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Il futuro dell’Africa è donna. Ma i mass media lo ignorano

In Africa è in corso un cambiamento profondo, inarrestabile e rivoluzionario. Le parole chiave che lo connotano sono resilienza, emancipazione e determinazione. I protagonisti sono i giovani e le giovani africane, queste ultime in particolare impegnate per un futuro sostenibile. Ma i media italiani purtroppo continuano a raccontare principalmente l’Africa come un luogo privo di speranza e pieno di problemi, come emerge dalla V edizione de L’Africa MEDIAta, il rapporto presentato a Roma da Amref Health Africa-Italia per l’Africa Day. Curato dall’Osservatorio di Pavia, ha l’obiettivo di analizzare come e quanto i media italiani raccontino l’Africa. Un tratto di continuità accompagna tutte le edizioni del rapporto: la marginalità della comunicazione sull’Africa e sulle persone africane e afrodiscendenti nei media mainstream.

La giovane attivista senegalese Coumba Awa che si batte contro le mutilazioni genitali femminili (Jacques Manga)

Quest’anno all’interno del report vi è un focus specifico sulla rappresentazione mediatica e sulla presenza nei social network dell’attivismo giovanile africano, in particolare della sua componente femminile. Purtroppo, di attiviste e attivisti africani nei media italiani però si parla davvero con il contagocce. Un dato su tutti lo testimonia: del totale degli intervistati nei telegiornali di prima serata (50.573), vi è appena 1 attivista africano ogni 919 persone, ovvero lo 0,1% di presenza complessiva. Se consideriamo invece solo le attiviste africane sul totale dei soggetti interpellati nei Tg, la situazione peggiora poiché, in media, compare una attivista africana ogni 4200 intervistati. Un numero evidentemente ai confini dell’invisibilità.

Eppure, l’Africa rappresenta la gioventù, per eccellenza. Il 70% degli 1,8 miliardi di giovani di tutto il mondo vive nei territori dell’Africa subsahariana. Proporzione che nei prossimi decenni si manterrà, anzi crescerà: le proiezioni al 2050 prevedono che la popolazione del continente africano sarà la più grande e la più giovane del mondo e si presume che il numero di giovani in Africa sarà dieci volte più grande rispetto a quello dell’Unione europea.
Una composizione anagrafica speciale quella africana, da maneggiare con cura. Una così consistente presenza di giovani nella società rappresenta innanzitutto una sfida: dobbiamo trovare i giusti driver per supportarli, per aiutarli a liberare il loro grande potenziale, per promuoverne la consapevolezza e la partecipazione. Ed è ovviamente anche un’opportunità, enorme e rivoluzionaria: non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione di orientare tutta questa energia, creatività e voglia di cambiamento per favorire finalmente uno sviluppo sostenibile e condiviso.

In un panorama in cui il Continente è spinto con vigore dalla sua gioventù verso il cambiamento, c’è un gruppo in particolare che sta lottando con maggiore tenacia e determinazione: sono le ragazze. Le barriere contro le quali si stanno ancora scontrando sono di tipo sociale, economico e politico, e sono radicate nel tempo, nella tradizione, nelle famiglie. La piaga della violenza di genere è ancora profonda: le giovani donne africane devono fronteggiare abusi domestici, molestie sessuali e pratiche altamente lesive come le mutilazioni genitali femminili. Per molte l’emancipazione e l’indipendenza economica sono ancora chimere, obiettivi lontani e difficili da raggiungere a causa delle disparità salariali, dell’accesso limitato al credito e delle varie forme di discriminazione che subiscono sul posto di lavoro. Le diseguaglianze di genere si riscontrano chiaramente anche in politica: il diritto al voto, attivo e passivo, risente fortemente dell’impostazione patriarcale e l’opportunità di partecipare alla vita politica rimane spesso solo sulla carta. Sono infatti poche le donne in politica – ostacolate da leggi discriminanti, da risorse economiche limitate e da supporti sociali traballanti – e di frequente messe a tacere da norme culturali difficili da estirpare.

Sud Sudan, Istituto Maridi, Amref Health Africa (Kennedy Musyoka)

Si tratta evidentemente di un quadro complesso, ancora ricco di contraddizioni, ma inesorabilmente e fortunatamente in fermento. I limiti e le difficoltà non riescono ad arginare la forza e l’energia di queste e questi giovani, desiderosi di guidare il proprio Continente verso una nuova era, all’insegna dei diritti. La salute rappresenta certamente un determinante imprescindibile di questo cambiamento, in particolare quando parliamo di diritti di genere. Amref è la più grande organizzazione sanitaria africana e si impegna a migliorare la vita delle comunità e a potenziare i sistemi sanitari in tutto il Continente, riconoscendo il ruolo cruciale dei giovani e delle donne per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. Uno dei pillar della strategia globale di Amref si fonda proprio sulle parole chiave salute – donne – giovani e si sviluppa attraverso programmi innovativi e partnership speciali. Amref negli anni è diventata una vera e propria piattaforma a disposizione delle e dei giovani attivisti.

A prescindere dalle tante sfide che si trovano ad affrontare, i giovani africani sono intenzionati a cambiare il futuro dell’Africa. È importante ricordare che i giovani non sono i leader del futuro, ma sono i leader di oggi. È importante che sia data ai giovani la possibilità di esprimersi e far sentire la propria voce ed è soprattutto necessario investire sui giovani come partner dello sviluppo, non come meri beneficiari. È la leadership intergenerazionale che può permettere la sostenibilità dell’Africa e del mondo intero.

L’autrice: Bitania Lulu Berhanu è direttrice programma Youth in Action (Y-ACT) Amref Health Africa

 

Un lavoratore su dieci

Più di un lavoratore su dieci in Italia è irregolare. I dati presentati dalla Confcommercio in occasione della propria Giornata nazionale “Legalità, ci piace” dicono che l’illegalità è costata alle imprese del commercio e dei pubblici esercizi 36,8 miliardi di euro e ha messo a rischio 268 mila posti di lavoro.

Le rilevazioni Istat del 2021 scrivevano di un valore economico dell’illegalità sul lavoro superiore ai 173 miliardi di euro, di cui oltre 68 miliardi da lavoro irregolare e oltre 18 da attività illegali. Sul lavoro siamo di fronte a un tasso di irregolarità pari al 12,7%, i settori maggiormente colpiti sono: servizi alle persone con un tasso di irregolarità del 42,6%; agricoltura, avicoltura e pesca 16,8%; costruzioni 13,3%; commercio all’ingrosso e al dettaglio, trasposti e magazzinaggio, alloggio e ristorazione 12,7%.

Per dirla in numeri nel 2021, erano 2 milioni e 990 mila le unità di lavoro a tempo pieno in condizione di non regolarità; occupate in prevalenza come dipendenti, circa 2 milioni e 177 mila. Aggiungete in un quadro come questo le politiche di precarizzazione del lavoro, di liberalizzazione dei meccanismi di appalto, l’indebolimento delle tutele contro i licenziamenti illegittimi e avrete l’humus perfetto per le morti sul lavoro che infestano le statistiche del nostro Paese, scorrendo di giorni in giorno. 

Ha tutta la parvenza di un’emergenza nazionale se non fosse che l’evasione di sopravvivenza – chiamata così dai fiancheggiatori politici dell’illegalità – è un tema che rimane sempre scostato dalle pensose commemorazioni antimafia. Come se non sapessimo che è proprio quella vasta zona di grigio a essere l’ecosistema perfetto per le mafie. 

Buon lunedì. 

Ecco come la Spagna di Sànchez proverà a battere le destre alle elezioni europee

La Spagna di Pedro Sánchez ha riconosciuto lo Stato di Palestina, insieme all’Irlanda e alla Norvegia (e prossimamente la Slovacchia) . Questa decisione era già nell’accordo di governo con Sumar e se ne parlava già nel 2014 ma ora è un fatto concreto. Quale è il senso di questo importante passo? E’ sufficiente? Cosa può smuovere? Lo abbiamo chiesto a Steven Forti professore di Storia contemporanea presso l’Universitat Autònoma de Barcelona che abbiamo incontrato al festival Encuentro Perugia di cui Left è partner.

“Il significato è prima di tutto simbolico. La Spagna si aggiunge ad altri 140 Paesi che avevano già riconosciuto lo Stato Palestinese. C’è una crescente sensibilità al riguardo”, dice l’autore del libro Extrema derecha 2.0. “Per quanto riguarda la Spagna – spiega – i sondaggi dicono che l’80 per cento della popolazione difende la causa palestinese. Ora non sono più solo parole, ma c’è una presa di posizione politica concreta grazie al governo Sánchez”.

Ada Colau, alla quale hai dedicato un libro con Giacomo Russo Spena, dice che non basta, che servirebbero anche sanzioni e misure più drastiche. Da sindaca di Barcellona fu la prima a sospendere le relazioni con lo Stato di Israele. In attesa di incontrarla il 2 giugno a Castiglion del Lago, quale è la tua opinione?

Coraggiosamente da sindaca di Barcellona decise di rompere con Tel Aviv proprio per aprire il dibattito pubblico sulla situazione palestinese. La questione come sappiamo non nasce dopo il 7 ottobre ma si è radicalizzata da quando Netanyahu è al governo. E in modo particolare da un anno e mezzo a questa parte, dacché alla guida di Israele c’è l’estrema destra del Likud di Netanyahu in alleanza con Ben Gvir e Smotrich che hanno posizioni neofasciste e integraliste religiose. All’epoca Colau fu osteggiata dall’establishment, anche di centro. Adesso la situazione è cambiata quello che stiamo vedendo a Gaza e in Cisgiordania negli ultimi sette mesi ha mobilitato l’opinione pubblica.

Sànchez avrebbe potuto ritirare l’ambasciatore a Tel Aviv, come ha fatto riguardo all’Argentina in risposta agli attacchi di Milei?

Sì è un a giusta critica, ma non dobbiamo dimenticare che nel contesto internazionale la presa di posizione di Pedro Sánchez per la Palestina è quasi un unicum fra i Paesi occidentali. A fine novembre come presidente del semestre europeo fece dichiarazioni importanti da Rafah condannando l’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre, ma allo stesso tempo condannando duramente l’attacco israeliano alla popolazione civile di Gaza, il blocco degli aiuti umanitari e in difesa dei diritti umani. Più di altri ha mantenuto una posizione coerente e ha alzato la voce, in un contesto internazionale segnato dall’avanzata della estrema destra, dopo quasi due anni e mezzo di guerra in Ucraina, dopo il rafforzamento della Nato, mentre un discorso militarista avanza, insomma cercherei di bilanciare queste critiche.

Quale è lo stato di salute del governo del premier socialista, che per quando non navighi in ottime acque, ha incassato l’affermazione dei socialisti in Catalogna e l’approvazione della discussa legge di amnistia?

Si sapeva che questa legislatura non sarebbe stata facile, per quanto Sànchez sia riuscito nella remontada l’anno scorso ci è voluto un grande lavoro di uncinetto per mettere insieme un governo di maggioranza. E il governo comunque è più debole rispetto a quello della precedente legislatura con Podemos, perché ha bisogno di tutti i voti delle altre forze (eccetto Popolari e Vox) nelle cortes di Madrid, deve anche tener conto anche del partito di Puigdemont con la tensione catalana che sempre complica le cose. L’approvazione della legge di amnistia è stata oggetto di una grande campagna di opposizione delle destre, che paradossalmente però ha anche dato l’occasione a Sànchez per uscire dall’angolo, recuperare iniziativa politica dopo la crisi di quei 5 giorni di fine aprile in cui aveva scritto una lettera alla cittadinanza condannando la macchina del fango contro di lui e la sua famiglia da parte delle destre e prospettando dimissioni.

Qualcuno dice ironicamente che Vox involontariamente stia favorendo la campagna di Sànchez…

Le accuse diel presidente argentino Milei alla festa di Vox ( a cui ha partecipato anche Meloni ndr) hanno mobilitato l’elettorato progressista di fronte alla minaccia della estrema destra. Mi torna in mente il libro che Sànchez scrisse qualche anno fa, Manuale di resistenza. E’ una sua caratteristica: anche nei momenti di maggiore difficoltà, quando sembra che non ci sia nulla da fare, riesce a recuperare con un colpo di reni. Ci riuscì nel 2017 dopo essere stato defenestrato dal partito socialista, recuperando dal basso. E poi l’anno dopo con la mozione di sfiducia a Rajoy, fino a formare il governo con Podemos. Poi però c’è stata la pandemia, e di nuovo la sfida dell’anno scorso.

Che ne è della stagione di grandi conquiste sul lavoro per i diritti delle donne che si registrò quando Psoe e Podemos governavano insieme?

Il governo Sànchez cerca di seguire quella linea. Ma per approvare le leggi si deve sempre confrontare con il centrodestra, se la deve vedere con i nazionalisti baschi e con quello di Pudgemont che non sono partiti di sinistra. I socialisti in questo momento sono nel mezzo, da una parte ci sono Sumar (membro del governo) e Podemos (fuori dal governo) dall’altra ci sono partiti alleati del governo che cercano di fermare prospettive di sinistra. Detto questo, se guardiamo in Europa, l’attuale governo spagnolo è l’unico di sinistra, ma con queste debolezze che rendono più difficile una agenda progressista marcata o radicale.

Alle prossime europee si registra una frammentazione della sinistra spagnola, cosa possiamo immaginare?

Le destre sembravano avere il vento in poppa e sembrava che stravincessero. Era la grande scommessa di Feijóo. Nei fatti Vox manterrà più o meno i suoi voti, dimostrerà di aver consolidato un suo certo blocco sociale e un suo elettorato fra l’8 e il 12 per cento, i popolari recuperano rispetto agli anni scorsi ma non riescono né a eliminare Vox che rimane come un competitor sull’estrema destra ma sembrerebbe rispetto alle previsioni di qualche mese fa che la loro avanzata sia molto più ridotta, che sia addirittura un testa a testa con i socialisti alle europee. A sinistra la situazione è molto diversa da un decennio fa quando si parlava della Spagna come un modello di sinistra alternativa, radicale, oggi è molto più debole di prima, molte cose non hanno funzionato nel processo di rifondazione di Unidas podemos avviato tra il 21 e il 22 dopo che Pablo Iglesias ha lasciato tutte le cariche nel partito.

Nel frattempo Yolanda Diaz ha lanciato Sumar

Sì ma si è sommato male. La rottura fra Pablo Iglesias e Jolanda Diaz avvenuta dopo le elezioni scorsi  ha portato alla formazione di due gruppi parlamentari diversi e si presentano alle elezioni europee con due liste separate. Se ognuno va per la propria strada a sinistra ci si perde sempre. Specie in un contesto come questo che non è quello di 10 anni fa di Syriza, delle proteste sociali, siamo in un altro ciclo politico. Vedremo i risultati elettorali, stando ai sondaggi potrebbe essere che Podemos abbia 2 seggi e Sumar 4. Sommati sarebbero i sei 6 seggi del 2019, è vero, ma l’immagine che ne esce è di divisione. Se Sumar va male io non so che futuro ci possa essere per questa formazione dopo il 9 giugno, perché Sumar non è ancora consolidato sul territorio. E’ un’insieme di realtà locali, come Mas Madris, il movimento Comuns di Colau, Isquierda Unida, che ha cambiato la dirigenza da poco, è molto critica con Yolanda Diaz per come sono state gestite le cose, per come sono state composte le liste. Se Sumar va male potrebbe non esistere più nel futuro. Se Podemos va bene, o se c’è un pareggio fra i due, si cercherà di nuovo di riparlare e di rimettersi insieme, ma i ponti in alcuni casi sono stati distrutti quasi del tutto fra Iglesias e gli ex alleati. Tutto questo può avere anche delle ricadute sulla stabilità stessa del governo.

L’appuntamento: Il 2 giugno a Encuentro dalle 17,30 Left coordina due incontri: sulla Palestina con la scrittrice Suad Amiry e con Raffaele Oriani e e seguire intervista alla ex sindaca di Barcellona Ada Colau

 

In apertura Pedro Sanchez e la moglie Begoña Gómez, foto di i Carlos Delgado – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=66242204

Le politiche negazioniste della destra dietro il disastro ambientale in Brasile

Dal 30 aprile al 18 maggio, la regione brasiliana del Rio Grande do Sul (RS), con un’estensione territoriale simile all’Italia, ha subito una delle più devastanti alluvioni della sua storia, tanto che l’1 maggio Eduardo Leite, presidente della Regione, ha decretato lo stato di emergenza. Secondo i media internazionali, l’entità dei danni è stata l’equivalente dell’uragano Katrina, che nel 2005 colpì il sud-est degli Stati Uniti .
Il maltempo ha colpito il 90% dei comuni, provocando inondazioni, frane e allagamenti. Diverse città sono praticamente scomparse sotto la potenza dei fiumi straripati, spazzate via dalla forza dell’acqua, seppellite da detriti, fango e rifiuti; d’altra parte, a causa delle frane, quelle non sommerse hanno riportato danni significativi su ponti e autostrade, rendendo impossibile  o limitando l’accesso alle aree più gravemente colpite. Gli abitanti delle città sommerse, rifugiatisi sui tetti o agli ultimi piani delle loro abitazioni, hanno raccontato ai volontari, soccorritori, pompieri e militari dell’Esercito, dell’Aeronautica e della Marina, accorsi da tutto il Brasile, scene raccapriccianti di corpi umani e carcasse di animali galleggianti, saccheggi nelle poche case rimaste in piedi e addirittura molestie sessuali nei centri di accoglienza improvvisati.

In definitiva, i dati del 18 maggio attestano un totale di oltre 600mila persone senza più un tetto sopra la testa perché le loro case sono state fortemente danneggiate o spazzate via dall’acqua, 806 feriti, 94 persone scomparse e 155 morti. Complessivamente, le persone colpite dalla catastrofe sono 2.304.422 milioni. Nonostante le piogge si siano placate, i numeri continuano a crescere: chiaramente, il deflusso delle acque, causate dallo straripamento dei fiumi della regione, ha portato alla luce nuove vittime, oltre al sorgere di ulteriori difficoltà legate all’emergenza e ai danni provocati dal maltempo. Si tratta della terza volta, in meno di un anno, che parte della regione viene spazzata via da un evento climatico estremo. Gli allarmi da parte degli esperti e organismi di monitoraggio, come per esempio l’Istituto nazionale di meteorologia (Inmet) e Il Centro nazionale per il monitoraggio e allerta di disastri naturali (Cemaden) sono stati ignorati dal presidente della Regione, e altri esponenti del potere pubblico, appartenenti al Centrodestra, come Sebastião Melo, sindaco del capoluogo regionale di Porto Alegre (POA), entrambi adepti del cosiddetto “Stato minimo”. La popolazione gaúcha, composta perlopiù da discendenti di italiani, tedeschi, polacchi e ucraini, si è ritrovata così impreparata ad affrontare l’intero mese di pioggia, che si è abbattuto sulla regione e che ha portato ogni fiume presente sul territorio, come il Guaíba, a straripare e superare i massimi storici evidenziati nel lontano 1941.

Porto Alegre, la metropoli sommersa

La capitale dello Stato del Rio Grande do Sul, Porto Alegre, una delle poche metropoli che, sin dagli anni 70, godeva di un sistema di protezione contro le piene dei fiumi, composto da 14 paratie mobili, 23 stazioni di pompaggio e 86 idrovore, ha pagato a caro prezzo i tagli della Destra neoliberale all’infrastruttura che avrebbe potuto impedire o minimizzare i danni, se solo avesse funzionato. L’assenza di manutenzione del sistema di protezione, oltre ai danni dell’alluvione, ha provocato ulteriori danni all’impianto, che dovrà essere ristrutturato, ripianificando interventi e, finalmente, attenendosi agli innumerevoli report inviati al Comune dall’Organo responsabile per il controllo e la progettazione del sistema pluviale e di drenaggio della capitale (Dmae).
Matheus Gomes, deputato del Partito Socialismo e libertà (Psol) del RS, ha denunciato i danni alle stazioni di pompaggio della Capitale, informando che, fino al 24 aprile 2024, non era stato pervenuto alcun progetto di manutenzione. Lo sfascio e la mancanza di investimenti nei programmi di prevenzione e formazione della Protezione civile è stato evidenziato sui bilanci annuali dei comuni più colpiti dall’alluvione, dimostrando come siano state assegnate briciole al sostegno della popolazione colpita da emergenze climatiche. Il professore di Ecologia dell’Universidade Federal do Rio Grande (Furg), Marcelo Dutra da Silva, sostiene che le inondazioni provocate dall’evento climatico devastante sono state la risposta della natura alle scelte inquinanti e di carbonizzazione che, già nel 2022, imputava alla giunta regionale del RS, accusandola di investire poco o niente sulla prevenzione del rischio di alluvioni, nonostante l’aumento delle piogge negli ultimi dieci anni. Dutra da Silva sottolinea inoltre la tendenza degli elettori a eleggere rappresentanti che difendono politiche pubbliche antiambientaliste, come per esempio Eduardo Leite, chiamato in causa dalla Corte Suprema, per aver apportato, assieme alla sua giunta, circa 480 modifiche al Codice Ambientale statale, al fine di promuovere l’occupazione del territorio da parte dei “signori” dell’Agrobusiness, nonché promuovere azioni di smantellamento degli organi di protezione ambientali, con l’obiettivo di sopprimere boschi, foreste e aree protette.

Gli ecocidi eletti dal popolo

All’interno del Parlamento brasiliano, Centrodestra ed estrema destra si rendono artefici di disegni di legge antiambientalisti che, se approvati, potrebbero causare la distruzione di 93 milioni di ettari di foreste e biorni vari. In ordine cronologico: il disegno di legge 364/19 , presentato da Alceu Moreira, del Movimento Democrático Brasileiro (Mdb), riguarda la regione colpita e prevede l’abolizione del bioma pampas, vaste praterie ricche di biodiversità, protette dal Codice Forestale. A detta del relatore, suddetta protezione è incompatibile con il pieno sfruttamento economico dei proprietari terrieri, spesso multati per aver distrutto l’ecosistema, al fine di coltivare soia, o allevare manzi; il secondo disegno di legge, DDL 686/22, è stato proposto dal deputato José Medeiros, membro del Partito liberale (Pl), dell’ex presidente Jair Bolsonaro, e riguarda l’abbattimento delle foreste, naturalmente rigenerate, dopo essere state distrutte da incendi e disboscamenti, ovvero, secondo la visione dell’ideatore, le aree non più “vergini” avrebbero meno valore e potrebbero essere ulteriormente deforestate per scopi economici. Infine, terzo ma non meno preoccupante, è il DDL 3334/23 proposto da Jaime Bagattoli (Pl), che riguarda la riduzione dall’80% al 50% della Foresta Amazzonica ancora intatta all’interno delle proprietà rurali del Nord del Brasile.
Come segnalato dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), l’aumento delle temperature globali e dell’anidride carbonica (CO2) nell’atmosfera accelerano il cambiamento climatico. L’elezione di politici negazionisti comporta una serie di problematiche, tra cui la manomissione di leggi ambientali efficaci e lo sbarramento di ogni tentativo di dialogo sulle azioni atte a mitigare catastrofi simili, contribuendo maggiormente ad una escalation della tragedia che potrebbe causare ulteriori vittime.

C’è soluzione?

Morti e feriti possono essere evitati, mettendo in atto le migliori strategie di prevenzione e gestione dell’emergenza climatica nelle aree sensibili a fenomeni meteorologi che si presentano ogni anno. A tal proposito, è emblematico il caso del Rio Grande do Sul: l’effettiva applicazione della legge 12.068/12 sulla creazione e strutturazione della Protezione civile e dei meccanismi di monitoraggio e allerta dei disastri che avrebbe potuto salvare tante vite. Inoltre, all’interno del Novo Pac, il piano di crescita e sviluppo delle infrastrutture, indetto dal governo Lula, sono stati stanziati dei fondi per le città a rischio idrologico, esortando i comuni a presentare progetti per il drenaggio urbano, così da eliminare l’acqua piovana nelle aree più a rischio per il fenomeno delle piogge abbondanti. Oltre a sensibilizzare la popolazione sul cambiamento climatico, rendendola consapevole delle caratteristiche del territorio in cui vive, è necessario garantire zone sicure per la costruzione o ricostruzione delle abitazioni, investendo su tecnologia ed expertise sul tema. Vietare costruzioni in zone a rischio e contrastare l’abusivismo edilizio non solo salverebbe la vita di tante persone, ma eviterebbe anche il fenomeno dei “profughi climatici” che, nel caso brasiliano, rischia di provocare un massiccio esodo interno della popolazione del Sud verso il Centro. Per ciò che concerne la sicurezza dei letti dei fiumi e il ripristino dei boschi e delle foreste circostanti, bisognerebbe focalizzarsi sullo studio di idee innovative, come le cosiddette “città-spugna”, un esempio lungimirante di progettazione verde dell’architetto cinese Kongjian Yu, che ha pensato a spazi concepiti per assorbire e contenere le piogge, affinché venga riutilizzata o restituita alla natura, senza causare danni a cose e persone.
Passata l’emergenza, però, i gaúchos dovranno fare i conti con la totale devastazione del loro territorio e la necessità di buoni amministratori. Dal Rio Grande do Sul, così ferito e traumatizzato, può partire una notevole inversione di marcia rispetto al modo in cui la terra viene sfruttata in tutto il Brasile, molto spesso per soddisfare le esigenze dei mercati internazionali. Si spera che, nelle prossime elezioni comunali, che si terrano a ottobre, la popolazione brasiliana presti maggiore attenzione alle proposte di candidati in possesso di un’agenda ambientalista, e agli avvisi di allerta della comunità scientifica sui cambiamenti climatici.

Nella foto: immagine della regione metropolitana di Porto Alegre, 5 maggio 2024 (Ricardo Stuckert Wikipedia)

Il valore della Resistenza di Roma, antidoto al revisionismo di oggi

Lo storico Davide Conti, studioso della Resistenza romana, è tra gli ospiti di Roma libera e antifascista, la prima festa dell’Anpi provinciale di Roma (Città dell’Altra economia, Largo Dino Frisullo). L’1 giugno alle 18, partecipa all’incontro su “Fascismo e neofascismo nella storia d’Italia” con Stefano Catone, Fabrizio De Sanctis, Ilaria Moroni, Giovanni Tamburrino e Simona Maggiorelli direttrice di Left. Il 2 giugno alle 19, presenterà insieme con Marina Pierlorenzi, presidente Anpi provinciale il suo nuovo libro “Roma in armi. La Resistenza nella Capitale (1943-1944)“, Carocci editore, di cui pubblichiamo la prefazione.

Il 16 luglio 2018 il presidente della Repubblica conferì a Roma, settantaquattro anni dopo la sua Liberazione, la Medaglia d’oro al valor militare per la Resistenza.
Nel 2017 ero stato incaricato dall’Associazione nazionale partigiani d’Italia di svolgere una ricerca finalizzata al recupero della documentazione necessaria per istruire presso il ministero della Difesa la domanda di conferimento del massimo riconoscimento al valore militare per la Resistenza partigiana romana. Questo incarico arrivava pochi mesi dopo l’uscita del libro Guerriglia partigiana a Roma (Odradek, 2016). Il libro sistematizzò, dando loro una forma il più possibile compiuta, gli studi che nel corso di alcuni anni avevo svolto sulla Resistenza nella capitale sia nel campo della ricerca storica sia in quello archivistico-documentario presso l’Archivio storico del Senato della Repubblica. Partendo dalla base documentaria del volume raccolsi altre centinaia di carte, soprattutto presso l’Archivio centrale dello Stato nel Fondo Archivio per il servizio riconoscimento qualifiche e per le ricompense ai partigiani (Ricompart), che in forma di relazione vennero presentate al ministero della Difesa.
Questa nuova pubblicazione per Carocci editore, alleggerita nella forma, da un lato è arricchita da una più ampia documentazione archivistica e da aggiornata bibliografia, e dall’altro si misura con l’80° anniversario della Liberazione della capitale d’Italia (1944-2024) con il suo conseguente correlato di celebrazioni (e retoriche celebrative), riflessioni e analisi storiche, conflitti memoriali e interpretativi (non potrebbe essere altrimenti) e usi pubblici della storia. Tuttavia, questo volume si propone innanzitutto come tentativo di collocare dentro la misura del suo tempo e nella sua dimensione valoriale la Resistenza romana e la sua guerriglia urbana, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, come “fatto d’armi” e leva costituente della radice fondativa della Repubblica.

Nella motivazione del conferimento della Medaglia d’oro a Roma vi è significativamente inserito il termine «guerriglia partigiana» al fine di indicare in modo esplicito e preciso tre elementi centrali per la comprensione delle vicende storiche della capitale durante i nove mesi di occupazione nazifascista: il carattere asimmetrico del conflitto “irregolare” che venne combattuto a Roma dalle forze partigiane nel quadro della strategia bellica alleata; l’irriducibile necessità storico-politica di combattere e dare avvio alla guerra di Liberazione come forma di riscatto dell’Italia dal ventennio fascista; la legittimità etica e ideologica, prima ancora che giuridica, delle azioni di guerra come contestazione dell’esercizio del monopolio della forza tedesca a Roma.
Con la Medaglia d’oro la capitale ha visto riconosciuta la sua vicenda storica recente più importante: la Resistenza militare, dei partigiani combattenti, e quella civile, del suo popolo, sostenuta durante i drammatici mesi di occupazione nazifascista dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944.
Le «temerarie azioni di guerriglia partigiana», i «rastrellamenti degli ebrei e del Quadraro», le stragi delle Fosse Ardeatine, di Pietralata e della Storta come guerra ai civili, le fucilazioni di Forte Bravetta, i luoghi di tortura di via Tasso e delle pensioni Jaccarino e Oltremare, la deportazione di oltre 2.500 carabinieri non fanno di Roma “solo” una città martire, ma le restituiscono anche un carattere combattente. Le scrollano di dosso la polvere grigia delle vulgate “moderate” che l’hanno sempre rappresentata dormiente e attendista e fanno giustizia delle narrazioni “antipartigiane” di cui si sono nutriti il reducismo postfascista e quella parte di società che nel portato valoriale della Resistenza ha sempre visto un pericoloso elemento di rottura della continuità su cui si erano storicamente fondati gli equilibri politici, culturali e di classe del nostro paese dall’Unità nazionale in poi.

Ottanta anni dopo il 4 giugno 1944 la Resistenza di Roma può finalmente mostrarsi nella sua dimensione polisemica, capace di declinare la misura asimmetrica del conflitto che la guerriglia urbana rappresentò e la misura della lotta dei civili come sua radice d’origine e ambito indispensabile di sopravvivenza. Una Resistenza che rovesciò il senso della storia che il fascismo aveva imposto con la forza ai ceti popolari della città, che, espulsi dai quartieri del centro storico per fare largo alla via dell’Impero e all’urbanistica del regime, si riversarono in quelle borgate che diventeranno campo di battaglia, luogo di solidarietà e protezione dei partigiani combattenti, manifestando in modo tumultuoso l’ingresso delle masse popolari nella grande storia della Roma contemporanea.
La medaglia rievoca tanti nomi e volti della città: dalle quattro donne decorate dei Gruppi d’azione patriottica del Pci – Carla Capponi, Marisa Musu, Lucia Ottobrini e Maria Teresa Regard – al partigiano-bambino Ugo Forno, ucciso in combattimento dai tedeschi in ritirata a soli dodici anni; dalle figure di Leone Ginzburg e don Pietro Pappagallo a quella di un padre del Manifesto di Ventotene e dell’unità europea, Eugenio Colorni.
Tuttavia, la storia partigiana di Roma è soprattutto composta da migliaia di episodi di lotta in ogni quartiere, in ogni strada, in ognuna delle otto zone operative in cui il Comitato di liberazione nazionale aveva diviso la città «per rendere impossibile la vita all’occupante». Nelle migliaia di pagine di documenti che ricostruiscono la Resistenza della capitale si ritrovano combattimenti, attacchi, sbandamenti, errori, cadute, torture, tradimenti, solidarietà, limiti umani e fame. Ma soprattutto il coraggio, la paura vigile, la volontà ferma dei partigiani nel rivendicare la dignità propria e della propria città di fronte a un nemico cento volte più forte, più armato, più spietato e coadiuvato dai fascisti di Salò che aiutavano a torturare e uccidere, accompagnando i nazisti per le strade a caccia di an- tifascisti, ebrei, renitenti alla leva. La Medaglia d’oro a Roma restituisce la giustezza, il valore e la necessità della “scelta”.
La scelta di combattere, «di stare a via Rasella perché ci volevo stare», come scrive il comandante del Gruppo d’azione patriottica Pisacane Rosario Bentivegna (Senza fare di necessità virtù, Einaudi, Torino 2011, p. 21), di difendere il valore della Resistenza come momento vitale, indispensabile e fondante di un lungo processo di libertà, democrazia ed emancipazione sociale che trovò il suo approdo storico, ovvero la sua “teoria dello Stato”, nella Costituzione della Repubblica Italiana.

Motivazione del conferimento della Medaglia d’oro al valor militare alla città di Roma
La Città eterna, già centro e anima delle speranze italiane nel breve e straordinario tempo della Seconda repubblica romana, per 271 giorni contrastò l’occupazione di un nemico sanguinario e oppressore con sofferenze durissime. Più volte Roma nella sua millenaria esistenza aveva subito l’oltraggio dell’invasore, ma mai come in quei giorni il suo popolo diede prova di unità, coraggio, determinazione. Nella strenua resistenza di civili e militari a Porta San Paolo, nei tragici rastrellamenti degli ebrei e del Quadraro, nel martirio delle Fosse Ardeatine e di Forte Bravetta, nelle temerarie azioni di guerriglia partigiana, nella stoica sopportazione delle più atroci torture nelle carceri di via Tasso e delle più indiscriminate esecuzioni, nelle gravissime distruzioni subite, i partigiani, i patrioti e la popolazione tutta riscattarono l’Italia dalla dittatura fascista e dalla occupazione nazista. Fiero esempio di eroismo per tutte le città e i borghi occupati, Roma diede inizio alla Resistenza e alla guerra di Liberazione nazionale nella sua missione storica e politica di Capitale d’Italia. 9 settembre 1943-4 giugno 1944.

L’autore: lo storico Davide Conti è consulente delle Procure di Bologna e di Brescia (per le stragi del 1980 e 1974). Ha scritto “Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976” (Einaudi, 2023).

Strage di Brescia, nuove prove dei rapporti fra Gladio e il terrorismo neofascista

Ordine Nuovo, l’organizzazione nazi-fascista fondata da Pino Rauti, disponeva delle armi e degli esplosivi di Gladio. Non solo, è anche emersa l’esistenza di una struttura Stay Behind jugoslava di fatto costituita dagli ustascia croati collegati a Ordine Nuovo tramite la cellula veronese.
È quanto risulta dalla lettura degli atti dell’inchiesta-stralcio sulla strage di piazza della Loggia avvenuta a Brescia il 28 maggio 1974, con otto morti e più di un centinaio di feriti. L’inchiesta, conclusasi nel dicembre 2021, che ha portato a processo due ex esponenti di Ordine Nuovo: Marco Toffaloni, all’epoca minorenne, oggi cittadino svizzero, e Roberto Zorzi, trasferitosi molti anni fa negli Stati Uniti. «L’impianto accusatorio che emerge – hanno sottolineato gli inquirenti – inserirebbe la posizione degli odierni indagati, senza fratture, nel quadro già tracciato dal precedente processo». Si confermerebbe anche da queste nuove carte che la strage fu eseguita da Ordine Nuovo.

Armi esclusivamente americane. Dalle investigazioni dei carabinieri inviate alla Procura della Repubblica, tra il settembre 2015 e il marzo 2021, si è scoperto che alcuni militanti della cellula veronese di Ordine Nuovo erano stati reclutati da Gladio e disponessero, già a metà degli anni Sessanta, dei materiali occultati in uno dei cosiddetti Nasco (i nascondigli della struttura), quello di Arbizzano di Negrar, da cui sparirono micce detonanti e alcune bombe MK2 di esclusiva fabbricazione americana, non in dotazione all’esercito italiano. E se già nel 1966 erano state sequestrate in una perquisizione alcune di queste bombe a due dirigenti di ON di Verona, Roberto Besutti e Elio Massagrande (passarono per collezionisti d’armi), lo stesso tipo di granate, si è accertato, erano poi finite nella disponibilità di Marco Toffaloni, oggi rinviato a giudizio per strage.

la caserma di Parona Valpolicella  Come noto, la costituzione di un’organizzazione paramilitare clandestina denominata Gladio, inquadrata nella rete atlantica Stay Behind, con compiti di sabotaggio, guerriglia, propaganda ed esfiltrazioni, in caso di invasione nemica, fu avviata nel novembre 1956 in accordo con gli Stati Uniti. Dodici furono i «Nuclei» di «pronto impiego» che nel corso degli anni vennero addestrati alla «guerriglia». A partire dal 1959 vennero poi trasferiti dagli Stati Uniti gli armamenti necessari (tra loro esplosivi), poi occultati dal 1963 in 139 «Nasco», di cui ben 100 nel Friuli e 7 nel Veneto.
A causa del rinvenimento fortuito, nel 1972, da parte di alcuni ragazzi, del Nasco di Aurisina in provincia di Trieste, ritrovato aperto e pesantemente saccheggiato degli esplosivi militari al plastico C4, venne deciso il recupero di tutti i depositi.
Dai documenti acquisiti dai magistrati di Brescia presso l’Aise (l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna), si è appurato non solo che «tutta la documentazione» relativa ai recuperi dei Nasco è stata «distrutta», ma soprattutto che esisteva «un numero di Nasco superiore a quello dichiarato», e che dopo lo smantellamento il materiale era «transitato per i Comandi dell’Arma dei carabinieri». Su questo ultimo fatto si è appuntata in particolare l’attenzione degli inquirenti. Grazie a diverse deposizioni si è intatti acquisita la certezza di diversi incontri per preparare attentati, prima di piazza della Loggia, in una caserma dei carabinieri a Parona Valpolicella (periferia Nord di Verona), responsabile della custodia del Nasco di Arbizzano di Negrar, presenti quelli di Ordine Nuovo.

Con gli ustascia. Già il generale Gerardo Serravalle, alla testa di Gladio dal 1971 al 1974, nelle sue memorie pubblicate nel 1991, parlò di «una Gladio jugoslava gestita dalla Cia». Un’affermazione che al tempo non fu compresa. Ora la conferma. Secondo la testimonianza di una figura un tempo ai vertici di Ordine Nuovo a Verona, Claudio Lodi, erano stati proprio loro, protetti in ambito Nato, a collaborare con gli Ustascia per dar vita alla Gladio in quel Paese. Ordine nuovo è stata dunque ben più di un’organizzazione politica. Sono d’altro canto gli stessi carabinieri che hanno affiancato i magistrati di Brescia a scrivere che «Ordine Nuovo era una forza anti invasione dipendente dalla Ftase di Verona», ovvero dal più importante comando Nato dopo Napoli per il Sud Europa.

L’autore: Saverio Ferrari da molti anni studia il fenomeno delle destre radicali e si occupa di ricerche relative agli anni della “strategia della tensione”. Dal 1999 dirige l’Osservatorio democratico sulle nuove destre.

In apertura:Piazza della Loggia a Brescia, dopo l’espolosione, foto Silvano Cinelli – http://www.corriere.it/foto-gallery/cronache/14_maggio_26/fotogallery-brescia-40-anni-fa-strage-piazza-loggia-69884d7a-e4ef-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml, Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4987489

La querelle Saviano e i soffiatori di bugie

Gli odiatori seriali che leccano questo governo ieri per tutto il giorno hanno diffuso la notizia che Roberto Saviano non fosse stato invitato alla Buchmesse di Francoforte semplicemente per colpa  delle case editrici che lo pubblicano e non per miopia repressiva del governo. La notizia l’ha appoggiata su un piatto d’argento un quotidiano di quei sedicenti liberali sedicenti competenti che deve essere andato a dormire convinto di avere scritto uno scoop. 

A nessuno è venuto il dubbio che le fiere, tanto più quella di Francoforte, siano l’occasione per le case editrici di monetizzare le proprie opere e i propri autori in un mercato asfittico. L’idea che Saviano fosse stato messo a cuccia dagli editori era una notizia talmente cretina da potere attecchire solo tra i tifosi che discettano di scrittori senza mai avere aperto un libro tranne forse quello del generale Vannacci. 

Poi è accaduto che ieri il commissario straordinario per la Fiera del libro di Francoforte Mauro Mazza, accortosi della giustificazione claudicante sull’esclusione di Saviano, abbia compiuto una bella giravolta invitando lo scrittore, tornando sui suoi passi. Per tutto il giorno aveva provato anche lui a nascondersi dietro il dito degli editori, smentito pubblicamente. Roberto Saviano alla fine ha rifiutato l’ipocrita e tardivo invito forzato di Mazza ricordando che era stato lo stesso commissario a parlare di esclusione in conferenza stampa. 

Il dibattito tra governo e autore per ora è chiuso. Chissà come si sentono quelli che per tutto il giorno hanno soffiato su una bugia sgretolata dai fatti. Ma quelli stanno bene, quelli non leggono, quelli tifano con la bava alla bocca. 

Buon venerdì.  

Roberto Saviano (foto di Giancarlo Belfiore, International Journalism Festival from Perugia, Italia – Flickr, CC BY-SA 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=17246703)

Il dovere di testimoniare il genocidio che sta avvenendo a Gaza

illustrazione di Marilena Nardi

«C’è stato un genocidio nella Striscia di Gaza e la libera stampa non se ne è accorta», scrive il giornalista Raffaele Oriani (Premio Chiarini, 2024). Nel suo nuovo libro Gaza, la scorta mediatica (People) indaga perché tanta parte dei media hanno abdicato al proprio dovere di testimoniare, condizione necessaria per una reazione forte dell’opinione pubblica e per fermare la strage. Lui stesso, Oriani, ha deciso di interrompere la collaborazione con Il Venerdì. Le ragioni le racconta in questo libro di cui pubblichiamo un estratto dall’introduzione:

 

Il 7 ottobre in Israele c’è stato un massacro, e dall’8 ottobre a Gaza è in corso una carneficina, uno sterminio, insomma: un genocidio. Mi sono chiesto se Il Venerdì di Repubblica, il gruppo la Repubblica, il lavoro che stavo facendo, fossero il posto giusto dove trovarsi quando tutto crolla. O almeno un posto non troppo sbagliato. Non si tratta di essere o non essere d’accordo con l’approccio geopolitico del giornale. Quando succede una cosa così enorme come un genocidio si tratta prima di tutto di non averci nulla a che fare, di essere proprio sicuri di non averci nulla a che fare. Molto semplicemente, a Repubblica questa certezza non l’avevo. Tutt’altro. Me ne sono andato per non sentirmi parte della scorta mediatica che in Italia, in Europa e in tutto l’Occidente ha accompagnato, accompagna e probabilmente accompagnerà ancora lo sterminio dei palestinesi di Gaza da parte dell’esercito israeliano.
“Scorta mediatica” è un’espressione che negli ultimi anni ha avuto una grande e meritata fortuna. Enfatizza il potere della libera stampa di contrapporsi alla prepotenza dei gruppi criminali quando prendono di mira i singoli che si oppongono. Si tratta di puntare un riflettore sulla persona a rischio, e mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica. È stata scortata Federica Angeli di Repubblica quando ha denunciato i malavitosi di Ostia, sul litorale romano. Ma la Federazione nazionale della stampa ha assicurato la propria attenzione, e quindi la propria scorta, a tanti altri colleghi, come i cronisti antimafia Paolo Borrometi a Siracusa, Donato Ungaro a Reggio Emilia o Luciana Esposito a Napoli. Celebre poi è la scorta mediatica che negli anni ha impedito che svanisse nell’oblio il caso di Giulio Regeni, lo studente friulano che i servizi segreti egiziani hanno rapito, torturato e ucciso nell’ormai lontano 2016. Una scorta mediatica fa ancora la differenza. Perché la libera stampa fa ancora la differenza. Se assimilata fino in fondo, questa consapevolezza ha conseguenze immediate. Quando il gioco si fa duro, si può scegliere la pillola blu o la pillola rossa, ma non c’è modo di chiamarsi fuori. Il potere – per esempio mafia, camorra e ’ndrangheta – ama il silenzio. Adora chi si astiene più di chi fa il tifo. La scorta mediatica che accompagna le persone in pericolo punta quindi a fare quanto più rumore possibile. Perché quando il gioco si fa duro, chi non si fa sentire finisce per scortare ladri e assassini.
Non ci siamo fatti sentire. Non abbiamo aiutato i lettori – e non abbiamo costretto i politici – a distinguere il bene dal male. Rispetto alla violenza che travolge ogni cosa e ogni vita, noi giornalisti del mondo libero siamo rimasti assurdamente a guardare. Dall’8 ottobre a Gaza è in corso un mas- sacro che più passa il tempo e più sprofonda in territori inesplorati d’abiezione. Raz Segal, professore israeliano di Genocide Studies, già il 15 ottobre scrive un articolo per Jewish Currents intitolato semplicemente «Un caso da manuale di genocidio». Non è la prima volta che capita alla mia generazione: negli anni Novanta c’è stato il terribile genocidio del Rwanda, quando in tre mesi vennero massacrati quasi un milione di Tutsi e di Hutu moderati; e, sempre negli anni Novanta, abbiamo assistito alla mattanza di Srebrenica, che ha riempito i boschi bosniaci di talmente tante fosse comuni che non si è ancora smesso di aggiornare il conteggio delle vittime. Ma questa volta è diverso: i massacri sono in capo ai nostri amici, alleati, fratelli, in capo a reti economiche, politiche e culturali che dai nostri giornali arrivano fino alle stanze di chi può fermare o rilanciare la strage. Sin dalle prime settimane di bombardamenti, ho avuto questa sensazione, credo corretta: noi stampa libera dell’Occidente abbiamo in mano l’interruttore per fermare o mitigare i massacri. E non lo stiamo usando.
Ho maturato molto presto la convinzione che fosse meglio chiamarmene fuori. Ma poi c’erano il lavoro, i colleghi, le prossime storie da raccontare. Finché, il 24 dicembre, a Gaza avviene una strage peggiore delle altre. Il solito orrore moltiplicato per dieci: 200 morti per una bomba israeliana nel campo profughi di al-Maghazi. A Natale non si pubblicano i quotidiani, a Santo Stefano nemmeno. Il 27 dicembre la Repubblica racconta la strage a pagina 15. A campeggiare in prima pagina c’è un titolo talmente insulso da suonare demenziale: «Grande crisi in fi». Una volta appurato che fi sta per Forza Italia, l’impressione che al giornale si stia facendo di tutto per distogliere l’attenzione da quell’elefante d’orrore non mi molla più. È la scorta mediatica del silenzio. E io voglio provare a premere quell’interruttore.
Sono collaboratore del Venerdì di Repubblica, ma mi sembra giusto che la decisione di chiamarmi fuori non rimanga un affare privato tra me e il mio direttore. Così, il 5 gennaio, scrivo una lettera di congedo agli oltre trecento colleghi del quotidiano. Questo il testo:
Care colleghe e cari colleghi, a malincuore ma ci tengo a farvi sapere che interrompo la mia collaborazione con Il Venerdì. Collaboro con il newsmagazine di Repubblica ormai da dodici anni, ed è sempre un onore vedere i propri articoli pubblicati su questo splendido settimanale. Eppure chiudo qua, perché la strage in corso a Gaza è accompagnata dall’incredibile reticenza di gran parte della stampa europea, compresa la Repubblica (oggi due famiglie massacrate in ultima riga a pagina 15). Sono novanta giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che tutto questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. Magari fra decenni, ma in tanti si domanderanno dove eravamo, cosa facevamo, cosa pensavamo mentre decine di migliaia di persone finivano sotto le macerie. Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori.
Buon anno a tutti, Raffaele Oriani
Ognuno ha il suo carattere. Il mio se ne sta volentieri al calduccio. L’idea di emergere in modo così netto mi mette profondamente a disagio. So che perdo un lavoro che adoro, ma non so che re azioni susciterà il mio gesto. E così, quando cominciano ad arrivare le prime mail di solidarietà che testimoniano un disagio uguale al mio, mi sento molto rinfrancato. Non sono solo, insomma: il comitato di redazione prende a cuore il caso, dice che porrà il problema al direttore. Ma poi finisce lì: a conti fatti, su 320 giornalisti mi rispondono in quindici, quasi tutti in privato. Per il 95 per cento dei colleghi di Repubblica, ho posto un problema che non è un problema. Ed è così per il 95 per cento dei giornali (solo il Fatto Quotidiano dedica alla vicenda un trafiletto). Non è un buco nell’acqua, perché non mi aspettavo nulla. Ma certo il mio gesto non ha creato lo scompiglio necessario a virare di qualche grado la rotta del giornale.
Poi però Paolo Mossetti, giornalista napoletano molto attivo online, pubblica su X il testo della lettera. E da qui inizia un’altra storia, che da bravo boomer analogico non avevo minimamente preso in considerazione. Sui principali canali social il mio testo di congedo trova più di un milione di lettori. E le migliaia di commenti che seguono sono quasi unanimi, unanimemente imbarazzanti: Oriani diventa uomo vero, schiena dritta, eroe, unico giornalista, residua speranza, guerriero solitario, e tante altre splendide cose che con me non hanno nulla a che fare. Se per i miei colleghi il problema non esiste, per la gente comune – per i loro (potenziali) lettori – è una montagna di polvere che esce finalmente dal tappeto. C’è una diffusa, radicata consapevolezza che sulle stragi di Gaza la nostra stampa non stia facendo il proprio dovere. Che oscuri il dolore palestinese. Che distribuisca colpe e tragedie sulla base di pregiudizi inconfessabili. La mia lettera diventa il bimbo della favola di Andersen: il re è nudo, i giornali sono schierati dalla parte delle bombe. Era ora che qualcuno lo dicesse. Ho fatto bene a dirlo. La lettera di congedo è un sasso nello stagno. Non mi aspettavo risposte, ma certo fa impressione che la direzione di Repubblica lasci cadere nel vuoto un’accusa che circola su centinaia di migliaia di smartphone. Siete o non siete la scorta mediatica dei massacri? In realtà una risposta arriva, ed è triste, illuminante, indiretta. Lo scompiglio redazionale non sortisce alcun effetto, ma quello digitale dopo due giorni si fa sentire. Domenica 7 gennaio, a Gaza si compie l’ennesima tragedia. Viene ucciso Hamza Dahdouh, figlio di Wael, il corrispondente di Al Jazeera diventato suo malgrado famoso un mese prima, quando apprende in diretta che la sua casa è stata bombardata e la sua famiglia sterminata. Gli rimane il primogenito ventottenne, che indossa come lui il giubbotto con la scritta «press» e segue le sue orme nel tentativo di raccontare i massacri. Il 7 gennaio, un drone israeliano lo ammazza in quella che ha tutta l’aria di essere un’esecuzione mirata. È una delle tante tragedie di Gaza. Ma a questa morte la Repubblica reagisce come non ha mai fatto in tre mesi: ad aprire l’edizione online del giornale è la fotografia di un ragazzo ventottenne che ha un nome, una famiglia, una storia, un colpevole cui addebitarne la morte. Il suo sorriso in homepage è quasi la denuncia di un crimine di guerra. In novanta giorni di massacri, Hamza Dahdouh è il primo palestinese a meritare tanta attenzione. Resterà l’unico. La prova che si sarebbe potuto raccontare il genocidio in modo diverso.
Sono passati altri mesi e altre migliaia di morti. Tanti bambini. Non solo bombe ma malattie, fame, freddo. La scorta mediatica non ha fatto una piega. Della mia lettera alla fine non ha scritto più nessuno. L’unico giornale a chiedermi un’intervista è stato il quotidiano della mia città, Trieste. Non però Il Piccolo, storico presidio italofono, ma il Primorski dnevnik, altrettanto storica voce della comunità slovena. Particolare, no? La mia presa di posizione è stata condivisa da decine di migliaia di italiani, ma ho avuto bisogno di Google Translate per decifrarla sulle pagine di un giornale. È solo l’ennesimo sintomo di un appuntamento mancato.
C’è stato un genocidio, e la libera stampa non se ne è accorta. Ha continuato ad analizzare, sentenziare, geopoliticizzare, silenziare. Ha fatto finta che fosse una guerra, rivestendo i massacri di cronaca e spogliandoli di tutto l’impeto etico che pure aveva impregnato il racconto della guerra in Ucraina. A Gaza accadono cose. Brutte ma, sembra, inevitabili. In un video girato al Festival del libro africano di Marrakech, il grande sociologo francese Edgar Morin, ebreo sefardita, già partigiano antinazista, splendido ultracentenario con un filo di voce e una tempra d’acciaio, si esprime così sui massacri israeliani: «Sono stupito e indignato che i leader di Israele, discendenti di un popolo perseguitato nei secoli per ragioni razziali e religiose,… possano abbandonarsi a una simile carneficina colpendo civili, donne e bambini nel silenzio del mondo. Penso che viviamo una tragedia orribile, impotenti come siamo di fronte agli eventi. L’unico nostro strumento di resistenza è la testimonianza. Resistiamo, non facciamoci ingannare, non permettiamo loro di dimenticare. Troviamo il coraggio di guardare in faccia la realtà, e facciamo tutto quanto è nelle nostre possibilità per continuare a testimoniare»….

2 GiUGNO Left AL FESTIVAL ENCUENTRO, SUAD AMIRY e RAFFAELE ORIANI

La mattanza infinita di Gaza è sotto gli occhi di tutti. Genocidio o meno, la sostanza rimane la stessa: ogni giorno decine di persone, molte delle quali donne e bambini inermi, muoiono per mano dell’esercito israeliano. Il terribile attacco messo in atto da Hamas il 7 ottobre 2023 non può essere una giustificazione. Quella israelo-palestinese è una storia di guerra, violenza e ingiustizie che dura da quasi ottant’anni. L’Italia, come tutto l’Occidente, potrebbe fare molto di più per mettere fine a questa carneficina, perché Israele dell’Italia e dell’Occidente è un alleato. Per questo è necessario discutere di Palestina, di Gaza e di vie d’uscita diplomatiche ogni giorno, dando voce a chi nel nostro Paese ne ha molto poca. Una società democratica si nutre di dibattito, e in uno Stato democratico e liberale la pressione dell’opinione pubblica sui centri decisionali è uno degli strumenti chiave.
Domenica 2 giugno alle 17.30, alla Rocca di Castiglione, Encuentro organizza in collaborazione con la rivista Left un incontro dedicato a Gaza a cui parteciperanno la scrittrice palestinese Suad Amiry, la direttrice di Left Simona Maggiorelli e l’ex giornalista del Venerdì Raffaele Oriani.
#encuentroperugia
#Encuentro24
#Gaza

Festival Encuentro, evento in collaborazione con LeftFestival Encuentro, evento in collaborazione con left

In apertura illustrazione di Marilena Nardi

Keep Left e troverai la strada giusta. Il nuovo album di Lucia Ianniello

Lucia Ianniello è una trombettista e compositrice campana che è giunta al traguardo del suo terzo album come bandleader KEEP LEFT and go straight South (Filibusta Records) pubblicato da poco e che la musicista presenta il 31 maggio ad Atina Jazz. Diplomata al conservatorio e proveniente dal mondo del jazz, la Ianniello si è sempre impegnata in una ricerca espressiva che superasse gli steccati dei generi musicali, spesso affiancata in questa esplorazione da Paolo Tombolesi, pianista, compositore e didatta e suo compagno d’arte e di vita. Il titolo dell’album rimanda ad un’immagine del “Sud” come metafora ideale di un mondo, a prescindere dalle sue mille contraddizioni, in cui poter vivere in modo più giusto e più “sano”. Come afferma Filippo La Porta nelle note di copertina «Il sud non solo come categoria geografica ma anche morale e antropologica. Il sud di Carlo Levi, di Ignazio Silone, di Albert Camus… in questi autori il sud si svela come preziosa utopia: critica del nord industriale, governato dal principio di prestazione e di efficienza, immagine abbagliante di felicità e nostalgia di una vita meno repressa, percezione del confine come spazio di incontro con l’altro”. La tromba di Lucia, pur riflettendo l’influenza poetica dei grandi del passato (pensiamo a Miles Davis e Kenny Wheeler) si esprime con un suo precipuo lirismo, con una particolare predilezione per le atmosfere sospese nelle quali, sfruttando magicamente il registro medio dello strumento, riesce a far risaltare tutti i colori della propria musica. L’abbiamo quindi incontrata in occasione dell’uscita del nuovo cd.

 Quali sono le differenze tra questo lavoro e i precedenti album da te pubblicati?
I miei dischi precedenti – Maintenant e Live at Acuto Jazz – pubblicati tra il 2015 ed il 2017 – facevano riferimento alla mia ricerca del momento intorno alla figura artistica e politica di Horace Tapscott, il grande pianista e compositore afro-americano che negli anni Sessanta fece il “gran rifiuto”, rinunciando ad una brillante e sicura carriera con l’orchestra di Lionel Hampton, per dare vita a una delle prime cooperative artistiche nere e ad un’orchestra a Los Angeles, nel quartiere di Watts. Nel frattempo, in questi ultimi anni è cambiato tutto, a cominciare dal mondo intorno. e sono cambiata anche io. Quei dischi, in cui si alternavano alcune mie composizioni e diversi brani di altri autori, sono il risultato, forse, di un approccio più teorico da parte mia. Questa volta il mio modello compositivo si è capovolto: il modus operandi tradizionale di chiudersi in una stanza davanti al pianoforte non funzionava più. Molti brani dell’album sono nati facendo lunghe passeggiate sulla spiaggia, in riva al mare mi venivano spontaneamente delle melodie che canticchiavo e registravo come appunti sul telefonino, che poi, tornata a casa, trascrivevo ed elaboravo al pianoforte, fino a dare forma compiuta a musica e testi, tenendo conto del grande contributo, costante, dei miei colleghi.
Parlaci dei musicisti che ti hanno affiancato in questa avventura.
Paolo Tombolesi resta la colonna portante di tutto il progetto, avendo condiviso con lui tutti gli aspetti creativi nonché il rapporto personale e creativo con gli altri musicisti coinvolti: Roberto Cervi alle chitarre, nonché co-autore con me di “South” e Alessandro Forte alla batteria, che compare in soli quattro brani del disco, ma che sarà presente nei concerti dal vivo in quanto divenuto parte integrante del progetto. Una menzione particolare va anche a Mery Tortolini, l’artista che ha realizzato la “La linea dello sguardo”, una bellissima opera riportata nella copertina del disco.
La sorpresa più grande del disco è la presenza dei testi e del tuo canto in lingua campana. Che puoi dirci in proposito?
Forse è emersa l’esigenza di voler comunicare, veicolare più esplicitamente dei pensieri. Forse è un tempo, questo, nel quale non si può stare più zitti… anche se oggi una serie di movimenti nazionali ed internazionali guidati anche dalle donne sono tesi alla rivendicazione di diritti fondamentali, la strada è ancora molto lunga e tortuosa. In questo senso mi piace citare il brano intitolato “Feronia” che chiude l’album, si tratta di un testo, quasi un rap stilizzato, che parla della realizzazione dell’identità delle donne e che si conclude con questa immagine di donna che procede, quasi in marcia per i propri diritti, con un bambino al seno. Ovviamente parlo di nascita in senso lato. Perché Feronia? È un’antica divinità italica, protettrice di tutto ciò che nasce, dai boschi alle messi e alle acque sorgive, ma era anche fonte di culto per gli schiavi liberati. Questi, infatti, venivano fatti sedere su un apposito sedile di marmo e il loro capo veniva coperto dal cappello frigio. Tra i diversi siti di culto di Feronia in Italia centrale ce n’è uno qui a Terracina, dove attualmente vivo, ma anche a Roma, nell’area di Largo di Torre Argentina.
“South” invece parla di treni e di viaggi, grazie alla memoria dei tanti percorsi in treno che ho vissuto, essendo andata via dal sud molti anni fa.
 Il treno come “terra di nessuno” un luogo che sancisce una netta separazione dal mondo che si lascia e quello a cui si è diretti?
 Come momento di separazione, certo. L’ispirazione di questo lavoro è nata in buona parte camminando, e geograficamente la spiaggia di Terracina guarda la Sicilia, l’Africa, da qui il titolo. Il Sud come luogo utopico ma non impossibile da raggiungere, un luogo “eutopico” a cui tendere. Forse la cosa necessaria oggi è aprire la porta di casa e mettersi in movimento, sapendo che il percorso, la direzione, sono più importanti dell’obiettivo stesso; superando le divergenze e le divisioni ideologiche, come è accaduto ai tempi della resistenza, marciando uniti verso un obiettivo comune come quello dell’antifascismo.
Human Race” prende spunto da “Strange Fruit”, il famoso pezzo cantato da Billie Holiday che negli anni Cinquanta denunciava drammaticamente la violenza razzista dei bianchi nel sud degli Stati Uniti?
Gli “strani frutti” che pendevano dagli alberi sono oggi, come ieri, i migranti che perdono la vita in mare, i barboni che dormono tra i cartoni nelle stazioni così come i braccianti agricoli sfruttati nella raccolta dei pomodori, che fanno poi bella mostra nei nostri supermercati. Sono tutti frutti ritenuti “di scarto” da una società neoliberista, egoista e sempre più indifferente.
Come ti sei relazionata con il canto?
In maniera assai poco convenzionale, è quasi un gioco legato alle mie radici campane, che si rifà ai ricordi di quand’ero bambina, alle grida dei venditori ambulanti che ascoltavo per strada o nei mercati. Diciamo che sono una strumentista che si diletta cantando e che ci sta prendendo gusto.
Dal punto di vista musicale il disco sembra voler superare l’etichettatura legata ad un genere preciso. È così?
Anche se la nostra formazione è jazzistica, in questo lavoro sono chiaramente presenti aperture verso il rock e verso le sonorità contemporanee. Guardiamo oltre la classificazione del genere musicale, riteniamo che questa sia solo un’esigenza del mercato, e cerchiamo di esprimere ciò che siamo oggi. Questa musica racchiude in sé anche i miei ultimi cambiamenti di vita, che mi hanno portato a lasciare una città come Roma, per potermi concentrare nello studio e dedicarmi completamente alla musica. In questa direzione vanno i miei recenti studi di musicologia. Insomma, personalmente mi sento più vicina all’idea di una “musica totale” sulla falsariga di quanto teorizzato e realizzato da Giorgio Gaslini sin dagli anni Sessanta del secolo scorso.
C’è dell’altro?
Mi piace rivendicare, insieme a Paolo e ai miei colleghi, un approccio da musicista “pre-rivoluzione industriale”, di tipo “globale”, col quale vogliamo essere soggetti attivi e competenti di tutte le fasi del processo creativo, dall’ideazione alla composizione di musica e testi, dal lavoro in studio di registrazione alla grafica, rifiutando il sistema di specializzazione spinta e parcellizzazione dei compiti ormai imperante nell’industria musicale. L’obiettivo è quello di avere una forma di comunicazione che sia la più onesta possibile nei confronti del pubblico.

In debito con Matteotti. A colloquio con Maurizio Degl’Innocenti

Il 30 maggio di cento anni fa Matteotti pronunciò il discorso (qui la versione integrale) in cui denunciava apertamente la natura eversiva, violenta e criminale del fascismo. Quel discorso, in cui affrontava Mussolini a viso aperto, gli costò la vita. Ma più che il martire vogliamo ricordare il politico e l’uomo con il suo intransigente antifascismo, lo sguardo lungimirante, l’attualità del suo pensiero e il suo spessore umano.

A Matteotti Left in edicola dal 7 giugno dedica un dossier con firme autorevoli, realizzato in collaborazione con la rivista Tempo Presente in uscita a giugno, eccone una anticipazione: l’intervista che il presidente della Fondazione Matteotti, nonché direttore di Tempo Presente, Aghemo ha fatto a Maurizio Degl’Innocenti, presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della morte di Giacomo Matteotti 

Filippo Turati, scrivendo ad Anna Kuliscioff poco dopo la scomparsa di Matteotti, si chiede con sgomento quando finiremo di pagare il debito che abbiamo con «il povero Giacomo?». Un secolo dopo, Maurizio Degl’Innocenti quel debito lo abbiamo onorato?

La morte di Giacomo Matteotti, segretario del Psu, e dei tanti che soffrirono nelle carceri, al confino o nell’esilio in nome della democrazia e della libertà innervò il patrimonio politico, etico e culturale che, attraverso l’antifascismo e poi la Resistenza, è stato alla base dell’identità dell’Italia repubblicana, ispirando la Carta costituzionale. Il presidente della Repubblica depositando il 10 giugno di ogni anno una corona ai piedi della stele sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, laddove Matteotti fu rapito e di lì a poco ucciso, vuole riaffermare ciò, a beneficio dell’intera comunità nazionale. Democrazia e libertà non sono traguardi raggiunti una volta per sempre, ma vanno vissute e interpretate a fronte dei nuovi bisogni, vorrei dire giorno per giorno, con impegno e rigore costanti, eleggendo a prospettiva il bene comune. Matteotti fu un vinto, ma al tempo stesso un vincitore perché il suo sacrificio segnò la ripartenza, inaugurò un percorso che, tra molte difficoltà, aprì per l’Italia la strada della democrazia plurale e solidale.

Sono molte e tra loro diverse le ragioni storiche per le quali Matteotti è stato prima soggetto alla damnatio memoriae sotto il fascismo e poi scarsamente considerato nel secondo dopoguerra. Cosa gioca oggi a favore di un recupero della sua lezione morale civile, oltre che politica?

Gli antifascisti identificarono Matteotti nel ruolo del martire accanto ad altre vittime esemplari trascurandone tanto il profilo personale quanto lo spessore politico. Era quello un modo per addomesticare le sconfitte e trarre motivo per la ripartenza di gruppi e partiti. Dopo la guerra lo scenario non cambiò molto e i nuovi soggetti si affrettarono a trasferire le valutazioni dei contemporanei, quasi sempre dettate da esigenze pratiche, come nel caso di Piero Gobetti, in giudizi storici. Di Matteotti si sottovalutò la cultura riformista in una prospettiva che si apriva alla moderna socialdemocrazia europea, ma nel dopoguerra questa occupava uno spazio marginale, anche e soprattutto a sinistra. Oggi il progressivo venire meno di una storiografia militante e ideologizzata, che tuttavia non è affatto scomparsa, la crescente laicizzazione degli studi, l’evoluzione della storiografia verso profili sociali, familiari e biografici, e la disponibilità di inedite fonti documentarie hanno contribuito ad aprire nuovi sviluppi della ricerca storica.

In questo contesto il profilo biografico e famigliare di Matteotti è stato oggetto di una rinnovata attenzione.

Sì dalla formazione e dagli studi alla vita privata e agli interessi culturali e artistici. L’attenzione al rapporto con Velia, la moglie, che è alla radice di molti recenti lavori teatrali e di contributi storiografici, è da attribuire a questa nuova sensibilità. Con l’uomo si è finalmente rivalutato anche il politico, come socialista di vicinanza, socialista delle e nelle istituzioni, segretario del Psu, perfino giovane leader della socialdemocrazia europea. Non deve sfuggire, però, l’importanza massmediale del fenomeno: il personaggio, con la sua tragica morte, si presta alla drammatizzazione scenica, che è parte notevole dell’attuale fortuna nell’editoria, sulla stampa, sui mass media. Attori e giornalisti ne sono i protagonisti, alla Tv e a teatro, e, a seguire, ciò finisce per entrare nella comunicazione politica, variamente indirizzata. Le iniziative sono molteplici e si vanno infittendo via via che ci avviciniamo al 10 giugno, nonostante la concomitanza sfavorevole della campagna elettorale. Una valutazione complessiva sarà data alla fine, ma fin da ora il Comitato nazionale si compiace della grande partecipazione al Centenario in tutte le fasce della popolazione, e in particolare di quelle giovanili. È un risultato, ripeto: ancora provvisorio, da considerare molto positivamente.

Questa è la considerazione dello storico. Come valuta la memoria matteottiana, oggi, in veste di presidente del Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della morte?

Il Comitato nazionale ha adottato fin dall’inizio, nell’ottobre 2022, un profilo istituzionale, senza che ciò fosse di ostacolo al patrocinio o anche alla promozione di eventi promossi anche da altri. Ha enunciato il proprio programma alla Camera dei deputati, una scelta simbolica e evocativa, lungo tre direttrici principali: pedagogica, in particolare verso la scuola secondaria di primo e secondo grado; divulgativa. con la promozione di un’esposizione itinerante e di lavori teatrali; scientifica, attraverso iniziative di approfondimento in collaborazione con le Università degli studi. Infine, si è proposto di portare tali iniziative, o parti di esse, all’estero per valorizzare l’immagine internazionale di Matteotti come momento di una libertà liberatrice, che non si concludesse con la sua morte, ma fosse di stimolo e monito per rinnovarsi e lottare per il bene comune.
Le due fondazioni più attive sul fronte scolastico, la Fondazione Matteotti e la Fondazione di studi storici F. Turati hanno promosso dal 2014, d’intesa con il ministero della Pubblica Istruzione, il premio Matteotti per le scuole medie inferiori e superiori, e con il Comitato nazionale hanno rilanciato tale iniziativa per il Centenario. Alla fine, sono pervenuti dagli istituti scolastici di tutta Italia più di 200 elaborati, molti dei quali di ottima fattura. Una rappresentanza del mondo scolastico sarà presente il 30 maggio alla Camera dei deputati dove i vincitori del concorso saranno premiati alla presenza del Capo dello Stato. In questa vera e propria opera di educazione civica, le due Fondazioni danno supporto agli istituti scolastici con il libro Matteotti 100 per le scuole, con video conferenze e graphic novel, e garantiscono fin da ora il loro impegno anche per il futuro con supporti tecnici innovativi per la didattica.

Sul piano espositivo/divulgativo?

Grazie alla concessione della documentazione da parte della Fondazione di studi storici “F. Turati” che possiede le Carte Matteotti, il Comitato nazionale ha promosso alla Camera dei deputati il 17 ottobre 2023 l’esposizione Giacomo Matteotti. Ritratto per immagini, che poi è stata trasferita a Napoli (polo museale Suor Orsola Benincasa; Archivio di Stato), a Caserta (Archivio di Stato presso la Reggia di Caserta), a Pisa (museo della Grafica), a Londra (Istituto italiano di cultura), ed è destinato quindi ad altre città in Italia e all’estero. Tale è stato il successo che si è reso necessario prolungarla, rivisitata, a tutto il 2025.
In occasione delle esposizioni, il Comitato nazionale ha promosso momenti di riflessione e di approfondimento scientifico su Matteotti e la sua epoca, come i due convegni con l’Università Suor Orsola Benincasa su Parlamentarismo e anti parlamentarismo nel Novecento e Le Culture politiche negli anni ’20, con l’Università Statale di Milano, con l’Università Statale di Milano su La donna in Europa agli inizi del XX secolo, con l’Università di Padova su Il delitto politico tra le due guerre a cui si  accompagnato a fine maggio il convegno Il pensiero di Giacomo Matteotti all’Accademia dei lincei. Siamo fiduciosi che la pubblicazione degli atti di questi incontri, e di tutti gli altri già programmati tra la fine del 2024 e gli inizi del 2025, saranno uno stimolo importante per la implementazione degli studi.

I giovani – non solo loro, per la verità – sembrano scarsamente interessati alla politica dei partiti e alla vita delle istituzioni. Matteotti può rappresentare un correttivo richiamando i temi e valori della cittadinanza attiva?

Il riformista è tale nell’epoca sua, e le sue esperienze non possono alimentare una impropria rappresentazione di sé nella fase attuale. È questa una tentazione a cui non tutti riescono a sottrarsi con senso critico. L’epoca di Matteotti era quella della guerra mondiale e delle sue drammatiche conseguenze, della società di massa e dei partiti territoriali nazionali a speculare connotazione degli Stati nazionali territoriali, dell’emergere dei movimenti giovanili e femminili, del conflitto tra democrazia e totalitarismo. I grandi uomini, e Matteotti lo fu, possono tuttavia rivestire un ruolo evocativo, possono rivivere nella memoria coltivata tornando così a servire ancora una causa collettiva. Ma non intendo sottrarmi alla provocazione insita nella domanda, quella del “correttivo” rispetto ad una realtà giudicata evidentemente non positivamente: che cosa verrebbe da dire oggi ai giovani? Innanzitutto, le iniziative del Centenario portano attenzione ad una pagina importante della storia italiana, aiutano a comprendere e, spero, ad apprezzare le ragioni identitarie della Carta Costituzionale e quindi della Repubblica. Il ragionare su chi siamo e da dove veniamo è un esercizio utile per tutti. Sempre. Lì vi sono i motivi dello stare insieme e del partecipare alla cosa pubblica nel rispetto reciproco, con impegno costante e rigore. Lì c’è il senso profondo della storia, e quindi della politica che non guarda solo all’oggi, ma anche alle generazioni future rifuggendo dalla retorica e dalle strumentali manipolazioni dell’opinione pubblica. Lì c’è anche il concetto nuovo di libertà intesa non come un recinto chiuso in una visione egoistica, ma tale perché si proietta sugli altri, si fa solidale. In questa prospettiva nel 1924 Matteotti fondò La Libertà, organo dei giovani socialisti, ai quali raccomandava: «Siate giovani, siate voi stessi».