian Philippot (@f_philippot) 4 Dicembre 2015
Comunicatore e stratega, ma non un abile retore, è spesso in Tv, maneggia bene i social network e soprattutto i numeri. L’idea della sovranità nazionale – e quindi l’ostilità all’Europa – significa un ritorno allo Stato francese e al suo ruolo (il FN non è liberista e anche per questo ha raccolto consensi a sinistra). Alcune delle proposte del FN vengono non a casa rubricate come improbabili e totalmente contrarie alla linea di rigore europea. Un vanto per l’ex studente dell’Ecole Nationale de l’Administration, la fabbrica di alti funzionari di Francia.
Si dice che speri di finire a Matignon (il palazzo del governo) in caso di vittoria di Marine alle presidenziali. Intanto è in testa in Alsazia e Lorena. Ha commentato il voto dicendo: «Stanotte si è espresso un voto d’amore». Lo hanno preso in giro in parecchi.
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Nelle folli notti parigine con Toulouse Lautrec
Tutti i colori della notte a Parigi, il teatro, le donne. La ricerca di un modo nuovo di fare arte nonostante la malattia genetica invalidante che lo segnava fin dalla nascita. Uno modo nuovo di dipingere che Henri de Toulouse-Lautrec cercava anche guardando verso Oriente, ricreando in modo originale la tradizione grafica giapponese. La spettacolare mostra appena aperta all’Ara Pacis racconta il talento del pittore francese prematuramente scomparso a 36 anni attraverso 170 opere realizzate fra il 1891 e il 1900 provenienti dal Museo delle arti di Budapest. Di cui offriamo qui una gallery.

Organizzata in cinque sezioni tematiche, l’esposizione permette di conoscere più da vicino l’originale percorso del pittore, nato a d Albi nel 1864 da una famiglia di origini aristocratiche e artisticamente cresciuto nel quartiere di Montmartre che lo vede a poco a poco affrancarsi dal relismo accademico anche avvicinandosi alla graffiante avanguardia degli Artistes Incohérents.
Ad attrarre il giovane Toulouse-Lautrec sono la luce e la potente visione post impressionista realizzata da Van Gogh, con il quale condivise la passione per la grafica giapponese. La mostra romana, aperta fino all’8 maggio, dà ampio spazio alla rappresentazione delle notti parigine che Toulouse-Lautrec viveva intensamente, anche a rischio della propria salute pur di prendere parte – lui che aveva possbilità di famiglia – nel “mondo libero e bohémien della Montmartre”.
Ecco dunque i suoi caffè-concerto e i cabaret (Al Moulin Rouge, La Goulue e sua sorella ecc). Ecco le protagoniste di quelle folli serate a base di assenzio. A cominciare dalla danzatrice Jane Avril, che l’artista ha ritratto nel celebre manifesto Divan Japonais (1893) ma anche in veste di intenditrice d’arte sulla copertina di L’Estampe originale.
La musa di Toulouse-Lautrec, dopo un’infanzia e una adolescenza difficili, soprattutto a causa della malattia mentale della madre (che fu poi rinchiusa nell’ospedale della Salpêtrière), decise di fare la ballerina. Accadde dopo aver ncontrato il celebre dottor Charcot. Jane prese parte alle sue sedute di ipnosi e fu allora che cominciò ad esibirsi nei caffé parigini, come racconta lei stessa nella sua autobiografia La ragazza del Moulin Rouge, appena pubblicata in Italia da Castelvecchi.
Lautrec non partecipava a quelle serate solo da spettatore, ma era parte attiva, realizzando folgoranti locandine, programmi di sala e collaborando non di rado alla realizzazione delle scenografie. Accanto alle sue opere straordinari spezzoni video permettono, lungo il percorso della mostra, di cogliere lo spirito di quelle serate, frequentate di molti artisti parigini. Mentre il catalogo Skira offre una serie di interessanti approfondamenti.
Per chi volesse continuare il viaggio nel mondo di Toulouse Lautrec basta andare a Pisa dove, fino al 14 febbraio, prosegue in Palazzo Blu l’ampia retrospetiva dal titolo Toulouse Lautrec. Luci e ombre di Montmartre. Curata da Maria Teresa Benedetti, presenta 150 opere dell’artista francese provenienti dai maggiori musei paragini, con particolare attenzione dedicata ai dipinti e all’opera grafica, con molte prime edizioni e litografie con dediche originali dell’artista. Il ponderoso catalogo Skira, ricchissimo di contributi critici, con un saggio di Dario Matteoni in particolare ripercorre la storia della fortuna critica di questo artista dalla vita difficile ma oggi conosciuto in tutto il mondo come maestro dell’affiches illustrée, come il poeta visivo e visionario dei cafés chantants. In questa monografia che accompagna l’esposizione pisana, Evelyn Benesch rilegge l’opera di Toulouse-Lautrec dal punto di vista della cronaca di costume e delle mode artistiche che il pittore fece proprie come quella delle stampe giapponesi ukiyo-e, che celebravano il mondo fluttuante e una filosofia edonistica di vita basata sull’importanza di vivere intensamente ogni attimo, fuggente e irripetibile. La curatrice , infine, tesse il filo della mostra ripercorrenso in un saggio la vicenda biografica di Lautrec, a un tempo folgorante e drammatica, finita il 9 settembre 1901.
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I giorni neri della Turchia
Sabato 28 novembre, Istanbul. Sembra una giornata come le altre sul metrobus che attraversa il secondo ponte sul Bosforo. Tra gli sguardi distratti della gente, un uomo appoggiato alla porta scorre il feed del suo profilo facebook. Un post su due si riferisce all’assassinio di Tahir Elçi, presidente dell’ordine degli avvocati di Diyarbakir, ammazzato da un colpo al capo in uno scontro a fuoco nel quartiere di Sur, subito dopo una conferenza stampa. I commenti di disperazione e rammarico si alternano ai video condivisi delle concitate e confuse scene dell’assassinio. «È una tragedia immensa. Un incubo senza fine», racconta Dimen, originario del Kurdistan turco, ma di casa a Istanbul da circa vent’anni: «Tahir Elçi era un uomo che voleva la pace, che lavorava per la pace. La sua morte fa male a tutti noi». Dimen osserva a lungo le immagini del volto di Tahir e quando lentamente mette un “mi piace”, sembra che il suo cuore si stia spaccando in due. Qualche ora dopo, davanti al Galatasaray Lisesi a Istiklal street, a pochi passi da piazza Taksim, qualche centinaio di persone si radunano per protestare indignati contro l’assassinio dell’avvocato, considerato uno dei personaggi più importanti nella difesa dei diritti dei cittadini. Ma la protesta dura ben poco. La polizia reagisce subito, sparando lacrimogeni e azionando gli idranti contro i manifestanti e i passanti. Non c’è confronto tra le forze dell’ordine e la folla e la dimostrazione finisce in quel momento. Il giorno successivo saranno in decine di migliaia le persone ad assistere in cordoglio a Diyarbakir al funerale dell’avvocato ucciso.
Tahir Elçi, nativo di Cizre, città curda al confine tra Turchia, Siria e Iraq, aveva “osato” affermare durante una trasmissione televisiva della Cnn turca del 14 ottobre, che il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), bersaglio numero uno della “lotta al terrorismo” del presidente della Repubblica turca Erdogan, non fosse da considerare un’organizzazione terrorista, bensì un’organizzazione politica armata, sostenuta da gran parte del popolo curdo. Affermazioni piuttosto pesanti in un Paese che da mesi sta flirtando con Daesh pur affermando di combatterlo, per indebolire e se possibilmente annientare la resistenza curda, anche a costo di attizzare un conflitto che sta assumendo una scala sempre più globale. A caldo, Erdogan ha commentato che «questo incidente mostra quanto sia sensato l’impegno turco nella lotta al terrorismo». Il leader dell’Hdp Selahattin Demirta, partito della sinistra filo-curda, scampato lui stesso a un attentato nella notte del 22 novembre scorso, non ha esitato a parlare invece di “delitto politico”. Il fratello di Tahir, Ahmet Elçi, ha affermato senza giri di parole che il fratello «come intellettuale curdo è stato eliminato dallo Stato». Di fatto, sono già centinaia le vittime della guerra a bassa intensità ripresa dal governo nel Kurdistan turco da giugno a questa parte e in diverse cittadine curde vige ancora il coprifuoco. (…)
Questo articolo continua sul numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre
Viaggio alla scoperta della roma anticlericale
Questa storia può iniziare dal nordest della Capitale, in bicicletta sulla riva sinistra del Tevere, dove sbocca l’Aniene quasi invisibile, per chi non abbia voglia di cercare la città nascosta dal cemento. «Alla velocità dei pedali – per dirla con Andrea Satta dei Têtes de bois – tutto è più reale, se vuoi conoscere il mondo, dal malessere alla meraviglia». Ora ci vuole un po’ di immaginazione: su quella riva c’era un posto di guardia, una notte nebbiosa di ottobre del 1867, i fratelli Cairoli vi sorpresero tre gendarmi pontifici e lasciarono passare così i fucili per Garibaldi verso Ponte Milvio, poi nascosti a Villa Glori (Claudio Fracassi, La ribelle e il Papa Re, Mursia 2009).
La faccenda finì malissimo, come diciotto anni prima era finita la Repubblica Romana. «Ma quando i sogni sono belli, i vinti diventano più importanti dei vincitori», come ci insegna Marco Baliani. Nei suoi cinque mesi di vita, la Repubblica trasformò Roma, una delle capitali più reazionarie d’Europa in un laboratorio di democrazia. L’assemblea costituente nazionalizzò i beni ecclesiastici, 120 milioni di scudi dell’epoca. Poi abolì il Tribunale del Sant’Uffizio, la giurisdizione della Chiesa su università e scuole, la censura. Istituì il matrimonio civile. Stabilì che le donne potessero godere della successione ereditaria e distribuì la terra ai contadini. A piazza della Minerva, la sede del tribunale dell’Inquisizione venne trasformata in abitazioni per le famiglie bisognose.
Era, ed è, il sogno di una Roma senza papa che aveva preso corpo nel Rinascimento, con le pasquinate e i libelli famosi, e prosegue fino ai giorni nostri con le marce No Vat del decennio scorso. Senza papa e quindi anche «senza paternostri e giubilei» (pensateci se passerete sotto casa di Ciceruacchio, in via Ripetta 248) e, per estensione, senza grandi eventi. Secondo un ex consulente del governo inglese, Greg Clark, già solo presentare una candidatura è motore di sviluppo e occasione di governance, incentivazione del mercato immobiliare e dell’infrastruttura delle regione, cemento verticale e orizzontale. Altre costruzioni e altre autostrade. Quarant’anni fa, la denuncia dei legami “diabolici” fra Chiesa, palazzinari e Dc in occasione dell’anno santo del ’75, costò il posto da abate a Giovanni Franzoni. Nella basilica di San Paolo fuori le mura, si sentivano “orazioni” per ottenere la “conversione” delle strutture ecclesiastiche oppressive o colluse con i potenti. Troppo, decisamente, per le gerarchie di Oltretevere e anche per i fascisti, che compirono irruzioni violente in basilica e fecero scritte sui muri («Franzoni giuda al rogo») nel quartiere dove ancora oggi opera la comunità cristiana di base, non lontano da periferie ancora più dilatate di allora dalla speculazione, con la natura (la “Terra di Dio”) più inquinata e violentata dalla “crescita economica”. A meno di un chilometro da qui c’è il cimitero acattolico, all’ombra della Piramide. I papi vietavano di seppellire i miscredenti in terra consacrata. Qui riposano, tra le altre, le ceneri di Gramsci. Labriola, Gregory Corso e dell’altro poeta Dario Bellezza. Oscar Wilde pensava che fosse «il luogo più sacro della terra».
Ma voi siete in bicicletta e io faccio “filosofia”! Se ricordo bene vi ho lasciato ai piedi della collina dei Parioli. Bene, proseguite fino al Quartiere Prati: toponomastica dedicata a eretici, poeti pagani, ai rivoluzionari romani, ai capitani militari contro la chiesa. A Piazza Cavour l’unica chiesa presente è quella valdese. Tutto si snoda come ad assediare il Vaticano sino al Palazzaccio, bruttissimo ma costruito per oscurare San Pietro dal Pincio. Il sindaco di allora era Ernesto Nathan, ebreo di origini anglo-italiane, cosmopolita, repubblicano nella linea di Mazzini e Saffi, massone, laico e anticlericale. Fu il primo sindaco di Roma estraneo alla classe di proprietari terrieri che aveva governato la città fino al 1907. Allora, il 55% delle aree edificabili era in mano a soli otto grandi proprietari.
Caspita, siete già sul Lungotevere! Ora scendete, andate a piedi: tutto ciò aumenta la consapevolezza delle proprie sensazioni. Ogni viaggio si compie in compagnia di amici vivi, amori finiti o compagni illustri. Nel nostro caso non c’è che l’imbarazzo della scelta: accanto a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori potrebbe esserci Enrico Ferola, il fabbro di via della Pelliccia 40, a Trastevere, che fabbricava i chiodi a quattro punte, utilissimi a bloccare i mezzi dei nazi nell’occupazione di Roma. Oppure Righetto, dodicenne trasteverino, che si gettava con uno straccio sulle bombe francesi per smorzarne la miccia e rispedirle al mittente. Perché no, Giorgiana Masi, diciott’anni, che era andata a festeggiare l’anniversario della vittoria divorzista al referendum ma fu uccisa dalla polizia di Cossiga su ponte Garibaldi.
Immaginatevi delle barricate a via del Corso, lì dove non riuscirono a issarle gli studenti il 12 dicembre del 2010. Le issarono, invece, i repubblicani di Roma utilizzando i confessionali di San Carlo al Corso e di San Lorenzo in Lucina. Mazzini si rifugiava non lontano da lì, nella soffitta di Piazza di Pietra, nella casa di Gustavo Modena, il più grande attore italiano dell’800 che utilizzava gli incassi degli spettacoli per finanziare la ribellione. Se salirete fino al Gianicolo, in cerca degli echi della battaglia, portatevi un libro: Roma senza papa di Riccardo Cochetti (Ensemble 2015, con un cd) oppure La meravigliosa storia della repubblica dei briganti di Claudio Fracassi (Mursia, 2005), o le cronache in presa diretta di Margaret Fuller.
Insomma, credete sia possibile ritrovare le tracce di quella che fu “una città ribelle e mai domata” ma oggi somiglia a quella più depressa che vide quattromila camicie rosse uscire da Porta San Giovanni dopo la disfatta della Repubblica? (…)
L’articolo completo sull numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre





















