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«Non ce ne andiamo più», le contraddizioni di Obama in Afghanistan

Doveva essere il presidente del “Nuovo Inizio” nei rapporti tra l’Occidente e il mondo islamico. Aveva ripetuto, al momento del suo primo insediamento alla Casa Bianca, che ai primi posti nella sua agenda di politica estera ci sarebbe stata la “questione palestinese”. Il “presidente globale” si era fatto paladino dei diritti umani e aveva promesso che da presidente avrebbe agito per chiudere Guantanamo. Nulla di tutto ciò è avvenuto. Nessun “Nuovo Inizio”, lo Stato palestinese è schiantato contro la politica di colonizzazione portata avanti dalla destra nazionalista israeliana, Guantanamo c’è ancora, e il mondo che aveva acclamato l’elezione di Barack Hussein Obama alla presidente degli Stati Uniti, e accolto con meno fervore ma con ancora qualche speranza la sua rielezione, è un mondo che si scopre ancora più ingiusto, destabilizzato, insicuro rispetto ai giorni dell’insediamento del presidente che aveva fatto di “Hope” e “Change” le cifre del suo mandato.

La realtà è un’altra. Ben peggiore. All’Obama sognatore si è sostituito, in politica estera, una fotocopia venuta male, quella di un presidente indecisionista, che promette e non mantiene, il leader che fissa “red line” invalicabili (vedi la Siria e l’uso delle armi chimiche da parte di Bashar al-Assad) ma puntualmente valicate come se nulla fosse. E’ l’Obama delle tante scuse, del dolore, del rincrescimento – ultima esternazione quella che ha fatto seguito al criminale bombardamento Nato-Usa dell’ospedale di Medici senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan -. L’Obama che fa la voce grossa con la Russia di Vladimi Putin sulla crisi ucraina, per poi lasciare campo libero a “zar Vladimir” in Siria. Non si chiedeva a Obama di vestire i panni del “Gendarme” del mondo, – quando i suoi predecessori alla Casa Bianca l’hanno fatto, hanno provocato solo disastri, vedi Bush padre e figlio in Iraq), ma di essere un presidente coerente, conseguente, questo sì, era il minimo che ci si poteva attendere viste le suggestioni che avevano contrassegnato la sua salita ai vertici dell’America. Così non è stato. E la tragedia che investe il Grande Medio Oriente ne è la tragica testimonianza. Obama si è fatto vanto di aver portato fuori dal pantano iracheno anche l’ultimo marine, per una guerra che era stata di George W.Bush e non la sua, ma l’Iraq che ha lasciato è un Paese devastato, è uno Stato fallito, terra di conquista da parte delle milizie dell’Isis e degli altri attori regionali, a partire dall’Iran per finire con Turchia e Arabia Saudita) che non nascondono le loro ambizioni di potenza nella regione. E così il ritiro militare dall’Iraq, e le fallimentari scelte compiute sulla Siria, hanno trasformato un ritiro militare in una disfatta politica. Ecco allora, entrare in scena, l’Obama “rallentatore”, il “dietrofrontista”.

E’ il caso dell’Afghanistan. Il presidente americano è in procinto di annunciare la decisione dalla Casa Bianca. Da giorni giravano indiscrezioni di stampa secondo le quali Obama stava valutando di lasciare in Afghanistan un numero di truppe più alto del previsto, fino a 5.500 unità, anche oltre il 2016, ovvero la scadenza del suo secondo mandato. Era stato il “Washington Post” a riferirlo per primo citando fonti informate: a quanto risulta il presidente si sarebbe basato su un piano presentato lo scorso agosto dall’allora capo di stato maggiore interforze generale Martin Dempsey. Un cambio di rotta, dunque, rispetto a quanto deciso in precedenza e che viene stabilito dopo la ripresa degli scontri con i talebani nella regione di Kunduz (e la nascita di gruppi jihadisti legati allo Stato Islamico.

Il nuovo programma prevede che i 9.800 soldati di Washington in Afghanistan restino nel Paese per gran parte del 2016 e che la loro presenza venga gradualmente ridotta. A un certo punto nel 2017, hanno riferito le fonti, i militari americani nel Paese caleranno a 5.500 e saranno di stanza a Kabul, Bagram, Jalalabad e Kandahar. Gli Stati Uniti hanno schierato le loro forze in Afghanistan 14 anni fa, con l’operazione Enduring Freedom all’indomani dell’11 settembre. In questi anni sono morti 2.372 soldati statunitensi, e decine di migliaia di civili afghani. Il dietrofront di Obama è il segno del fallimento di una strategia che nasce prima della sua presidenza, una strategia fondata sull’illusione che la forza militare potesse surrogare l’assenza di una visione politica; la forza come fine e non strumento, l’incapacità di vedere e puntare sulle forze sane della società civile afghana, puntando invece sul riciclaggio dei “signori della guerra” trasformati in improbabili leader politici e di governo. Un discorso che dall’Afghanistan può estendersi a tutti gli altri teatri di crisi di un mondo dove a crescere è solo l’”esercito” dei profughi (oltre 60milioni) e dove “Speranza” e “Cambiamento” non hanno diritto di cittadinanza.

Varoufakis e la carica dei 1101. Dal primo novembre in Eurovisione

Stanno arrivando e «vengono a cambiare tutto». Quando? Domenica, 1 novembre. Con un trailer, pieno di suspance, tre mesi dopo le dimissioni dal governo Tsipras, l’ex ministro delle Finanze Yanis Varoufakis torna alla ribalta. E annuncia l’imminente arrivo di un movimento europeo contro l’austerità.

Il video, intitolato “1101 stanno arrivando”, è in Rete dall’8 ottobre in lingua greca e in inglese. Sfondo metallico, a metà tra un fantasy e un film d’azione, non presenta alieni ma persone: Yanis, Cleone, George, Zoe, Alex, Manolis, Konstantinos. E poi, ancora: Fedra, Stavros, Odysseas, Renetta, Costas, Virginia.

Vengono per cambiare la società, l’informazione, la storia, la democrazia. Per cambiare ogni cosa. Non rimane che fare il conto alla rovescia, fino al primo novembre. E sperare che non sia solo un film.

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Con Left i “semi di resistenza”

sicurezza alimentare

“Semi di resistenza” è il titolo della cover story di Left di questa settimana. Il trattato internazionale sulle sementi ha stabilito trent’anni fa che i contadini possono scambiarsi liberamente i loro semi, ma presto potrebbe non essere più così. Le grandi multinazionali, approfittando della possibilità di accedere sempre più facilmente alla banca dati genetica che “mappa” i semi, potrebbero imporre ai contadini di pagare per utilizzare semi con particolari caratteristiche “brevettate”, espandendo il loro controllo del mercato fino al monopolio.

L’allarme arriva nelle giornate dedicate alla sicurezza alimentare e dal cuore della Fao dove le organizzazioni contadine riunite con i governi per discutere di sovranità alimentare denunciano l’atteggiamento manipolatorio di Paesi come Canada e Australia, che impongono il proprio modello anche a Paesi che invece vorrebbero puntare sulla cosiddetta agroecologia: un modello di produzione agricola basato sulle produzioni naturali e sul consumo locale. Left ne ha discusso con Pierre Rabhi, storico esponente del movimento francese dei Colibrì, con il teorico della Blue economy Gunter Pauli e con il “gastro-performer” Donpasta che raccontano dei “Semi di resistenza” nel mondo.

Left non poteva non approfondire la questione “romana” e le dimissioni di Ignazio Marino e lo fa analizzando le battaglie che il “marziano” ha intrapreso nei suoi de anni da sindaco: dalla chiusura di Malagrotta alla Metro C, dalle unioni civili ai bilanci approvati in tempo.  Mentre il Pd romano è tutto da ricostruire, come dice il governatore della Toscana Enrico Rossi intervistato da Left. Marco Craviolatti dimostra come la riduzione dell’orario di lavoro non sia incompatibile con la realizzazione del reddito di base e perché tutto questo dovrebbe essere una battaglia della sinistra. Poi l’uragano Netflix e il rischio che corrono le Pay tv e un lungo sfoglio di esteri. L’Italia andrà in guerra?  Per il momento gli annunci sono poco chiari e comunque c’è allarme tra gli esperti .

Un reportage dalla Croazia è un’altra tappa dell’inchiesta di Left lungo le frontiere da cui passano i migranti in cerca di una speranza. Mentre da Pechino arriva un originale Diario di viaggio, 65 città e un musicista. Nei giorni della ripresa delle violenze tra Palestina e Israele Left anticipa alcune tavole del libro fumetto dedicato a Vittorio Arrigoni, Guerrilla Radio.

In cultura Ascanio Celestini racconta il “backstage” del suo film Viva la sposa. Un’anticipazione, questa volta del romanzo di Emanuele Santi, Campo Marzio: una storia tra calcio, amori nel fatidico 1981. E per chiudere, l’affaire Mondazzoli: i piccoli editori indipendenti non ci stanno e lanciano nuove proposte; i progressi nella cura della malaria e l’intervista a Giulia Elettra Gorietti, protagonista di Suburra, da ieri nelle sale cinematografiche.

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Homeland manda in onda in prima serata graffiti che accusano la serie di razzismo

Sul set dell’ ultimo episodio di Homeland, serie tv che ha ricevuto tanti premi quante critiche per il controverso ritratto del Medio Oriente e dei musulmani che ha offerto in questi anni, vi erano anche un gruppo di graffitari arabi chiamati appositamente dalla produzione per dare autenticità alle pareti di un campo profughi in Siria. Gli artisti di strada hanno deciso di lasciare un chiaro messaggio attraverso i loro disegni: hanno tappezzato di slogan in arabo le mura del set, accusando esplicitamente la serie di avere idee razziste. Scritte come: «Homeland è solo uno scherzo, che non fa ridere nessuno», «Homeland non è una serie» o «Homeland non esite» sono apparse sul set del secondo episodio della quinta stagione. Altre scritte utilizzate dai graffitari per veicolare il loro messaggio contenevano riferimenti culturali precisi, come l’#blacklivesmatter, un movimento attivista negli Stati Uniti, nato nel luglio 2013 dopo l’assoluzione di George Zimmerman nella sparatoria in Florida che ha causato la morte del ragazzo afro-americano Trayvon Martin. Nell’episodio incriminato della serie, l’ultimo andato in onda negli Stati Uniti, ambientato in un campo profughi al confine siro-libanese ma girato a Berlino, la protagonista Carrie Mathison, interpretata da Claire Danes, sfugge miracolosamente a un misterioso complotto ordito per ucciderla. In una scena passa di fianco a un muro dove è visibile e riconoscibile la scritta in arabo: «Homeland è razzista».

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Gli artisti, Heba Amin, Caram Kapp e Pietra, sono stati contattati da un amico che aveva ricevuto una richiesta dalla società di produzione dello show televisivo per avere sul set “artisti di strada arabi” che dipingessero graffiti sui muri del campo. Inizialmente il trio era scettico circa l’affare con la serie, fortemente criticata in passato per aver rappresentato i musulmani come terroristi, dando un’idea del mondo musulmano in generale completamente differente dalla realtà. «Data la reputazione che la serie si portava dietro non è stato facile convincerci, poi abbiamo fatto un altro tipo di ragionamento: il nostro intervento avrebbe potuto rendere visibile lo scontento politico che noi e tanti altri avevamo accumulato nei confronti della serie. Era il nostro momento per veicolare la nostra idea e per sovvertire il messaggio che la serie dà, utilizzando lo spettacolo stesso», hanno detto gli autori in un comunicato pubblicato sul sito web di Amin. Nel primo incontro con la produzione, agli artisti erano stati assegnati una serie di graffiti pro-Assad, “apparentemente naturali in un campo profughi siriano” con il preciso compito di utilizzare solo segni e simboli apolitici. Mentre gli scenografi erano occupati a costruire il set, gli artisti si sono messi all’opera e agli sceneggiatori non è minimamente passato in mente che quelle scritte potessero avere un contenuto politico, addirittura di critica alla serie stessa. «Il contenuto di quello che era scritto sul muro per loro non è un problema. Ai loro occhi, la scrittura araba è semplicemente un abbellimento visivo che completa l’immaginario horror-fantasy del Medio Oriente. Danno un’immagine disumanizzante di un’intera regione, rappresentandola come piena di personaggi non del tutto umani, vestiti con burka neri o, come in questa stagione, con profughi e rifugiati cattivi, pronti a tutto pur di vendicarsi» ha detto Amin, uno degli artisti, in un’intervista rilasciata al Guardian. E ha continuato: « è chiaro che non conoscono la regione che stanno cercando di rappresentare. Noi che ci abitiamo, però, soffriamo le conseguenze di questa rappresentazione superficiale e fuorviante del nostro Paese».

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Homeland è stato più volte criticato durante le sue cinque stagioni, in particolare sul proficuo rapporto che, secondo la serie, intercorrerebbe tra Al-Qaida e Hezbollah. Dopo la quarta stagione, in cui Islamabad è rappresentata come un vero e proprio “inferno”, la portavoce dell’ambasciata del Pakistan, Nadeem Hotian, disse che «calunniare un paese che è stato un partner stretto e alleato degli Stati Uniti è un disservizio, non solo per gli interessi di sicurezza degli Usa, ma anche per il popolo americano». Il creatore e produttore esecutivo della serie, Alex Gansa, ha reagito all’incidente in un’intervista con la rivista Deadline dicendo: «Avremmo voluto accorgerci di queste immagini prima che potessero essere viste in tutto il mondo. Tuttavia, Homeland si sforza sempre di essere sovversivo nel modo in cui tratta gli argomenti che affronta. Il gesto è quindi uno stimolo per la conversazione e il confronto, non possiamo fare a meno di ammirare questo atto di sabotaggio artistico».

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Domani al via la Festa del Cinema di Roma. Una gallery per celebrarne i protagonisti

In attesa dell’inizio della Festa del Cinema di Roma ecco una serie di foto per celebrare i protagonisti che animeranno i red carpet e gli schermi della Capitale dal 16 al 24 ottobre.

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Virna Lisi in una foto d’epoca. La Festa del Cinema è dedicata all’attrice italiana scomparsa lo scorso anno.

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Il regista Antonio Pietrangeli durante le riprese di Adua e le compagne con Simone Signoret e Marcello Mastroianni. A Pietrangeli sarà dedicata una retrospettiva durante la Festa del Cinema di Roma.

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Tra gli autori celebrati alla Festa del Cinema anche il maestro Ettore Scola

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Tra le retrospettive in programma anche quella sulle opere del regista cileno Pablo Larrain, famoso presso il grande pubblico per No. I giorni dell’arcobaleno interpretato da Gael Garcia Berna.

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Il regista cult Wes Anderson durante le riprese di Moonrise Kindom. Anderson sarà presente a Roma insieme alla scrittrice Donna Tartt nella sezione “incontri ravvicinati”.

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Donna Tartt ha vinto il premio Pulitzer per la letteratura con Il Cardellino

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Cate Blanchett in una scena di Truth di cui è protagonista insieme a Robert Redford. La pellicola girata dal regista James Vanderbilt aprirà della decima edizione della Festa del Cinema. Al centro del film lo scandalo sui presunti favoritismi ricevuti da George W. Bush per andare alla Guardia Nazionale anziché in Vietnam, che passò alla storia come il “Rathergate”.

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Robert Redford è stato protagonista di un’altra pellicola cult per il mondo del giornalismo: Tutti gli uomini del presidente, in cui interpretava un giornalista alle prese con il “Watergate” che portò alle dimissioni di Nixon. Sopra una foto d’epoca in cui un giovane Robert Redford in vacanza in Messico, gioca a ping pong con gli amici Lawrence Schiller (di spalle) e Paul Newman.

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Ellen Page è una delle attrici più attese sul red carpet. A Roma domenica 18 alle 19.30 presso la Sala Sinopoli presenterà in prima persona Freeheld film di cui è anche produttrice.

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La Page è coprotagonista di Freeheld insieme a Julian Moore. Il film tratta la toccante storia di una donna malata terminale di cancro, interpretata dalla Moore, che dopo una vita passata come polizia si batte perché la giovane compagna (Page) ottenga la reversibilità della pensione. Tratta da una storia vera, la pellicola è la trasposizione cinematografica dell’omonimo cortometraggio documentario del 2007, diretto da Cynthia Wade, che ha vinto il Premio Oscar per il Miglior cortometraggio documentario nel 2008.

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Atteso anche Wim Wenders a cui viene dedicata una delle retrospettive. Qui sul set del suo film biografico Pina, dedicato alla coreografa tedesca Pina Bausch

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Tra i film proiettati anche The end of the tour. La pellicola racconta gli esordi della carriera di David Foster Wallace, in particolare la storia di quando il reporter di Rolling Stones, David Lipsky, seguì Wallace durante il tour americano per la promozione del libro “Infinite Jest”.

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Fassina sulla legge di Stabilità: «Renzi ha partorito una finanziaria berlusconiana»

Forte, semplice, giusta e orgogliosa: è questa, a sentire il governo, l’idea di «Italia col segno più» che esce dalla legge di Stabilità 2016 che il presidente del Consiglio ha definito «delle buone notizie», rivendicando in particolare i successi sulla lotta all’evasione fiscale. Abbiamo chiesto un commento a Stefano Fassina, viceministro dell’Economia con Enrico Letta e deputato uscito dal Pd in polemica con la linea del premier segretario Matteo Renzi.

Che giudizio dà della legge di Stabilità?
La legge di stabilità ha un segno distributivo regressivo, un segno di iniquità. Al di là delle mance, si tagliano 2 miliardi alla Sanità rendendo la salute non più diritto universale ma un privilegio di censo. Poi si rimuove il dramma del Mezzogiorno… Per sintetizzare è una finanziaria davvero berlusconiana, sia per il segno elettorale sia per il segno sociale.

Tra le misure c’è anche l’innalzamento del limite del contante da 1.000 a 3.000 euro.
Una misura coerente con il riposizionamanto del Partito democratico operato da Renzi. Serve a mandare un messaggio chiaro a chi è sensibile alle misure antievasione. Prima queste persone avevano come interlocutore e riferimento Berlusconi e ora non ce l’hanno più. Come su altri punti programmatici, Renzi guarda a quell’elettorato e quindi lancia un messaggio a chi è preoccupato dalla lotta all’evasione fiscale.

Renzi non considera che potrebbe inimicarsi una parte del suo elettorato?
Lo ha già messo in conto. Del resto il rapporto con quel pezzo di elettorato è stato già largamente compromesso con il Jobs act e con l’intervento sulla scuola: la perdita di consenso in questa fascia di elettori è modesta. Il presidente del Consiglio spera che sia consistente, invece, l’incremento in termini di consolidamento e fidelizzazione di quell’altro pezzo di elettorato orfano di Berlusconi.

Ma il premier ha spiegato che otterrà 12 miliardi di nuove entrare dalla lotta all’evasione.
Parla di risultati che non sono frutto di sue iniziative. Sono alcuni anni che il valore del recupero è attorno a quella cifra. Quindi è un fenomeno consolidato, sebbene lui lo presenti come merito della sua iniziativa.

Il governo va anche orgoglioso del rientro dei capitali: 1,4 miliardi sono stati recuperati nel 2015 e in legge di Stabilità sono previsti prudenzialmente altri 2 miliardi, ma secondo Renzi ne arriveranno almeno 5 solo dalla Svizzera.
Quella misura era stata largamente impostata e quasi completata dal governo Letta dentro il quadro Ocse, quindi non c’è valore aggiunto di Renzi. Non origina da lui ma sta nel quadro di una cooperazione internazionale. È una misura importante, ma va tenuto presente che le entrate sono in larghissima parte una tantum, quindi non possono coprire tagli di tasse che invece sono di carattere permanente.

Rimaniamo sulle scelte del governo attuale: le iniziative di questo anno e mezzo che contributo hanno dato alla lotta all’evasione?
La misura sul contante, la mano molto leggera sul falso in bilancio – con norme che secondo tanti magistrati rischiano di far saltare i processi -, l’allentamento delle maglie per le frodi fiscali: sono tutti provvedimenti che vanno in direzione opposta. Poi ci sono iniziative autonome dell’Agenzia delle Entrate di incrocio di banche dati, che invece rappresentano uno strumento utile, ma in un contesto che va in un’altra direzione.

Possiamo dire che la lotta all’evasione si fa a prescindere dalla volontà del governo?
Più che a prescindere direi che la lotta all’evasione si fa “nonostante” gli interventi del governo, che su contante, sanzioni alle frodi e falso in bilancio vanno in direzione opposta.

In legge di Stabilità c’è anche un provvedimento a sostegno dei bambini poveri (600 milioni nel 2016). C’è una volontà redistributiva quindi…
Il provvedimento stanzia qualche centinaio di milioni contro la povertà, ma a fronte di una Tasi che per almeno un miliardo e mezzo fa un mega-sconto ai proprietari di case del valore di milioni.

A proposito di tasse sulla casa, se il governo tiene fuori dall’abolizione quelle di lusso è un buon passo avanti, non crede?
Dipende da come definiamo le case di lusso: se ci riferiamo a ville e castelli, quelle le aveva lasciate fuori anche Berlusconi. Se il riferimento è alle case del valore di milioni di euro, quelle saranno ricomprese nell’intervento.

E intanto la revisione del catasto sembra archiviata…
Questo è l’altro punto importante: il decreto sula revisione del catasto è stato abbandonato su un binario morto., mentre sarebbe decisivo per fare un’operazione con qualche segno di equità. In commissione Finanze abbiamo più volte rimarcato la necessità di riprendere la discussione, ma il punto è che se si riforma il catasto qualcuno paga di più. Torniamo al tema dell’elettorato al quale si vuole parlare.

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Niente Ponte sullo Stretto. Quali priorità per le infrastrutture del Sud?

Bando alle ciance. Quello del ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio – pronunciato il 14 ottobre in occasione di un question time – è stato un No: no, «il Ponte sullo Stretto non è una priorità del governo». Che poi lo abbia detto in politichese – destreggiandosi tra frasi piroettistiche del tipo: «Il governo ha espresso una valutazione positiva sulla valutazione dell’opportunità di riconsiderare il progetto» – per non turbare troppo il collega Angelino Alfano, è un’altra storia. Certo è che, dentro il cosiddetto partito della Nazione, il “Ponte” è un tasto assai dolente, dal momento in cui per Alfano è un cavallo di battaglia sin dai tempi in cui faceva politica locale nella sua Sicilia. Forse vale la pena soffermarsi su un nodo: se il Ponte «non è tra le priorità» del governo, quali sono allora le «altre priorità infrastrutturali»? Decenni e decine di milioni spesi dopo, proviamo a capire cosa contiene l’allegato infrastrutture del ministero (il Def).

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Un Paese a doppia velocità

Sapevate che per percorre la (pressoché) uguale distanza si possono impiegare tempi assai diversi a seconda della direzione del treno? Un rapido e approssimativo esempio:

  • L’alta velocità Roma Termini-Milano Centrale, circa 600 chilometri, prezzo base 86 euro, impiega 2 ore e 55 minuti (tempi che si accorciano a 2 ore e 20 minuti con il Frecciarossa Etr 1000) viaggiando a una velocità massima di 350 km/h.
  • L’alta velocità Roma Termini-Reggio Calabria Centrale, circa 700 chilometri, prezzo base 81 euro, impiega 5 ore e 15 minuti, viaggiando a un massimo di 250 km/h.

Vi sembra già esagerato? Cliccate su questa immagine per farvi un’idea sulla qualità dei servizi:

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L’asse ferroviario, nella manica

Sono le disastrate linee ferroviarie del Paese le indiscusse protagoniste dell’ammodernamento. E, a quanto pare, lo sono pure per il ministro Delrio che, durante lo stesso question time, ha detto espressamente che il potenziamento dell’asse ferroviario Salerno – Battipaglia – Reggio Calabria «è nelle priorità del governo». E costerà 230 milioni euro. E ha poi aggiunto: «Intanto che reperiamo le risorse per realizzare i progetti del quadruplicamento della rete Salerno-Battipaglia-Reggio Calabria e della variante Ogliastro-Sapri, investiamo per portare a 200 chilometri orari questa linea nell’arco di un anno e mezzo a partire da oggi», ricordando che il relativo accordo di programma 2012-2016 sarà aggiornato «mettendo altri 100 milioni di euro per interventi di velocizzazione».
Insomma, dell’accordo di programma 2012-2016 fanno parte: il potenziamento dell’asse Battipaglia-Reggio Calabria con la variante di Ogliastro Sapri (che appartiene alle reti di trasporto transeuropee Ten-T (Trans-European Networks – Transport), sulle quali il governo promette di «investiremo molto», il quadruplicamento della linea Salerno-Battipaglia e l’adeguamento tecnologico infrastrutturale della linea. E, il ministro, ha pure annunciato l’alta velocità fino a Lecce, i treni veloci smetteranno di fermarsi a Bari.

«Entro il 2016 credo che potremo completare la velocizzazione dell’asse ferroviario Salerno-Reggio Calabria» con tempi di percorrenza «superiori ai 200 chilometri orari». Ed è su quel «credo», forse, che si dovrebbe concentrare il dibattito.

il casello dell'autostrada Siracusa-Gela
il casello dell’autostrada Siracusa-Gela

E la Sicilia?

Per dirla con le parole dell’onorevole Claudio Fava: «Sui trasporti, in Sicilia siamo fermi non a tempi di percorrenza ferroviaria del governo Letta, ma del governo Crispi: 8 ore di percorrenza ferroviaria per raggiungere Ragusa da Palermo, una velocità media di 32 chilometri all’ora tra Trapani e Palermo, la Catania-Palermo interrotta. Di fronte a tutto questo, ci saremmo aspettati, ci aspetteremmo, ci aspettiamo da questo governo una parola definitiva che valuti l’inopportunità, per oggi e per domani, di riprendere in considerazione questo progetto». Ovvero il progetto del Ponte sullo Stretto, sul quale in effetti una pietra sopra ancora non è stata messa.

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Ius soli, Chiara Ingrao: «Un diritto è un diritto, non può essere temperato»

«Lo chiamano ius soli temperato, ma un diritto non può essere “temperato”. Un diritto è un diritto». Chiara Ingrao è netta nel suo giudizio sul disegno di legge sulla cittadinanza appena approvato alla Camera e che ora andrà al Senato. Lei di questo tema è un’”esperta” dal vivo, si potrebbe dire. Nel senso che nel 2014 ha pubblicato per «un piccolo ma importante» editore calabrese, Coccole Books, il libro Habiba la Magica. E da allora è stato un fiume ininterrotto di incontri e dialoghi nelle scuole, dalle elementari alle medie inferiori. Partendo dal libro, Chiara è andata a raccontare i suoi personaggi tra i bambini di molte regioni soprattutto del Sud e del centro e a rispondere alle domande dei bambini sulla storia di Habiba. Anche il giorno dopo i funerali del padre Pietro, Chiara si è recata fino in Calabria a parlare con 400 bambini. «Mi è sembrato il modo più bello per rendere omaggio alla memoria di mio padre», dice la scrittrice e sindacalista che nel romanzo Dita di dama (La Tartaruga) aveva raccontato l’esaltante presa di coscienza di alcune operaie in una fabbrica degli anni 70.

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Habiba invece è la storia di una bambina, tifosa della Roma, nata in Italia, con una zia che la “vorrebbe” africana, con il suo mondo di fantasia e di affetti, la scuola, le amiche, le paure e i sogni. Una vita come quella di tanti altri giovanissimi italiani nati da genitori stranieri che si sentono ovviamente italiani a tutti gli effetti. «Capisco chi ha votato a favore del disegno di legge, ci sono centinaia di migliaia di giovani che adesso possono ottenere la cittadinanza. Ma ritengo che sia un pastrocchio, non mi piacciono tutti questi paletti. Temo che in seguito la legge possa avere norme ancora più ristrettive», continua Chiara.

Lo ius soli temperato discrimina i più poveri

La regola “soft” applicata allo ius soli è quella per cui almeno un genitore deve avere il permesso di soggiorno Ue di lungo periodo e deve dimostrare di avere un alloggio e un reddito non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale (circa 5mila euro). «Mi sembra proprio che questa legge sia il frutto di un compromesso tra Pd e Ncd. E come al solito i compromessi vengono fatti sulla pelle dei più poveri, perché sarebbero proprio quelli che non hanno un alloggio né un reddito adeguato che andrebbero aiutati, quelli insomma che faticano per attivare i loro diritti. Ricordiamoci che una parte degli immigrati non va nemmeno a chiedere la carta di soggiorno», continua Chiara Ingrao. E poi non le va nemmeno giù quell’emendamento per cui un minore deve aver compiuto almeno cinque anni di studi, ma senza insuccessi scolastici.


 

Cosa c’è che non va nella legge sullo ius soli? (che pure è un grande passo in avanti)

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In viaggio nelle scuole a parlare di Habiba

Intanto lei con la storia di Habiba continua a viaggiare per le scuole. Tra poco è la volta di Modena. Il romanzo si è rivelato, continua Chiara, uno strumento per parlare in modo leggero di identità. Contenuti importanti che passano attraverso il personaggio della bambina, le sue paure, i litigi con gli amici, la gelosia per il vicino di casa che corteggia la madre, (perché il padre è morto in mare, come i tanti migranti di questi ultimi anni). E poi c’è la magia, la Scopetta che porta la bambina nel mondo della fantasia che poi le dà una forza nuova. Come è nata Habiba?

La storia nasce da una fiaba per le figlie

«All’origine c’ è una storia che raccontavo alle mie figlie, naturalmente non c’era il personaggio della bambina, era una storia di streghe… Erano gli anni del femminismo rampante, quelli del “tremate tremate le streghe son tornate”, e io ci avevo scherzato su come poteva accadere tra una mamma femminista e le sue figlie». Dopo aver scritto narrativa per adulti, ecco tornare la voglia di riprendere quella storia scritta in un contesto privato. «Volevo un protagonista del presente e chi è più protagonista di questi bambini? Nonostante questo sono invisibili anche nella letteratura per l’infanzia», sottolinea Chiara che cita un saggio di Christopher Myers intitolato proprio The apartheid of children’s literature. «Perché, a parte gli editori progressisti che pubblicano libri molto nello stile “educational”, nella narrativa pura, di avventura, di divertimento non ci sono personaggi di colore. E quando ci sono, sono eroi che si ribellano come Rosa Parks. Myers dice che l’ immaginazione dei bambini di colore è confinata nel ghetto». Chiara non è partita dal personaggio “straniero” per poi arrivare alla storia di fantasia, ha fatto il contrario. Si è chiesta chi potesse essere la protagonista del presente, ed ecco Habiba, arrivata in Italia nella pancia della madre. «Mi è servito anche il vissuto, poiché ho lavorato tanto con le donne migranti, e poi ho tanti amici che vengono da tutto il mondo e una nipotina adottata che viene dalla Costa d’Avorio».

A scuola sono tutti italiani

La soddisfazione più grande per Chiara Ingrao è il fatto che le maestre e soprattutto i bambini non hanno considerato Habiba come un libro antirazzista, un libro su cui imparare storie edificanti. «Il libro ha rotto i confini del libro politically correct», dice l’autrice. E dal 2014 è travolta dagli incontri (per informazioni qui) scoprendo quella “cittadinanza” che tra i bambini è naturale e non ha bisogno di carte di identità. «Per i bambini italiani i loro compagni di origine straniera sono italiani a tutti gli effetti, i bambini che hanno ancora una doppia identità, tendono a dire che sono “mezzo e mezzo”, ma specificando che si sentono più italiani che marocchini o ucraini». Ma fuori delle mura della scuola, la realtà è ben più dura, con la propaganda quotidiana e martellante contro i migranti, per questo gli incontri sul libro di Habiba servono a “consolidare” quelle sensazioni e relazioni nate tra i banchi.

Tornando alla legge, conclude Chiara Ingrao, «nonostante i pastrocchi, si è rotto qualcosa di grosso: il sangue, lo ius sanguinis. È stato introdotto il principio che c’è un altro criterio diverso da quello del sangue». E allora chissà, tra qualche anno, quanti cambiamenti per l’Italia. Habiba avrà tanti fratelli e sorelle, che potranno vivere nel loro mondo di magia e realtà, senza paura.

Come va la vita? L’indice di benessere Ocse colloca l’Italia piuttosto male

L’andamento del Pil non basta a misurare la qualità della vita. A essersene rese conto sono ormai le istituzioni internazionali lavorano per misurare il benessere in vari modi.

L’ultima prova è quella dell’Ocse, che diffonde in questi giorni How’s Life 2015 (Come stiamo?) che sulla base del proprio Better Life Index, misura lo stato delle società dei Paesi aderenti. Istruzione, accesso alla sanità, partecipazione politica e sociale, ambiente e così via sono i fattori presi in considerazione. Il focus di quest’anno è sull’infanzia e naturalmente il quadro che ne esce non è dei migliori: la povertà delle famiglie impatta direttamente sul benessere attuale e futuro dei bambini e dei ragazzi. Come si legge nella presentazione:

Tra i Paesi dell’Ocse, un bambino su sette vive in condizioni di povertà, quasi il 10% dei bambini vive in una famiglia senza lavoro e uno su 10 dichiara di essere vittima di bullismo a scuola. Si riscontrano palesi diseguaglianze nel benessere infantile associate con le origini socio-economiche della famiglia: i bambini di famiglie più agiate hanno una salute migliore, migliori competenze, un livello d’impegno civico più alto e migliori relazioni con i genitori e i coetanei. Gli studenti di origini familiari più avvantaggiate hanno anche meno probabilità di essere vittime di bullismo e maggiori probabilità di sentirsi integrati nell’ambiente scolastico.


(La classifica del Life Index dell’Ocse, sul sito si può elaborare un proprio indice giocando con i diversi indicatori e riformulare la classifica)

Le diseguaglianze non sono solo tra un Paese e l’altro ma anche all’interno delle società avanzate e, con la crisi, queste sono aumentate. E se gli indicatori ci dicono che le cose stanno lentamente migliorando, i divari restano enormi. Se rispetto al 2009 le cose migliorano in vari ambiti, in campi come la disoccupazione di lungo termine, gli orari di lavoro lunghi e la partecipazione degli elettori, le cose rimangono ferme o statiche. I Paesi maggiormente colpiti dalla perdita di reddito delle famiglie dal 2009 (come Grecia, Portogallo, Italia e Spagna) continuano a subirne le conseguenze in altri modi, da alti livelli di disoccupazione e guadagni diminuiti, ad alloggi meno convenienti. Ci sono poi le disparità interne alle società:

(…) Il 60% inferiore della scala dei redditi possiede almeno il 20% della ricchezza totale netta nella Repubblica Slovacca, in Grecia e in Spagna, ma meno dell’8% in Germania, Paesi Bassi, Austria e Stati Uniti. (…) In Italia, Belgio, Ungheria, Australia, Lussemburgo e Regno Unito il tasso di disoccupazione di lungo termine tra i lavoratori più giovani (15-24 anni) supera di almeno due volte il tasso dei lavoratori della fascia intermedia di età. I Paesi del Nord-Europa registrano bassi livelli di diseguaglianza di reddito e allo stesso tempo tendono ad annoverare disparità ben inferiori nelle differenze dei risultati sulla qualità della vita – specie nelle differenze legate al genere e all’età.

E l’Italia?
Un quadro misto, scrivono i ricercatori Ocse. Dove gli aspetti positivi sono figli di un benessere ereditato e del contesto geografico (l’aspettativa di vita tra le più lunghe) mentre l’oggi non sorride (ma questo un’istituzione come l’Ocse non lo può dire). Il reddito familiare medio è vicino alla media Ocse, ma tra il 2009 e il 2013 è sceso di quasi il 14%, mentre negli altri Paesi si osservava una crescita media dell’1,9%. Il tasso di occupazione al 56,5% è uno dei più bassi dell’Ocse, il tasso di disoccupazione a lungo termine è 3 volte quello medio negli altri Paesi. Negli anni è aumentato il livello di istruzione, ma solo il 58,1% degli adulti in età da lavoro ha completato le superiori, contro il 77,2% della media Ocse.

Complessivamente, su 28 indicatori presi in considerazione dai ricercatori Ocse, l’Italia è nel terzo basso della classifica per 11, nella media per 10 e sopra la media per 7. Non il massimo.

Parlando di infanzia: la povertà infantile è sopra la media Ocse, mentre il tasso di suicidi tra adolescenti è tra i più bassi (segno di una società che è ancora capace di includere e riconoscere il disagio?). Un dato tanto più positivo se si considera che l’11% degli adolescenti italiani di età compresa tra i 15 e i 19 anni non è né occupato né va a scuola (media Ocse 7,1%).

 

Qui sotto le slide di presentazione dell’Ocse (in Inglese)

 

 

F35: «Pinotti farebbe meglio a dimettersi»

Il programma di dotazione e finanziamento degli F35, cacciabombardieri americani co-prodotto da altri otto Paesi fra cui l’Italia, dal modico prezzo di circa 155,5 milioni al pezzo, è un dibattito che sembra tanto interminabile quanto inutile. Sono aerei da attacco costosissimi, in un Paese che ripudia la guerra per Costituzione e ha problemi di ingegneria civile, il discorso non dovrebbe neppure nascere. Eppure, eppure, va avanti da anni (del programma in Italia se ne inizia a parlare nel 1996, il “Memorandum of Agreement” per la fase concettuale-dimostrativa con un investimento di 10 milioni di dollari è stato firmato nel ’98). E, nonostante a settembre dell’anno scorso il Parlamento abbia votato ad ampia maggioranza per il dimezzamento della spesa dedicata (da 13 a 6,5 miliardi di euro), il ministro ha fatto finta di niente, la spesa prevista è rimasta quella iniziale, e noi continuiamo a finanziarli con gittate di centinaia di milioni ogni anno.
Oggi in Aula, proprio il ministro della Difesa Roberta Pinotti, ha risposto all’interrogazione sul programma di acquisizione degli aerei F-35, presentata dai deputati di Sel, Donatella Duranti e Giulio Marcon. Nei 4 minuti netti di botta e risposta – dei quali la risposta del ministro ha impiegato una manciata di secondi, molto deciso è stato invece la risposta Marcon, che fra le altre cose, coordina proprio il gruppo dei “parlamentari per la pace” (70 fra deputati e senatori), impegnati sul fronte del disarmo del nostro Paese. Lo abbiamo sentito appena uscito dall’Aula.

Onorevole Marcon, mentre il ministro Pinotti è stato un po’ pallido, diciamo, nella risposta all’interrogazione, Lei ha detto senza mezzi termini che ricopre «un incarico che farebbe meglio a lasciare»: il ministro Pinotti dovrebbe dimettersi?
Certo. Le dimissioni le abbiamo chieste, purtroppo però non possiamo formalizzarle perché per formalizzare la richiesta di dimissioni di un membro del governo servono il 10% dei deputati, quindi 100, noi siamo appena 25… Avevamo proposto ai 5 stelle ai tempi della vicenda Castiglione, ma a quei tempi scelsero di firmare l’altra. Il fatto è che purtroppo non basta che il ministro non sappia svolgere correttamente il suo compito per farla decadere. Deve succedere una cosa anche mediaticamente grave da motivarle.

Il ministro Pinotti ha dichiarato che «gli F35 servono se vogliamo avere l’aeronautica»: è una connessione realistica secondo lei?
È una stupidaggine. Se fosse così, altri Paesi che hanno ridotto o eliminato gli F35 – come il Canada o l’Olanda – sarebbero sprovvisti dell’aeronautica? È una sorta di ricatto. Se rinunciamo al programma, dicono, cala l’occupazione, chiudiamo l’aereonautica… ma sono ricatti senza alcun fondamento. La ricaduta occupazionale per esempio, è molto limitata. All’inizio ci raccontavano che fossero 10 mila occupati, poi divennero 3mila. In realtà sono poche centinaia.
Inoltre, sono aerei che hanno difficoltà (e costi) enormi dal punto di vista tecnologico: quando si alzano bruciano l’asfalto, hanno problemi di tenuta dell’assetto di volo in condizioni climatiche critiche (sono vulnerabili ai fulmini, ndr), anche un singolo casco costa una fortuna e non funziona (in un rapporto, il Pentagono aveva denunciato che sull’F35 il display nel casco di volo non fornisce un orizzonte artificiale analogo a quello reale, a volte l’immagine scompare, e addirittura il radar in alcuni voli di collaudo è risultato non in grado di avvistare e inquadrare bersagli, o si è perfino spento, ndr)…tutte magagne ampiamente documentate.
La stessa Gao (Government Accountability Office), la Corte dei conti americani per intenderci, in più di una relazione ha evidenziato il sovradimensionamento dei costi di questi aerei, definendoli “un brutto affare” (mentre l’ispettorato della Difesa americana ha elencato la bellezza di 61 nonconformities, ndr). Gli F35 sono una grande affare, eccome, ma per la lobby e la grande industria americana. Grazie a noi, e agli altri Paesi che li acquistano, gli statunitensi hanno un’economia di scala tale che l’enormità della spesa che questi caccia comportano, per loro diventa vantaggiosa a fronte del guadagno.

Non parteciperemo ai raid aerei in Siria, pare e per fortuna, eppure continuiamo a comprarli per tenerli nell’hangar. A che pro?
Bella domanda. È un business, dietro, legato a vari soggetti che hanno interessi in questo affare. E poi è un fatto di status: dobbiamo averli come dobbiamo avere la portaerei. Dal punto di vista operativo invece proprio non si spiega. Non servono a difenderci da attacchi, perché sono caccia da attacco, che possono portare ordigni nucleari, con caratteristica «stealth» (sono invisibili ai radar), serve per il bombardamento tattico… Sono aerei fatti per attaccare. Quindi che se ne fa l’Italia di un aereo che è fatto solo per la guerra? L’articolo 11 va a scatafascio.

Insomma non c’è proprio nessun vantaggio?
Rispetto al ricavo, no. Spacciano un ricavo superiore della spesa, ma non è vero.

Nel documento Programmatico pluriennale della Difesa del 2015 (contenente anche gli indirizzi governativi e ritorni economici) non è previsto alcun taglio, né agli armamenti né tantomeno riguardo gli F35, anzi. Quanto togliamo ai cittadini ogni anno per spesa in armamenti? E cosa potremmo farci?

No, anzi, sono aumentati. La spesa complessiva prevista da qui al 2025 va dai 12 ai 16 miliardi. Dopodiché ogni anno c’è una posta di bilancio che mette sul piatto dai 600milioni al miliardo e due. L’anno scorso era 500milioni. Di caccia F35 ne abbiamo già fatti 6, stiamo costruendo anche il 7° e 8°. E poi chissà quanti ancora…mancando completamente la trasparenza sugli accordi, non possiamo saperlo con precisione. Con queste risorse si possono fare tante cose. Come ex portavoce di Sbilanciamoci ti propongo di dare un’occhiata alle proposte della Controfinanziaria 2015.

E comunque, quelle tecnologie sono adattabili al dual use, ovvero possono essere utilizzabili sia per fare aggeggi militari che civili: i Canadair per spegnere gli incendi, per esempio, o gli elicotteri per l’elisoccorso, visto che siamo carenti. La Galilei per esempio, un’azienda di Firenze, anni fa ha diversificato, la sua produzione: dai sistemi di puntamento dei carrarmati, si sono inventati la produzione di tecnologia per macchinari che fanno la tac.
Sono tecnologie convertibili. Come nasce internet, se ci pensi. Per scopi militari poi adattato a uso civile. Diversificare la produzione per l’industria militare è possibile. Invece abbiamo un governo che indebolisce la produzione di tecnologie civili in favore di quelle militari. Si pensi ai treni, delle turbine, che Finmeccanica faceva e ora fa sempre meno.

A Proposito, Renzi non aveva detto, nel 2014, che «la più grande arma per la pace non erano gli F35, ma la scuola»?
Questo lo dicono quando sono davanti agli scout. Poi davanti a Obama e a Finmeccanica se ne guardano bene.

Quale potrebbe essere il modo dell’Italia di intervenire sugli scenari di guerra?
Una domanda da 100milioni di dollari. Bisogna prevenire. Questo è il fatto. Riadattando l’espressione del generale von Clausewitz, per il quale la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, secondo me la guerra è la continuazione del fallimento della politica con altri mezzi. Quando non riesci a costruire situazioni di pace, ma anzi, alimenti i conflitti, ti trovi di fronte a situazioni nelle quali la guerra sembra la soluzione più logica. Ma il risultato è davanti agli occhi di tutti: mi devono spiegare se, dopo 20 anni di interventi in Libia, Siria, Afghanistan, ora c’è più pace o casino? Per l’Iraq vale lo stesso: abbiamo fatto 3 interventi, qual è ora la situazione dell’Iraq? La prevenzione dei conflitti, o per lo meno il loro contenimento, è l’unica arma. Invece noi li abbiamo amplificati.