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Ultima settimana per i Referendum promossi da Possibile. Anche Pannella e Fratoianni firmano

Comincia bene l’ultima settimana dei referendum promossi da Possibile, di Pippo Civati. Il deputato ex Pd si lamenta della scarsa copertura mediatica («Sarebbe bello non dover ricorrere alle lettere dell’Agcom per avere un po’ di spazio in televisione», dice), ma incassa due firme importanti: «Marco Pannella ha firmato i nostri referendum e lo ringrazio», è la prima; la seconda è quella di Nicola Fratoianni, coordinatore nazionale di Sel. È una firma importante, questa, perché i vendoliani – così come con la Cgil e la Fiom – non hanno mai condiviso la scelta di Civati di lanciare gli otto referendum (sull’Italicum, sulle trivelle, sul jobs act e sulle grandi opere), che sono anzi diventati un caso nel già difficile processo unitario a sinistra. «Oggi sono andato al Comune in cui risiedo e ho firmato i referendum», dice infatti Fratoianni, «non cambio però il mio giudizio su questa vicenda. Penso che avremmo dovuto fare tutto diversamente. Ho avuto modo e cura di dirlo fino allo sfinimento prima che la campagna lanciata da Possibile cominciasse, convinto che una campagna di questo tipo avrebbe dovuto coinvolgere comitati, movimenti e sindacati. Così non è stato. E non basta rispondere che si è proposto a tutti per tempo. Perché tutti o quasi hanno risposto che non erano d’accordo e oggi, ad esempio, c’è tutto il mondo della scuola che a un referendum sta lavorando».

Fratoianni risponde così a Civati, che da settimane ripete: «Ho faticato molto a trovare qualcuno che volesse parlare nel merito, discutere su un contenuto. Era tutto un dividersi sulle date, sul numero, sul simbolo. Io a tutti ho cercato di spiegare che se le firme si raccolgono dopo il 30 settembre si finirà col votare tra due anni e non l’anno prossimo. E tra due anni l’Italicum sarà già in vigore, le trivelle avranno già cominciato a scavare, i licenziamenti avranno già cominciato ad arrivare».


 

«Se le firme si raccolgono dopo il 30 settembre si finirà col votare tra due anni e non l’anno prossimo. E tra due anni l’Italicum sarà già in vigore, le trivelle avranno già cominciato a scavare, i licenziamenti avranno già cominciato ad arrivare» spiega Civati 

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Le più recenti interviste di Civati sono state poi l’occasione di attacchi agli altri protagonisti della sinistra che dovrebbe nascere a sinistra del Pd. Civati ha accusato anche Landini di far parte della «sinistra da salotto», anzi «da divano», dedita soprattutto ai talk show. Anche qui c’è una risposta di Fratoianni: «Trovo sbagliato», scrive su facebook, «attaccare e trattare da ‘nemici’ tutti quelli che la pensano diversamente. Ma siccome penso che l’errore più grande che possiamo fare sia offrire lo spettacolo di una nostra divisione che considero largamente infondata, non voglio rassegnarmi all’idea che anche una divergenza forte su una questione o su una campagna non possa e non debba essere superata. I temi e le ragioni che ci uniscono sono certamente di più e più forti».

 

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Ho firmato i referendum.Domenica sera ero a Frosinone ad un dibattito sulla sinistra organizzato da Sinistra Ecologia…

Posted by Nicola Fratoianni on Mercoledì 23 settembre 2015

 

Chiedendo ai militanti dei banchetti di fare l’ultimo sforzo («Ci mancano poco più di centomila firme»), Civati si mostra però meno che tiepido sul rapporto con Sel e gli altri: «Temo che in realtà siamo meno uniti di prima», dice, per tirarci su il morale.

 

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Civati insieme a dei volontari ai banchetti per la raccolta firme

Di cosa parlano gli 8 quesiti proposti per i referendum?

 

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Lo scopo è raggiungere le 500.000 firme da presentare alla Corte Costituzionale. È possibile firmare negli uffici dei municipi oppure nei banchetti posizionati nelle principali città italiane (qui la mappa).

 

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“Rifugio”, due anni tra i cristiani d’Oriente nell’età dell’ISIS

Un viaggio lungo due anni e sette mesi tra Egitto, Libano, Iran, Territori palestinesi, Giordania, Iran e Turchia. Così la fotoreporter Linda Dorigo e il giornalista Andrea Milluzzi, raccontano la vita dei cristiani d’Oriente. Quegli stessi che vengono usati dalla destra populista europea per distinguerli dai profughi indesiderati musulmani, e che in Iraq e Siria sono vittime più degli altri della furia religiosa dell’ISIS.

Il frutto del viaggio è Rifugio, un racconto della vita di popolazioni che per secoli hanno convissuto con musulmani ed ebrei e che oggi sono schiacciate tra jihadisti, fondamentalismo islamico l’accresciuta forza dell’ortodossia ebraica e che oggi sono vittime involontarie di dinamiche che non le riguardano – tre foto qui sotto e un assaggio del volume edito dalla olandese Schlit Publishing nello sfogliatore in basso.

Per tutti quei mesi e quei chilometri i due autori del libro hanno condiviso la vita con i soggetti che raccontano. Ne viene fuori un resoconto di 73 immagini scattate in pellicola in bianco e nero: vita quotidiana, paesaggi e chiese degli albori del Cristianesimo si alternano a immagini di soldati, milizie cristiane siriane e teatri di scontri.

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 Linda Dorigo

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Linda Dorigo

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Linda Dorigo

Bergoglio e gli Usa, dopo le guerre di religione

Nemici e amici a destra e sinistra. Dipende dai casi. La sei giorni  del papa negli Stati Uniti nella stagione delle primarie è più politica del previsto. Non necessariamente per volontà del Vaticano e neppure per un calcolo di Obama. Su alcuni grandi temi che potrebbero essere al centro della campagna elettorale del prossimo anno, i temi “terreni”, Bergoglio è più vicino ai democratici. Sui altre questioni la distanza dal partito di Obama è siderale, ma a differenza che in passto viene messa sotto il tappeto da un papa che ha capito che parlando di etica rischia solo di perdersi per strada i fedeli, che nel mondo ci vivono.

La convergenza con Obama

Francesco si è detto favorevole all’accordo sul nucleare con l’Iran, il Vaticano ha mediato il riavvicinamento tra Washington e Cuba e riconosciuto lo Stato di Palestina. La chiesa statunitense è fautrice di una riforma dell’immigrazione da almeno dieci anni: i nuovi cattolici statunitensi sono in larga parte appartenenti alle comunità straniere, specie ispaniche, e la chiesa è sempre stata in prima fila nell’organizzare manifestazioni dei milioni di immigrati indocumentados che chiedono la regolarizzazione. Non solo: l’enciclica sul cambiamento climatico, l’attenzione alla povertà e la difesa del diritto all’istruzione o la critica alla deregolamentazione della finanza e dei mercati sono tutti argomenti che suonano come calci sui denti per i repubblicani. E possono essere spesi dai democratici per promuovere alcune idee e riforme.

Le prese di distanza dei repubblicani

A essere più in difficoltà i candidati cattolici alle primarie, che sono molti: Jeb Bush, Marco Rubio, Chris Christie, George Pataki, Rick Santorum, Bobby Jindal. Più di uno ha preso le distanze, senza però esagerare, che scagliarsi contro il papa è un rischio. Christie ha detto che su Cuba il papa sbaglia, «che la sua infallibilità si limita ai temi religiosi, non a quelli politici». Bush ha invece dichiarato che non si fa dettare l’agenda economica dal suo prete, dal suo vescovo o dal papa. Più duro di tutti il columnist conservatore del Washington Post, George Will, che ha scritto: «Papa Francesco incarna santità accompagnata da nuvole di ipocrisia. Con lo zelo di un convertito abbraccia idee alla moda e palesemente false e reazionarie». Il commentatore si riferisce alle idee sulla povertà e sul clima ed è un segnale chiarissimo dell’imbarazzo (o della avversione) della destra cattolica Usa nei confronti di Francesco.

 pope-popup-gallery0921nw03(Un prete ha passato 10 mesi a costruire una San Pietro di Lego, il particolare del papa che si affaccia)

La secolarizzazione dei cattolici Usa

I cattolici americani sono circa il 22% della popolazione e sono il più grande gruppo religioso d’America – i protestanti sono di più, ma divisi in varie denominazioni. Naturalmente, un gruppo così grande non può essere omogeneo, comunità di antica immigrazione come l’irlandese e l’italiana sono diverse da quella messicana, così come le differenze tra praticanti e non sono enormi. Liberali e conservatori, paladini del diritto alla vita e pro-choice convivono e si dividono. Ma come si vede dalle percentuali di favorevoli sui grandi temi che hanno generato crociate religiose negli ultimi anni, tendono a essere meno retrogradi della chiesa di Roma. Unico punto sul quale sono intransigenti quanto gli evangelici di destra è l’aborto.

Contraccettivi(I cattolici Usa deti temi etici? Sono più avanti della loro chiesa – *21% i favorevoli all’aborto in alcuni casi)

Una curia ultra-conservatrice

In passato e fino all’avvento di Bergoglio, meno ossessionato dall’etica – probabilmente perché più capace del suo predecessore di leggere il mondo che si trova davanti – le scelte delle gerarchie cattoliche Usa sono state spesso ultra-conservatrici e in linea con quelle guerre di religione (culture wars, le chiamano in America) che hanno aiutato i repubblicani a vincere più di un’elezione. Nel 2004, ad esempio, l’arcivescovo di Saint Louis intimò all’allora candidato democratico alla Casa Bianca di «non presentarsi a prendere la comunione» a causa delle sue posizioni sull’aborto.

In anni recenti le crociate contro l’aborto e il matrimonio gay hanno funzionato da collante ed hanno dettato spesso alcune nomine a posti importanti: nel 2012 Joseph Cordileone, presidente della commissione della conferenza episcopale Usa per la difesa del matrimonio veniva scelto come arcivescovo di San Francisco, la città icona gay per eccellenza. La chiesa conservatrice, che ha spesso bacchettato Obama per alcune prese di posizione, è la stessa che è finita sotto accusa per aver negato e nascosto per anni le colpe dei preti pedofili. E che continua a non piacere troppo agli americani, anche cattolici. In un sondaggio commissionato dal Washington Post scopriamo il papa piace all’86% dei cattolici e al 70% degli americani ma la chiesa è ben vista solo dal 55% degli americani.

Le culture wars e gli scandali legati alla pedofilia hanno pesato, ma sono probabilmente il passato: con la sentenza della Corte Suprema sui matrimoni gay è difficile che negli anni a venire alcuni temi tornino a essere il centro dell’agenda politica americana: i dati del sondaggio del 2014 della figura qui sopra lo mostrano, persino molti cattolici tendono a non avere opinioni contrarie su temi etici che in anni recenti hanno infiammato la politica Usa. Eppure le donne, anche quelle religiose, hanno da farsi sentire con il papa. E le posizioni oscurantiste della chiesa restano messe all’indice da parte di molti.

Aborto, contraccezione e suore ribelli

Due giorni fa sul New York Times un editoriale rimproverava a Francesco di non aver cambiato idea sulla contraccezione e la pianificazione familiare, nonostante l’opinione dei cattolici, la volontà dell’Onu di includerlo tra i diritti compresi negli obiettivi da perseguire nei paesi non sviluppati e i numeri: favorire la contraccezione consentirebbe 52 milioni di gravidanze non volute, 14 milioni di aborti praticati in condizioni non sicure e 70mila morti di donne.

Poi ci sono gli attivisti cattolici americani, suore comprese. Nel 2012 un’organizzazione di suore troppo militanti (l’80% del totale negli States) venne commissariata e messa sotto osservazione da Ratzinger. Le suore hanno reagito e la stampa per il Vaticano è stata pessima. Francesco, che di public relations se ne intende, ha alleggerito quella pressione e incontrato le leader delle suore. Loro continuano a parlare di matrimonio gay, contraccezione e persino di aborto. Ad esempio la National Coalition of American Nuns, che ha diffuso un comunicato stampa indignato in risposta alla decisione del papa di concedere il perdono alle donne che abortiscono: «Non rispetta l’autorità morale delle donne in materia di riproduzione e continua ad attribuire agli uomini il potere di dire cosa sia giusto e cosa sbagliato».


 «No papa Francesco, preferisco restare tentatrice»,Ilaria Bonaccorsi alle recenti parole di Bergoglio sulle donne

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A giocare uno scherzo al papa e all’ala conservatrice della chiesa è stata la Casa Bianca, che tra gli invitati all’incontro con ufficiale ha incluso diversi attivisti cattolici sgraditi alla curia locale. La più famosa è Simon Campbell, suora famosissima per il suo impegno militante, che ha parlato all’ultima convention democratica e abortista («sono pro-vita, non solo pro-nascita» dice). Campbell, che è conosciuto come l’organizzatore delle “Suore sul bus” tour, dice di essere “pro-vita, non solo a favore della nascita” e di fare la lotta all’aborto facendo quella alla povertà e per il diritto alla salute. Tra gli ospiti di Obama anche Aronne Ledesma, giovane attivista gay e cattolico e Gene Robinson, primo vescovo apertamente gay della chiesa anglicana. I conservatori gridano allo scandalo, il Vaticano è in imbarazzo e ha protestato senza dirlo ufficialmente. La loro speranza è che Francesco non li deluda e che, parlando a Washington, Philadelphia o New York, oltre a nominare la povertà e il clima tiri fuori i vecchi arnesi di santa madre chiesa e ricordi a tutti che i preservativi non si usano, non si abortisce e ci si sposa solo tra persone di sessi diversi. Probabile che Bergoglio li ascolti ma senza esagerare: negli Usa deve fare molto per ripulire un’immagine devastata dagli scandali e conservatorismo.

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Giancarlo Siani, trent’anni da giornalista militante a bordo della sua Mehari

Trent’anni da quegli spari. Ma anche trent’anni a portare in giro il suo modo di intendere il “mestiere” a bordo della Mehari verde. Le idee di Giancarlo Siani, il suo girovagare in cerca dei fatti, da “abusivo” e allo stesso tempo da “giornalista giornalista”, camminano ancora su quell’auto che non passa inosservata (qui il programma delle iniziative). Sono trent’anni da quella sera del 23 settembre 1985 in cui una decina di colpi di revolver lo hanno “tolto di mezzo”, sotto casa sua al Vomero, Quartiere “alto” di Napoli. Per ricordarlo Left pubblica una selezione delle tavole della graphic novel “Giancarlo Siani … e lui che mi sorride”, di Alessandro Di Virgilio e le matite di Emilio Lecce (Round Robin Editrice), alcune delle quali preparate per la nuova edizione appena pubblicata.copertina_giancarlo siani.ai
Il fratello Paolo, medico e presidente della fondazione Polis, ricorda che Giancarlo «non era un giornalista antimafia: aveva però una spiccata capacità di collegare fatti e circostanze, un’attitudine a mettere insieme gli eventi e raccontare i retroscena. Queste doti semmai ne facevano un buon giornalista, ma lui faceva semplicemente quello che doveva fare. Faceva il suo mestiere e basta». Raccontando, ad esempio nell’articolo che a detta di tutti ne ha decretato la condanna a morte, come cambiava «la geografia della camorra dopo l’arresto del super latitante Valentino Gionta».

 


Giancarlo Siani pareva un poliziotto in borghese, per la determinazione che mostrava nell’aggirarsi per le stanze e per la conoscenza che aveva di fatti e circostanze

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Collegamenti tra i fatti, piste giornalistiche che hanno fatto pensare al magistrato Armando D’Alterio, quando lo incontrava nei corridoi del Tribunale, di essere di fronte a «un poliziotto in borghese, per la determinazione che mostrava nell’aggirarsi per le stanze e per la conoscenza che aveva di fatti e circostanze». Non a caso, dall’inchiesta sull’omicidio Siani è poi nata l’indagine collaterale sulle connivenze tra mondo politico e criminale a Torre Annunziata, con 17 fra imprenditori e amministratori locali, funzionari comunali e camorristi finiti agli arresti.

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Tavole tratte dalla graphic novel “Giancarlo Siani … e lui che mi sorride” di Alessandro Di Virgilio e le matite di Emilio Lecce (Round Robin Editrice)

Ma uno dei ricordi più vividi lo ha consegnato ai curatori del fumetto il docente di Sociologia criminale e ex presidente della Provincia di Napoli Amato Lamberti, un anno prima di morire. Per Lamberti, fondatore dell’Osservatorio sulla camorra con il quale Siani collaborava, «Giancarlo era, innanzitutto, un giovane impegnato socialmente e civilmente; che, a Torre Annunziata, partecipava attivamente, prendendo la parola anche per dire cose scomode, a tutti gli incontri, le manifestazioni promosse dalle associazioni più diverse, per discutere dei problemi che attanagliavano la città». E ancora: «Per Giancarlo, anche il giornalista doveva essere militante, perché schierato dalla parte della gente, a difesa dei loro diritti calpestati dalla burocrazia, dalla politica, dalla camorra». Non a caso oggi l’esempio di quel giornalista militante viaggia ancora sulla Mehari verde.

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Ecco la guida Routard per rifugiati

«Pensavo di accogliere una famiglia, poi mi sono detto: possiamo fare di meglio». Questo ha detto a le Journal de Dimanche il fondatore delle guide Routard, Philippe Gloaguen. L’idea che gli è venuta è semplice: produrre e stampare una guida per rifugiati che aiutasse quelle Ong che lavorano sul campo a comunicare con chi arriva, non usa l’alfabeto latino e magari non parla una parola di una lingua che non sia la sua. Non solo siriani, ma anche afghani, eritrei, etiopi.

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Presto fatto: la guida è pronta, 85 pagine di icone usando le quali si possono fornire informazioni relative a tutti i bisogni primari che una persona appena giunta in un Paese può avere. Dalla sanità, all’igiene personale, dal nutrimento all’ubicazione dei luoghi di culto. La guida verrà stampata in questi giorni e sarà distribuita nel prossimo weekend in 4mila copie. Potete vederla tutta qui.

Università, chi controlla i controllori? Tutte le beghe nella selezione dei membri dell’Agenzia di valutazione

Chi valuta i valutatori della ricerca? Chi valuta i valutatori che decideranno, in parte, delle sorti delle università italiane? Una questione scottante quella affrontata dalla Commissione Cultura e Istruzione della Camera dove andrà in scena l’audizione dei quattro nuovi membri del Consiglio direttivo dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e di ricerca introdotta con un disegno di legge nel 2006 e potenziata dal ministro Gelmini con un decreto ad hoc. Un istituto che in passato si è attirato una valanga di critiche sul sistema bibliometrico adottato per valutare la qualità della produzione scientifica: clamoroso era stato il caso di riviste come  Suinicoltura (adesso tolta) che figuravano nell’elenco di testate valide per calcolare i punteggi di articoli.

L’audizione di oggi si presenta quindi alquanto vivace anche perché sono uscite notizie che in qualche modo fanno sorgere dei dubbi sulla validità della scelta del Miur.

Roars, il sito specializzato in fact-checking su tutto quanto riguarda il mondo della ricerca ha fatto notare per esempio come Paolo Miccoli, uno dei quattro prescelti, abbia presentato un tema in cui ci sono coincidenze con quattro testi che però non sono stati citati. Ma anche degli altri elaborati, i curatori di Roars hanno mostrato alcune debolezze (vedi qui). Daniele Checchi, Paolo Miccoli, Raffaella Rumiati e Susanna Terracini sono stati scelti dal ministro Giannini da una rosa di 121 candidati. C’è maretta anche perché i nomi sono passati con voti risicati alla Commissione Cultura del Senato e pare che i colleghi della Camera vogliano fare le pulci in modo ai quattro che dovranno valutare i lavori dei propri colleghi e la ricerca degli atenei italiani. L’Anvur, ricordiamo, ha un grande potere: la ripartizione del Ffo, il fondo ordinario di finanziamento alle università, infatti dipende per il 30 per cento dalla sua valutazione. Ogni membro del Direttivo inoltre prende com scompenso 178.500 euro all’anno.

«A tutti e al candidato Paolo Miccoli, certo, chiederemo conto di quello che è uscito e di alcune incongruenze sui loro documenti pubblici», afferma Gianluca Vacca deputato M5s che fa parte della Commissione Cultura e Istruzione. «Ma soprattutto chiediamo di ascoltare il ministro Giannini, perché vogliamo capire quali sono stati i criteri per cui sono stati scelti, chi ci deve spiegare il motivo della selezione è il Ministero», continua Vacca. «Non solo, è importante conoscere anche i criteri di scelta del Comitato di selezione che ha valutato i 121 candidati», afferma l’esponente M5s. Infatti i verbali non sono stati resi pubblici.

Alla Commissione Cultura del Senato la sua collega Michela Montevecchi aveva dichiarato il suo voto contrario perché «nessuno dei candidati proposti è espressione di una università del Sud», oltre al fatto che «non risultano convincenti i criteri di scelta dei candidati». L’esigenza di approfondire i profili professionali dei quattro candidati comunque è estesa anche alle altre forze politiche in Commissione, visto che l’aveva proposto il 15 settembre la deputata del Pd Manuela Ghizzoni. Insomma, tra poche ore sapremo come la Commissione valuterà i valutatori, così importanti per il mondo della ricerca italiana.

Cameron, il Pig Gate e la profezia di Black Mirror

«Voglio che sia chiaro: non avevo mai sentito parlare di una storia su Cameron e un maiale». A twittare questa frase è Charlie Brooker, il cui account Twitter è stato bombardato di domande il giorno dopo dell’esplodere del Pig Gate. La vicenda è semplice: in questi giorni esce in libreria Call me Dave, biografia non autorizzata di David Cameron scritta dal suo ex amico ed ex tesoriere del partito conservatore Lord Ashcroft. Furioso per non essere stato incluso nei governi tories di cui il suo ex amico è capo, Ashcroft ha deciso di raccontare tutto quel che sa (o dice di sapere) del premier. Tra le altre cose, il fatto che negli anni universitari Cameron facesse parte di un club, la Piers Gaveston Society, dove si fumava marijuana ascoltando i Supertramp e dove, come rito di iniziazione, si usava dover mimare un rapporto orale con una testa di maiale morto.

(La scena finale di National Anthem)

La vicenda è un brutto colpo per Cameron e non fa onore a Lord Ashcroft. Già, ma che c’entra Charlie Brooker? Semplice, è lo sceneggiatore del primo episodio (forse il migliore) di Black Mirror, serie che racconta in forma cupa e fantascientifica gli effetti della tecnologia sulle nostre vite, andata in onda su Channel 4 nel 2011. Black Mirror, lo specchio nero, è lo schermo degli apparecchi tecnologici su cui teniamo gli occhi in maniera continua e Brooker, che li conosce bene perché vive di media, ha avuto un sito personale molto vivo, ha lavorato in Tv. Nella prima puntata il premier veniva costretto a fare sesso in diretta Tv in cambio della liberazione della principessa rapita. Il pensiero di chiunque abbia seguito Black Mirror è corso a quella puntata nel momento esatto in cui si è diffusa la rivelazione su Cameron. Per questo Brooker ha dovuto schernirsi: «Se avessi saputo una cosa del genere non avrei scritto un telefilm, sarei corso in strada a urlarlo ai quattro venti».

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Dagli anni 60 alla rivoluzione arancione, l’Ucraina raccontata dal fotografo Boris Mikhailov

Il suo reportage sui senza tetto e nuovi emarginati nell’ex Unione Sovietica (a cui il MoMa di New York dedicò una mostra nel 2011) ha fatto conoscere a tutto il mondo la ferocia della transizione gestita da oligarchie politiche ed economiche senza scrupoli.

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

La crudezza di quelle immagini denunciava in modo inequivocabile quello che era accaduto negli anni Novanta e la situazione esplosiva che si stava determinando in Ucraina. Se sotto il regime sovietico Boris Mikhailov aveva scelto un linguaggio indiretto, metaforico ed elusivo, per sfuggire alla censura e ai controlli del Kgb, dopo la caduta del comunismo il grande fotografo ucraino si sentì libero di uscire allo scoperto per raccogliere quel grido di disperazione che veniva dalle strade del suo Paese. Ma le sue non sono foto che si accontentano di registrare la realtà. Qualche volta la inventano, chiedendo a mendicanti e sbandati, in cambio di qualche soldo, di mostrare le proprie ferite, di farsi fotografare nudi. Così Mikhailov cercava di dare una rappresentazione a quanto stava accadendo in un Paese in cui la febbre del capitalismo, insieme alla mafia e alla corruzione, faceva sì che tutto improvvisamente fosse in vendita. E sono scatti che ci mostrano la storia sovietica ridotta a un cimelio da bancarelle, la mercificazione dei corpi, i segni di una ideologia granitica sostituiti con quelli della sfacciata ricchezza dei nuovi zar della speculazione.


 Se sotto il regime sovietico Boris Mikhailov aveva scelto un linguaggio indiretto, metaforico ed elusivo, per sfuggire alla censura e ai controlli del Kgb, dopo la caduta del comunismo il grande fotografo ucraino si sentì libero di uscire allo scoperto per raccogliere quel grido di disperazione che veniva dalle strade del suo Paese.

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Ma la terribile bellezza di quelle foto di Mikhailov non dice tutto della sua poliedrica personalità, della sua costante ricerca di nuovi linguaggi fotografici che avvicinano la sua opera alla pittura. Come racconta l’omaggio che gli dedica dal primo ottobre Torino Camera – Centro Italiano per la Fotografia. Si tratta della prima retrospettiva italiana di Boris Mikhailov, in mostra ci sono oltre 300 opere che raccontano l’Ucraina dagli anni Sessanta fino alla recente rivoluzione arancione, con una pluralità di tecniche differenti, «dal ritaglio delle immagini fotografiche all’applicazione di uno strato di pittura sulla loro superficie» .

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

Come approfondisce il catalogo edito da Camera e Walther König. Con questa mostra parte ufficialmente il progetto nato due anni fa per iniziativa di Lorenza Bravetta, giovane direttrice dell’agenzia Magnum: «Camera sorge all’interno del complesso torinese Isolato di Santa Pelagia, nell’edificio in cui fu aperta la prima scuola pubblica del Regno d’Italia.


 

Mikhailov cercava di dare una rappresentazione a quanto stava accadendo in un Paese in cui la febbre del capitalismo, insieme alla mafia e alla corruzione, faceva sì che tutto improvvisamente fosse in vendita

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E si occuperà di grandi mostre fotografiche internazionali, di workshop, e di archiviazione del patrimonio fotografico italiano» . La prossima iniziativa sarà appunto Italia 1968–78, una esposizione che tornerà a indagare il decennio degli anni di piombo sottolineando il ruolo della fotografia come strumento di approfondimento storico e sociale.

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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© Boris Mikhailov | Ufficio Stampa

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Matteo Renzi, il “rugbista giapponese” che vince con i deboli

Ride delle accuse di autoritarismo, si fa beffa di scissioni e minoranze («E anche Varoufakis se lo semo tolti di mezzo»). E si paragona alla squadra giapponese di rugby, numero 13 nel ranking mondiale che sabato scorso nel finale di partita «ha attaccato quando nessuno se lo aspettava» e ha battuto il Sud Africa, terza squadra al mondo, rischiando di perdere nel tentativo di andare in meta piuttosto che accontentarsi del pareggio.

Una esibizione muscolare in piena regola, quella di Matteo Renzi, ieri alla direzione del Pd. La difesa di Buona scuola e Jobs act, la scommessa vinta del 2 per mille versato da 500mila cittadini, l’orgoglio di essere il partito più forte d’Europa. Fino a spingersi in un excursus sul potere delle comunicazione che gli è costato una sintomatica gaffe. Parlando di migranti, il presidente del consiglio ha raccontato della potenza dell’immagine di un bambino morto, di “quel” bambino nonostante ne muoiano centinaia. Subito dopo, ha rivendicato che proprio in virtù del potere della comunicazione il governo ha deciso di recuperare una nave di migranti affondata nel Mediterraneo con i bambini chiusi a chiave nella stiva. Il tutto mentre continuava a rimpiangere di non potersi avvalere di slide e contributi video.

Sulla riforma del Senato, dietro una parvenza di apertura alla minoranza, Renzi afferma di non accettare diktat e poi ne lancia almeno due. Il primo ammonimento è rivolto al presidente del Senato, che non deve ammettere emendamenti all’articolo 2 del testo ma limitarsi allo specifico comma, il 5, approvato in maniera diversa tra i due rami del Parlamento.

Altrimenti – ha detto il premier – «bisognerebbe convocare una riunione comune di Camera e Senato, perché si tratterebbe di un fatto inedito». Salvo poi chiarire che non si riferiva a una sfiducia nei confronti di Pietro Grasso, ma soltanto a una riunione congiunta dei gruppi parlamentari Dem. E che sull’ammissibilità degli emendamenti il presidente del Senato deciderà in autonomia «partendo dal presupposto che per il 15 ottobre questa riforma dovrà essere votata e rimandata alla Camera per la quarta lettura».

Il secondo avvertimento è rivolto alla minoranza del suo partito. «Il partito più forte d’Europa non deve occuparsi di artifici tecnici» ha sottolineato Renzi, chiarendo che «un punto di intesa si può trovare» sul comma 5 dell’articolo 2, applicando il principio del Tatarellum usato nel 1995 per le regionali, per il quale il candidato capolista di un listino bloccato che prendeva più voti diventava presidente dopo che il consiglio ne aveva ratificato la nomina. Ma una cosa dev’essere chiara: «l’elezione diretta dei futuri senatori non può sussistere».

Un’altra metafora sportiva è poi toccata a Jeremy Corbyn, neo-leader del Labour britannico paragonato ai Washington Generals, gli “sparring partner” che hanno collezionato 16mila sconfitte contro gli Harlem Globetrotters. «Non è questione di essere per Blair o anti-Blair, è questione di capire se si vuole andare alle elezioni, come alle Olimpiadi, per vincere o per partecipare» ha ironizzato il presidente del consiglio in direzione. La stampa internazionale (quella italiana molto meno) ha immediatamente evidenziato come sia irrituale che un capo di governo critichi il leader dell’opposizione di un altro Stato con cui poi ha a che fare, a maggior ragione – evidenzia il Financial Times – se entrambi aderiscono al Partito socialista europeo.

Ma per il leader del partito più forte d’Europa questi sono dettagli. A proposito, i giapponesi del rugby che hanno vinto contro i terzi al mondo non erano i più forti, ma tredicesimi. E soprattutto non giocavano contro i più deboli.

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Come si muore e chi uccide in Siria

La guerra civile siriana è al centro, in queste settimane, di un rinnovato sforzo diplomatico. Almeno così sembra di capire seguendo i passi del Segretario di Stato Usa John Kerry, che ha visitato diverse capitali europee e mantiene contatti continui con il suo omologo russo Lavrov.

L’intreccio diplomatico resta piuttosto complicato (come abbiamo raccontato qui): Washington e Mosca sono – forse – d’accordo sul fatto che occorra fare la guerra all’ISIS, ma divergono sul destino di Bashar al Assad e del suo regime. Kerry ha ripetuto che serve una transizione negoziata e non immediata, mentre la Russia ha scelto di rispondere alle difficoltà militari di Damasco inviando uomini e mezzi. La versione ufficiale è quella di contrastare l’Is e contribuire alla sua sconfitta, la verità è anche che Putin non vuole veder cadere un alleato nella regione.

Il puzzle resta quindi complicato: come fare a combattere le bandiere nere dell’ex califfato senza aiutare Assad (o i suoi avversari armati dagli States, a seconda dei punti di vista). Senza una vera intesa diplomatica sul futuro della Siria si rischia solo di introdurre più armi e alimentare il conflitto. O, nel caso dell’aiuto armato della Russia, di rafforzare un regime sanguinario.

Quanto sanguinario? Qui sotto un riepilogo generale del numero di vittime causate dal regime e una serie di infografiche prodotte dalla Syria campaign. Si tratta di fonti non neutrali, ma autorevoli e considerate attendibili che aiutano a dare un quadro di una guerra terribile che ha fatto 200mila morti dal 2011 a oggi ed ha determinato l’esodo di 4 milioni di persone fuori dai confini siriani e di un numero ancora più alto di profughi interni.

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(Violation Documentation Center in Syria, con martyrs si intende le persone uccise dall’esercito di Assad, il database del VDC da un nome a ogni vittima che conteggia)

Il New York Times ha dedicato una infografica impressionante alla carneficina siriana: un puntino rosa per ogni morto (limitandosi a 200mila). Spulciando tra i vari database esistenti, il Nyt conta che 28mila persone, in maggioranza civili, siano morte a causa dei combattimenti tra forze governative e guerriglia, 27mila i morti per colpi di mortaio e artiglieria, 18mila in raid aerei. Quasi novemila le persone rapite, imprigionate e torturate a morte.

Il dato generale da rilevare è che ad oggi Damasco ha ucciso e torturato molte più persone di quante non abbia fatto l’Is, che si tratti di soldati, ribelli, civili, giornalisti, medici. I siriani, dunque, fuggono dalle grinfie dei guerriglieri islamisti, ma soprattutto dalla ferocia della guerra che colpisce Homs, Aleppo e molte altre città della Siria. Non c’è solo Kobane e, come dice chi fa propaganda parlando di rifugiati, allo stato delel cose «aiutiamoli a casa loro» non significa nulla. A meno di non voler guardare dall’altra parte e considerare casa loro anche i campi in Giordania e Libano dove i rifugiati sono molti più che in Europa. E che non sono la casa dei siriani.WhiteHouseBrief-01-725x1024 WhiteHouseBrief-02-725x1024 WhiteHouseBrief-04-725x1024 WhiteHouseBrief-05-725x1024-1

 

 

Dalla Siria giunge anche la notizia di un aumento nel numero di militanti che abbandona l’ISIS. Sebbene si tratti di un numero relativamente basso, si tratta di un segnale. Questo è quando documenta un rapporto del’International Center for the Study of Radicalization del King’s College di Londra. Molte delle persone che lasciano la guerra si danno alla macchia, ma 58 di queste hanno deciso di raccontare come mai, dopo essere partiti per combattere una guerra giusta e santa, hanno lasciato. Se la spinta ad arruolarsi era dettata dalla volontà di combattere contro Assad unendosi al gruppo che molti imam radicali promuovevano, la delusione è stata cocente.


 

28mila persone, in maggioranza civili, sono morte a causa dei combattimenti tra forze governative e guerriglia, 27mila i morti per colpi di mortaio e artiglieria, 18mila in raid aerei. Quasi 9mila le persone rapite, imprigionate e torturate a morte.

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Molti miliziani citano i combattimenti contro altri gruppi islamisti sunniti e le violenze contro altri musulmani (sunniti) come inaccettabili. I comportamenti poco pii di alcuni capi e la qualità della vita sono tra le altre spinte a mollare. E poi ci sono i dubbi personali, come quello e delusioni. Abu Ibrahim, giovane occidentale ha detto alla CBS : «Quel che avevo visto online non somigliava a quel che ho trovato, ero andato per aiutare i siriani» e dopo aver assistito alla lapidazione di una coppia e alla crocifissione di un adolescente ha deciso di scappare.   Ciò che trattiene molti – secondo i 58 testimoni del ICSR – è la paura di essere ripresi e torturati dall’ISIS o la difficoltà a lasciare il Paese.  Molti tra coloro che vorrebbero disertare sono infatti siriani e temono di tornare al loro villaggio, dalle loro famiglie, e subire rappresaglie.

 

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