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Si vergognano anche loro della Tunisia?

Il corrispondente di Radio Radicale Sergio Scandura, ieri sera ha sottolineato un errore che spiega molto del non detto e del mal detto sul sanguinario accordo tra Italia e Tunisia, rinnovata versione del sanguinario memorandum che lega dal 2017 l’Italia alla Libia. Scandura dà notizia che è la malnutrizione la causa della morte della bambina che stava nei 45 naufraghi salvati dalla nave Humanity1. 

Secondo l’Ansa le 45 persone sarebbero state salvate “in acque Sar libiche” mentre il tracciato mostrato dal giornalista mostra chiaramente come l’imbarcazione fosse in acque Sar italiane quando è stata soccorsa. Erano partiti dalla Tunisia, da Sfax, due giorni prima. La salma della bambina di 5 mesi è stata evacuata insieme alla madre diciannovenne e alla sorella di due anni, mentre la nave è stata spedita a Livorno come stabilito dal feroce gioco del decreto Piantedosi che sparge in giro per l’Italia salvatori e salvati per sabotare i salvataggi in mare. 

Scandura si chiede perché l’agenzia Ansa abbia erroneamente battuto nel suo lancio l’informazione che l’imbarcazione fosse partita dalla Libia e da dove abbia tratto quell’informazione. Perché è importante sapere da dove è partito il barchino? “Quei corpi soccorsi in mare che arrivano dalla Tunisia – scrive Scandura – non sembrano affatto ben messi. Arrivano come ‘pezze’ e non si può certo dire che in Tunisia riescano a beneficiare anche solo di uno stantio odore di assistenza umanitaria, in un Paese che peraltro non ha mai tradotto in legge il diritto di asilo e la protezione umantaria. Quei corpi – continua il giornalista – che arrivano dalla #Tunisia ci dicono forse una (ennesima) cosa. Il modello di accordi imbastito da Italia e commissione Ue, col memorabile #TeamEurope Meloni-Rutte-von der Leyen che ha reso omaggio al tiranno di Tunisi, ha gli stessi connotati criminogeni del memorandum fatto con i ‘clan’ che governano la #Libia. Forse, raccontare e documentare come i rifugiati arrivino anche dalla Tunisia ridotti a stracci – neonati cadaveri inclusi per malnutrizione – può mettere in imbarazzo gli autori di certi accordi, di certi memorandum concepiti per alcune isterie elettorali sul fenomeno migranti?”  

Buon giovedì. 

Irene Micali: «Firenze riaffermi la propria identità antifascista che la destra vuole cancellare»

Rimettere al centro il mondo della formazione, del diritto allo studio e della cultura, è uno obiettivi di Irene Micali, docente a contratto all’Università di Firenze e dal 2021 nel consiglio di amministrazione dell’azienda regionale per il diritto allo studio della Toscana; oggi è candidata capolista al consiglio comunale di Firenze con la lista dem. L’abbiamo incontrata durante un evento di confronto con gli studenti e le associazioni e le rappresentanze studentesche.

Irene Micali ha origini calabresi e come prima cosa le abbiamo chiesto come mai ha deciso di trasferirsi a Firenze e a che età è venuta qui? «Ho scelto Firenze quando avevo 14 anni durante una classica gita scolastica. Ricordo perfettamente il giorno in cui me ne sono innamorata visitando il duomo, Santa Croce e camminando tra le sue strade e le sue piazze. Al rientro a casa dissi ai miei genitori che avrei studiato lettere nella terra di Dante, Petrarca e Boccaccio, nella città più bella del mondo. Andò davvero così, quattro anni più tardi sostenevo il mio primo esame di letteratura italiana alla facoltà di lettere e filosofia, accanto alla meravigliosa Rotonda del Brunelleschi».
È facile rimanere colpiti dalla bellezza di Firenze come accadde allo scrittore francese Stendhal che uscendo emozionato da Santa Croce diceva «Ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere».
Una bellezza che va preservata non solo in termini materiali o astratti, ma anche di benessere dei cittadini e cittadine di Firenze, di studenti e studentesse, in termini di sicurezza e in questo il consiglio comunale avrà una grandissima responsabilità.

«Poter essere circondati dalla bellezza non è affatto scontato e i cittadini e le cittadine di Firenze devono tornare ad avere la possibilità di goderne ogni giorno. La bellezza di questa città è indubbiamente sinonimo di ricchezza ma merita anche di essere curata, tutelata e protetta. Riappropriarsi del senso della bellezza avvicina, unisce, fa partecipi e rende la società più inclusiva e più giusta», aggiunge Micali.

Micali viene dal mondo universitario, come l’ha vissuto a Firenze e cosa bisognerebbe fare? «Ho sempre vissuto l’università, prima come studentessa, poi come giovane dottore di ricerca e adesso come docente. Ho attraversato tutti gli step della vita accademica e posso dire con orgoglio di averne una conoscenza approfondita. Ecco il perché del mio impegno, per rimettere al centro il mondo della formazione, del diritto allo studio e della cultura. Perché non si tratta di concetti  lontani dai “problemi reali” dei cittadini e delle cittadine come spesso viene mal interpretato dando dell’intellettuale snob a chi se ne occupa. Ditemi: cosa c’è di più concreto che investire sulla formazione di una giovane mente per renderla libera, autonoma nel giudizio e capace di elaborare un pensiero critico? Io credo fermamente che siano questi gli strumenti più potenti per arginare il razzismo, la violenza, il sessismo, l’incapacità di essere manipolati politicamente. Sono queste le armi di cui si stanno servendo i populisti e i sovranisti».

Candidarsi al consiglio comunale è una grande responsabilità, ci chiediamo quali siano state le motivazioni. «Amministrare Firenze è una grande responsabilità perché si ha la possibilità di incidere sul suo presente ma soprattutto sul suo futuro. È per questo che ho accettato questa candidatura. Per potermi mettere al servizio di una città che ho scelto e che amo e che vorrei anzitutto ripartisse dall’ascolto dei suoi cittadini e delle sue cittadine. Per troppo tempo il non ascolto della classe politica ha logorato il rapporto con gli elettori. Chiudersi in una torre d’avorio con una sorta di superiorità etica ha compromesso la loro fiducia e aumentato delusione e disillusione. Su questo bisogna riflettere e intervenire. Le sfide per la città sono molte e complesse. Servono politiche integrate capaci di rispondere ai bisogni delle persone. Penso alla questione legata alla sicurezza che, seppur di competenza dello Stato, deve essere proclamata come emergenza politica e amministrativa, senza più indugi perché in alcune zone della città compromette quotidianamente la qualità della vita dei cittadini. Questo non è più accettabile. Penso a politiche abitative efficaci per risolvere l’emergenza casa perché vivere a Firenze deve essere possibile a tutti e tutte, nessuno escluso, ma anche a misure a sostegno della formazione e dell’occupazione giovanile. 
È poi necessario investire su servizi che permettano alle famiglie di lavorare e conciliare il carico di cura dei figli. E ancora politiche ambientali, culturali e di inclusione per una città più sostenibile e che non lascia indietro nessuno. Ecco perché ritengo necessario per il consiglio comunale affiancare alla buona amministrazione un cambio di rotta. Un rinnovamento reale, concreto, efficace».

Nel programma elettorale di Irene Micali leggiamo una parola ricorrente: investiamo nel futuro. Vengono subito in mente le nuove generazioni e quelli che dovrebbero essere gli impegni fondamentali e imprescindibili che dovrebbe prendersi il Consiglio comunale per le nuove generazioni. «Anzitutto quello di garantire il diritto allo studio e alla formazione che è il termometro con il quale si misura il benessere delle nuove generazioni. Firenze come città degli studenti e della conoscenza può fare molto per i giovani. Penso all’istituzione di un coordinamento tra la formazione universitaria e professionale e il mondo delle imprese. Mi occupo di questo da anni all’interni di un master universitario e conosco bene le buone pratiche per favorire un vero dialogo con il mondo del lavoro, pratiche capaci di sostenere concretamente l’occupazione giovanile.  Ecco perché credo che per occuparsi dei giovani non sia sufficiente essere giovani o stare dalla loro parte. Servono anche e soprattutto competenza, esperienza e conoscenza delle istituzioni che per le nuove generazioni possono e devono agire per garantire loro il futuro che meritano».

La città di Firenze deve fare i conti anche con Schmidt, già direttore degli Uffizi, candidato (purtroppo) forte della destra, ora alla guida del Museo di Capodimonte, dove grazie al ministro Sangiuliano potrà tornare se non eletto. Tra le sue dichiarazioni c’è anche quella di voler risolvere il problema della sicurezza alle Cascine con i rangers «Di giorno i rangers del parco, dalle 2 alle 6 di mattina gli accessi controllati dalla security». Il tema della sicurezza è chiaramente un tema importante, abbiamo chiesto a Micali cosa pensa di queste dichiarazioni e soprattutto dell’avanzare della destra prima al governo e adesso forse a livello locale.
«Le Cascine vanno riconquistate con adeguata sorveglianza ma anche con la partecipazione delle cittadine e di cittadini incentivando adeguatamente una fruizione rispettosa delle sue caratteristiche. Per quanto riguarda la candidatura di Eike Schmidt, certamente persona stimabile nel campo dei beni culturali e della loro gestione, mi sembra che ci sia un grande equivoco. Il centrodestra che ha una spiccata caratterizzazione politica anche nella nostra città si “copre” dietro la figura di Schmidt e questi cerca di “coprirsi” elettoralmente con il centro-destra. Non mi sembra una grande operazione politica».

E aggiunge : «Ho accettato la candidatura per portare il mio contributo alla vittoria del Pd e del centro-sinistra. Colgo appieno la responsabilità di rinnovamento che mi conferisce il fatto di essere capolista. Lavoro per la vittoria di un Pd rinnovato e di un centrosinistra rinnovato. Non mi accontenterò di essere eletta. Con l’aiuto delle elettrici e degli elettori che mi avranno sostenuto e lavorerò per questo. Intanto impegnamoci tutti perchè l’11 agosto prossimo -ottantesimo anniversario della Liberazione di Firenze- la nostra città confermi la sua vocazione democratica e antifascista».

Un’ulteriore domanda, non meno importante è quella sull’essere una giovane donna lavoratrice e indipendente ai giorni d’oggi. Da giovane donna, prima studentessa e poi ricercatrice e poi ancora docente a contratto quanto è stato difficile superare tutti questi step e ci chiediamo cosa si potrebbe fare di più in un’ottica di parità di genere?

“Purtroppo devo confermare che è stato molto difficile e continua a esserlo anche ora che mi appresto a diventare mamma. Siamo circondati da stereotipi di genere e siamo ancora ben lontani dalla parità, nonostante gli importanti successi raggiunti.
I dati dicono che fare un figlio implica una condizione di dipendenza economica per il 62,3% delle donne e questo ci racconta come sia schiacciante il carico di cura soprattutto nei territori dove non sono previsti servizi a supporto dell’infanzia. Sappiamo poi che le donne che decidono di non avere figli sono più occupate e guadagnano il 40% in più delle donne che hanno figli. Ecco in questa prospettiva il congedo paritario obbligatorio, retribuito al 100% per i padri lavoratori sarebbe un chiaro segnale della volontà di andare nella direzione di una vera parità nella condivisione della cura dei figli”.

Nel programma leggiamo del sostegno alla genitorialità, in genere si sente parlare solo di sostegno alle mamme (sostegno chiaramente importantissimo) ma perché per te è importante sottolineare la genitorialità?
 
«Questo è un punto fondamentale. Io sono una linguista e dalle parole passa necessariamente anche la costruzione del pensiero. Fino a quando si continuerà a parlare di “sostegno alla maternità” sarà come legittimare che il carico di cura dei figli riguarda solo le madri e come dicevo i dati fotografano una situazione di assoluta disparità di genere. Ecco perché occorre cambiare il paradigma e riferirsi alla genitorialità o alle genitorialità in una prospettiva ancora più inclusiva che tenga conto delle famiglie omogenitoriali, delle madri e dei padri single.
Credo sia prima di tutto un problema di visione. In un paese che chiede con forza di intervenire sulla natalità attraverso un’ottica conservatrice, non è possibile pensare di aumentare il desiderio di fare figli senza cambiare i rapporti diseguali tra i generi e senza cambiare l’idea tradizionale di famiglia che informa le politiche».

Rita Bernardini :«Caro ministro Nordio sovraffollamento e suicidi in carcere non sono ineluttabili»

Rita Bernardini

Rita Bernardini, capolista nella circoscrizione Isole per la lista Stati Uniti d’Europa, sta conducendo la sua campagna elettorale facendo un digiuno nonviolento da quasi ormai 20 giorni per invitare i decisori politici a mettere immediatamente in campo delle soluzioni contro il sovraffollamento carcerario e i suicidi.

Da quanti giorni è in sciopero della fame e come sta?

Oggi è il 29 maggio e sono giunta al 20esimo giorno. Scherzando c’è chi dice che in Sicilia- dove mi trovo dall’inizio della campagna elettorale- un giorno di digiuno vale doppio per le infinite tentazioni della sua eccellente cucina. Sto tutto sommato bene perché sono molto motivata: conosco i volti, le storie e le condizioni di coloro che sono a languire umiliati nelle carceri italiane e li ho presenti in ogni momento della giornata.

Perché questo digiuno nonviolento?

Voglio che i decisori politici istituzionali non dimentichino (come fanno da troppo tempo) un problema di civiltà europea e di democrazia. Un problema che richiede un intervento immediato, a partire dalla riduzione significativa del sovraffollamento. Con il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti abbiamo incardinato in Parlamento l’unica proposta concreta per ridurre l’enorme squilibrio che c’è fra posti disponibili, detenuti presenti e deficit degli organici di ogni tipo.

Ce la spiega meglio?

La proposta di legge sulla liberazione anticipata speciale consentirebbe ad alcune migliaia di detenuti vicini al fine pene e che in carcere (nonostante tutto) hanno avuto un buon comportamento di poter uscire prima. Pensi che abbiamo settemila reclusi che devono scontare da 15 giorni a un anno. Si tratta di una misura già sperimentata in passato quando l’Italia fu condannata dalla Corte Edu. A chiedere a gran voce di ridurre il sovraffollamento non siamo solo io o Roberto Giachetti: ci sono i garanti dei detenuti, le associazioni che fanno volontariato in carcere, l’Unione Camere Penali, il Movimento Forense, Magistratura Democratica. Per più di due anni il Presidente Sergio Mattarella ha più volte lanciato il fermo quanto inascoltato monito di ridurre il sovraffollamento. Cosa aspettano?

Secondo lei non è penalizzante parlare di carcere durante una campagna elettorale?

Sono rimasta sconcertata quando ho saputo che la discussione della proposta di legge era stata rimandata a dopo le europee perché di carcere sotto elezioni sembra non si possa parlare. Devo dare atto alla Lista Stati Uniti d’Europa, a partire da Giachetti e Renzi, di aver fatto una scelta coraggiosa fregandomene della vulgata che sostiene che occuparsi di carcere e di giustizia faccia perdere voti. Addirittura, sono capolista nelle isole e Renzi si è messo all’ultimo posto della lista per consentirmi di avere più visibilità sul dramma che di consuma nei nostri istituti penitenziari dove dall’inizio dell’anno ci sono stati i suicidi di 35 detenuti e di 5 agenti di polizia penitenziaria.

Si avvicina l’estate e gli istituti di pena si trasformano letteralmente in un inferno. Può raccontarci di qualche situazione in particolare?

Il 10 agosto del 2021 quando visitammo il carcere di Siracusa con una temperatura che si avvicinava ai 50 gradi (fu un record europeo). Boccheggiavamo tutti: noi della delegazione e tutta la comunità dei detenuti e dei detenenti. 6 ore e mezzo di inferno per noi, giorni e giorni irrespirabili per tutta la comunità penitenziaria. Lei se lo spiega il motivo per cui nel 2024 non ci siano i condizionatori e nemmeno i ventilatori? E perché sia rarissimo trovare nei passeggi le docce che l’ex Capo del Dap Santi Consolo aveva ordinato fossero installate in tutti i cortili. È proprio vero: il carcere è quel luogo dove ciò che è facile diviene difficile attraverso l’inutile. Non è un caso che 700 carcerati di Siracusa stiano in queste ore facendo lo sciopero del carrello in solidarietà con la mia iniziativa nonviolenta.

Il ministro Nordio sostiene che i suicidi sono dei fardelli ma inevitabili come le guerre e le malattie. Come replica?

Non è che l’ha detto sotto il solleone dei passeggi di un carcere siciliano? Lo dico perché può capitare a tutti di dire sciocchezze, ma questa mi sembra enorme perché la storia sta lì a dimostrare come le guerre e le malattie si possano debellare. L’Europa, per esempio, se fosse federalista nel modo in cui l’avevano concepita Spinelli-Colorni-Rossi avrebbe per sempre allontanato la possibilità delle guerre che oggi invece viviamo per l’aggressione di Putin all’Ucraina. Parlo della frantumazione in 27 eserciti e in 27 politiche estere nazionali. Einaudi parlava dell’idolo immondo dello Stato sovrano che deve scomparire dal cuore e dalla mente delle persone.

Affettività in carcere. Molti sostengono che sarebbe un lusso da concedere ai detenuti. E invece?

Questi se ne fottono di tutto ciò che affermano le giurisdizioni superiori, le carte costituzionali dei diritti umani, l’Oms. Considerano ancora sporco e peccaminoso il sesso. Se vogliamo restare in Europa, persino nelle immonde carceri rumene, dove sono reclusi due nostri connazionali siciliani di Caltanissetta (Filippo Mosca e Luca Cammalleri) sono previsti i rapporti intimi.

Cosa si può fare al Parlamento europeo per migliorare l’esecuzione penale?

Tantissimo, a partire dal pretendere il rispetto della Convenzione Edu e dalla consequenziale necessità di riformare in senso liberale e di rendere cogenti le regole penitenziarie europee. Due riforme che chiederei subito è consentire a ciascun parlamentare europeo di poter visitare a sorpresa senza autorizzazione ciascun istituto dei 27 Stati. La seconda richiesta è quella di mettere online tutte le informazioni che riguardano ciascun carcere, sulla scia delle schede trasparenza italiane che ottenemmo tanti anni fa grazie proprio Santi Consolo.

In foto Rita Bernardini mentre beve un cappuccino per portare avanti lo sciopero della fame come prevede questa tecnica di lotta nonviolenta

La parola indicibile sulla strage di Brescia

Ieri il governo si è dimenticato di commemorare la strage di piazza della Loggia. La strage di matrice neofascista di cinquant’anni fa probabilmente imbarazza ancora cinquant’anni dopo. Ma chi può sentirsi imbarazzato se non coloro che si sentono eredi della cultura politica dei mandanti?

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ieri ha detto che gli attentatori volevano «punire e terrorizzare chi manifestava contro il neofascismo e in favore della democrazia», ma era anche «un tentativo di destabilizzazione contro la Repubblica italiana e le sue istituzioni democratiche. In Italia vi era chi tramava e complottava per instaurare un nuovo regime autoritario. Contro la Repubblica, nata dalla lotta della Resistenza, che aveva indicato le sue ragioni fondanti nella democrazia, nella libertà, nel pluralismo, nella solidarietà, principi scolpiti nella Carta Costituzionale».

A Brescia a rappresentare il governo c’era la ministra Anna Maria Bernini. Il presidente del Senato Ignazio Maria Benito La Russa non è riuscito a pronunciare la parola “fascista”. Nè lui né il presidente della Camera erano presenti a Brescia. Rimane per terra il post con cui il quotidiano Secolo d’Italia scrive “Sì, la Repubblica italiana è a Brescia, dove c’era Mattarella. Ma è anche a Caivano dove c’era la premier”. Giorgia Meloni era a Caivano e in serata ha scritto “continueremo a lottare contro ogni forma di terrorismo, affinché libertà e democrazia restino i soli pilastri sui quali si fonda la nostra Nazione”. Ma anche a lei manca la parola indicibile. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La piazza pochi istanti dopo l’esplosione (Silvano Cinelli wikipedia)

Ridurre il debito pubblico è una questione di democrazia

Il debito pubblico non è il convitato di pietra di questa stagione che passerà per le elezioni europee, per condurci alla legge di Bilancio del 2025. È un elemento dinamico, l’interpretazione del quale definirà la prospettiva futura del Paese.
Lo ha spiegato molto bene, al Festival dell’economia di Trento, un italiano che si trova nella posizione per farlo con autorevolezza in questo passaggio storico: Paolo Gentiloni, commissario europeo uscente all’Economia.
Questo è l’anno nel quale entra in vigore il nuovo Patto di stabilità e crescita dell’Unione europea che prevede, per i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil, che provvedano a ridurlo di un punto percentuale ogni anno; e per i Paesi con un debito compreso tra il 60% e il 90%, che lo ridimensionino dello 0,5% all’anno.

«Sulla spesa corrente – spiega Gentiloni – occorre un certo equilibrio, ma in ogni caso il limite alla crescita economica non deriva dalle regole di bilancio riformate: il rischio è che se non mettiamo il debito su un percorso di riduzione che le nuove regole consentono graduale, ragionevole e per niente drammatico, una reazione non arriverà dal mio successore bensì dai mercati e penso che l’Italia non lo meriti e non possa permetterselo». La credibilità è sempre il parametro che definisce il debitore agli occhi del creditore. Perciò, chiosa Gentiloni «forse sono troppo ottimista, ma spero che gli italiani, e soprattutto chi governa, pensino che una graduale riduzione del debito sia un fattore positivo. Il nuovo Patto di Stabilità non deve preoccupare: ridurre il debito è un’esigenza democratica».
In fin dei conti, osserva il commissario, «il problema dell’Italia non è di sicuro il recepimento delle risorse per gli investimenti. Il limite alla crescita non deriva dalle regole di bilancio, … c’è un grande margine in Italia per gli investimenti, e in alcuni casi c’è anche un surplus». Quindi «sarebbe un grandissimo errore per un Paese come il nostro ignorare che un graduale e flessibile percorso di aggiustamento del debito è la soluzione più giusta. Fa bene alla nostra economia, agli investimenti, fa bene ai cittadini».

Insomma, un commento chiaro alla narrazione della destra che, da una parte, insiste nel reclamare nuovi fondi Ue mentre stenta a condurre in porto gli enormi finanziamenti del Pnrr; dall’altra, vuole portarci in un’Europa delle piccole patrie, confederale e sussidiaria: una palese contraddizione.
E, in questo senso, Gentiloni ci interroga: «Vi ricordate di quel brutto acronimo, Pigs,con cui ci chiamavano nelle fasi più dure della crisi dell’eurozona? Beh, adesso questi Pigs volano. E lo fanno perché hanno agito sulla riduzione del debito». Pigs (maiali) ricordiamolo, è un termine che fu adottato, nelle ore più buie della crisi degli anni Dieci di questo Secolo, dalla stampa internazionale per designare i Paesi che affondavano nella crisi del debito: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna. Ai quali si aggiunsero successivamente Irlanda e Gran Bretagna (Piiggs). Oggi, il debito costa a quei Paesi meno di quanto a noi non costi il nostro. Gli investitori gli riconoscono, insomma, maggiore credibilità.
Se vogliamo ricostruire una consistente prospettiva di crescita economica, dobbiamo riconoscere questo fatto. E dotarci così della capacità di attuare politiche industriali e difendere il welfare pubblico: previdenziale, sanitario e degli ammortizzatori sociali, per non parlare della scuola e della formazione. Tutto ciò che definisce la qualità della cittadinanza. Come dice Gentiloni, in ultima analisi, è una questione di democrazia.

IL FERMAGLIO di Cesare Damiano, già sindacalista e parlamentare in tre legislature, è stato ministro del Lavoro ed è presidente dell’associazione Lavoro & Welfare

Nella foto il ministro dell’Economia e finanze Giancarlo Giorgetti e il viceministro Maurizio Leo, Roma 9 aprile 2024 (governo.it)

Pietà per i morti, nessun perdono per i collaborazionisti

Rispondere con il sangue dei bambini massacrando profughi è terrorismo. Rispondere alla Corte dell’Aia martoriando gli sfollati è la cifra politica di un governo che viene ritenuto democratico solo da un stuolo di miopi commentatori: Benjamin Netanyahu è un criminale di guerra alla stregua di Putin, di Hamas.

La “più grande democrazia del Medio oriente” è uno stato guidato da razzisti criminali che stanno riuscendo nel capolavoro di smentire perfino i suoi sostenitori più accaniti. “Siamo inorriditi, quello che è successo dimostra ancora una volta che nessun luogo è sicuro a Gaza. Continuiamo a chiedere un cessate il fuoco immediato e duraturo”, ha detto l’infermiera italiana Gaia Giletta da Rafah. Come spiega ActionAid “sono stati colpiti i rifugi di fortuna che ospitano sfollati palestinesi, situati accanto ai magazzini dell’Agenzia Onu per i profughi palestinesi (Unrwa), contenenti aiuti umanitari vitali. Luoghi – scrive l’Ong—che dovrebbero essere sicuri per i civili, e che invece sono diventati bersagli di una violenza brutale. Bambini, donne e uomini sono stati bruciati vivi sotto le loro tende”.

Pietà per i trucidati da entrambe le parti ma nessun perdono per chi, anche dalle nostre parti, è complice di un massacro che ha l’unico scopo di cancellare un popolo e uno Stato. E allora il primo passo è riconoscere quello Stato, la Palestina, per dimostrare che la comunità internazionale è capace almeno di porre un limite al suo stringere mani insanguinate. 

Buon martedì.  

Tutte le strade per impedire la fine dei diritti universali

Secondo l’articolo 3 della Costituzione, democrazia e diritti sociali vanno di pari passo: la democrazia garantisce i diritti sociali; i diritti sociali danno sostanza alla democrazia.
L’Autonomia differenziata e il premierato assoluto di Salvini e Meloni – stretti in un patto scellerato – infliggono colpi mortali alla democrazia e ai diritti sociali.
Non a caso da 6 anni diciamo che l’ad non riguarda solo il Sud, ma tutti/e dovunque risiedano. Attraverso i Lep verranno ulteriormente abbassati i livelli delle prestazioni sociali, già colpiti dai tagli alla spesa pubblica e dalle privatizzazioni. In Lombardia solo chi è ricco può usufruire dei servizi sanitari, perché le privatizzazioni costringono a pagare di tasca propria quello che il servizio pubblico dovrebbe garantire. I Lep sono la tomba dei diritti sociali in ogni regione del Paese; certo le regioni con bassi redditi saranno più colpite e continueremo a vedere i viaggi della speranza, quelli intrapresi da chi deve andare al Nord per curarsi.
Le regioni entreranno in competizione tra di loro per attrarre investimenti allora si abbasseranno i livelli di protezione dell’ambiente, del territorio, dei beni culturali, della sicurezza sul lavoro. Ogni regione avrà la propria scuola, la propria sanità: fine dei diritti universali uguali per tutti/e.

Ma non c’è dubbio che il piatto più avvelenato è quello che viene riservato al Sud.

Mentre il Nord è il laboratorio di un progetto propagandistico di individualismo corporativo sordo a qualsiasi esigenza della collettività, mentre al Nord si persegue un disegno di secessione dei ricchi, gli apprendisti stregoni del governo stanno facendo del Sud il laboratorio di un progetto di istituzionalizzazione delle diseguaglianze, inchiodando cittadine e cittadini alle attuali condizioni di profondo arretramento che riguardano i servizi sociali, le infrastrutture, la vita. Voi, le vostre vite.
Le oligarchie, che avranno in mano le decisioni sull’economia e sui diritti sociali, impediranno per sempre uno sviluppo socialmente e ambientalmente sostenibile del Mezzogiorno, condannato da questo governo a nuove servitù e schiavitù.

La segretaria del Pd Elly Schlein alla Via Maestra a Napoli

Qualche giorno fa Demopolis e Fondazione con il Sud hanno segnalato le diseguaglianze che minano l’unità del Paese. Per il 66% degli italiani che vivono al Nord l’attuazione dell’autonomia differenziata è una misura positiva. Il Sud, per l’81%, è radicalmente contro la sua attuazione. Divari territoriali già enormi si amplificheranno. Da parte del governo Meloni-Salvini nessun ascolto delle voci di chi si oppone al disegno di rottura dell’unità della Repubblica.

Tra qualche giorno il ddl Calderoli sarà infatti approvato, congiungendo il proprio destino – ancora una volta – al percorso sul premierato nel suggello di quel patto infame tra due contraenti che nulla e nessuno ha fermato: il governo non ha dato ascolto alla Banca d’Italia, non all’Ue (che ha parlato di rischio per i conti pubblici), non all’Ufficio parlamentare di Bilancio, che ha dimostrato che dall’ad deriverà un ulteriore aumento delle diseguaglianze. E a nulla sono valse le forti critiche della Conferenza episcopale italiana, che quotidianamente, con il cardinale Zuppi, con monsignor Savino, sottolinea il pericolo imminente e che ha annunciato la pubblicazione di un documento contrario all’ad. Nella nota di qualche giorno fa sottolinea «la lesione del principio di unità della Repubblica. Tale rischio non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle diseguaglianze già esistenti, specie nel campo della salute».

Un consenso elettorale minimo dà la possibilità ad un governo autoreferenziale di mirare alla realizzazione di riforme che stravolgono completamente i principi fondativi della nostra Costituzione (uguaglianza, solidarietà, partecipazione democratica, autonomia e regionalismo cooperativo). Fermiamoli! Con l’Ad e il premierato assoluto si espropria il Parlamento delle sue competenze legislative, si cancella ogni possibilità di partecipazione democratica, si distruggono i diritti sociali e politici presidio della dignità della persona, depotenziando definitivamente il conflitto (pensiamo all’affiancamento di contratti regionali al contratto collettivo nazionale) e, con esso, le conquiste di lotte decennali.

Manifestazione Via Maestra, Napoli, 25 maggio 2024

I Comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata e il Tavolo NOAD – che sono stati promotori e sostenitori della raccolta di firme in Emilia Romagna per chiedere al presidente di regione Bonaccini di non procedere con le intese in quella regione, dando vita a una legge di iniziativa popolare che attende di essere discussa – proseguiranno la loro attività di contrasto con tutti i mezzi che la democrazia consente e saranno sempre con tutti e tutte coloro che vorranno continuare a combattere questo progetto eversivo. Basta ambiguità, balbettii, meline.

Da questa piazza deve giungere forte e chiaro un appello all’esercizio della responsabilità di tutti e di ciascuno. Chiediamo che continui forte la battaglia di opposizione alla Camera e, se mai il ddl Calderoli dovesse essere approvato, si tentino tutte le strade per impedirne l’attuazione – dall’impugnazione della legge davanti alla Corte cost. da parte delle singole Regioni al referendum abrogativo. E non rassegniamoci alla distruzione dei diritti sociali, ma con la mobilitazione e le lotte difendiamoli e ricostruiamoli.
La nostra Via Maestra è la concretizzazione dei principi contenuti nei primi 12 articoli della Costituzione.

L’autrice: Marina Boscaino è portavoce nazionale dei Comitati per il ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti e del Tavolo NoAd. Questo è il suo intervento per la Via Maestra a Napoli, 25 maggio 2024. Alla manifestazione hanno partecipato 50mila persone, con interventi dei costituzionalisti Massimo Villone e Gaetano Azzariti e del segretario Cgil Maurizio Landini

In apertura: una immagine della manifestazione di Napoli, 25 maggio 2024

 

Meloni, il sasso, la mano, il premierato

Alla fine la spacca, non la va. O meglio, Giorgia Meloni ci fa sapere che il premierato che doveva essere “la madre di tutte le riforme” ora è una delle tante proposte sul tavolo di un governo che alimenta le promesse consapevole che ci sarà sempre qualche potere forte da usare in caso di fallimento. 

Qualche giorno fa la presidente del Consiglio aveva detto “o la va o la spacca” riferendosi alla riforma costituzionale per accentrare ancora più poteri al presidente del Consiglio. La frase non è stata indovinata. In Italia ogni volta che qualcuno pronuncia la modifica della Costituzione il pensiero scivola veloce alla sicumera con cui Matteo Renzi si è schiantato da presidente del Consiglio. La strategia quindi cambia in corsa: se la riforma non passa, dice Meloni, semplicemente «vorrà dire che gli italiani non l’hanno condivisa». 

La marcia indietro però puzza. Meloni che ha personalizzato ogni passo del suo governo, Meloni che gioca a fare l’uomo forte in mezzo a quei mollaccioni dei suoi alleati e a quei ridicoli dei suoi avversari ora indossa la maschera della statista per schivare la possibile frana. «Qualcuno si vuole opporre con il corpo a questa riforma», dice riferendosi alla segretaria del Pd Elly Schlein. È il solito artifizio retorico di parlare degli altri per fortificare la proiezione di se stessa. Il punto non è l’opposizione che per definizione si deve opporre (troppo poco, verrebbe da dire, osservando fin qui), il punto è che Meloni non ha ancora gettato il sasso e già ha tolto la mano perché sa bene che la spinta del suo cognome come brand non è una garanzia eterna. Ora le tocca fare politica, mostrare il cielo sopra il tetto di cristallo. Tanti auguri. 

Buon lunedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni frame del video (pagina ufficiale Fb), festival dell’Economia di Trento, 24 maggio 2024

La rivoluzione culturale della nonviolenza. A colloquio con Mauro Biani e Roberto Vicaretti

Mauro Biani, guerra e normalità 2022

Parole e immagini. In dialogo serrato e appassionante. Da una parte le vignette di Mauro Biani, immediate, incisive, come graffianti editoriali. Dall’altra l’approfondimento e le domande cruciali sollevate dal giornalista Roberto Vicaretti. In comune l’attenzione per i diritti umani, per i temi della pace e della nonviolenza, a cui l’illustratore ha dedicato tante sue opere grafiche, e il giornalista di Rai news i suoi libri (fra cui Non c’è pace scritto con Romina Perni). Da questo intreccio di percorsi nasce il libro Dove sono i pacifisti? (People) che i due autori presentano il 2 giugno alla Festa dell’Anpi provinciale della Capitale “Roma libera e antifascista”, che si svolge per tre giorni dal 31 maggio.
Per presentare questo loro denso, prezioso, libro – che contiene un loro dialogo (il titolo è già un programma: Per la pace, una sfida culturale e costituzionale) e sette capitoli di vignette commentate – li abbiamo intervistati, a partire da una medesima domanda, ma separatamente, per fare emergere meglio le loro differenti personalità e profili professionali. Ecco cosa ci hanno detto:

Mauro Biani, non si può parlare di pace ma la si può disegnare?
Forse sì. Forse è un modo più accettato. Le varie espressioni artigianali, artistiche- le canzoni, i disegni, le vignette- sono tollerati, a volte.
La matita può più della penna, specie di questi tempi?
Diciamo che rispetto alla parola scritta è un’arma in più… anche se il termine è improprio visto l’argomento. Per questo faccio vignette che mi danno modo di essere molto sintetico e di dire la mia su varie questioni.
Come la guerra?
Sì è un argomento che tratto da sempre, su cui mi arrovello molto. Fin da giovanissimo come obiettore di coscienza e poi nel rapporto con movimenti nonviolenti che continua. Seguo le loro attività da una ventina di anni, anche se non sono tesserato. Ho conosciuto dei buoni maestri. Capitini e Dolci erano e sono figure per me importantissime.
Protagonisti delle tue vignette sono spesso i bambini, ingenui e dirompenti rispetto alla visione cinica di alcuni adulti. Sono il tuo alter ego in qualche modo?
Sì e sono migliori di me. Se vuoi, in fondo, è anche uno stratagemma narrativo perché il bambino è quello che fa le domande di base, è quello che deve capire perché gli bombardano casa, per quale motivo deve stare su un barcone, piuttosto che prendere un aereo o un traghetto. Non dimentichiamo che i bambini sono fra le prime vittime delle guerre. Mi danno l’opportunità di sviluppare un punto di vista molto umano, universale.
La tua opera grafica è anche una riflessione sull’antropologia: il primo capitolo del libro, non a caso, richiama l’evoluzione in maniera ironica, facendo vedere come si sia passati dal bastone al fucile…
Temo che abbiamo fatto pochi passi avanti da questo punto di vista. Nonostante gli avanzamenti fatti in tanti campi, dalla scienza alla riflessione filosofica, all’arte, la violenza e la risoluzione violenta dei conflitti è ben lungi dall’essere eliminata. In quella vignetta che citi faccio vedere che l’unica evoluzione è stata quella nel campo delle armi, purtroppo.
Con la matita smonti il dogma della ineluttabilità della guerra.
Io non vorrei arrendermi a questa presunta ineluttabilità. Secondo me il conflitto è giusto che ci sia, è normale. Quel che aborrisco è la guerra. Sono d’accordo con l’articolo 11 della nostra Carta in cui si dice che la Repubblica ripudia la guerra. Non c’è scritto “non mi piace”, il verbo “ripudia” dice molto di più. Non a caso è stato scritto da chi la guerra l’aveva vista, da chi aveva visto la dittatura ecc. E credo che sia importante ricordarlo. Questa supposta ineluttabilità delle armi o dell’armarsi, secondo me, non deve rimanere l’unica opzione sul campo. Non è vero che sarebbe da “adulti” mentre gli altri sono solo sognatori. La storia ci dice che a parte rarissimi casi non si è risolto niente con le armi: aumentano morti, le tragedie, gli odi che si perpetuano per generazioni. Con l’invasione russa dell’Ucraina il dibattito pubblico è diventato solo scontro. Quasi impossibile il confronto fra punti di vista differenti. Chiunque parli di pace veniva e viene bollato come putinista.
Anche nel caso del conflitto a Gaza chi critica le politiche di Israele viene definito antisemita. I ragazzi che chiedono il cessate il fuoco vengono manganellati. Che ne pensi?
Tutti i ragazzi che protestano vengono manganellati in Italia. A prescindere. Quelli pro Gaza, quelli che protestano contro gli antiabortisti nei consultori, quelli che contestano il ministro, quelli che si mettono seduti incollati vicino a un’opera d’arte per protestare contro le cause del Climate change. Da questo punto di vista io sto con tutti i ragazzi. Le loro manifestazioni sono molto vicine alla nonviolenza che utilizza altre tecniche specifiche. Le proteste degli studenti sono assolutamente innocue, usano strumenti della democrazia. Solo nei regimi totalitari non si può manifestare.
Nelle tue vignette c’è sempre il vissuto emotivo, la storia di chi troppo spesso nelle cronache è solo un numero. È un modo per opporsi alla de-umanizzazione che subiscono i migranti e la popolazione civile a Gaza?
Questa de-umanizzazione è una vera tragedia. Più aumentano i numeri, più si è un numero. Mi fa pensare ad altri momenti della storia, anche se non paragonabili. I nazisti scrivevano un numero sulle braccia alle persone. È una metafora così chiara e così drammatica. Più aumentano i morti a Gaza e Rafah e in mare, più questa realtà si realizza.
Come fermare questa ulteriore deriva?
Per prima cosa bisogna recuperare un po’ di umanità. Sviluppare empatia. E poi fare quello che ognuno di noi può fare anche nel suo piccolo. Conosco tante attività che tengono aperte le luci, gli spazi.
Quando è cominciata questa narrazione che cancella la soggettività dei migranti?
Nel 2017 mi ha colpito molto la criminalizzazione delle Ong che salvano i naufraghi. In quel momento mi sono detto: questi sono tutti matti, completamente impazziti. Purtroppo hanno soffiato sul fuoco parlando alle pance di qualcuno. Poi è la paura che ti frega. L’aggressività scatta dalla paura della differenza, della diversità. Invece bisogna conoscere, prendere atto di quel che succede, anche di questa cavalcante de-umanizzazione. Io cerco di farlo con le vignette, qualcun altro lo fa con la letteratura, altri con gli articoli. Tenere aperta la porta all’umanità è fondamentale.
Dobbiamo fare opposizione, resistenza?
Io non potrei fare altro! A me alcune cose sembrano addirittura ovvie, banali. Ma vedo che c’è la volontà anche politica e giornalistica di dare voce sempre alle stesse persone. Si parla molto di censura, ora. Non dimentichiamo che ci sono persone censurate da tutta la vita come gli esponenti del movimento nonviolento. Pochissime volte vengono invitati attivisti come Vignarca della Rete pace e disarmo, solo per fare un esempio. È molto difficile che un pacifista venga invitato per esporre la propria idea. Poi magari uno può non essere d’accordo, ma sapere che c’è quel tipo di idea è importante.

Mauro Biani, Armi e guerre, 2024

Roberto Vicaretti, in questo momento non si può parlare di pace ma la si può disegnare?
Certamente si può disegnare di tutto, in tutti i tempi, perché la matita è un grande spazio di libertà. Secondo me se ne può anche parlare, nei luoghi, nei modi più giusti, perché gli spazi ci sono. Diventa sempre di più uno spazio di coraggio. È quasi disobbedienza al pensiero dominante, però.
Quando sono cominciate questa difficoltà a parlare di pace nel dibattito pubblico e sui media mainstream e la delegittimazione di chi ci prova?
Ricordo che anche nei momenti più difficili e di più aspro confronto fra posizioni – penso per esempio alla guerra in Afghanistan, ma anche al secondo conflitto in Iraq – non era difficile parlare di pace. C’erano spazi, luoghi mediatici, comunicativi e fisici, in cui si poteva fare questo tipo di ragionamento. Poi qualcosa è cambiato ma non saprei individuare un momento preciso, vedo piuttosto un percorso, un processo accompagnato da un’estrema semplificazione, nel senso di una banalizzazione del dibattito pubblico. In un confronto che si fa sempre più rapido e radicale, nelle frasi che si scelgono riguardo a una tematica complessa, articolata, delicata come è la pace questa trova meno spazio rispetto alla guerra.
Perché trova meno cittadinanza?
Perché in questa polarizzazione è sempre quasi tutto bianco e nero. Ma se è chiaro che la pace è bianco, per spiegare quel bianco bisogna fare un ragionamento molto più articolato. Poi a tutto questo, dal mio punto di vista, va aggiunto l’indebolimento del mondo politico, sia cattolico che progressista, di sinistra, che cercava di sviluppare una riflessione su queste questioni.
Gino Strada, al quale hai dedicato con altri il libro La miglior cosa che possiamo fare diceva che la guerra è disumana, bisognerebbe scardinare il dogma che la guerra sia ineluttabile?
Sì, penso di sì. Userei l’espressione “rivoluzione culturale” se non ricordasse a tutti noi momenti bui. Diciamo allora che ci vorrebbe una rivoluzione antropologica del pensiero umano. Un modo diverso di stare nel mondo, con maggiore consapevolezza del significato delle cose. Ci vuole anche la volontà di scardinare alcuni retro pensieri che ci accompagnano da sempre. Per esempio ci dovremmo liberare di frasi fatte sulla pace e sulla guerra, detti latini, che non ci aiutano a risolvere rapporti conflittuali con l’altro, che può anche essere un popolo, una tribù, una nazione.
Ciò che certe frasi fatte, date per assodate, negano è che i conflitti si possono risolvere in maniera più efficace con un approccio nonviolento…
È impegnativo, certo, ma il pensiero pacifista è rivoluzionario nella sua complessità e nella sua totalità perché ribalta l’ordine dei fattori in tutti i campi, compreso quello dei rapporti sociali, dei diritti e dei rapporti economici. Non puoi attuare una politica di pace se al contempo attui politiche basate sulla competizione estrema dal punto di vista economico, fatta sulla pelle delle persone, dei lavoratori e delle lavoratrici. Quello pacifista è proprio un altro modo di stare al mondo e nella socialità. Rende tutto sì affasciante ma anche dannatamente difficile.
Stimolare pensieri, suscitare riflessioni, è una parte importante del nostro lavoro. Tu lo fai mostrando le vignette di Biani nella rassegna stampa di Rai news ma soprattutto sviluppando con coerenza un filo pensiero in tutto il tuo lavoro giornalistico. Come fare per evitare quella de-umanizzazione che a volte passa attraverso una informazione fatta di numeri più che di storie?
Io penso tu abbia assolutamente ragione. I numeri sono una trappola comunicativa per noi quando affrontiamo questi temi, ma anche quando affrontiamo i temi economici che sono strettamente legati ai numeri. Dire che nella striscia di Gaza dall’inizio dell’operazione di Israele ci sono state ormai più di 34mila vittime va fatto, perché il numero è abnorme, è inaccettabile, di impatto. Nelle nostre teste, nei nostri cuori nelle nostre coscienze c’è questa consapevolezza. Se io ripeto che ci sono state 34mila vittime, e che il numero continua a crescere di giorno in giorno, ho inevitabilmente una reazione in chi mi legge e in chi mi ascolta. Ce la deve avere perché è un numero inaccettabile per un uomo e per una donna. Detto questo il numero è talmente abnorme che spersonalizza le vittime. Dire che sono morte 100 persone nel Mediterraneo sul momento è uno choc, ma poi resta un numero, un bilancio, una statistica. Invece andrebbero raccontate le vite che si perdono, le storie di queste persone. Ma come fai a raccontare le storie se l’attuale governo israeliano non ci fa entrare a Gaza per fare il nostro lavoro? I colleghi palestinesi sono stati le prime vittime. Abbiamo perso moltissimi colleghi di Al Jazeera e di altre testate. Un’altra cosa che dobbiamo raccontare con forza maggiore è che i cittadini di Israele non possono vedere cosa fa il loro governo a Gaza perché Netanyahu ha silenziato Al Jazeera. Tutto ciò ci dice quanto il nostro lavoro possa essere fondamentale. Se fosse informata l’opinione pubblica israeliana potrebbe in potenza reagire molto di più a quel che sta facendo il suo governo.

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Gli appuntamenti Roma libera e antifascista con Left
La presentazione del libro di Vicaretti e Biani alla festa dell’Anpi provinciale di Roma, alla città dell’Altraeconomia nel quartiere Testaccio della capitale si tiene il 2 giugno alle 18. I due autori saranno intervistati da Amalia Perfetti dell’Anpi. Segnaliamo inoltre, il 1 giugno, alle 17 la presentazione della graphic novel Uniti nella stessa lotta. Memorie di Giacomo Matteotti (People) di Tommaso Catone introduzione di Stefano Catone, dialoga con gli autori Morena Terraschi. E alle 18 l’incontro sul tema “Fascismo e neofascismo nella storia d’Italia” con Stefano Catone, Davide Conti, Fabrizio De Sanctis, Ilaria Moroni e Giovanni Tamburrino, modera Simona Maggiorelli.

Qui il programma completo

Il pre-testo di Giovanni Fontana per mettere il pubblico al centro della creazione

poesia visiva di Giovanni Fontana

L’occasione dell’assegnazione del premio nazionale Elio Pagliarani alla carriera (arrivato alla sua nona edizione) al “poliartista”, come ama definirsi, Giovanni Fontana, ci ha dato l’opportunità di incontrare una delle figure più rappresentative della poesia sonora e visiva della scena internazionale: Fontana ha collaborato con i poeti francesi Henri Chopin e Bernard Heidsieck, riconosciuti tra i fondatori della poesia sonora, e con Adriano Spatola; ha scritto testi poetici anche per diversi musicisti, tra cui Ennio Morricone e Roman Vlad, e una nuova versione dell’Histoire du soldat di Igor Stravinsky. La sua attività di ricerca sul rapporto tra il testo ed i linguaggi musicali gli era già valsa, qualche anno fa, il Premio Internazionale Alberto Dubito alla carriera, in seguito al quale è stato poi pubblicato un volume a lui interamente dedicato, Giovanni Fontana, un classico dell’avanguardia, a cura di Patrizio Peterlini e Lello Voce per i tipi di Agenzia X (2022). Per chi volesse conoscere o semplicemente approfondire la ricerca artistica di Fontana, che spazia dalle arti visive all’architettura, dal teatro alla musica, alla letteratura, questo volume risulterebbe molto utile perché, oltre ad esporre la sua opera intermediale, testo-partitura Radio/Dramma, dedica spazio alla sua teoria della “poesia epigenetica” e propone un’antologia critica di brani inediti, di studi a lui dedicati da alcuni tra i maggiori critici, poeti e artisti sperimentali. Fontana ha proposto le sue performance in quasi tutto il mondo e con le sue opere verbo-visive è stato ospitato in ottocento mostre, tra cui la Quadriennale di Roma e la Biennale di Venezia. Secondo il teorico della “poesia epigenetica” le performance eseguite trasfigurano il testo poetico di partenza, il quale pur conservando la sua unicità originaria, trattiene gli echi del suo analogo dinamico. “Possiamo dire che la struttura genotipica del pre-testo è alla base di un processo epigenetico che ha come risultato un fenotipo poetico in evoluzione continua” afferma Fontana; in altre parole, il performer agisce sui testi in un preciso spazio e per un dato tempo con la conseguenza di rimodellare il testo da cui si è partiti e che, ad una successiva lettura, pur apparendo identico, non sarà mai più lo stesso. Ma perché, secondo Fontana il testo poetico è un pre-testo? “Beh, perché Il testo originario è pulsante di qualità latenti che, però, potranno essere apprezzate solo in una successiva dimensione, cioè fuori dalla pagina, oltre la pagina, sviluppate e valorizzate attraverso l’uso della voce, che sarà posta al centro della performance. Ma non solo la voce concorrerà a questo arricchimento del testo, entreranno in gioco i gesti e i movimenti del corpo, l’uso del colore e della luce, i rumori e i suoni.” In questo senso per il poeta il testo non sarebbe che un punto di arrivo temporaneo, “è una memoria da riscrivere nello spazio e nel tempo in una configurazione ben più complessa. Ecco perché parlo di pre-testo: un testo che è a monte della riscrittura d’azione, un testo che è un pretesto per mettere il corpo del poeta al centro del suo poema.” Il nostro “poliartista” parla dunque del testo poetico come di una struttura viva, pulsante, carica di tensioni, che stringe in sé le ragioni della voce e che racchiude tutta l’energia potenziale da liberare nel corso della performance. È un po’ quello che accade nella musica. “Qual è la musica?” si chiede Fontana, “quella scritta sulla partitura o quella che si ascolta davanti ad un’orchestra che suona? Ovviamente, essere coinvolti nell’ascolto può essere più gratificante, ma ciò non toglie nulla al valore della partitura, che certamente non rappresenta un semplice strumento di servizio.” Il pre-testo di Fontana subisce, quindi, la trasformazione e l’arricchimento della performance, e quindi, pur restando uguale nella scrittura, non sarà più lo stesso. “Come nel jazz” afferma “abbiamo una struttura armonica e una melodia di base su cui si innesta l’improvvisazione che è legata a quel preciso momento, ma si riverbererà nuovamente quando quel brano sarà rieseguito, così avviene nella poesia sonora.” Se tiriamo in ballo la musica improvvisata, si dovrebbe poter affermare che ogni performance non è mai uguale a sé stessa; si potrebbe dire che ogni performance di poesia sonora è irriproducibile e unica? Per Fontana è proprio così, “c’è l’assoluta unicità e di conseguenza quando il poeta viene a mancare, dobbiamo fare i conti con una perdita irreparabile. Certo, le riproduzioni tecnologiche ci consentiranno di rivedere o riascoltare quella performance, ma non sarà più la stessa cosa.”

Se consideriamo la performance poetica alla stessa stregua di una performance musicale di un solista che fa il suo assolo, il rapporto con il pubblico dovrebbe essere indiscutibilmente importante, “Il pubblico ha una funzione chiave nell’azione poetica”, conferma infatti Fontana, “non solo per quelle che possono essere le immediate risposte del performer alle sue sollecitazioni, ma anche per come interagisce o collabora, spontaneamente o perché coinvolto”. Nella concezione africana della performance, il pubblico è parte integrante dello spettacolo e ne determina l’andamento svolgendo, a volte, un ruolo attivo addirittura determinante. Con una visione simile Fontana afferma che la relazione con il pubblico non solo è importantissime, ma va valutata “anche in funzione della geometria dello spazio perché un conto è una disposizione in una sala di un teatro moderno oppure in uno spazio all’aperto, come una piazza o un vicolo, o di un edificio industriale. E poi c’è il contatto fisico, a volte infatti posso decidere di sussurrare i miei versi nell’orecchio di ciascuno degli spettatori come è accaduto in AnnArt, all’Internaztional Living Art Festival in Romania”. Giovanni Fontana ha creato dei veri e propri romanzi sonori, tra i quali Tarocco Meccanico nel 1990 e Chorus nel 2000 e si è dedicato alla sperimentazione acustica a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta. Nel corso della sua ricerca sui suoni ha prodotto opere intermediali, tra le quali ricordiamo la pièce radiofonica Le droghe di Gardone e numerosi videopoemi, tra i quali Poema Bonotto; il suo ultimo disco è Epigenetic Poetry del 2016. Il Premio Elio Pagliarani alla carriera arriva in un momento ricco di impegni per l’artista. Infatti, è in allestimento a Napoli, fino al 31 luglio, la mostra Millenanni Terzo Anno – Henri Chopin. Visiva Utopia, curata da Giovanni Fontana insieme a Giuseppe Morra e Patrizio Peterlini presso la Casa Morra – Archivi d’Arte Contemporanea. Henri Chopin, scomparso nel 2008, è stato un esponente di un percorso inedito nella corrente del concretismo internazionale. Durante il secondo conflitto mondiale, prenderà parte alla marcia della morte e fuggirà dal campo di prigionia di Olomouc, nell’attuale Repubblica Ceca. Inoltre, è in corso fino al prossimo 7 giugno, una mostra personale di Fontana dal titolo “TRAME. Epigenetic answers” un allestimento di cinquanta opere di piccolo formato presso il MAC, Museo d’Arte Contemporanea del Piccolo Formato a Guarcino, in provincia di Frosinone. Secondo il critico letterario Francesco Muzzioli, la risonanza internazionale del lavoro di Fontana e amplificata anche dal fatto che il poliartista opera con forme espressive in gran parte translinguistiche, e questo gli consente un’apertura comunicativa sovranazionale che non avrebbe restando sul terreno della pagina e dei suoi significati strettamente linguistici.