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A chi giova lanciare oggi la crociata contro la gestazione per altri?

È uno dei gruppi nati dalla dissoluzione di Se non ora quando. Si chiamano Se non ora quando – libere, sono le promotrici di un appello che ha trovato molto spazio su Repubblica contro l’utero in affitto. Scriviamo “utero in affitto” perché così lo definiscono loro, e così riprende il quotidiano nel suo titolo. Paolo Matthiae, Stefania Sandrelli, Giovanni Soldati, Giulio Scarpati, Nora Venturini, sono alcuni dei nomi tra i primi firmatari. Poi c’è anche Francesca Neri, Livia Turco, Aurelio Mancuso, la giornalista di Libero Elisa Calessi.

Scrivono: «Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore» «Non possiamo accettare, solo perché la tecnica lo rende possibile, e in nome di presunti diritti individuali, che le donne tornino a essere oggetti a disposizione: non più del patriarca ma del mercato». «Vogliamo che la maternità surrogata sia messa al bando». «Oggi, per la prima volta nella storia, la maternità incontra la libertà. Si può scegliere di essere o non essere madri». «Ci appelliamo all’Europa».

Scopriamo così che l’urgenza del femminismo in Italia sarebbe la gestazione per altri che – come si nota nello stesso appello – in Italia è vietata e perseguita dalla legge 40. Pensavate l’urgenza fosse la maternità per le lavoratrici precarie, o il congedo di paternità obbligatorio, o la carenza cronica di asili nido pubblici, o magari – per uscire dal filone della genitorialità – la parità di retribuzioni tra donne e uomini, le violenze, gli stereotipi della pubblicità? No. Il problema su cui ci si vuole concentrare è la gestazione per altri, volgarmente detta “utero in affitto” da chi, ben calibrando le parole, vuole evidenziare la natura di sfruttamento che sarebbe obbligatoriamente propria della pratica.

Ma invece non è così, non ovunque, non dove ci sono buone leggi a normare la vicenda che può esser volontaria, non retribuita, sicura. Su Left ne abbiamo scritto più volte, cercando di affrontare il tema con laicità. Abbiamo raccontato leggi fatte dove il principio di laicità appunto viene usato anche e soprattutto sui temi più spinosi legati alla bioetica. Temi che ci devono certo interrogare e che non vanno trattati con superficialità (ma così, ad esempio). Con quella superficialità però che leggiamo nell’appello di cui sopra. Appello che rischia di essere un assist (involontario, si spera) per chi vuole affossare la legge sulle unioni civili e sulla stepchild adoption, in discussione in parlamento. Senza quella legge, lo stesso appello avrebbe avuto un’eco assai più ridotta. E non è un caso che Mario Adinolfi sia il primo a brindare.

Per un anno e mezzo ci hanno ricoperto d’insulti. Ora firmano appelli contro l’utero in affitto che finiscono pure su…

Posted by Mario Adinolfi on Giovedì 3 dicembre 2015

Da Parigi a Pristina: le foto della settimana

Cars pass by the national assembly in Paris, where a projection of French artist JR is displayed as part of the 2015 Paris Climate Conference, Sunday, Nov. 29, 2015. More than 140 world leaders are gathering in Paris for high-stakes climate talks that start Monday, and activists are holding marches and protests around the world to urge them to reach a strong agreement to slow global warming. (AP Photo/Laurent Cipriani)

In evidenza: proiezione dell’artista francesce JR sulla facciata in occasione della Conferenza sul clima tenutasi a Parigi. (Laurent Cipriani, AP Photo)

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Privatizzazione ad alta velocità

Al grido di «potenziare concorrenza e servizi», il governo annuncia la privatizzazione delle Ferrovie dello Stato. Favorevoli o contrari? Una domanda che in pochi si pongono, a dire il vero. Persino parte dei sindacati sembra arrendersi all’evidenza renziana: il decreto è stato varato dal Consiglio del ministri, dunque, questa operazione nel 2016 “s’ha da fare”. Ma cosa il governo deciderà di quotare in Borsa: il 40% dell’intera holding, o solo una parte, lasciando al pubblico l’infrastruttura? Il dilemma è stato la causa del duro scontro all’interno del Gruppo Fs, tra l’ex ad Michele Elia e il presidente Marcello Messori, che si è risolto, in 24 ore, con un cambio dei vertici: tutti rottamati. Il ministro delle Infrastrutture e Trasporti sembra orientato alla seconda ipotesi: «Sarebbe un errore mettere sul mercato il 40% della rete che invece resterà pubblica», ha detto Graziano Delrio, precisando che non si tratta certo di un’operazione per battere cassa. Intanto, l’accelerazione avviene proprio mentre si impone ai sindacati la “moratoria Giubileo” per cui non potranno scioperare. Ancora una volta, chi si oppone al volere del premier si trova davanti una partita davvero difficile.
Non appena il ministro Graziano Delrio ha pronunciato la parola privatizzazione è esploso lo scompiglio in piazza della Croce rossa. Per privatizzare, il governo dice di aver bisogno di «coesione» ai vertici. Perciò, alla velocità della luce, in 24 ore, il Consiglio d’amministrazione è di nuovo in piedi. Al suo interno, tutti gli ex tranne l’ad Elia e il presidente Messori. Al loro posto, siedono Renato Mazzoncini, l’ingegnere pescato in casa, ad della controllata di Fs Busitalia-Sita Nord; e Gioia Ghezzi, componente del vecchio Cda, prima donna presidente di Fs e con una carriera nel settore privato (Ibm, Aviva, McKinsey, Willis group e Zurich). Entrambi sono stati scelti personalmente dal premier Renzi. Con il quale avevano già avuto a che fare quando era sindaco di Firenze. È proprio Mazzoncini, nel 2012, a chiudere l’accordo per privatizzare Ataf, l’azienda di trasporto pubblico locale fiorentina. Ataf viene ceduta ad Ataf Gestioni, che ha come azionista al 70% proprio Busitalia. Insieme a Gioia Ghezzi, invece, Renzi scrive il progetto di legge sull’omicidio stradale che, tra l’altro, suscita polemiche. Intanto, in questi giorni si cerca un direttore finanziario per Fs, un manager che traghetti il gruppo in Borsa e guidi la quotazione a Piazza Affari. (…)


 

L’articolo continua sul numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre

 

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È anche colpa nostra, parola di Imam

Questa intervista nasce da una camminata per Parma. Incrocio una giovane ragazza con un cartellone scritto grande, a pennarello, in cui si dice che l’Islam non prevede la guerra e non la giustifica. Sorride, mentre i passanti la guardano con circospezione e di fianco altre due offrono caramelle. La fotografo e quella foto sui social raggiunge milioni di visualizzazioni in pochi giorni. E allora mi sono detto che avrei dovuto parlare con l’organizzatore di quell’evento, con l’imam di Parma Kamel Layachi. E questa è la nostra chiacchierata.

Quanto è difficile scrostare questa indifferenza, se non odio?
In parte la responsabilità è anche mia, anche nostra, delle comunità musulmane che forse sul piano mediatico non si impegnano a comunicare quel che sono. Vorrei partire proprio da questo: non bisogna lanciare la palla nel campo degli altri prima di fare un po’ di autocritica. Anche noi siamo responsabili se la nostra immagine è distorta agli occhi degli altri. Questa è la prima constatazione che faccio. Serve un maggiore impegno dal punto di vista della comunicazione e un maggior impegno dal punto di vista della visibilità. Ovviamente, nel fare le cose, le dobbiamo fare insieme agli altri, senza protagonismo. Noi vogliamo dare un segnale alla nostra comunità italiana: noi siamo parte di questa società, non siamo un mondo a parte. Questo è molto importante oggi e riguarda soprattutto i giovani e le nuove generazioni.
Niente vittimismo, quindi?
Bisogna evitare di cadere nel vittimismo, di dire “loro sono i cattivi, loro sono il pregiudizio”. Noi dobbiamo superare questo discorso.
Ma ci sono anche altre responsabilità…
Certamente. C’è quella di una certa politica che fa della denigrazione della comunità musulmana o della strumentalizzazione delle questioni di attualità politica internazionale, un cavallo di Troia per colpire un’intera comunità, in maniera strumentale e semplicistica. Io ho un grande rispetto per il giornalismo italiano e per i media, però anche all’interno del mondo dell’informazione c’è una parte che pensa solo a vendere la notizia e così cade nella disinformazione. Credo che tutto questo potrebbe spiegarci anche il motivo di questo clima. Le comunità musulmane devono sentire sulle proprie spalle la responsabilità di farsi conoscere. Iniziative come quelle di Parma sono da replicare in tante città d’Italia. In tutte le città italiane bisogna prendere l’iniziativa, senza aspettare che qualcuno arrivi a bussare chiedendoci i nostri progetti, i nostri obiettivi, chi siamo… Dobbiamo andare noi verso i cittadini, le istituzioni, i media e la classe politica per parlare e costruire percorsi di fiducia e stima reciproca. (…)


 

L’articolo completo sul numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre

 

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Poletti impari a parlare un’altra lingua

«L’orario di lavoro è un metro obsoleto», dice il ministro Poletti. Si scatena il rumore mediatico e il gioco delle parti, e il lettore stanco di frasi ad effetto non sa se pensarci o dimenticare in fretta, visto che resistere al fastidio generato dalle parole usate male, o in malafede, è sempre più difficile. Qui, però, si parla di lavoro, e così c’è da stare più che attenti, perché in gioco c’è la vita della gente. Alla lettera, la frase del ministro non ha senso pratico. Per molti lavori è già così: per chi deve sviluppare un software, un sito web, portare a termine una causa legale, il compenso è “a corpo”, e non a ore; per altri lavori è semplicemente inappropriato: vogliamo pagare un autista di autobus in base al numero di volte che passa da un capolinea ad un altro? Un insegnante in base al numero di compiti in classe assegnati e corretti? Le conseguenze di questi esempi – e se ne possono fare centinaia – sono talmente assurde che al più possono farci sorridere. Tecnicamente poi, si dovrebbe parlare di incentivi perversi, altro che di innovazione. Allora, di cosa sta parlando il ministro? è la produttività bellezza! La crescita necessaria, la lotta ai pigri. Già, perché parlare di bastone e carota è facile, è un’idea così vecchia che la capiscono tutti.
Non importa se ormai da anni si sa che la produttività va cercata su altre basi, e che è un tema complesso e che va trattato sul serio, che le frasi ad effetto non fanno altro che distogliere il pensiero da un tema che invece ha bisogno di attenzione vera, di informazione e di una prospettiva di medio e lungo periodo. La produttività chiede istruzione e formazione, motivazione individuale e di gruppo, senso di appartenenza a un’impresa e a una comunità. Le persone sono tanto più produttive quanto più il lavoro si integra con la loro vita e la loro possibilità di esprimersi in esso. Da tempo si sa che gli incentivi monetari sono spesso inutili o addirittura dannosi perché in molti contesti «spiazzano» – è un termine tecnico – le motivazioni, le cancellano. Si sa da sempre che l’innovazione e la creatività sono spesso frutto del tempo speso in modo apparentemente inutile, e che sono invece in antitesi con la pressione e la fretta. Che anche per lavori più ripetitivi si può ottenere più dedizione, e dunque più efficienza e produttività, se non si dimentica di sottolinearne e riconoscerne il valore sociale. Nella sostanza, non a slogan. Dove il lavoro è meno gratificante in sé, potranno esserlo almeno i rapporti interpersonali sul luogo di lavoro; ma perché questo possa avvenire è certamente cruciale che si evitino incentivi sbagliati, che mettono le persone le une contro le altre, e non in condizioni di collaborare.
Per parlare di produttività si deve cambiare cultura: economica, civica, politica e, alla base, antropologica. Non è impossibile, il terreno è pronto sia sul piano degli studi che su quello dell’esperienza di tante realtà produttive. Chiediamo al ministro o a chi per lui che si legga un po’ della letteratura che ha permesso di inserire nelle misure di successo di un’economia alternative al solo calcolo del Pil, che si calcolano da anni per i Paesi Ocse, il bilanciamento fra tempo di lavoro e tempo libero. E chiediamogli anche se pensa che sia per perdere produttività, che la sede della Toyota a Göteborg o l’azienda Filimundus (che sviluppa app per Iphone) a Stoccolma, ultime solo in ordine di tempo della notizia, hanno ridotto l’orario di lavoro da otto a sei ore. Forse sarebbe più facile per lui capire che per stare al passo con i tempi si deve proprio parlare un’altra lingua.

Questo editoriale presenta il numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre

 

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Benvenuti al grand hotel giubileo. L’inchiesta di Left sulle case vacanze del Vaticano

Accolgono i turisti in strutture storiche, spesso di lusso.E grazie alle agevolazioni sull’Imu, applicano tariffe ultracompetitive, ai limiti della concorrenza sleale. Solo a Roma, su un totale di 1.041 fra hotel, bed & breakfast e residence, le strutture alberghiere degli enti religiosi sono poco meno di 300, con una capienza stimata tra i 13mila e i 15mila posti letto. Se ne trovano per tutte le tasche: si va dal palazzo del 1400 delle suore Brigidine a piazza Farnese (una ventina di stanze, mobili di pregio, grandi tappeti, volte affrescate e cappella sfarzosa, 160 euro in doppia), al casale dei frati trappisti immerso nel verde del quartiere Eur (80 camere, vasto giardino curato, due ristoranti, 80 euro a notte), fino alla struttura modernissima gestita dalle sorelle del Preziosissimo sangue a pochi passi dalla basilica di San Pietro (con un luogo di preghiera dalle originali volte e mosaici, 90 euro a stanza), o anche un ostello in largo dello Scautismo, zona piazza Bologna, per una clientela giovane (con prezzi dai 27 ai 95 euro). Alcuni di questi enti possiedono una vera e propria fortuna immobiliare. L’Ordine del SS. Salvatore di Santa Brigida, ad esempio, è presente in 19 Paesi, con ben 50 strutture, di cui 6 solo in Italia e 3 a Roma.
Partendo da 10 casi concreti, Left ha fatto una stima dell’Imu che le case per ferie dovrebbero pagare se non fossero agevolate. Si aggira intorno ai 20 milioni.


 

Leggi l’inchiesta sul numero 47 di Left in edicola dal 5 dicembre

 

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Nogarin e Livorno, un rifiuto a 5 stelle

Lo si diceva anche di Pizzarotti: “fanno promesse e non le mantengono”. “Vogliono sfidare il sistema e poi al momento dei fatti, se ne trovano davanti uno ben diverso: quello reale”. Quello delle partecipate, quello dei dipendenti pubblici, della raccolta rifiuti e dei contratti con le multiutilities.

Poi, il primo sindaco a 5Stelle, quello parmense, è diventato un simbolo di nuovo modello di amministrazione, e il suo Comune ha perfino vinto il premio Anci come città con il più alto tasso di raccolta differenziata (quasi il 70%) e l’inceneritore nel frattempo è in sofferenza.

Ora tocca al livornese Filippo Nogarin. La sua decisione di non ricapitalizzare la Aamps, la municipalizzata dei rifiuti, optando per il concordato preventivo, ha scatenato reazioni e controreazioni nel Movimento 5 stelle e non solo. Sull’azienda – quasi 300 dipendenti tra impiegati, tecnici, operai, quadri e precari – di proprietà del Comune al 100%, grava un debito di 42 milioni accumulato dalle passate giunte a guida Pd.

Stavolta però, a differenza di Pizzarotti, Nogarin ha l’appoggio dei capi. Casaleggio, Grillo e direttorio si sono immediatamente schierati invitando le truppe pentastellate a sostenere la giunta toscana a suon di hashtag #NonPagoPerilPd. E dal blog attaccano: «Il Pd a Livorno non si è preoccupato di riscuotere la tariffa rifiuti per anni, tanto a tenerla in vita c’erano le banche, come il Monte dei Paschi di Siena. Istituti di credito che, col M5S ad amministrare, hanno chiuso i rubinetti. È per questo che l’amministrazione 5 Stelle ha ereditato dal Pd 42 milioni di euro di debiti».

Vero è, che a capo del consiglio di amministrazione dell’Aamps, da oltre due anni e mezzo, sono seduti proprio i 5 stelle. Primo fra tutti, il fedelissimo m5s 28enne perito Marco Di Gennaro, esaltato come «il nostro Steve Job» proprio dal primo cittadino. Genio poi stato rimosso senza grandi risultati. Di cambi di dirigenza ce ne sono stati svariati, e il baratro non è stato appianato.
Anche perché non sono riusciti a riscuotere i crediti proprio da una parte di quei cittadini che Grillo populisticamente difende: una grossa fetta del debito accumulato è infatti dovuto ai mancati introiti della municipalizzata, ovvero ai tributi non pagati proprio dai cittadini (secondo la dirigenza sarebbero circa 15 milioni di euro di morosità quelli legati a Tares 2013 e Tari 201).

Rifiuti: Livorno; attesa decisione Consiglio su concordato

In ogni caso, la paura di licenziamenti, fra tremare la città rossa. Giorni di assemblea permanente dei lavoratori hanno bloccato la raccolta dei rifiuti, e nonostante sempre il guru garantisca che «gli operai non rischiano il posto di lavoro e continueranno a percepire lo stipendio», questo si vedrà solo a operazione conclusa.

Ma l’appoggio al sindaco manca anche dalla sua squadra: alla seduta del Consiglio comunale sulla municipalizzata, tre consiglieri Cinquestelle hanno infatti votato contro il concordato, lamentando «l’assenza di condivisione e trasparenza», e facendo ballare una maggioranza che ora è ridotta all’osso (20 consiglieri di maggioranza e 13 di opposizione, che così diventerebbero 17 e 16). Naturalmente, la reazione nota a chi osa opporsi al Movimento, non tarda a farsi sentire: per Giuseppe Grillotti, Alessandro Mazzacca e Sandra Pecoretti è pronta l’espulsione – nonostante questo potrebbe mettere ancora più in difficoltà il governo cittadino, che dovrebbe puntare ai voti delle liste civiche. Accordi all’orizzonte per avere i voti con le altre liste in aula consiliare, dunque?
Si vedrà.

A cadere, anche la testa dell’assessore all’Ambiente, Giovanni Gordiani, che non solo si era detto contrario al concordato, ma aveva anche attaccato: «Siamo stati un anno a traccheggiare», ha detto in aula, aggiungendo poi: «Tante volte nell’attività di questa amministrazione si è privilegiato il ‘verba volant’, senza approfondimento, e questo è accaduto anche su Aamps. Tante volte sono uscito dalle riunioni di giunta per protesta, perché sono sempre stato abituato a approfondire, e questo spesso non è stato fatto. E quando si va di corsa e non si approfondisce si fanno scelte affrettate che danneggiano la città».

Assenza di trasparenza e condivisione la lamentano anche i tre dissidenti: «L’ultimo atto della giunta, discusso nell’ultimo consiglio comunale, ne è una riprova – si sfoga su facebook il consigliere Grillotti – Nessuno dei consiglieri sapeva che avrebbero deciso di seguire la strada del concordato preventivo. Ripeto, nessuno (per questo ne ho chiesto l’azzeramento)».
L’espulsione? «Che il movimento mi espella è nell’ordine delle cose. Mi interessa relativamente. La mia coerenza ai principi del movimento l’ho sempre dimostrata, nei fatti», risponde sempre Grillotti.

In realtà, la giunta sembrerebbe aver optato per una soluzione non così strampalata. Soldi per una ricapitalizzazione, non ce ne sono – lo stesso Nogarin ha invertito questa rotta dichiarando che «i tagli al bilancio del Comune sarebbero insostenibili, non vogliamo paralizzare la città» – e far fallire l’azienda per aprirne una nuova comporta costi e tempi altrettanto improponibili. Quest’ultima, probabilmente, è la soluzione dei puristi del Movimento, che non considerano però le conseguenze: qualcuno quel servizio te lo devo compiere. E la raccolta di rifiuti non si può fermare, perché da problema amministrativo diventa grana politica prima, ma emergenza sanitaria subito dopo. E se non hai soldi per crearne una nuova, finisci nelle mani di chi è già organizzato. Come per esempio Iren.

Il concordato preventivo invece, ti permette di resistere ai decreti ingiuntivi dei fornitori (da pagare in cash con conseguente sbilancio di cassa). Grazie a questo atto fai una ricognizione e riesci a concordare, appunto, un prezzo mediato con ogni creditore, ristrutturando così il debito. A Parma, che di partecipate ne ha 35 – contro le 10 di Livorno – è stato fatto diverse volte, in alcuni casi anche con partecipate con debiti da oltre 60 milioni di euro.

Una storia intricata, che sicuramente mette a dura prova il Movimento 5 stelle, quanto meno quello fatto di accuse e certezze, e testa la loro reale capacità di poter governare.

A parlare, più che il blog, saranno i risultati.

Antigone: perché chiediamo l’introduzione del reato di tortura

Tortura. Un termine che nell’ultimo anno è tornato prepotentemente, per due volte, alla ribalta della cronaca italiana.

La prima volta fu ad aprile quando la Corte Europea dei Diritti Umani condannò l’Italia a risarcire Arnaldo Cestaro che, nel luglio 2001, si trovava all’interno della Diaz durante il G8 di Genova. Per Strasburgo le violenze subite in quell’occasione e inflitte dai pubblici ufficiali che fecero irruzione nella scuola erano qualificabili come “tortura”.

Il secondo caso è invece di pochi giorni fa. Lo scorso 23 novembre i giudici di Strasburgo hanno ritenuto ammissibile il ricorso presentato da Antigone e realizzato con la collaborazione di Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia. In questo caso il Governo però ha dimostrato di non avere intenzione di aspettare la condanna. Del resto troppo forte fu la presa di posizione del giudice che in Italia seguì il processo e nella sentenza scrisse che i fatti avvenuti in quel carcere erano qualificabili come tortura, ma che i responsabili non potevano essere puniti per l’assenza di una legge apposita nel nostro ordinamento.

Il 10 dicembre 2004 due detenuti vennero denudati, condotti in celle di isolamento prive di vetri nonostante il freddo intenso, senza materassi, lenzuola, coperte, lavandino, sedie, sgabello, razionandogli il cibo, impedendogli di dormire, insultandoli e sottoponendoli nei giorni successivi a percosse quotidiane anche per più volte al giorno con calci, pugni, schiaffi in tutto il corpo e giungendo, nel caso di uno dei due, a schiacciargli la testa con i piedi.

Torture appunto. Torture che il giudice non poté punire e che oggi implicitamente il governo riconosce offrendo ai due ex detenuti una composizione amichevole. 45.000 € ciascuno per evitare il giudizio e, verosimilmente, un’altra condanna.

Nel frattempo però l’approvazione di una legge che punisca la tortura appare sempre più lontana. Approvata in prima lettura al Senato nel marzo del 2014 è stata trasmessa alla Camera che – sull’onda della sentenza europea sulla scuola Diaz e con Matteo Renzi che dichiarava avrebbero risposto alla condanna con una legge – la approvò lo scorso mese di aprile. Un testo che modificato è però tornato al Senato dove, tra disinteresse e volontà di modificare nuovamente il testo, per altro difforme da quello della Convenzione delle Nazioni Uniti, rischia di essere nuovamente accantonato.

Per spingere governo e parlamento ad approvare la legge Antigone lanciò nel marzo 2014 una propria campagna: “Chiamiamola Tortura”. Un nome non casuale. Tortura è un termine che in Italia non esiste. Da noi si parla di lesioni, magari di violenza. Ma di tortura mai. Per questo la campagna fu chiamata così, per restituire a questa parola il suo significato pieno, profondo, che sa di crimini contro l’umanità. Insomma, per tornare a chiamare le cose con il loro nome.

Testimonial della prima ora furono Erri De Luca, Massimo Carlotto, Ilaria Cucchi, Piotta, Mauro Palma. A loro si sono uniti oltre 52000 cittadini che firmarono la petizione su www.change.org/chiamiamolatortura. Una campagna che ancora prosegue, anche sui social con l’hashtag, #SubitoLaLegge.

La tortura in Italia esiste ed è praticata. Serva una legge che lo riconosco e che permetta di punirla.

*Antigone

I volti intensi delle donne del digiuno alla Feltrinelli di Latina

Il giorno dei funerali di Paolo Borsellino in quel maledetto luglio del 1992, un gruppo di donne siciliane decise di fare lo sciopero della fame. Occupano Piazza Castelnuovo e iniziano un digiuno a staffetta, secondo le modalità del movimento non violento. È una “fame di gustizia” che denunciano e gridano alla città. Francesco Francaviglia era un bambino di dieci anni e nonostante fosse molto piccolo, rimase colpito da quell’atmosfera che si respirava a Palermo. Un’aria di disperazione ma anche, appunto, di resistenza e di coraggio. Molti anni dopo quel bambino che dopo gli studi del violoncello con Giovanni Sollima è diventato un fotografo, decise di rintracciare quelle donne e di fotografarle. Ecco come nasce Le donne del digiuno, una mostra fotografica che è stata ospitata agli Uffizi e in molti altri luoghi d’Italia e che poi è diventata un libro (Postcart, 2014). Volti intensi, svati e coraggiosi in cui lo sguardo è diretto, profondo: una dichiarazione di non resa, di lotta, di sfida alla normalità, quella di cui spesso si alimenta la mafia.

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Sabato 5 dicembre, alle ore 16, Le donne del digiuno viene presentato alla libreria Feltrinelli di Latina in un incontro coordinato dal fotografo Filippo Trojano. Partecipano l’autore, Francesco Francaviglia e Franca Imbergamo, magistrato della Procura antimafia che è tra gli autori dei testi che compaiono nel libro. Lo stesso magistrato che si racconterà su Left in una intervista-reportage a cura di Filippo Trojano.

«Rivedere oggi quei volti nelle foto di Francesco Francaviglia, significa misurare tutto il dolore e l’orrore di quanto è accaduto e tutto l’immane vuoto di verità che, ancora oggi, nonostante tutto, avvolge le stragi… Una scia di sangue che non si interrompe nell’estate siciliana del 1992 e sale lungo la penisola, nei luoghi simbolo della vita della nazione per seminare il terrore…», scrive Franca Imbergamo. Gli altri autori dei testi sono: Letizia Battaglia, Marco Delogu, Daniela Dioguardi, Letizia Ferrugia, Francesco Giambrone, Pietro Grasso, Leoluca Orlando, Antonio Natali, Simona Mafai, Maria Maniscalco, Salvo Palazzolo.

Maurizio Landini e Mirafiori Luna Park: «Anche un film serve per ricucire la rete sociale»

Era un Landini diverso quello visto ieri sera al cinema Apollo 11 per la presentazione a Roma di Mirafiori Luna park, il film di Stefano Di Polito che rappresenta una delle sorprese di questa stagione cinematografica. Rilassato, senza i toni talvolta fin troppo accesi del talk televisivi, Landini ha parlato di lavoro, di memoria e di futuro da ricostruire, che poi sono i temi dell’opera prima del regista, figlio di genitori entrambi ex operai di Mirafiori.

Il segretario Fiom arriva al cinema vicino a Piazza Vittorio fresco di vertenze in corso al Ministero. «Domani (oggi Ndr) al Ministero parleremo poi del futuro del contratto nazionale», dice ed è chiaro che siamo di fronte all’ennesimo tentativo di svalutare e depotenziare il valore del lavoro, dopo il Jobs act e dopo le dichiarazioni del ministro Poletti sull’orario. Ma ieri sera Landini ha puntato molto sulla necessità di reagire dal basso. «Bisogna ricostruire l’unità sociale perché una competizione come c’è adesso tra le persone non l’avevo mai vista», dice. Così come – e ormai lo ripete da tempo – ha ribadito «anche i sindacati si devono muovere». Il segretario Fiom, seduto su una sedia mentre sul divanetto rosso della scena molto off del cinema Apollo 11 stavano Tiziana Barillà di Left che ha coordinato l’incontro, il regista Stefano Di Polito e Antonio Catania, uno dei tre protagonisti del film, insieme a Giorgio Colangeli e Alessandro Haber. Landini ha raccontato della rete sociale che si sta creando nella vicina Cinecittà, dove ha visitato una mensa «con gente che non sono barboni» ma persone che hanno perso il lavoro e non hanno più nulla, nemmeno la possibilità di fare la spesa. «Di fronte a loro – continua Landini – i 500 euro promessi ai diciottenni sono un’offesa alla dignità delle persone». E rispetto al film – che parla appunto di una fabbrica dismessa e della desertificazione di un quartiere che però vuole reagire – Landini sottolinea che «un punto da ricostruire è la rottura della memoria per trasmettere ai giovani un vissuto, sempre per la tutela della centralità della persona». Incalzato da Tiziana Barillà, Landini ha poi parlato della grande campagna di consultazione che tra poche settimane interesserà i cinque e milioni di iscritti della Cgil. Tema: il nuovo Statuto dei lavoratori che questa volta sarà esteso anche al lavoro autonomo. Ma anche la possibilità di un quesito referendario per abrogare il Jobs act . «È la prima volta che il sindacato si pone il problema di cancellare una legge», dice Landini che ricorda come il famoso referendum sulla scala mobile del 1985 in realtà era stato lanciato dal partito comunista.

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Il lavoro come memoria che fa parte del patrimonio di vita, di affetti, di storia. Lo hanno raccontato Antonio Catania e Stefano Di Polito che quel quartiere di Mirafiori lo conosce bene. Lo stesso luogo, anche, che forse può avere un altro futuro. «In quella stesa fabbrica dismessa dove ho girato il film – ha annunciato il regista – mi hanno offerto di creare attività di carattere sociale». È un primo passo, ma la rete sociale da ricostruire non è cosa facile. Intanto il film continuerà il tour in Italia incontrando ogni volta esperienze, personaggi e storie che raccontano di un’altra Italia alle prese con la resistenza alla frammentazione. E anche alla repressione, come è accaduto ieri sera con la testimonianza delle operatrici della Casa della pace di Roma. Un luogo occupato da oltre trent’anni, spazzato via da uno sfratto con un blitz improvviso e una pioggia di denunce. Naturalmente si è parlato anche del centro Baobab in quelle ore sotto la stessa minaccia e così di altre realtà della Capitale sempre più ostile a quella rete sociale dal basso che però è l’unica soluzione contro il degrado sociale ed economico. Che esiste, nonostante le visioni edulcorate dell’Italia in stile renziano.

Venerdì 4 un altro appuntamento al cinema Apollo 11. Il tema dell’incontro che precede la proiezione è impegno e legalità, con Paolo Masini e Davide Mattiello. Domani, sabato 5, si parlerà di ambiente e impegno civico con Raphael Rossi e Marco Lillo, sempre alle 20.30. Infine domenica 6 dicembre (ore 18) l’incontro su impegno civico e intercultura con Gabriella Guido di LasciateCientrare e Andrea Masala di Arci. 

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