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Prossima fermata: Giove

«Non siamo soli nell’Universo, tuttavia penso che siamo destinati alla solitudine». Chiara e diretta come solo lei sapeva essere, Margherita Hack è spesso intervenuta sulla possibilità che esistano forme di vita alternative a quelle che popolano la Terra. «Credo del tutto probabile che ci siano altri mondi abitati – scriveva in C’è qualcuno là fuori? (Sperling & Kupfer), il suo ultimo libro pubblicato postumo nel 2013 -, credo anche che non avremo mai modo di incontrare un extraterrestre. Le distanze non ce lo permettono. Questo non vuol dire che dobbiamo rinunciare a cercare». E infatti l’uomo continua a cercare. Ma più che con la speranza (o il timore) di fare “incontri ravvicinati del terzo tipo”, insegue l’idea, apparentemente più concreta, che tracce di microrganismi e batteri possano spuntar fuori prima o poi da corpi celesti o pianeti relativamente vicini al nostro. In che modo? “Follow the water”: è la strategia principale adottata dalle grandi agenzie spaziali. Troviamo l’acqua e troveremo la vita.
Si parla di questo all’incontro dal titolo “Vita extraterrestre: dove, come, quando” a BergamoScienza 2015 (domenica 18 ottobre ore 9.30) al quale partecipano tra gli altri, Federico Tosi, planetologo dell’Istituto nazionale di astrofisica (Inaf) e Barry Goldstein, ingegnere della Nasa, impegnati in due diverse missioni che hanno come obiettivo comune l’esplorazione del sistema di Giove: JUpiter ICy moons Explorer (Juice), la prima missione spaziale di questo tipo a guida europea (Esa), ed EuropaClipper dell’agenzia spaziale Usa. Left ha chiesto ai due esperti come si spiega questo improvvisa attenzione per il più grande pianeta del Sistema Solare.


Sotto le superfici di Europa e Ganimede si nascondono importanti strati di acqua mantenuta allo stato liquido su tempi geologici


«Fino a circa 20 anni fa – racconta Tosi – si credeva che l’unico luogo interessante per la ricerca di forme di vita elementari al di là della Terra nel nostro Sistema Solare fosse Marte, che oggi appare sterile ma che nel lontano passato ospitava importanti distese d’acqua liquida. I risultati ottenuti da missioni spaziali come Galileo e Cassini-Huygens hanno rivoluzionato questa visione, scoprendo che acqua liquida esiste tuttora, in forma stabile, nell’interno profondo di alcune lune ghiacciate». Con le missioni EuropaClipper e Juice, oggi in fase di implementazione, Nasa ed Esa hanno avviato la “fase 2” di questa campagna di esplorazione. «Lo scopo – prosegue Tosi – è capire se condizioni potenzialmente adatte allo sviluppo della vita possano esistere, o essere esistite, anche in questi mondi “minori”, freddi e remoti, che fino a pochi anni fa erano reputati essenzialmente morti e inadatti alla vita. Per esempio su Encelado, una piccola luna ghiacciata di Saturno, sono stati osservati imponenti eruzioni di acqua mescolata a diversi altri composti, che rendono questo corpo di interesse primario per l’astrobiologia, la scienza che si occupa dei processi che portano all’origine, all’evoluzione, al trasferimento e alla distribuzione della vita al di fuori della Terra». Situazioni analoghe potrebbero esistere, in linea di principio, a distanze ancora maggiori dal Sole nella nostra Galassia e altrove, nell’Universo. Secondo il planetologo dell’Inaf, «in una visione ancor più ampia, l’esistenza di lune ghiacciate con strati interni di acqua liquida, in orbita attorno a pianeti giganti gassosi, potrebbe rivelarsi una prerogativa di molti tra i pianeti extrasolari finora scoperti». Per questo Juice, il cui lancio è previsto nel 2022, all’arrivo stimato nel 2030 inizierà a esplorare Giove con un’enfasi particolare su tre sue lune ghiacciate: Ganimede, Europa e Callisto.


 

L’esistenza di lune ghiacciate con strati interni di acqua liquida potrebbe rivelarsi una prerogativa di molti tra i pianeti extrasolari finora scoperti


Anche il “volo” della Nasa dovrebbe partire nel 2022 ma la missione Usa si concentrerà solo su Europa. «Gli obiettivi di EuropaClipper – spiega Goldstein – sono svariati. Vanno dallo studio dettagliato della sua geologia tramite una telecamera ad altissima risoluzione, alla ricerca di un sito adatto all’atterraggio di future missioni per un’esplorazione “diretta” del suolo come sta avvenendo con i rover su Marte. Più in generale, c’è la speranza di poter studiare le caratteristiche ambientali di Europa per determinarne con precisione l’abitabilità. Cioè il potenziale presente o passato a sostenere forme di vita di qualunque tipo».

Europa una delle lune di Giove

«Europa, così come Ganimede – aggiunge Tosi – è di interesse centrale. Sotto le loro superfici si nascondono importanti strati di acqua mantenuta allo stato liquido su tempi geologici. Quest’acqua potrebbe essere ragionevolmente mescolata ad elementi chimici detti “biogenici” (carbonio, azoto, ossigeno, idrogeno, fosforo, zolfo…), perché necessari per innescare reazioni biochimiche. Ingredienti essenziali come acqua liquida e elementi biogenici, mescolati assieme e resi stabili per lunghissimi periodi di tempo, rendono Europa e Ganimede mondi potenzialmente “abitabili”, cioè potenzialmente idonei allo sviluppo di forme di vita elementari». Quando si parla di vita extraterrestre in molti pensiamo quasi inevitabilmente a esseri intelligenti che attraversano lo spazio a bordo di sofisticate astronavi. «Sappiamo bene che questa popolare propensione deriva anche e soprattutto da svariate decadi di letteratura fantascientifica – osserva Tosi -. Nel caso reale, e in particolare con Juice, ci proponiamo semplicemente di appurare se su satelliti freddi e ghiacciati, lontani dal Sole e quindi dalla classica regione di spazio che attorno a una stella è definita “abitabile”, possano esistere condizioni potenzialmente interessanti per lo sviluppo di forme di vita elementari. In definitiva, non parliamo di alieni e dischi volanti ma di microorganismi, cosiddetti “estremofili” perché obbligati ad esistere e proliferare in totale assenza di luce solare e condizioni ambientali decisamente proibitive».

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Sicura (ma anche umana), Clinton vince il dibattito tra democratici

«Su questo palco non sentirete nessuno denigrare le donne, fare commenti razzisti sui nuovi immigrati in America e neppure parlare male di un altro americano a causa del loro credo religioso.», forse la migior battuta dell’ex governatore del Maryland Martin O’Malley, staccato terzo nei sondaggi per le primarie democratiche, non è un attacco a Clinton (come pure ne ha fatti), ma un elogio dei contendenti del suo partito.

Ha qualche motivo per farlo: tutto sommato su immigrazione, regole per la finanza e le banche, salari, diritti, commercio internazionale, controllo della circolazione delle armi, il suo partito è a sinistra di quanto non sia stato da tempo – e probabilmente alla sinistra della maggior parte delle socialdemocrazie europee, ma certo parliamo di un altro contesto.

Due ore di dibattito sul palco di un hotel di Las Vegas sono finite come ci si aspettava: l’esperienza e il focus di Hillary Clinton hanno avuto la meglio sugli argomenti di Bernie Sanders. Gli altri sono comprimari, due dei quali capaci, ma senza apparenti possibilità di cambiare la dinamica della sfida in casa democratica. A Hillary manca ancora un afflato, una visione da presentare, dovrà trovarne una da contrapporre ai repubblicani, se sarà nominata candidata.

Ieri segnalavamo alcune cose da tenere d’occhio durante il dibattito, vediamo come è andata.

Sanders e Clinton si attaccano più del previsto

Non è proprio andata così, ma nessuno ha tentato colpi bassi: Hillary ha azzannato il senatore del Vermont sul suo tallone d’Achille sinistro, il gun control, la circolazione delle armi. Sanders ha sempre votato contro la legge che vieta la vendita delle armi da combattimento e Clinton lo ha fatto notare quasi subito. Bernie spiega che nel montagnoso e rurale Vermont le armi servono. La verità è che il piccolo Stato che lo elegge è pro-guns e lui, se avesse votato contro, avrebbe rischiato grosso. Sanders a sua volta ha colpito sulle banche: andare a Wall street e chiedere ai banchieri di comportarsi bene non è una politica. Ma il senatore ha anche detto: «Agli americani e a me, di questa storia delle mail di Clinton non frega niente, vogliamo parlare di cose serie», guadagnandosi una stretta di mano da Hillary e l’applauso più rumoroso della serata. I due sono avversari politici di un partito piuttosto unito, non due nemici.

Il fantasma di Biden

La Cnn aveva fatto di tutto per convincere il vicepresidente a esserci. Biden, che ancora riflette se candidarsi o meno, non c’era. Ma la sua presenza non si è avvertita troppo e da oggi la sua candidatura sembre meno probabile: Clinton ha vinto bene ed ha dimostrato di essere pronta a condurre una campagna dura. Nel 2008 le difficoltà contro Obama la avevano paralizzata e mandato la sua campagna nel panico, stavolta il successo di Sanders non sembra averle fatto male. Il vicepresidente può sempre decidere di correre, ma senza una Clinton in difficoltà candidarsi tanto tardi è un rischio forse inutile da correre.

 

Il candidato presidenziale Sanders

Sanders mette in fila tutto quanto c’è di sbagliato nell’attuale sistema americano – quello post rivoluzione conservatrice e post terza via – la diseguaglianza, il potere delle lobby e delle banche, un sistema fiscale che beneficia i più ricchi, il bisogno di infrastrutture e politiche progressive. Ma scivola sulle armi e sulla politica estera, della quale sa poco. Le sue proposte sono buone, ma quando Hillary gli risponde «Anche io sono progressista e non sono pronta a retrocedere su nessuna delle mie convinzioni, ma sono anche una che vuole ottenere risultati», vince lei. Gli americani sanno che ci sono buone probabilità di avere un presidente democratico e un Congresso ancora in mano ai repubblicani e ottenere risultati significa riuscire a lavorare anche con i  pezzi assennati del partito di Trump, Carson e Cruz. Non solo, sebbene le politiche di Sanders potrebbero piacere a molti, il modo in cui le vende è troppo ideologico e di sinistra: perfetto per la basa liberal, ottimo per salire nei sondaggi, meno per vincere le elezioni in America. Qui sotto Clinton parla dei guai del capitalismo americano «Che va salvato da se stesso di quando in quando», prendendo le distanze dall’ideale socialdemocratico scandinavo di Sanders.

Hillary Clinton è un essere umano

L’ossessione per il controllo del messaggio, la capacità con cui piega le domande per dire quel che ha deciso dirà sono rimaste, ma il tono è rilassato, specie verso la fine e Hillary non sembra avere paura di perdere. Non è dura, se non contro i repubblicani, e dopo la pausa, quando i candidati sono andati in bagno, arriva un momento dopo gli altri dicendo «Scusate, io ci metto più degli altri», beccandosi una risata del pubblico femminile in sala.

La distanza da Obama

Nessuno ha criticato o preso le distanze dal presidente. Troppo pericoloso, che Obama sarà una forza in campagna elettorale. Nemmeno in politica estera, dove pure Hillary ha ed ha avuto le sue divergenze, si è rimarcata vera distanza. Alla domanda: che differenza ci sarebbe tre la sua presidenza è quella in carica, la risposta è stata: «Sono una donna». Qui sotto il video.

Gli altri candidati

Francamente questa sembra una corsa a due e il dibattito non ha cambiato le cose. O’Malley ha attaccato molte volte Clinton, che è apparsa in difficoltà o sulla difensiva solo in politica estera. Il voto sulla guerra in Iraq, la Libia, la Russia e la Siria sono temi a cui è difficile dare risposte nette e sui quali Hillary ha sbagliato. Un terreno minato contro i repubblicani (che pure non sembrano avere altre idee se non flettere i muscoli) ma non qui. Webb ha dato un’ottima risposta quando parlando del suo peggior nemico ha nominato il soldato che lo ha ferito con una granata «ma non è potuto andare in giro a raccontarlo». Fosse stato davanti a una platea repubblicana sarebbe venuta giù la sala. Ieri notte a Las Vegas è solo una risposta azzeccata. Sia lui che Sanders vincono in quanto a ricerche su Google durante le due ore di dibattito. Segno che la gente vuole saperne di più (Sanders è noto alla sua base, meno altrove). Ma non è una ricerca Google che cambia la dinamica della corsa.

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Dichiarazione di voto contrario alla riforma Costituzionale di un senatore idem

Riportiamo il testo della dichiarazione di voto contrario alla riforma Costituzionale, pronunciata ieri dal senatore dem Walter Tocci. 

Ho fatto un sogno costituzionale

Signor presidente, ho fatto un sogno, mi consenta di raccontarlo. Ho sognato che veniva qui Matteo Renzi, come segretario del partito di maggioranza relativa, non come capo del governo, e proponeva una semplice riforma: eliminazione del Senato, dimezzamento del numero dei deputati e riduzione del numero delle Regioni.

Nel sogno, il Parlamento ne discuteva in spirito costituente e apportava due condizioni: 1) legge elettorale basata sui collegi uninominali per consentire agli elettori di guardare in faccia gli eletti; 2) garanzia di maggioranze qualificate nella legislazione sui diritti, le regole, l’informazione, la giustizia, l’etica, la guerra. Il risultato era limpido: un governo in grado di attuare il programma, più un Parlamento autorevole, uguale una democrazia italiana finalmente matura.

Fine del sogno – non è andata così, anzi: il Senato ridotto a “dopolavoro” del ceto politico locale; la sottrazione di poteri alle Regioni in cambio di scranni senatoriali; la conservazione dei 630 deputati, il numero più alto in Europa – almeno per decenza togliete la parola riduzione dal titolo di questa legge.

Avete scritto un testo costituzionale arzigogolato come un regolamento di condominio. La confusione non è casuale. Si è fatto credere che si discuta di bicameralismo e Italicum, ma la combinazione modifica la forma di governo senza neppure dirlo. Oggi si instaura in Italia un premierato assoluto senza contrappesi e senza paragoni nelle democrazie occidentali. Un demagogo minoritario con meno di un quarto dei voti degli aventi diritto può conquistare il banco, comandare sui parlamentari che ha nominato e disporre a suo piacimento delle leggi fondamentali. Nessuno strumento istituzionale potrebbe fermarlo, neppure l’elettività di un Senato sei volte più piccolo della Camera. È una decisione poco saggia. Si è detto che le Costituzioni servono a prevenire i momenti di ubriachezza, purtroppo non sono mancati nella storia nazionale, anche recente.

Viene a compimento un inganno trentennale. La classe politica di destra e di sinistra ha nascosto la propria incapacità di governo attribuendone la colpa alle istituzioni. Ha surrogato la perdita dei voti con i premi di maggioranza, provocando ulteriore distacco dalle urne. Il governo maggioritario nella democrazia minoritaria ha accentuato la crisi italiana. Il premierato assoluto – in nuce lo abbiamo già visto – è un’illusione numerica, non governa il Paese reale perché rinuncia a rappresentarlo e a comprenderlo nelle sue differenze.

I giovani politici seguono le orme dei vecchi politici. Ripetono l’errore di cambiare la Carta a colpi di maggioranza. Scopiazzano le sedicenti riforme del secolo passato invece di immaginare l’avvenire della Repubblica.

Dedico il mio voto contrario ai futuri riformatori della Costituzione, a quelli che non abbiamo ancora conosciuto.

Walter Tocci, 13 ottobre 2015

Sanders contro Clinton, ma non troppo. Cosa c’è da aspettarsi al primo dibattito tra democratici

Ci siamo: finalmente anche i candidati democratici alle primarie salgono su un palco davanti a milioni di telespettatori per confrontarsi tra loro. Due, Hillary Clinton e Bernie Sanders, sono forti e conosciuti, gli altri – Martin O’Malley, Jim Webb, Lincoln Chafee – sperano che la platea di stanotte a Las Vegas consenta loro di salire nei sondaggi, essere scoperti dal pubblico, attirare un po’ di attenzione. Poi c’è Joe Biden, il vicepresidente che guarderà la televisione chiedendosi se sia o meno il caso di candidarsi alla presidenza. Certo è che il primo dibattito potrebbe finalmente cambiare l’inerzia di una corsa che è ferma al successo inatteso di Sanders e alla forza strutturale di Clinton. Riuscirà Hillary a piacere un po’ di più agli americani? A rendersi umana? E Sanders a essere credibile, preparato e non solo bravo a parlare alla enorme base liberal che affolla i suoi comizi e riempie le casse della sua campagna?

Attenzione ai sondaggi: a fine settembre 2007 Clinton aveva il 53%, Obama il 20% ed Edwards il 13%. Qualche mese dopo le percentuali erano piuttosto diverse.

Al momento comunque le rilevazioni dicono che l’ex first lady è saldamente in vantaggio, con Sanders che segue, forte, ma molto staccato. Certo, le rilevazioni sulle intenzioni di voto in Iowa e New Hampshire, i primi Stati in cui si vota, non lasciano dormire sonni tranquilli al circolo dei Clinton. I dati sulla raccolta di fondi nell’ultimo trimestre, resi noti dalle campagne la scorsa settimana, sono poi un altro campanello d’allarme: con un’organizzazione che è un atomo di quella di Hillary, il senatore del Vermont ha raccolto solo due milioni in meno. Ma da un numero di donatori molto maggiore, più alto di quanto non capitò a Obama nel 2008 (a questo punto della corsa), quando la campagna veniva studiata per essere un fenomeno straordinario. Segno che il vecchio Bernie ha dalla sua un vero movimento. Un fattore importante. Da annotare: quante volte gli chiederanno se è un socialista?

 

 

 

Tre cose da verificare

Hillary e Bernie hanno promesso di non attaccarsi a vicenda. Reggerà la promessa?
Riusciranno a non darsi colpi bassi? Probabilmente si: alla ex senatrice di New York non conviene essere cattiva con l’unico socialista democratico eletto in Congresso: potrebbe trovarsi a essere incalzata su tutte le posizioni di sinistra che ha preso durante questa campagna e che sono in parziale contraddizione con la sua carriera politica. Meglio doverlo fare rispondendo alle domande dei giornalisti. Clinton è molto forte nei dibattiti e conosce i temi di cui parla meglio degli altri candidati, mantenere un profilo presidenziale usando argomenti di sinistra è forse l’arma migliore per mantenere Sanders a distanza. Per Sanders, invece, il tema è proprio quello di essere credibile come figura eleggibile alla Casa Bianca: azzannare Hillary ai polpacci potrebbe essere controproducente. Pur essendo molto di sinistra, il senatore ha argomenti ce possono piacere a molti e mantenere un fare sorridente e nonnesco potrebbe funzionare. La sua sfida è nell’organizzazione a livello locale. Stanotte gli serve solo di non scivolare. Specie su temi come le minoranze e il gun control (la regolamentazione delle armi), temi sui quali ha un handicap a sinistra rispetto a Clinton. Intanto Hillary ieri si è presentata a sorpresa a un picchetto di lavoratori di un albergo di Donald Trump a Las Vegas: come dire, sono già candidata e mi batto contro l’avversario, sto con i lavoratori organizzati sindacalmente, mal pagati e latinos.

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Quante critiche alla presidenza Obama?

In questi giorni questo è l’argomento scivoloso per Hillary: le sue posizioni in politica estera sono a destra di quelle di Obama – o meglio, meno timide ed elaborate – specie sulla Siria. Su altri temi come il TTIP, l’accordo commerciale del Pacifico, o l’immigrazione invece, Clinton è a sinistra del presidente. Ogni volta che la candidata prende una posizione diversa da quella della Casa Bianca la sua campagna informa lo staff del presidente, ma durante un dibattito e incalzata da avversari e giornalisti, il rischio è quello di allontanarsi troppo o far indispettire Obama. I due sono stati alleati per un periodo ma non si amano particolarmente, se Hillary sarà troppo critica, potrebbero esserci problemi. Questo ci porta a….

Quanto sarà grande l’ombra di Joe Biden?

 

 

Il presidente Obama lo ha definito “forse il vice più importante della storia americana”. Il vicepresidente ha detto di aver preso in considerazione la possibilità di correre. La morte del figlio Beau gli ha invece messo dei dubbi: «Per correre e fare il presidente devi essere al 100%, io non so se sarò al 100%» ha più o meno detto in un’intervista molto forte dal punto di vista emotivo a Stephen Colbert. Lo spettro di Biden si aggirerà nella sala del dibattito Tv: oggi ha il 20% nei sondaggi senza aver annunciato una candidatura. Non è affatto detto che la sua sarebbe una campagna vincente, ma certo, sarebbe un concorrente molto forte: è popolare, è spiritoso, ha una storia commovente da raccontare (e lo fa in maniera sincera). Quel che non è chiaro è come venderebbe se stesso. Certo sarebbe il più centrista dei candidati democratici, capace di rosicchiare consensi bianchi ai repubblicani. I conduttori faranno domande sul Veep, c’è da scommetterci. C’è anche da notare che Biden non ha impegni per la serata americana (stanotte) e che la CNN che trasmette il dibattito ha pronto un sesto podio, dovesse decidere di partecipare a sorpresa. Sarebbe un colpo per tutti. Improbabile e rischioso. Se Clinton vincesse bene il dibattito, Biden avrebbe più dubbi, se invece andasse male, le sue azioni salirebbero di molto.

Di Clinton e Sanders sappiamo quasi tutto. Ma chi sono gli altri tre sul palco?

Martin O’Malley, ex sindaco di Baltimora, ex governatore del Maryland
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Se non ci fosse Hillary (e nemmeno Sanders), questo sorridente 50enne con l’aria tutta salute e fitness sarebbe il campione della sinistra liberal. Ha fatto il sindaco di una città difficile e molto afroamericana – dove dice di aver fatto crollare il crimine, tesi discussa e non provata – e ha acquistato risonanza nazionale attaccando Bush sui tagli al bilancio. Da governatore si è battuto con passione per l’istituzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso nel suo Stato, ha posizione aperte sull’immigrazione è per un aumento del controllo sulla vendita di armi ed è contrario alla pena di morte. Di sinistra sui temi sociali, si colloca senz’altro alla destra di Sanders in economia. Ha da vendere un’immagine più giovane degli altri. Viene da uno Stato piccolo e democratico e in questo senso non porterebbe vantaggi elettorali – e dove tra l’altro è terzo nei sodnaggi. Da lui e da Webb c’è da aspettarsi attacchi a Clinton sulle mail, su Bengazi, sulle posizioni di sinistra assunte di recente. Senza una performance che faccia parlare di sé, O’Malley è fuori. Avrà più tempo per suonare con la sua band di musica celtica.

Jim Webb, ex senatore della Virginia

 

 

 

Quasi assente dai sondaggi, Webb potrebbe essere la sorpresa della serata. Non ha comprato spot Tv, non è ossessionato dall’esserci ed è un personaggio di quelli che piacciono al pubblico con cui i democratici hanno un rapporto difficile (i bianchi non giovani). Ex militare, ha servito nell’amministrazione Reagan come assistente Segretario alla Difesa, pluri-decorato del Vietnam, è stato ferocemente contro la guerra in Iraq, dove suo figlio ha combattuto. Ha scritto diversi romanzi di successo con la guerra come sfondo. Ha posizioni non convenzionali, è piuttosto conservatore, passionale, duro, ma parla ai blue collars (le tute blu) promettendo infrastrutture e lavoro. Può piacere da morire a un elettorato indipendente e strappare molti voti ai repubblicani in alcuni Stati chiave. Sulla politica estera di guerra è più preparato degli altri e non è un guerrafondaio. E poi ha vinto un seggio nella cruciale e difficile Virginia. Un personaggio, vicepresidente perfetto da un punto di vista elettorale. Non piacerà mai alla base di sinistra del partito (che è in crescita). Anche a lui serve una performance superlativa.

Lincoln Chafee, ex senatore repubblicano del Rhode Island, ex governatore indipendente del Rhode Island

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Quella di Chafee sembra davvero la candidatura di un politico che corre per dire “io c’ero”. La sua forza quella di essere stato repubblicano pur avendo mantenuto saldi i propri principi: nel 2003 ha votato contro l’Iraq, unico repubblicano del Senato, è contrario alla pena di morte e contro i tagli alle tasse di Bush. Non ha particolare carisma, viene da uno Stato minuscolo. Difficile immaginare come possa fare per uscire dal cono d’ombra dei candidati più forti.

Un libro fotografico per raccontare 2 anni passati con la Yakuza

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Anton Kusters di professione fa il fotografo, ma ha avuto la possibilità di frequentare per un certo periodo di tempo una ristretta cerchia della Yakuza, la mafia giapponese, e di documentare il suo viaggio nel mondo del crimine organizzato con una serie di scatti capaci di descriverne la quotidianità. Il tutto senza finire ammazzato.
Per farcela Kusters ha dovuto negoziare per 10 mesi, assieme al fratello, le condizioni secondo cui gli sarebbe stato permesso di essere i primi e gli unici occidentali a seguire i membri di uno dei clan più importanti della mafia giapponese. Il risultato è stato pubblicato in un libro fotografico che si chiama “Odo Yakuza Tokio”. Quello che si intravede dalle immagini e dalle parole di Kusters è un codice sottile e silenzioso fatto di cenni e di poche parole, soprattutto basato su regole, limiti e su un rispetto tacito per chi comanda.
Ecco come il fotografo descrive una delle scene di cui è stato testimone.

 

Nel bar dell’hotel a Niigata, inizio lentamente a capire le interazioni estremamente sottili che si ripetono di continuo, il linguaggio del corpo, le micro espressioni sui volti, i gesti le voci, l’intonazione. Quando il bar viene evacuato per fare spazio per permettere al Padrino di prendere un caffè, tutto sembra essere rigorosamente organizzato, ma allo stesso tempo accadere naturalmente. È strano, ma in questo momento non ho bisogno di nessuno per sapere cosa fare, dove sedermi, quando parlare o quando stare zitto. Sento i confini e le aspettative degli altri in modo implicito, imparo quando posso farmi avanti e quando è meglio invece che faccia un passo indietro.

 

Members pose in the streets of Kabukicho, the red light district in the heart of Shinjuku, Tokyo, Japan. By always wearing tailored suits, the Yakuza attempt to spread an image of decency and conformity. But the underlying tension unmistakibly remains. Obvious influences are American gangster icons from the early 20th century, like John Dillinger - 2009
Alcuni membri del clan in posa a Kabukicho, il distretto a luci rosse nel cuore di Shinjuku, Tokyo, in Giappone. Vestendo sempre completi eleganti i membri della Yakuza tentano di diffondere un’immagine di loro curata e ordinata. Ma qualcosa di impercettibile continua a stonare. Si percepiscono nello stile anche alcune influenze dei gangster americani dell’inizio del 20esimo secolo, diventati ormai delle icone, come John Dillinger.

 

Young prostitute in a bar showing the tattoo on her leg - 2009
Una giovane prostituta mostra il tatuaggio che ha sulla coscia.

 

The three highest ranking bosses of the family - the Godfather in the centre - pose for a portrait during a traditional dinner at a restaurant in Kabukicho, Tokyo - 2009
I tra boss più alti in grado della famiglia – il Padrino è quello al centro – posano per una foto durante una cena tradizionale in un ristorante di Kabukicho a Tokyo

 

Empty meeting table, right after the initial meeting, in which we got approval to start the project - 2009
La tavola vuota, dopo l’ultimo incontro in cui Kusters ha definito gli accordi con il clan e dato il via al progetto.

 

Nitto-san, Souichirou's direct boss, in the back of the car, while driving to Niigata prison to go and pick up two members of the family that are being released from prison that morning, after being incarcerated for several years - 2009
Nitto-san,  boss di Souichirou, nel retro della sua auto, mentre viene portato alla prigione di Niigata per prelevare due membri della famiglia che sono appena stati rilasciati, dopo anni di carcere.

 

Yakuza street fighter aggressively showing off his tattoo in Kabukicho, Shinjuku, Tokyo - 2010
Un picchiatore di strada della Yakuza mostra uno dei sui tatuaggi nel quartiere di Kabukicho, Shinjuku, Tokyo

 

Tattooed hands with a digit missing. A traditional Japanese tattoo, as used often by the Yakuza, Is a very old and time-consuming process of manually sticking a stick with at the point several sharp inked needles in the skin. This has to happen at a precise angle (depending on skin thickness) and at a precise speed (120/minute), and this is a skill that only traditional Japanese tattoo masters possess. The result is an intricacy, a color palette and a pattern which is not possible with the modern way of tattooing with a machine.Master Tattooist Hori Sensei invites you, he does not accept regular clients. With him, completing a traditional Japanese tattoo takes about 100 hours, can cost up to $10,000, and a schedule of daily or weekly visits needs to be made. As a client, you have only a little say in the design of the tattoo. Hori Sensei determines what is best for you after taking time to talk to you and to get to know you. Only a few traditional Japanese tattoo experts are still alive today in Japan. - 2009
Mani tatuate con un dito amputato. Questo è un tatuaggio tradizionale giapponese usato spesso dalla Yakuza. La realizzazione è un processo molto lento e fatto tutto manualmente incidendo e iniettando l’inchiostro nella pelle. L’incisione avviene seguendo un’inclinazione precisa del pennino che dipende da quanto è spessa la pelle e a una precisa velocità. Il risultato è una varietà e un mix di colori che non è replicabile dalle moderne macchine per fare tatuaggi. Il maestro tatuatore Hori Sensei non accetta clienti, per avere un suo tatuaggio bisogna essere invitati da lui che per completare un tattoo tradizionale giapponese può impiegare anche 100 ore e chiedere più di  10,000 dollari per il lavoro. Prima di fare il tatuaggio Hori Sensei programma una serie di incontri in cui dialoga con il “cliente” per capire quale sia il tatuaggio più adatto a lui. I maestri come Hori Sensei sono rimasti pochissimi in Giappone.

 

Yamamoto Kaicho, the number two boss, lies still as master Tattooist Hori Sensei completes his full body tattoo. Completing a tattoo takes about 100 hours, and a schedule of daily or weekly visits with the tattoo sensei are made. This is the second time he is being tattooed over his whole body, after the removal of his first full body tattoo severl years before. Tattoos are made by hand in a traditional way, and only few experts still possess the skill to do so - 2009
Yamamoto Kaicho è il numero due del boss. In questa foto si sta facendo completare un tatuaggio che compre tutto il corpo dal maestro Hori Sensei.

 

Yamamoto kaicho and two other members shower in an Onsen (typical Japanese bath house) after playing in a golf tournament. Both golf and frequent visits to the onsen are very popular amongst the Japanese. Nowadays, many bath houses carry signs that deny access to people who have tattoos, in an effort to stop Yakuza frequenting them - 2009
Yamamoto Kaicho e due altri membri della famiglia nelle docce di un Onsen (tipiche terme giapponesi) dopo aver giocato a golf. Sia il golf che visite frequenti alle terme sono attività molto diffuse fra i giapponesi. Oggi giorno molte terme inoltre limitano l’accesso alle persone che hanno tatuaggi nel tentativo di far sì che i membri della Yakuza non le frequentino.

 

View of a temple in Asakusa, Tokyo - 2009
La veduta di un tempio a Asakusa, Tokyo

 

Miyamoto-san in his coffin after his death, during his wake - 2010
La veglia prima del funerale di fronte alla bara di Miyamoto-san

 

Members paying their respects by burning incense at the makeshift altar during the traditional Japanese funeral for Miyamoto-san - 2010
Alcuni membri del clan offrono rispetto bruciando dell’incenso presso l’altare allestito per il tradizionale funerale giapponese di Miyamoto-san

 

The Godfather arrives at a commemoration service for a member who has died. Car traffic is redirected and he is surrounded by bodyguards, as he steps out of the car and into the place of worship - 2009
Il Padrino arriva al funerale del membro dell’organizzazione. Il traffico è deviato in modo da permettere al Boss di arrivare con le sue guardie del corpo e in macchina alla cerimonia.

 

The funeral service for Miyamoto-san - 2010
Il servizio funerario per Miyamoto-san

 

The Godfather rolls down his car window while leaving a commemoration service for a deceased member of the family - 2009
Il Padrino lascia la commemorazione dopo aver partecipato al funerale per il membro defunto della famiglia

 

Yakuza+family+members+stand+in+line+to+welcome+visitors+to+the+funeral+of+Miyamoto-san+(Tokyo,+Feb+2011)

 

«Con questo lavoro – ha spiegato il fotografo Anton Kusters –  ho trasmesso il complesso rapporto con la società giapponese che intrattengono i membri della Yakuza, e allo stesso tempo il conflitto personale che vivono frequentando allo stesso tempo due mondi  diversi, mondi che hanno codici e valori morali in conflitto. Si scopre che la realtà non è semplicemente dipinta dei toni del nero e del bianco, ma fatta di sfumature ben più complesse da leggere»

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Nasce il colosso mondiale della birra

I due più grandi gruppi mondiali produttori di birra si fondono: AB InBev e SABMiller rispettivamente un fatturato da 47 e 22 miliardi di dollari, danno vita al colosso assoluto della bevanda che si beveva già nell’antico Egitto e in Mesopotamia.  L’operazione porterà sotto lo stesso tetto alcune della marche più note e diffuse del pianeta: Bud, Bud Light, Corona, Michelob, Stella Artois, Becks, Hoegaarden, Leffe, Coors, Coors Light, Grolsch, Keystone, Milwaukee Best, Blue Moon , Foster, Pilsner Urquell, Peroni, Whurer, Dreher, Raffo, Miller Lite, High Life. Un elenco parziale.

La tendenza a crescere dei grandi gruppi produttori di birra è inesauribile. Altri colossi sono Heineken e Carlsberg (proprietaria di quello che era il suo grande competitor nazionale, Tuborg). Accanto ai colossi crescono ovunque nel mondo una miriade di micro-breweris, piccole distillerie che producono birra artigianale. Negli Stati Uniti diverse hanno una tradizione attenta all’ambiente e difendono con le unghie la loro indipendenza (anche con successo, che la birra artigianale va di moda). Quella che in molte classifiche viene considerata la miglior birra del mondo viene prodotta dalla Hill Farmestead Brewery in Vermont e si vende solo all’interno dello Stato. Il negozio dello stabilimento apre tutti i giorni e di solito a fine giornata ha esaurito le scorte. La voga dei piccoli marchi non è passata inosservata in casa dei giganti, che stanno comprando, quando le compagnie cedono, tutto quel che possono per dotarsi di brand fiore all’occhiello e/o rubare ricette di qualità e potenziale successo.

Essere colossi serve

Il consumo di birra globale ha raggiunto 188.81 milioni di tonnellate nel 2013, + 0,5% rispetto all’anno precedente, è il 28esimo anno consecutivo di crescita.
La Cina è il più grande consumatore di birra del pianeta per il 11 ° anno consecutivo, con un incremento annuo del 4,8% rispetto al 2012. Il Vietnam è entrato per la prima volta nella top ten. L’Asia – grazie alla popolazione tanto numero – consuma il 34,8% del mercato della birra ed è la regione che ne consuma di più dal 2007. Penetrare nei mercati emergenti (e potenzialmente colossali) è quindi una priorità e si fa non vendendo la propria vecchia birra ma comprando i marchi nazionali.

Se guardiamo al consumo pro-capite l’Asia, dove pure il consumo cresce in maniera costante, precipita in basso. In grande crescita anche il consumo della birra non alcolica nei Paesi islamici, specie quelli della penisola araba. Ma parliamo di briciole.

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L’Europa è il centro del mondo se parliamo di birra: qualità, varietà e consumo pro-capite.

Più di tutti bevono i cechi, circa 120 litri l’anno, seguiti da tedeschi, estoni, austriaci e irlandesi tutti intorno ai cento litri a testa. Quanto all’Italia, nel rapporto 2014 di Assobirra leggiamo

Nel 2014 i consumi della birra in Italia sono rimasti stazionari, avendo toccato 17.729.000 ettolitri (…) un andamento storico piatto, anzi lievemente riflessivo, che dura da almeno dieci anni: nel 2005 il consumo pro capite annuo era di 29,9 litri, saliti a 30,3 nel 2006 e a 31,1 nel 2007 (anno record); dopodiché è cominciato il ripiegamento. Guardando oltre i confini l’Italia, con i suoi 29,2 litri, rimane all’ultimo posto della classifica dei consumi in Europa, con un valore pari a meno della metà della media Ue.

Eppure anche nel nostro Paese è boom di micro e medi produttori artigianali, alcuni dei quali hanno trovato in pochi anni la strada dei supermercati grazie a un prodotto di qualità nettamente superiore alla media.

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L’intifada dei coltelli nel silenzio della diplomazia internazionale

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Una lunga scia di sangue unisce Gerusalemme alla Cisgiordania e quest’ultima a Gaza. È l’Intifada dei coltelli. Che ha il suo epicentro nella Città Santa, la Città contesa. Dove si contano almeno due morti e una ventina di feriti a seguito di due attentati avvenuti questa mattina in contemporanea. Secondo le ricostruzioni, la prima vittima israeliana è stata uccisa a bordo dell’autobus ad Armon HaNatziv dove due palestinesi hanno aperto il fuoco e accoltellato i passeggeri. La vittima è un uomo di circa 60 anni, ci sarebbe anche un ferito grave.

La polizia, intervenuta poi in forze, ha ucciso il primo dei due terroristi e catturato l’altro. Il secondo israeliano è stato ucciso in via ‘Malkei Israel’ quando un palestinese ha lanciato la propria auto contro un gruppo di persone in sosta alla fermata dell’autobus. L’attentatore è poi sceso ed ha accoltellato chi era a terra. Le forze dell’ordine hanno detto di aver “neutralizzato” l’attentatore. Quattro passanti israeliani sono stati pugnalati da un assalitore palestinese nel centro di Raanana (a nord di Tel Aviv), nel secondo attentato palestinese della mattinata in quella città. In precedenza altri due israeliani erano stati accoltellati. Entrambi gli assalitori sono stati “neutralizzati” e catturati.

 

L’altro ieri quattro attentati in un giorno, due nello spazio di circa un’ora, almeno 6 israeliani accoltellati a Gerusalemme. L’allarme in Israele è altissimo e lo stillicidio quotidiano. «Il terrorismo è figlio della volontà di distruggerci e non della disperazione palestinese», ha denunciato il premier Benyamin Netanyahu in un infuocato dibattito alla Knesset. «Ma la nostra voglia di vivere distruggerà la voglia di uccidere dei nostri nemici», ha avvertito, respingendo ancora una volta come “bugie” le affermazioni che Israele stia cercando di cambiare lo status quo sulla Spianata delle Moschee o che sia in lotta con l’Islam. La destra nazionalista al governo, legata a doppio filo al movimento dei coloni chiede al premier di spingersi oltre e arriva a invocare una espulsione di massa dei palestinesi da Gerusalemme Est.

 

Oggi in Israele è in programma lo sciopero generale degli arabi israeliani in solidarietà con la Cisgiordania e per la Moschea di Al Aqsa. Il vice comandante della polizia Benzi Sao ha riferito in Parlamento che finora sono stati feriti negli scontri 68 agenti da pietre o bottiglie incendiarie e che dei 300 arresti effettuati di palestinesi o arabo israeliani, oltre la metà sono minorenni.

 

Il ministero della Sanità palestinese ha calcolato in 1300 i feriti palestinesi da pallottole vere o ricoperte di gomma dall’inizio di ottobre, di cui 75 solo ieri negli scontri in Cisgiordania. Un bilancio destinato a crescere perché nel vuoto assoluto lasciato dalla diplomazia internazionale, c’è spazio solo per rabbia, disperazione e, sul fronte israeliano, per l’illusione che la sicurezza dello Stato ebraico possa essere garantita con la forza e imprimendo un ulteriore giro di vite nei Territori occupati palestinesi dove ormai da tempo vige di fatto un regime di apartheid.

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Alfano: no alla stepchild adoption perché apre all’utero in affitto. Ma è falso

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«No all’utero in affitto» ha sentenziato Angelino Alfano che ha incontrato il premier Matteo Renzi per un nuovo confronto sul tema della legge unioni civili. Il nuovo centrodestra continua così a confondere le acque accusando il ddl Cirinnà di portare subdolamente alla legittimazione dell’utero in affitto. Ma nel testo Cirinnà non vi è traccia di questo argomento. Il testo, come abbiamo scritto più volte, il ddl tematizza e regola invece la stepchild adoption: oggi i figli delle coppie gay hanno solo il genitore biologico come genitore legittimo. L’altro è un estraneo. La stepchild, recependo anche sentenze della Cassazione cambierebbe questa situazione permettendo di adottare il figlio del compagno.
“Nuovi” integralisti però fanno orecchie da marcante e Mario Adinolfi insiste: «Faremo una grande raccolta firme per la richiesta di moratoria all’Onu sull’utero in affitto. E non vorremmo davvero arrivare a quel giorno con l’utero in affitto legittimato da una legge italiana». Come se non sapesse che la Legge 40 vieta già la maternità surrogata. Il divieto è esplicitato nell’articolo 12 comma 6 della norma varata nel 2004.

Quanto alla maternità in affitto che, ribadiamo, non rientra nel testo Cirinnà, ecco quale è il quadro internazionale:

In molti Paesi occidentali, a cominciare dall’Inghilterra è legale e regolamentata. La letteratura scientifica non oppone obiezioni e, a ben vedere, neppure ce ne sarebbero dal punto di vista “etico” se fosse frutto di una libera scelta. Come spiega anche il professor Pasquale Bilotta, direttore scientifico dell’istituto Alma Res: «Il divieto contenuto nella Legge 40 è un’assurdità. Paradossalmente una donna che ha l’utero ma non le ovaie può usufruire di una donazione e avere una gravidanza. Chi invece ha le ovaie ma non l’utero, e potrebbe concepire un figlio geneticamente correlato con l’aiuto dell’utero di un’altra donna, non può averlo. Dietro ovviamente c’è un’idea, va detto purtroppo, religiosa della vita e delle libertà personali. E invece c’è tutta una normativa della legge civile che andrebbe rivista, per cui mi batto da anni perché è assurdo vietare la maternità surrogata, soprattutto come gesto baliatico. Evitando qualsiasi episodio di mercimonio, ma se tutto avviene all’interno di una situazione consensuale o amicale perché non consentirlo?».

Ma il figlio è di chi lo cresce o di chi lo fa “materialmente”?

«Il figlio è di chi lo cresce, su questo non c’è dubbio.» Perché a suo avviso Quagliariello (Ncd) dice «possiamo trattare su tutto ma non sulla maternità surrogata. Vietiamola». «Lo fanno nel nome di quello che loro ritengono sia la famiglia “naturale” – risponde Bilotta -. Purtroppo anche la legge 40 è il risultato di un patto con la Chiesa cattolica, che conferma di avere l’enorme problema di svincolare la sessualità da finalità procreative. Papa Francesco, ritenuto tanto illuminato, non ha cambiato e non cambierà la dottrina».

Se da il punto di vista scientifico ed etico la maternità surrogata non incontra obiezioni è vero però che in aree povere del mondo accade che diventi uno strumento di sfruttamento. Proprio per impedire questo tipo di racket, il governo del Nepal ha introdotto restrizioni legislative. In precedenza lo aveva fatto la Thailandia. Non sulla base di un credo religioso, come vorrebbe il giornale cattolico l’Avvenire, ma per evitare l’abuso.

E nel resto del mondo?

In molti Paesi la maternità surrogata è accettata ed è legale. Per esempio , come accennavamo, in Inghilterra, dove nel 1978 è nata la prima bambina in provetta, il ricorso a questa pratica è consentito ma strettamente regolamentato. La California è lo Stato dove si registra la più ampia apertura, al pari dell’India, Paese in cui la commercial surrogacy è praticata dal 2002 in una rete di cliniche specializzate.
Quanto all’Italia, come ricordavamo la legge 40 vieta in particolare la commercializzazione dell’utero in affitto. «Nel 2000 il Tribunale di Roma ha autorizzato un utero surrogato perché applicato su base solidale senza commercializzazione del corpo o di parti di esso, nel pieno rispetto delle norme in vigore nel nostro Paese e delle norme comunitarie», ricorda però l’avvocato Filomena Gallo. «Oggi», aggiunge, «molte coppie si recano all’estero per avere un figlio, e nell’agosto 2011 il ministero degli Esteri ha diffuso un documento per le ambasciate italiane in cui forniva indicazioni precise sul comportamento che il funzionario consolare debba tenere in caso di sospetta maternità surrogata». Il documento dice che se l’atto di nascita è formalmente valido, il funzionario lo deve accettare e inoltrare al Comune competente informandolo, insieme alla Procura, delle particolari circostanze della nascita. «È prassi che il funzionario consolare accetti gli atti già perfezionati e li inoltri al Comune per la trascrizione. Solo dopo, eventualmente, si darà inizio a un accertamento dei fatti in sede penale, con riferimento al reato di alterazione di Stato. Ma – sottolinea Gallo – i controlli nei momenti delle trascrizioni degli atti di nascita, se pur leciti, non possono tradursi in una intromissione nella vita delle coppie fino alla sottrazione del minore, che potrebbe subire danni in una delle fasi più importante della vita».
Un tipo di intromissione che si è verificata più volte. Nel 2014, per esempio, la Corte di Cassazione ha condannato il fenomeno della maternità surrogata dichiarando adottabile un bambino nato in Ucraina da una madre surrogata, con la conseguente perdita della responsabilità genitoriale da parte della coppia italiana. Nel caso Paradiso e Campanelli, invece, l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per aver sottratto alla “coppia committente” un bambino nato da una madre surrogata in Russia, a causa dell’inesistenza di un legame biologico con i coniugi, e quindi per aver violato l’articolo 8 della Carta europea dei diritti dell’uomo – che recita che «non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio del diritto al rispetto della propria vita privata e familiare». In quel caso la Corte ha riconosciuto l’esistenza di una famiglia di fatto formata dalla coppia e dal bambino.
L’avvocato Ida Parisi, che riporta questi e altri casi in uno studio realizzato per conto dell’associazione Luca Coscioni, assicura che nel frattempo la Conferenza di diritto internazionale privato dell’Aja ha avviato una ricerca sugli sviluppi comparati della disciplina della maternità surrogata, nell’ambito del diritto interno e del diritto internazionale privato. «È partita nel 2010 ed è in corso ancora oggi. Questo lavoro ha come obiettivo l’ideazione di una normativa internazionale, comune a tutti gli Stati, che metta al centro la tutela del minore e che funzioni da punto di riferimento in caso di contrasti normativi».

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A 13 anni non vuole lasciare la Siria, ma diventare architetto per ricostruire Aleppo

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Ieri sera Channel 4 News, il programma di approfondimento informativo condotto da Jon Snow del canale britannico Channel 4, ha pubblicato sulla sua pagina facebook la storia di un ragazzo che vive in Siria ad Aleppo. Il video racconta la storia di Mohammed un 13enne che non vuole in nessun modo abbandonare la sua città e che sogna un domani di diventare architetto per ricostruire Aleppo ad oggi devastata dalla guerra. Il ragazzo armato di solo cartoncino, pennarelli e pistola spara colla ha addirittura realizzato un plastico sul quale ha già ricominciato a ricostruire la sua città. «Voglio che queste case di carta diventino edifici reali».

This 13-year-old boy does not want to flee Syria – instead he dreams of growing up to become an architect to rebuild the ruins of Aleppo.

In his home inside the devastated city he creates his own world using paper, paint and a glue gun.

Posted by Channel 4 News on Lunedì 12 ottobre 2015

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Riforma del Senato? Proviamo a valutarne gli esiti nello scenario peggiore

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Apparentemente si discute di riforma del bicameralismo, dopo l’approvazione della legge elettorale. Ma il combinato disposto, come si dice in gergo, produce una mutazione di sistema. Si cambia la forma di governo del Paese, senza annunciarla, senza discuterla come tale e senza neppure deliberarla esplicitamente. La legge costituzionale e l’Italicum istituiscono in Italia il premierato assoluto, come lo chiamava, con tremore di giurista, Leopoldo Elia. Lo definiva assoluto non perché fosse una svolta autoritaria come si dice oggi, ma perché privo dei contrappesi, cioè di quei meccanismi compensativi che sono in grado di trasformare ogni potere in democrazia.

I giuristi sono soliti fare la prova di resistenza delle leggi, cioè di valutarne gli esiti nello scenario peggiore. Proviamo anche noi. Un leader che raccoglie meno di un terzo dei consensi conquista il banco, è in grado di governare da solo – e fin qui si può accettare – ma può anche modificare le regole fondamentali con spirito di parte senza essere costretto a discuterne con tutti. Può decidere da solo sui diritti fondamentali di libertà, sull’indipendenza della Magistratura, sulle regole dell’informazione, sui principi dell’etica pubblica, sulla dichiarazione di guerra, sulle prerogative del ceto politico, e infine riscrivere le leggi elettorali e perfino ulteriori revisioni costituzionali al fine di prolungare sine die la vittoria che lo ho portato al potere. […] Per tutto ciò il premier dispone di una maggioranza ubbidiente di parlamentari che ha scelto personalmente come capilista. D’altro canto, con l’Italicum i tre quarti dei parlamentari, sempre nel worst case scenario, sono sottratti al controllo degli elettori, non solo al momento del voto ma durante il mandato. Al contrario il premier riceve un’investitura diretta, seppure minoritaria, nel ballottaggio. Si crea così un forte squilibrio di legittimazione tra il capo del governo e l’assemblea, che si traduce in supremazia del potere esecutivo sopra il legislativo e indirettamente anche sull’ordinamento giudiziario. […] I tre poteri fondamentali di una democrazia sono decisamente fuori equilibrio, e il principale fattore di questo squilibrio è il numero dei deputati. La Camera – unica depositaria del voto di fiducia – è sei volte più grande del Senato. Di fatto è un monocameralismo. Niente di male in linea di principio, lo proponeva con ardore anche il mio caro maestro, il presidente Pietro Ingrao, e tanti altri nella Prima Repubblica, ma tutti lo compensavano con legge elettorale proporzionale. Nessuno lo avrebbe mai accettato con una legge ipermaggioritaria. Eppure, eliminare lo squilibrio numerico sarebbe facile e doveroso. In nessun Paese europeo si arriva a 630 deputati. E la proposta iniziale del governo faceva della riduzione dei parlamentari la priorità della revisione costituzionale. Perché allora non si riduce il numero dei deputati? Perché si cambia tutto tranne il numero della Camera? Da più di un anno questa domanda rimane senza risposta. Mi rivolgo in extremis alla ministra Boschi: abbia almeno la cortesia istituzionale di dare in quest’aula una spiegazione seria e convincente.

Sento già il ritornello – “allora vuoi far cadere il governo?”. È la domanda più stupida che si legge sui giornali. È una strabiliante inversione tra causa ed effetto. È inaudito che il governo ponga in sede politica una sorta di fiducia sul cambiamento della Costituzione. Non è mai accaduto nella storia della Repubblica. Il fatto che oggi venga considerato normale, che si dia quasi per scontato, che venga messo all’indice chi si sottrae, è la conferma che il dibattito pubblico italiano è malato, che già nell’agenda di discussione, prima ancora che nelle soluzioni, si vede un pericoloso sbandamento dei principi e dei valori.

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