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Lo scandalo Volkswagen e l’autoritarismo della “Qualità totale”

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Lo scandalo Volkswagen ci consegna un quadro devastante che va al di là della sfera economica. Siamo di fronte a un fatto di gravità estrema che invade ogni altra dimensione relazionale umana. È ancora possibile, di fronte alla macchina infernale del progresso tecnologico, mettere al centro l’uomo in un’altra possibile esistenza? Una domanda che appare forse eccessiva e retorica in un momento di crisi occupazionale, ma che scaturisce da una preoccupazione profonda che riguarda la democrazia reale, cioè la possibilità per tutti di essere informati su quelle mutazioni dei processi produttivi anche di settori strategici. Non basta firmare o no un contratto al buio senza avere la piena consapevolezza della strategia complessiva dell’azienda. Insomma, ho l’impressione che molti in realtà non conoscano nulla della reale portata dei nuovi strumenti tecnologici in mano alle multinazionali, meno che mai del loro reale impatto sull’uomo, sull’ambiente e sulla stessa condizione operaia. La “truffa” globale del secolo ci dice proprio questo: oggi siamo in presenza di un autoritarismo globale, di una strategia delle multinazionali, che deliberatamente negano ogni informazione, ogni interferenza anche governativa che possa anche lontanamente far conoscere e controllare ogni piega delle strategie e dei loro processi produttivi. Il vulnus democratico è enorme. Mi sono ricordato che Bruno Trentin negli anni Settanta diceva che al centro dell’iniziativa sindacale dovevano esserci il controllo e le informazioni sulle strategie industriali. Ecco, l’errore in cui non dobbiamo cadere è pensare che lo scandalo Volkswagen sia un fatto del tutto isolato. Penso ai casi più gravi della Foxconn, al caso Ilva, ai richiami di veicoli difettosi e alle multe milionarie a importanti aziende automobilistiche. I fautori della “Qualità Totale” non si rendono conto che per perseguire ciecamente gli alti livelli di profitti imposti dalla competitività globale devono necessariamente trascurare la condizione umana e la sostenibilità ambientale. Dall’ultima indagine della Fiom-Cgil sulle condizioni di lavoro alla Sata Fca di Melfi, è emerso proprio questo: l’incremento della velocità delle linee di montaggio, l’aumento dei ritmi e delle saturazioni e la modifica delle turnazioni, oltre a peggiorare le condizioni di salute stanno minando fortemente la vita dei lavoratori anche nei momenti familiari e sociali. Noi di Pomigliano nel 2010 avevamo già visto tutto. Produzioni esasperate fino al limite dell’umano sono quelle che Pietro Ingrao chiamava: “Oscenità delle disuguaglianze crescenti”. Per questo sono molto contento che i miei colleghi americani dopo la prima fase della paura abbiano dimostrato tutto il loro dissenso con il 65 per cento dei No nei confronti delle proposte aziendali che contenevano, secondo il loro punto di vista, un peggioramento delle condizioni di lavoro sia in fabbrica, che fuori. Per non parlare poi dell’assenza di garanzie contro una delocalizzazione in Messico. Il valore del No dei miei colleghi americani ha lo stesso significato etico del nostro No a Pomigliano del 2010, con l’aggravante che da noi fu imposto senza la possibilità di trattativa. È famosa la nostra esclusione. Oggi, oltre al rientro della Fiom in Fiat grazie alla magistratura, molti nodi, di là dall’eccellente andamento della nuova Panda e di altri nuovi modelli, stanno venendo al pettine. Ma una cosa in questi giorni mi ha ridato un filo di speranza. È ciò che è accaduto in Svezia, dove in molti luoghi stanno riducendo l’orario di lavoro a parità di salario. L’obiettivo è stato spiegato molto bene, sia dal governo che dai manager delle aziende: il progresso tecnologico non può comprimere il diritto alla felicità. La vera sfida che abbiamo di fronte è quella di riappropriarsi della propria vita familiare, di quell’economia della reciprocità solidale che riannodi quei legami tranciati da un liberismo ottuso e selvaggio. Questa è una vera e propria lezione di democrazia per tutti noi.

*Antonio Di Luca è un operaio della Fiat di Pomigliano 

Cavallerizzi, soldati, sportivi, eroi: Lukashenko e gli altri inossidabili presidenti delle repubbliche ex Urss

Amano il photoshop e i fotografi al seguito. Meno i diritti umani e le elezioni competitive. Sono i presidente delle ex repubbliche Urss, rieletti con percentuali stratosferiche, spesso ricchi grazie alla collocazione geografico-strategica del loro Paese o delle risorse nel sottosuolo. Ai tempi in cui Berlusconi faceva il presidente operaio sorridevamo. L’ex premier detesta i comunisti, ma è dall’armamentario della propaganda Urss che ha imparato molte cose. Una dimostrazione qui sotto.

Bielorussia
Alexander Grigoryevich Lukashenko, presidente dal 1994, rieletto per il quarto mandato con l’83,5% dei voti

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Turkmenistan
Saparmurat Atayevich Niyazov, “il leader dei turkmeni” presidente dal 1985 al 2006

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Gurbanguly Berdymukhamedov, titolo onorifico: “il protettore”. Presidente dal 2006, rieletto nel 2012 con il 97% dei voti. Per non essere da meno del suo precedessore ha voluto anche lui una statua dorata nella capitale Ashgabat

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FILE - Turkmenistan's President Gurbanguli Berdymukhamedov smiles as he rides a horse with a dove on his shoulder an a ceremony in the capital Ashgabat, Turkmenistan, in this Sunday, April 24, 2011 file photo. A series of public shows and sports events will be held during the first week of April to mark the "era of power and happiness" recently announced by Berdymukhamedov, state newspaper Neutral Turkmenistan reported Friday March 30 2012. The week has now been dubbed the "Week of Health and Happiness" and will among other things see the staging of plays called "The Inspirational Era of Happiness" and "The Era of Power is Illuminated by Happiness." (AP Photo/Alexander Vershinin, File)

Kazakistan
Nursultan Äbishuly Nazarbayev, il più longevo. Presidente dal 1989, rieletto nel 2015 con il 98% dei consensi. Quella in basso è un’impronta della sua mano nell’oro esposta nella torre più alta della capitale Astana

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Atop the Baiterek Tower.

 

Uzbekistan, Islom Abdugʻaniyevich Karimov, presidente dal 1990. Eletto per la terza volta nel 2007, 88.1% dei voti, affluenza 90.6%

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Quell’istinto di sopravvivenza delle donne iraniane che si chiama Vittoria

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«La vita di una donna iraniana, qualunque sia la sua posizione sociale o politica, è all’insegna della resistenza. E questa resistenza, tra mille difficoltà, rende la donna vincente» la regista iraniana Rakhshan Banietemad commentava così il Premio Osella per la migliore sceneggiatura ricevuto per Tales allo scorso Festival di Venezia.
Queste stesse parole sono perfette per descrivere anche un’altra vittoria, quella di Maryam Mirzakhani (foto in apertura), alla quale ieri è stato assegnata la medaglia Fields, il più importante riconoscimento nel settore tanto da essere considerato il Nobel della matematica.


Rakhshan Banietemad

Il premio viene assegnato ogni quattro anni a un massimo di quattro candidati sotto i 40 anni di età. Maryam Mirzakhani, nata a Theran e professoressa a Standford dal 2008, di anni ne ha 38. È iraniana, come Rakhshan Banietemad, e come lei ha sviluppato quello strano istinto di sopravvivenza che si chiama vittoria, ma che significa anche e soprattutto visibilità e riconoscimento in un Paese in cui le donne sono sottoposte all’autorità di padri, fratelli e mariti e a una legislazione restrittiva che tra le altre cose le obbliga a coprirsi con l’hijab. Anche quando si va al mare, anche quando ci si tuffa in acqua.
La vittoria – quel premio che sembra dire «non solo siamo uguali, ma possiamo anche correre con voi e a volte arrivare prime» – nel caso di Maryam è ancora più importante perché dal 1936, anno in cui fu istituita, nessuna donna aveva ancora mai vinto la medaglia Fields.
Ma appunto, le iraniane sono così.
E sono così anche quando sei la capitana della nazionale femminile di calcio e tuo marito non ti firma il permesso per partecipare alla finale della Coppa d’Asia perché il regime non vede di buon occhio che delle donne, seppur bardate fino all’impensabile, corrano dietro a un pallone. Troppo erotico. Troppo disdicevole per una moglie devota.

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La notizia è di qualche giorno fa.
Ma le iraniane lo abbiamo detto corrono, non si fermano e in questo caso, anche se orfane del loro capitano, riescono a battere le giapponesi e a vincere la Coppa, anche per chi non c’era. Anche per lanciare un segnale al mondo: “Noi ci siamo. Esistiamo! E anche se tentate di fermarci mettendoci davanti mille ostacoli, siamo brave. E vinciamo”.

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Come Elham Asghari, la migliore nuotatrice dell’Iran. Elham è una campionessa e il suo sogno è battere il record nazionale per farlo è disposta a tutto. Così, nel 2013, nuota per 20 km in aperto Mar Caspio con addosso un costume che bagnato pesa ben 6 chili. Per rispettare i rigidi dettami sull’abbigliamento femminile imposti dalla scari’a, Elham infatti è costretta a compiere la sua traversata in mare coperta da una muta da sub con sopra un camicione nero che arriva fino ai piedi e una cuffia coperta a sua volta dal famigerato hijab. «Nessuno vorrebbe nuotare così. Ma non avevo scelta». L’impresa è epocale Elham, ce la fa. Questa volta però vincere non basta perché le viene detto che il suo record non è valido, perché il costume con cui l’ha raggiunto lasciava intravedere forme femminili, era inappropriato e indecente. Ma Elham non si arrende e lancia una petizione per denunciare quanto successo sul sito change.org.

Il suo caso fa il giro del mondo e per il mondo ha vinto lei.

Secondo l’ayatollah Khamenei, attuale Guida Suprema dell’Iran sono radicalemte sbagliati i concetti di “parità tra i sessi” e ”il dritto al lavoro femminile”, che nemmeno Khomeini aveva messo in discussione all’epoca della Rivoluzione Islamica. La realizzazione personale di queste donne, l’ottenere premi e visibilità mondiale, è qualcosa di più di un trofeo da esporre in salotto. Qui in Iran è qualcosa che ha a che fare con la democrazia, un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione femminile e per contrastare il regime teocratico.
Perché Elham, Maryam, le ragazze della nazionale di calcio, Rakhshan esistono, sono brave, corrono e vincono.
Che il regime lo voglia o no.

Video | L’abbigliamento femminile in Iran dal 1910 a oggi

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Renzi, la Corte dei conti e gli altri amministratori locali: due pesi due misure

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Due pesi due misure: come quella politica, anche la bilancia della Corte dei Conti capita sia tarata su pesi diversi.
In attesa di un eventuale pronunciamento sulle spese del sindaco di Roma Ignazio Marino, la condanna morale e politica è già stata emessa. Lungi da chi scrive sostituirsi a pubblico ministero o difesa dell’amministratore, e senza entrare nel merito della giustezza o dell’opportunità delle spese da egli sostenute, il punto resta: i soldi pubblici si usano con parsimonia e pertinenza.

Dunque. Marino spende in cene, Renzi lo condanna e lo caccia. Il concetto è: il primo cittadino deve utilizzare i fondi con oculatezza e nel rispetto dei cittadini. Benissimo.
Ma qualcuno ricorda le motivazioni della sentenza di assoluzione rispetto alla condanna per danno erariale con colpa grave causata dal Presidente del Consiglio quando era a capo della Provincia (pubblicate a febbraio sul fattoquotidiano.it da Thomas Mackinson)?

Tra il 2004 e il 2009, Matteo Renzi è Presidente della Provincia di Firenze e assume quattro funzionari nella sua segreteria senza che avessero i requisiti richiesti da quel tipo di inquadramento (laurea) e, ça va sans dire, al corrispondente (e illegittimo) peso d’oro. Una “leggerezza” che secondo i giudici contabili toscani avrebbe causato un danno alle casse pubbliche di 2.1 milioni di euro (poi ridotto a un risarcimento di 50mila euro, poi 14mila, per il presidente). Ma la Corte dei conti di Roma, sezione centrale d’appello (Presidente il giudice Martino Colella, che una settimana dopo diventerà, con ratifica a firma Renzi, Procuratore generale della Corte dei Conti) invece ribalta le due condanne precedenti della Sezione giurisdizionale:

«Invero, pur non ricorrendo gli estremi della cosiddetta “esimente politica”, questo Collegio ritiene di poter rilevare l’assenza dell’elemento psicologico sufficiente a incardinare la responsabilità amministrativa, in un procedimento amministrativo assistito da garanzie i cui eventuali vizi appaiono di difficile percezione da parte di un “non addetto ai lavori”.

Tradotto: sebbene riconosciamo la responsabilità politica (e dunque morale) al Presidente, siccome non è un tecnico non era cosciente del danno che arrecava. Non è in grado di percepire le illegittimità delle proprie gesta. Il signor Matteo Renzi non ha responsabilità del suo agire «per insussistenza dell’elemento psicologico». Renzi esulta sprezzante di cosa questo significhi, ovvero che è incapace di intendere a pieno e dunque di volere.

E fa nulla se, come pure scrive la Corte:

«è pur vero che il presidente Renzi ha indicato nominativamente i componenti della propria segreteria; se è pur vero che il presidente Renzi ha preso visione dei relativi curricula, rendendolo ciò consapevole del livello culturale degli interessati; se è pur vero che i provvedimenti erano a firma del presidente della Provincia».

Fa niente se aveva letto e visionato tutto, ogni contratto e centesimo a esso finalizzato. Non è colpa sua, perché: «i pareri (ben quattro) resi nell’ambito dei procedimenti interessati e i relativi contratti sono stati curati dall’entourage amministrativo e dalla struttura amministrativa provinciale che hanno sottoposto all’organo politico una  documentazione corredata da sufficienti, apparenti garanzie tanto da indurre ad una valutazione generale di legittimità dei provvedimenti in fase di perfezionamento». Gli uffici gli hanno garantito che si poteva e lui se l’è fatto bastare. Benissimo.
Cosa che varrà anche per Marino, probabilmente, come ha recentemente dichiarato lo stesso Alfonso Sabella, assessore alla Legalità: qualche errore l’avrà commesso anche il suo entourage, di cui un amministratore necessariamente si avvale, come abbiamo visto per l’ex presidente della Provincia.

 

Epperò c’è un’altra sentenza (attualmente in attesa dei pronunciamento della Corte Costituzionale e della sezione centrale) che, guarda un po’, sostiene esattamente il contrario. Siamo in Emilia-Romagna, e riguarda l’utilizzo da parte dei Gruppi consiliari regionali dei fondi assembleari per il pagamento di spazi televisivi, e la Sezione giurisdizionale del Corte dei Conti sentenzia che:

«Perché si abbia colpa grave non è richiesto perciò che si sia tenuto un comportamento assolutamente scriteriato o abnorme, ma è sufficiente che l’agente abbia omesso di attivarsi come si attiverebbe, nella stessa situazione, anche il meno provveduto degli amministratori esercente quella determinata attività».

 

Quale che sia il danno causato, siccome la responsabilità è in capo al presidente del Gruppo consiliare, la colpa ricade su di lui che non si è accertato a sufficienza della correttezza delle proprie e delle altrui gesta. Proprio su questa tesi, è stato costruito tutto l’impianto accusatorio nei confronti dei capigruppo regionali. La motivazione è che:

«le risorse assegnate ai capigruppo per coprire le spese sostenute nell’interesse del gruppo, fanno sorgere a carico dei percettori, i responsabili del gruppo consiliare, un onere di rendicontazione nei confronti della Regione, nonché un dovere di vigilanza relativamente alla corretta destinazione delle medesime».

E questo perché: «il Presidente del gruppo ha la legale rappresentanza del gruppo ai fini dell’impiego dei fondi e quindi a lui è intestato il potere di diretta disposizione della spesa e quello di approvazione delle spese ove esse si riferiscano alle iniziative di singoli componenti del gruppo». Essendo dunque colui che rimanda all’Ufficio di Presidenza il bilancio, deve dunque «verificare la correttezza formale e sostanziale della spesa».

Dunque fa niente se ci sono stati controlli pregressi e responsabilità di altri soggetti, anzi: il fatto che ci sia un precedente controllo degli altri organi istituzionali preposti (come l’Ufficio di Presidenza e i revisori dei conti) «non può costituire un effetto scriminante capace di elidere o di attenuare la responsabilità dell’autore dell’atto».

 

Gli eletti – in quanto funzionari pubblici e responsabile della gestione delle finanze – sono obbligati a essere a conoscenza non solo dell’impiego dei soldi, ma anche di verificare che siano a norma di legge. E dunque, legge e contabilità, la devono conoscere. Insomma, ignorantia legis non excusat, caro Presidente: se lo ammette la morale di alcuni, l’ignoranza non la ammette la la legge. Soprattutto quando crea dannno alle casse pubbliche.

Ma dove stavano tutti questi sostenitori di Marino?

Sostenitori del sindaco dimissionario Ignazio Marino in Piazza del Campidoglio a Roma, 11 ottobre 2015. ANSA/ MAURIZIO BRAMBATTI

È persino emozionante vedere la passione con cui centinaia di persone si sono ritrovate domenica in piazza del Campidoglio, autoconvocate con un evento su facebook.
Arianna Ciccone, che organizza a Perugia il Festival Internazionale di Giornalismo, ricostruisce su Valigiablu com’è nata la manifestazione.

Tra duri cori contro i giornalisti e cartelli più ironici («Chi legge Repubblica danneggia anche te. Digli di smettere»), la piazza ha acclamato Ignazio Marino, oggi dimissionario. «Noi con Marino, voi col Padrino», è uno degli slogan che meglio rende l’umore generale e il risentimento verso il partito democratico, soprattutto, accusato – con ottime ragioni – di aver voluto la testa di Marino. Non è un caso che alla prima e fortunata petizione su change.org (mentre scriviamo è ormai a quota 50mila firme, tutte per convincere Marino a ripensarci), se ne sia aggiunta una dal titolo ancora più puntuale: «Renzi, ripensaci e ridacci il nostro sindaco, Ignazio Marino».

È emozionante, dicevamo, – e Marino dice di aver pianto – perché testimonia un certo affetto, e pure un attivismo politico che si dava per scomparso, in città. Un attivismo che sì Marino – grave colpa – non è evidentemente mai riuscito ad attivare, ma che per mesi ha generalmente osservato in sostanziale silenzio il lento stillicidio a cui è stato sottoposto il sindaco. Da certa stampa, innegabilmente, ma anche dalla politica.

Curioso, ad esempio, è vedere che in quella piazza non ci fossero solo singoli elettori o impotenti militanti dei partiti del centrosinistra, delusi per le scelte dei rispettivi segretari (né Pd né Sel hanno fatto assemblee pubbliche per decidere la linea, né hanno riunito gli organismi dirigenti). C’era, in piazza, anche uno come Marco Miccoli, deputato del Pd, ed ex segretario cittadino. «Io penso che avremmo dovuto discutere meglio prima di togliere la fiducia a Marino», dice oggi Miccoli, consapevole che «il danno prodotto è questo: una frattura all’interno del Pd e all’interno del nostro elettorato». E dirlo prima? Fare qualcosa, prima? Discorso simile può valere per la solidarietà espressa da Nicola Zingaretti, presidente della Regione, e figura che avrebbe potuto aver un suo peso nel sostenere e difendere Marino.

Stampa. Politica. Marino ha però perso soprattutto nei bar e nei taxi. Farà ridere ma la credibilità di Marino è stata demolita lì. E in quanti, tra quelli che oggi rivogliono il loro sindaco, replicavano pazientemente alle battute del barista e del tassista? Quanto, insomma, della solitudine di Marino è stata colpa di chi oggi – oggi che lo vede cacciato malamente – giustamente si lamenta?

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Il premio Nobel per l’economia Angus Deaton parla della diseguaglianza

L‘economista scozzese Angus Deaton è stato insignito del Nobel per l’economia. Professore emerito a Cambridge, Deaton insegna a Princeton e si è occupato molto di sviluppo, salute, povertà. Nel testo che traduciamo in parte dal sito della London School of Economics, il professore parla del suo ultimo libro The Great Escape: Health, Wealth, and the Origins of Inequality. In fondo una video intervista di presentazione del libro con il Financial Times. 

Ma il lato oscuro (della diseguaglianza) è il problema che si crea quando ce n’è troppa e c’è un gruppo di persone molto, molto ricche. Talmente ricche che difficilmente hanno bisogno di governo. Non hanno bisogno della formazione dei governi, non hanno bisogno di assistenza sanitaria pubblica, possono non aver bisogno di polizia o tribunali perché possono comprare avvocati e poliziotti o qualsiasi altra cosa.
(…)
Il potere del lobbying è diventato molto importante negli Stati Uniti e non si tratta solo del comprarsi la politica, quello è qualcosa che si può fare ovunque. (…)In realtà il vero problema dal punto di vista di un economista è il motivo per cui non c’è più? Poiché le ricompense per attività di lobbying può essere colossali e il costo di lobbying è infinitamente minore dei vantaggi che porta allora perché non ce n’è molta di più? (…) Se i ricchi possono scrivere le regole allora abbiamo un problema vero.

Un paio di miei colleghi hanno studiato le tendenze dei voti nel Congresso degli Stati Uniti incrociandole con le preferenze degli elettori di quei membri del Congresso. Bene, i voti degli eletti sono allineati con le preferenze dei loro elettori ricchi e raramente con quelle degli elettori più poveri. Stiamo quindi osservando a una trasformazione della democrazia in plutocrazia e questo è qualcosa di cui preoccuparsi. D’altra parte non credo che la partite sia finita (…) le ultime elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono una vittoria della democrazia sulla plutocrazia.

L’1% per cento della popolazione accumula una quota sempre maggiore della ricchezza delle società – dove stiamo andando? Sei pessimista o ottimista?

Il futuro è enormemente difficile da prevedere, come sapete! Penso che i pericoli siano seri, alcuni giorni sono pessimista e altri giorni sembra che ci siano forze capaci di frenare questa tendenza. (…) Una cosa che non abbiamo detto è che il rallentamento della crescita economica negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi rende tutto più pericoloso, perché se la torta si allarga si può distribuirne a più persone senza colpire nessuno. Ma quando le torte non cresce, l’unico modo che sto per ottenere qualcosa è quello di togliere a qualcuno.

Renzi da Fazio e la “genialata” dei 500 cervelli da rimpatriare

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ospite della trasmissione "Che tempo che fa" condotta su Rai 3 da Fabio Fazio, 11 ottobre 2015. ANSA / MATTEO BAZZI

«È passato tanto tempo, presidente…. ». Fabio Fazio, con il suo usuale “stile di velluto”, senza fare domande difficili, accoglie il presidente del Consiglio nel suo salotto di Che tempo che fa. È domenica sera, l’ora del discorso agli italiani.  Informale, colloquiale, amichevole.  È il siparietto tranquillizzante che deve togliere l’ansia ai cittadini. Altrimenti accade che, come dice il premier, gli italiani non spendono «i risparmi nascosti in banca» se i politici alimentano « un clima da terrore». E quindi, giù gocce di “Valium renziano”. Calma cittadini, è tutto sotto controllo, le riforme le abbiamo portate avanti, il Jobs act, la legge elettorale ecc. ecc.  Che importa se a Roma c’è il terremoto, con un partito democratico allo sfascio, se le amministrative sono alle porte senza candidati forti.  Se le riforme “eticamente sensibili”, come le unioni civili e il diritto di cittadinanza o sono ferme o sono parziali…Se la legge di Stabilità avrà bisogno di tanti soldi…

Poiché  la notizia è fresca – quella dell’attentato in Turchia -, «una notizia che mina al cuore», Renzi comincia dalla politica estera a rassicurare gli italiani. Nessun bombardamento in Iraq, «non è Risiko», dice, mentre invece spende un sacco di parole per prefigurare il ruolo dell’Italia nello scacchiere internazionale. L’Italia in prima linea in Afghanistan, in Libano, tra poco in Libia e poi naturalmente nei Balcani. Ma è soprattutto in Africa che l’Italia deve andare secondo il presidente del Consiglio: a promuovere cooperazione, a investire, anche per far rimanere in loco i futuri migranti (Salvini sarà stato contento).

Nel bel mezzo della politica estera, il capolavoro di Fazio, «l’assist», come l’ha definito lo stesso Renzi. La domanda sugli italiani emigranti, un rapporto di tre a uno rispetto ai migranti che arrivano. Eccola la super notizia che anticipa i futuri provvedimenti sull’università e la ricerca che si attendono con trepidazione: ultimi in Europa per laureati, i prof più anziani del continente e un esercito di giovani ricercatori che non possono essere assunti per via del blocco del turnover. E in più le diseguaglianze crescenti tra atenei del Sud e del Nord e le borse di studio tagliate. Come risolvere tutti questi dannati problemi? Semplice: far rimpatriare 500 “cervelli” dall’estero – ma possono essere anche stranieri, come è successo per i direttori dei musei – specifica Renzi. «Un concorso nazionale basato su merito-merito, non importa di chi sei amico», spiega il presidente del Consiglio con un pizzico di sarcasmo e naturalmente parlando alla pancia del “cittadino furioso“.  Oltre all’assegno, al prof rimpatriato verrà dato «un gruzzolo per propri progetti di ricerca».  Nel più perfetto stile renziano la soluzione sta dunque nella soluzione-tampone, estemporanea e ad effetto. Immaginate le storie sui giornali (a partire da l’Unità) sui personaggi in questione: gronderanno di patriottismo intellettuale, di happy end lacrimevoli. Il fatto è che il rientro di 500 persone, un’ottima cosa, non cambierà lo stato della ricerca e della didattica universitaria. Lo sanno bene quei docenti il cui contratto di lavoro è fermo da sette anni, lo sanno coloro che si trovano alle prese con la ricerca di base sempre più abbandonata. Il progetto dei cervelli che rientrano poi è significativo: si punterà sempre di più sulle eccellenze a scapito del miglioramento tout court della formazione terziaria in generale.  E anche in questo caso si creeranno sempre di più università di serie A e università di serie B, fenomeno che rientra nella “filosofia” reziana o comunque degli uomini a lui vicini su questo terreno, Roger Abravanel docet.


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Su Left in edicola ci occupiamo di Rai, informazione e potere con articoli di Corradino Mineo, una lunga intervista di Ilaria Bonaccorsi a Giovanni Minoli, l’analisi di Loris Mazzetti e un ritratto del portavoce di Renzi, Filippo Sensi, di Luca Sappino

Fabio Fazio su questo tema non ha fatto le pulci a Renzi. Così come ha evitato i temi “caldissimi” come quello sul Pd romano in picchiata. Invece di incalzare Renzi, ha preferito chiedergli del futuro capitolino, e quindi dei papabili per il posto di commissario. Un po’ più di vivacità sulla domanda delle primarie e di Pisapia che non ci sta, ma poi gli ha servito un altro assist, tanto per dimostrare che l’operazione portata avanti dal premier è assolutamente corretta, nonostante i terribili maldipancia del popolo degli iscritti. «Che differenza c’è tra Verdini e Mastella?», come a dire, Renzi non sei il primo e forse non sarai nemmeno l’ultimo a servirti dell’appoggio di un esponente del centrodestra.  Come prevedibile, il premier ci è andato a nozze: non è colpa mia, è colpa di chi mi ha preceduto e non ha vinto a sufficienza alle elezioni del 2013.

Ora siamo tutti più contenti e a cuor leggero affrontiamo il domani. Sperando di non dover essere costretti a prendere davvero il Valium!

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Barghouti: «Senza fine dell’occupazione non ci sarà pace»

Il Guardian ha pubblicato un editoriale di Marwan Barghouti, il leader della prima e della seconda Intifada, in carcere dal 2002 dopo un tentativo di uccisione da parte delle autorità israeliane nel 2001, fa un appello alle autorità internazionali affinché si muovano.  La situazione nei Territori sembra sfuggire al controllo della autorità palestinesi – come del resto scrive indirettamente lo stesso Barghouti – e i raid israeliani su Gaza non fanno che far crescere la tensione. Il presidente francese Hollande ha parlato di «escalation pericolosa», mentre il Segretario di Stato Kerry ha parlato al telefono con Abbas e Netanyahu, così come la rappresentante per la politica estera dell’Unione europea Federica Mogherini. Questa settimana si riunisce il Quartetto (Onu, Europa, Stati Uniti, Russia) che il primo ottobre all’Assemblea Onu ha lanciato una nuova – l’ennesima – iniziativa diplomatica. Qui sotto la traduzione di ampi stralci del testo di Barghouti.

L’escalation di violenza non è cominciata con l’uccisione di due coloni israeliani, ma molto tempo fa e va avanti da anni. Ogni giorno i palestinesi vengono uccisi, feriti, arrestati. Ogni giorno la colonizzazione dei Territori avanza, l’assedio nostro popolo a Gaza continua, l’oppressione continua. (…)

Alcuni hanno suggerito che il motivo per cui un accordo di pace non è stato possibile sia stata la riluttanza del presidente Yasser Arafat o l’incapacità del presidente Mahmoud Abbas, ma entrambi erano pronti e in grado a firmare un accordo. Il vero problema è che Israele ha scelto l’occupazione e utilizzato i negoziati come una cortina di fumo per far procedere il suo progetto coloniale. Ciascun governo del mondo conosce questo fatto banale, eppure molti fingono che il ritorno alle ricette fallite del passato possa far raggiungere la libertà e la pace. Ripetere la stessa cosa più e più volte e attendersi risultati diversi è pura follia.

Non ci possono essere negoziati senza un chiaro impegno di Israele di ritirarsi completamente dal territorio palestinese occupato nel 1967, compresa Gerusalemme Est; una fine completa a tutte le politiche coloniali; un riconoscimento dei diritti inalienabili del popolo palestinese compreso il loro diritto all’autodeterminazione e ritorno; e la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi. Non possiamo coesistere con l’occupazione e non ci arrenderemo ad essa.

Siamo stati chiamati a essere pazienti, e lo siamo stati, dando chance ogni volta al tentativo di raggiungere un accordo di pace. (…) Ci hanno detto che ricorrendo a mezzi pacifici e utilizzando i canali diplomatici avremmo ottenuto il sostegno della comunità internazionale per porre fine all’occupazione. (…) Ma la comunità internazionale non ha intrapreso misure significative (…)

Così, in assenza di un’azione internazionale per porre fine all’occupazione e all’impunità israeliane, che cosa ci è stato chiesto di fare? Aspettare osservare immobili la prossima famiglia palestinese bruciata, il prossimo bambino palestinese ucciso o arrestato, il prossimo insediamento in costruzione? (…) Le azioni e i crimini di Israele (…) minacciano di trasformare un conflitto politico risolvibile in una guerra di religione senza fine che mina la stabilità in una regione già attraversata da turbolenze senza precedenti. (…)

La nuova generazione palestinese non ha atteso colloqui di riconciliazione (tra le fazioni politiche palestinesi, ndr) per incarnare un’unità nazionale che i partiti politici non sono riusciti a raggiungere, ha superato le divisioni politiche e la frammentazione geografica. Non ha atteso istruzioni per difendere il proprio diritto e il suo dovere a resistere all’occupazione. (…)

Mi sono unito alla lotta per l’indipendenza palestinese 40 anni fa, e sono stato imprigionato la prima volta a 15 anni. Questo non mi ha impedito di lavorare per una pace che sia in conformità con il diritto internazionale e le risoluzioni dell’Onu. Ma anno dopo anno Israele, la potenza occupante, ha metodicamente distrutto questa prospettiva. Ho trascorso 20 anni della mia vita nelle carceri israeliane, compresi gli ultimi 13, e questo tempo mi ha reso certo di una verità inalterabile: l’ultimo giorno di occupazione sarà il primo giorno di pace. Coloro che cercano quest’ultima devono agire, e agire adesso, per far finire la prima.

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Rifugiati, l’europolizia mette tutti d’accordo

In tema di immigrazione, se c’è una cosa su cui tutti gli Stati membri sono d’accordo è la repressione. L’ultimo vertice, che si è tenuto in Lussemburgo l’8 e 9 ottobre, tra i ministri dell’Interno dei 28 Stati membri, si è molto concentrato su come “proteggere” le frontiere dell’Unione. L’accordo si è manifestato su un punto: rafforzare Frontex e investire su un corpo di polizia comune, marittimo e terrestre, per il controllo delle frontiere. Le guardie di frontiera sarebbero sotto la diretta responsabilità di Frontex. Hotspot, quote, persino Schengen e Dublino, appaiono ormai come le clausole di un contratto, sullo sfondo di una partita che vede la posta in gioco alzarsi: la creazione di una comune forza di polizia di frontiera. Un mutamento che, naturalmente, necessità di una pesante cessione di sovranità. Vista da questa prospettiva, l’immigrazione sembra il banco di prova per testare la volontà di accettare un tale cambiamento.

Frontex-UE

Corpo di polizia europea

Per quanto riguarda le “guardie di frontiera” la proposta su cui la Commissione lavorerà è quella sottoposta dal francese Cazeneuve e condivisa dal tedesco de Maiziere e dall’italiano Alfano, e si dovrebbe sviluppa in due fasi: in un primo momento, ogni Paese metta a disposizione di Frontex mezzi e uomini. Così, quando un governo sarà in stato di emergenza, potrà chiedere aiuto a Bruxelles, e Frontex potrà inviare in tempi rapidi le sue pattuglie, terrestri o marittime. Nella fase successiva, poi, le guardie europee dovranno essere in grado di operare autonomamente rispetto alle forze di polizia locale, seppur su richiesta dei governi locali.

Insomma, nel vertice si è sondata la disponibilità dei governi ad accettare un sistema di polizia europeo, unico, che impatta direttamente sulla sovranità nazionale. Il prossimo passo avverrà al vertice dei leader di giovedì prossimo. I passaggi giungeranno a termine entro la fine dell’anno, quando Bruxelles – così promette – presenterà una proposta per estendere il mandato di Frontex e creare una guardia di frontiera e costiera operativa europea. Intanto, Frontex ha già messo un annuncio: 775 persone tra traduttori, personale di sicurezza e sanitario da distribuire principalmente sulle frontiere esterne di Italia e Grecia per gestire il flusso di migranti. La più grande richiesta di personale nella storia di Frontex, ha precisato il direttore esecutivo di Frontex, Fabrice Leggeri.

 

 

Diplomazia. Premio o multa?

Le divisioni restano sulla strategia da adottare con i Paesi terzi, per lo più africani, per convincerli a riprendersi i loro migranti, quelli che  non otterranno nessuna protezione internazionale: se Bruxelles propone un approccio “more for more”, dare più aiuti in cooperazione ai governi collaborativi, c’è un asse che si oppone (Olanda, Belgio, Francia e altri) e si dice più propenso a un meccanismo opposto, “less for less”, per dare meno a chi non collabora. Premio o multa? Anche questo sarà al centro del vertice Ue-Africa, che si terrà a Malta, a novembre.

Clima, a Parigi il solito accordo al ribasso?

Ahmed Djoghlaf e Dan Reifsnyder: a prima vista, nomi come altri. Più nello specifico, sono le persone attorno alle quali si va coagulando l’aspettativa per un accordo generale per contrastare il cambiamento climatico, in vista della Conferenza delle Parti Onu sul clima in programma a Parigi per il prossimo dicembre. COP21, acronimo che indica il 21° tentativo da parte della diplomazia mondiale di fermare il disastro ambientale da essa stessa determinato, è destinata ad essere vista come una Conferenza miliare negli oltre vent’anni di Convenzione Quadro sul clima.

Sarà dalle sponde della Senna che l’algerino Djoghlaf e lo statunitense Reifsnyder, presidenti del Gruppo di Lavoro specifico nato durante la COP in Sudafrica (l’ADP, Ad Hoc Working Group on the Durban Platform for Enhanced Action), capiranno se la proposta snella di testo proposta il 5 ottobre scorso vedrà la luce oppure no. Il nome (Co-chair tool, “strumento (di facilitazione) dei copresidenti”) è tutto un programma e testimonia le difficoltà che i negoziatori hanno affrontato in questi anni. Il testo, venti pagine contro l’ottantina delle proposte precedenti, si focalizza sui temi chiave, peccato che lo faccia con superficialità e nessuna ambizione.
Se l’obiettivo è fermare il cambiamento climatico, meglio abbandonare le aspettative. La proposta di accordo, che dovrà essere discussa a Bonn dal 19 al 23 ottobre proprio in occasione della riunione formale del gruppo di lavoro, se sdoganata sarà la base del negoziato parigino, ma se così sarà il rischio di un disastro ambientale è alle porte.
Si riconferma la tendenza ormai espressa a più riprese nelle Conferenze precedenti: si abbandona un regime vincolante, per quanto parziale e limitato, come per gli accordi di Kyoto, lasciando spazio a un approccio volontario. E’ qui che trovano la luce gli impegni nazionali, quei cosiddetti “Intended Nationally Determined Contributions (INDCs)” a cui non si è ancora aggiunto il sostantivo giusto, visto che il termine “contribution” è ben differente da “commitment” (che sta all’italiano “impegno”). Ad oggi, i 119 contributi che sono stati sottoscritti al segretariato Onu da parte delle Parti (i Paesi firmatari della Convenzione), per ora tutti volontari, porterebbero a 60 miliardi di tonnellate di CO2 le emissioni al 2030. Quando la comunità scientifica chiede categoricamente si arrivi a 35 miliardi di tonnellate.
Un avanzo enorme, che non assicurerebbe l’obbiettivo del mantenimento dell’aumento della temperatura media del pianeta sotto i 2°C rispetto al periodo preindustriale, come a più riprese indicato (sin dalla Conferenza di Copenhagen del 2009). Il target possibile è oltre i 3°C e le conseguenze le stiamo già osservando in questi mesi, con eventi estremi ed alluvioni, e un Mediterraneo sempre più tropicalizzato.
Ma se si affossa Kyoto nella sua filosofia vincolante, si lasciano a disposizione tutti i meccanismi di mercato, a cominciare dal carbon trading, che hanno permesso in tutti questi anni di aggirare le indicazioni della scienza, fingendo di tagliare solo contabilmente le emissioni. La compensazione di carbonio, e la compravendita di tonnellate di CO2, non ha invertito la tendenza inquinante, e il picco di CO2 richiesto per 2015 per poi scendere sarà anche quest’anno non rispettato. E la concentrazione oramai, secondo l’Osservatorio di Mauna Loa, ha ben superato le 400 parti per milione.
In vista di Parigi la società civile si sta mobilitando, e la convergenza dei movimenti sociali e delle reti per rendere Parigi un palcoscenico delle alternative e una piazza di pressione politica sta diventando sempre più efficace. La Coalition Climat 21 sta organizzando per la settimana dal 7 al 12 dicembre eventi e iniziative, con una giornata di azione globale il 29 novembre e la grande marcia per il clima il 12 dicembre per le strade di Parigi.
Ma molto di quelle giornate si gioca in questi mesi, con l’opposizione alle politiche di austerità e alla liberalizzazione dei mercati attraverso trattati di libero scambio come il TTIP e il TPP, che giocano un ruolo non indifferente nel consolidare un modello di sviluppo insostenibile.
E’ necessario un cambiamento di rotta profondo, radicale. Questo vogliono i movimenti e questo chiedono con un appello diffuso da 350.0rg e Attac più di 100 attivisti (tra cui l’italiana Fairwatch), studiosi, accademici e personalità della caratura di Desmond Tutu, Vivienne Westwood, Naomi Klein e Noam Chomsky.
Il caso Volkswagen dimostra quanto la tutela ambientale stia a cuore alle grandi imprese, con buona pace dei sostenitori del libero mercato. Ora, nuovamente, la parola passa ai movimenti.

*Fairwatch