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Il nuovo Left: viaggio dentro il cuore nero dell’Europa

Un viaggio dentro il cuore nero dell’Europa, quella dei nazionalismi e del filo spinato contro i migranti. Lo compie Left nel numero in uscita sabato dedicando la sua cover alla politica e alla figura del leader ungherese Viktor Orbán.  Nato progressista e difensore dei diritti civili,  ben presto ha virato a destra, repressore prima della libertà di stampa e adesso uomo dei muri e delle manganellate contro i profughi provenienti dalla Siria, Orbán è il cultore di un’Europa bianca, cristiana e autoritaria. La filosofa ungherese Agnes Heller, che ha vissuto sulla sua pelle la persecuzione del nazismo, spiega a Left come Orbán abbia «scientemente contribuito alla costruzione del nemico», alimentando la campagna d’odio della destra nei confronti dei rifugiati. Ma l’Ungheria non è solo lo Stato dei muri, ci sono tante associazioni e privati cittadini che si oppongono alla politica ufficiale e cercano di aiutare i migranti in fuga.  Eva Giovannini e Michela AG Iaccarino raccontano la svolta nazionalista degli ex Paesi sovietici.

In Società Left scrive di Napoli, dove la guerra di camorra non ha fine e per le strade si continua a morire. Oppure si può essere uccisi per la propria onestà, come racconta Angela Landa figlia di Michele, un normale cittadino assassinato nel 2006 a Mondragone la cui storia toccante è raccontata nell’ultimo libro di Giulio Cavalli Mio padre in una scatola da scarpe (Rizzoli). E ancora: due questioni “calde”: il gasdotto che approda in Puglia e che vede il presidente della regione Emiliano schierato contro il premier Renzi e il Jobs act, i cui ultimi decreti attuativi stanno facendo montare la protesta. Negli Esteri un ampio sfoglio sulla Grecia all’indomani della vittoria di Syrza e di Tsipras, il Libano e i suoi due milioni di profughi siriani e palestinesi. E il business dei passaporti siriani.

In Cultura la scrittrice iraniana Azar Nafisi lancia il suo appello: Non rinunciate all’immaginazione, l’elemento che rende viva una società. Mentre dal libro in uscita di Federico Tulli Figli rubati (L’asino d’oro) giunge la denuncia di segreti ancora conservati negli archivi vaticani sull’operazione Condor (bimbi rubati  e dati in adozione) nell’Argentina dei generali. Per la scienza Pietro Greco fa il punto sulle scoperte sui geni sardi e infine, Monica Guerritore si racconta a 360 gradi, dall’ultimo film alla lotta contro il tumore.

Buona lettura.

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Burkina Faso, terra degli uomini integri e dei colpi di Stato. Ecco i protagonisti

Il 22 settembre, nelle campagne di Lucera, nel foggiano, un bracciante è stato sparato alle spalle per aver rubato un melone. Lo avrete letto di sicuro, se non lo avete fatto potete trovarlo qui. Sare Mamoudou aveva 37 anni, ed era del Burkina Faso. Anche dal Burkina Faso si scappa, anche in Burkina si muore. Anche se ci piace associare quel Paese al Che Guevara africano, Thomas Sankara. In questi giorni il Paese è al centro di colpi di Stato e governi transitori, tensioni e accordi. L’ultimo di questa serie è di una settimana fa: il 17 settembre scorso il generale Gilbert Diendéré ha preso il controllo del Paese, instaurato un regime militare e arrestato il presidente in carica, Michel Kafando. Per una settimana. Adesso Michel Kafando è tornato al suo posto, riprendendo ufficialmente il potere il 23 settembre. È stato per ora raggiunto un accordo, Kafando lascerà che i soldati golpisti si ritirino nelle loro caserme pacificamente. Il governo rimarrà in carica fino alle prossime elezioni di ottobre. Intanto, per sorvegliare la situazione, a Ouagadougou arriveranno nelle prossime ore diversi leader africani, tra cui il presidente del confinante Niger, il socialdemocratico Mahamadou Issoufou. Thomas Sankara venne ucciso il 15 ottobre 1987. Ventotto anni dopo, sarà ancora nel mese di ottobre che si deciderà buona parte del destino burkinabé.

In Burkina si muore

L’aspettativa di vita è di poco inferiore ai 50 anni, per un’età media di 17 anni e ha un tasso di crescita del 2,7%. Il tasso di mortalità infantile è di 78,3 morti ogni mille nati vivi. I dati, relativi al 2013, sono dell’ong MammaAfrica e indicano un tasso di mortalità generale di 12,21 morti ogni mille abitanti.

UV_popgraph 2014.jpg(La popolazione del Burkina Faso per gruppi d’età- Cia Factbook)

 

La “terra degli uomini integri” e dei colpi di Stato

Il Burkina Faso è una Repubblica dal 5 agosto 1960, quando ottiene l’indipendenza dalla Francia. Fu Thomas Sankara a “battezzare” Burkina Faso il suo Paese, il 4 agosto 1984: “la terra degli uomini integri” nell’idioma locale. Dopo un ventennio di instabilità politica – e due colpi di Stato, nel 1966 e nel 1980 – arriva il turno del presidente rivoluzionario, Thomas Sankara. Il volto di Sankara – da tanti ricordato come il Che Guevara d’Africa – è associato al cambiamento radicale e alle tante riforme sociali. Ma dura fino al 1987, quando il presidente rivoluzionario viene ucciso per ordine del suo stesso vice: Blaise Compaoré, che – sostenuto da Francia e Stati Uniti – da quel giorno inaugura una stagione di governo lunga 27 anni, con quattro rielezioni. È quando il governo annuncia un referendum per cambiare la Costituzione – e permettere a Compaoré di candidarsi al quinto mandato – che scoppiano le proteste: sommosse, scontri con la polizia, l’assalto del Parlamento e di altri palazzi. Il presidente è costretto ad arrendersi, si dimette dieci giorni dopo quell’annuncio, il 31 ottobre 2014. Dichiara l’emergenza, scioglie il Parlamento e affida il controllo del Paese all’esercito. Capo di Stato a interim diventa il colonnello Yacouba Isaac Zida.

Kafando Michel Kafando

Il 17 novembre 2014 in Burkina torna un governo civile, con Michel Kafando. Classe 1942, nato a Ouagadougou, è sposato e ha un figlio. Ha un’intensa vita accademica: si laurea in Diritto pubblico all’Università di Bordeaux nel 1969, si specializza in studi politici a Parigi e in studi internazionali a Ginevra. Poi, riceve anche un incarico di dottorato in Scienze politiche alla Sorbona nel 1990. E un’importante vita diplomatica: dal 1998 al 2011 è rappresentante permanente (quindi ambasciatore) del Burkina Faso presso le Nazioni Unite. E presidente del Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2008 e 2009. Politicamente, è ministro degli Affari Esteri tra il 1982 e il 1983, quando il Burkina si chiamava ancora Repubblica dell’Alto Volta.

Gilbert-DiendéréGilbert Diendéré

Sospettato di essere a capo del commando che ha ucciso Thomas Sankara, il generale Gilbert Diendéré – 55 anni – è un fedelissimo di Blaise Compaoré. Da Capo di Stato Maggiore, nei 27 anni di regime di Compaoré, Diendéré è stato uno dei suoi principali alleati in campo militare. Definito dai più come figura oscura – non si conosce nemmeno il suo giorno di nascita, ma solo l’anno – con la caduta del dittatore, Diendéré viene licenziato. Torna alla ribalta il 16 settembre con il colpo di Stato e l’arresto del presidente Michel Kafando. Ma il suo potere dura solo una settimana. Finora.

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Tsipras chiede e ottiene le dimissioni del viceministro che evocò l’olocausto per i vertici europei

Facile non sarà facile, e l’avvio non lascia sperare bene. Neanche un giorno di vita e il governo Tsipras perde già un pezzo, anche se non per questioni legate all’attività del governo, agli equilibri tra maggioranza e opposizione. Neanche ha preso possesso del suo ufficio, Dimitris Kammenos, membro del partito nazionalista dei Greci Indipendenti Anel – alleato di Syriza già nel precedente governo – e si è dovuto dimettere. Lo stesso Tsipras aveva chiesto il passo indietro di Kammenos, indicato come sottosegretario alle infrastrutture, all’omonimo leader di Anel, Panos Kammenos, con cui negli ultimi giorni lo vedete abbracciato in tutte le foto del comizio post elezioni.
 

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«Finché non sarà fatta luce sui post antisemiti e razzisti, il viceministro deve contribuire al chiarimento con le sue dimissioni», ha risposto il leader dei nazionalisti, su twitter. A Dimitris Kammenos, infatti, viene recriminato di aver negli anni condiviso alcune teorie complottistiche sugli attentati dell’11 settembre, di aver definito il gay pride «patetico», ma soprattutto di aver paragonato la trattativa con Bruxelles e Berlino all’Olocausto. Dimitris Kammenos si è difeso dicendo di voler evocare un «olocausto economico», ha anche evocato un «attacco informatico» e ha poi però eliminato il suo account da Twitter.
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E se la sinistra cominciasse a Milano, ad esempio?

Quindi ieri Nicola Fratoianni, coordinatore di Sel, ha firmato i referendum promossi da Possibile, la formazione politica di Pippo Civati. Li ha firmati dopo avere detto che non lo avrebbe fatto e comunque l’ha fatto precisando che non è d’accordo sui tempi e i modi. Un capolavoro di equilibrismo. Intanto la strategia  di Sinistra Ecologia e Libertà continua ad essere una doccia scozzese per chi vorrebbe leggere o almeno riuscire ad immaginare il futuro del partito di Vendola e, più largamente, della sinistra.

Per ora la posizione (piuttosto contorta) è: siamo in opposizione contro questo PD a livello nazionale, ne contestiamo le scelte anche se un referendum oggi è fuori tempo perché troppo presto, a Milano e Cagliari andiamo con il PD perché si sta bene, Civati ci piace ma non ci piacciono i leader e per il futuro speriamo che il PD cambi perché così si possa tornare insieme. Un capolavoro, eh.

Così succede che il “processo di costruzione della sinistra” (uno dei mantra di SEL sin dalla sua fondazione) diventi stimolante come un appuntamento all’aperitivo di lunedì mattina: Landini, Civati, Fratoianni (con l’ombra di Vendola sulle spalle), Fassina e tutti gli altri si incontreranno ad ottobre, forse a novembre e chissà perché lì dovrebbe avvenire il miracolo che tutti d’improvviso scoprano di essere d’accordo su tutto. Eppure per SEL, soprattutto, forse sarebbe il caso davvero di prendere una posizione forte e sarebbe il momento migliore: chi voleva stare con il PD ha fatto armi e bagagli e se n’è già andato e la spinta propulsiva di Nichi Vendola è al capolinea.

Quindi? Quindi si potrebbe fare un gioco, un esempio semplice per diradare le nebbia. Civati è, su Milano, il nome a sinistra del PD che potrebbe riscuotere il più alto consenso e il Pd a Milano è ormai un grumo di potere che, da tempo, ha bisogno di sventolare “civismo” per risultare potabile. Quindi? Quindi non si capisce perché SEL debba legarsi mani e piedi nelle primarie del partito a cui si oppone a Roma (con tutto il rispetto per il candidato Majorino). Milano è la piazza giusta dove giocare fuori dai giochetti del PD: una coalizione (già scritta) tra SEL, Possibile, Fassiniani, Azione Civile, Rifondazione e tutto quello che ci volete mettere dentro che lasci il PD con il cerino in mano e si confronti con un test di portata nazionale. Fare politica facendo politica, insomma. Uscendo dalla polvere di risibili assemblee come spot di rinnovamento e mettendo alla prova un programma radicalmente nuovo. Il PD è andato a destra nonostante SEL prosciugandola. Il delitto perfetto. E forse anche Nichi ha le sue responsabilità.

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Taglio esami clinici: «Addio al rapporto medico-paziente»

 

Il rapporto tra medico e paziente è a rischio, perché diventerà sempre più “burocratico”. Su come procedere nelle diagnosi, infatti, in molti casi, deciderà un tabellario del Ministero e non l’occhio clinico del vostro dottore, che magari vi conosce da una vita. E se è vero che tanti esami clinici in Italia vengono prescritti un po’ troppo allegramente, è anche vero che con il nuovo decreto del ministro della salute Beatrice Lorenzin che taglia le prestazioni erogabili dallo Stato, potrebbero sorgere gravi problemi anche nella prevenzione di malattie. I medici di base, che rischiano una multa – anche se il ministro sdrammatizza – forse ci penseranno su due volte prima di “disobbedire” a quello che Massimo Cozza, segretario Fp Cgil definisce un vero e proprio «diktat». E mentre domani scadono i termini per gli aggiustamenti tecnici che i sindacati possono fare al decreto, l’Anaao, il maggior sindacato di medici dirigenti annuncia una mobilitazione che potrebbe sfociare nello sciopero, così come Fnomceo e anche Fp Cgil. Il 21 ottobre sono già convocati gli Stati generali con Ordine dei medici, sindacati e società scientifiche.

Denti, geni, dolori articolari e esami del sangue

Sono 208 le prestazioni sanitarie (qui l’elenco) considerate inappropriate salvo determinate condizioni descritte nero su bianco nelle tabelle ministeriali. Già da mesi negli ambulatori dei medici di base circolavano voci preoccupate. Da due giorni sono una realtà. Odontoiatria, genetica, esami di laboratorio, tecniche diagnostiche: questi i settori della medicina a finire nel calderone del decreto che ha il parere positivo del Consiglio superiore della sanità. Attenzione dunque ai denti, ai dolori agli arti, al fastidiosissimo mal di schiena. Presto le cure o gli esami clinici – salvo le deroghe – saranno tutti a carico dei cittadini. Sarà determinante la “vulnerabilità sanitaria e sociale” per avere gratis certe cure odontoiatriche come l’applicazione di corona e perno, anche se “vulnerabilità sanitaria e sociale” non vengono specificate nei dettagli. Più difficili Tac e Rm: gratuiti solo dopo reperti positivi in esami come Rx e Rn e in caso di gravi patologie. Per stabilire se nel sangue c’è un eccesso di colesterolo, se non sussistono malattie, il servizio sanitario erogherà l’analisi dopo cinque anni dall’ultima effettuata. A essere più colpite tuttavia sono le diagnosi in campo genetico che in certi casi, come sostiene Massimo Cozza “sono diventate una moda”.

Un provvedimento per far cassa

Secondo il Ministero gli esami inutili costano 13 miliardi di euro. Secondo il segretario Cgil medici “il taglio delle prestazioni gratuite è inserito all’interno di una manovra di 2 miliardi, oltre a quelli in parte già ventilati da Renzi nella prossima legge di stabilità”.  Il decreto tuttavia, deve passare al vaglio della Conferenza Stato-Regioni, dopodiché l’opera non sarà finita perché occorrerà ridefinire anche i Lea (i livelli essenziali di assistenza) visto che quelli attuali si basano su prestazioni superate dal provvedimento del governo. Insomma, ci sarà un bel lavoro da fare per mettere d’accordo tutte le Regioni.

Cozza, Cgil: “Obiettivo giusto, metodo sbagliato”

Tagliare le diagnosi inappropriate, in surplus, sostiene Cozza, “è giusto perché si evitano danni economici per i cittadini e anche attese più lunghe, per esempio, per avere una Tac. Ma detto questo, il metodo è sbagliato”. Il segretario Fp Cgil spiega perché. “Quei criteri specifici nell’erogabilità delle 208 prestazioni non tengono conto assolutamente della storia clinica del paziente, di quello che solo il medico sa, e che riguarda la complessità degli aspetti sanitari di un malato”. Il rischio qual è? Un medico può anche “esulare”, cioè bypassare le regole stabilite dal decreto, ma poi a chi deve giustificare il proprio lavoro? Chi è che giudica? “Il medico rischia di essere sanzionato economicamente, che è uno sbaglio, perché si è visto che in alcune regioni si è fatto un lavoro sull’appropriatezza degli esami senza sbandierare sanzioni economiche”, continua Cozza. Invece di promuovere il settore dei medici di base, magari con una formazione più accurata, mettendoli in rapporto stretto con le Asl, si preferisce la scorciatoia dei tagli dall’alto. Creando anche dei conflitti. “Se un medico privato, uno specialista, sostiene che è necessaria una Tac e il medico di base, dice di no, secondo i requisiti del decreto, cosa fa il cittadino? Se ha i soldi, l’esame se lo paga da solo, se non ce l’ha, non lo fa”. Ma anche qui, il dilemma: chi decide di fronte a un malato le diagnosi giuste? “Il sistema migliore sarebbe intervenire con linee guida in sintonia con le Asl, un percorso condiviso, senza una pistola puntata alla testa”, conclude Massimo Cozza.

Intanto la palla passerà alle Regioni. Viste le condizioni di disuguaglianza in cui si trovano già i servizi sanitari da Nord a Sud della penisola, non è difficile immaginare che anche questo problema delle prestazioni “inappropriate” creerà un ulteriore trambusto.

 

Le “morbide” sculture di Henry Moore

Curve morbide e femminili, figure di donna che diventano quasi astratte. Nonostante il duro marmo da cui sono ricavate, le sculture di Henry Moore sembrano levitare, sollevandosi da terra con un movimento leggero. La retrospettiva appena aperta alle Terme di Diocleziano ne sottolinea la forma classica e monumentale mettendole in rapporto con l’antica costruzione romana, inondata di luce settembrina. Qui sono raccolte sculture, bozzetti, acquerelli, stampe dello scultore inglese compresi i suggestivi schizzi, di grande immediatezza e forza emotiva che Moore fece dei rifugiati londinesi che cercavano riparo nella metropolitana durante gli attacchi aerei. Suddivisa in cinque aree tematiche, la retrospettiva ripercorre tutta la carriera dello scultore inglese, dalle prime opere ispirate all’arte pre colombiana e cosiddetta “primitiva” a sculture caratterizzate da una crescente astrazione della figura.

Relief Head N05713©Tate_ London 2015

Three Points

Determinante nello sviluppo della poetica di Moore fu il lungo viaggio che fece a Firenze e in Toscana, che lo portò ad innamorarsi di Giotto e a studiare i grandi scultori del Rinascimento da Donatello a Michelangelo: sulle sue orme Moore andò sulle Apuane per scegliere i blocchi intonsi di marmo da scolpire. Ma non mancano in mostra anche opere più d’ispirazione romanica che trasformano i rigidi complessi scultori antichi in sognanti immagini di affetto e protezione e poi “icone” che sono diventate la cifra artistica e più riconoscibile di Moore come la “figura distesa”. Gran parte delle sessantaquattro opere esposte a Roma provengono dalla Tate, il museo londinese che possiede una delle collezioni più ricche e rappresentative al mondo di opere di Moore. A queste si aggiungono alcuni prestiti della Galleria Nazionale d’Arte Moderna (dove si tenne la prima importante retrospettiva di Moore negli anni Sessanta )e della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia.

Working Model for Knife Edge Two Piece

Two Piece Reclining Figure No.9

Mother and Child

La mostra Henry Moore è curata da Chris Stephens e Davide Colombo e promossa da Soprintendenza speciale per il Colosseo, Museo nazionale romano e area archeologica di Roma, aperta al pubblico da giovedì 24 settembre al 10 gennaio 2016, Terme di Diocleziano, Grandi Aule, viale Enrico De Nicola 78. Orari: dalle 9 alle 19.30, chiusa lunedì. Catalogo Electa. Info e visite guidate allo 06.39967700

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In Siria, con Europa e Usa immobili, vince Putin

Mentre molto lontano da Mosca i droni sorvolavano la terra di guerra e d’origine dei profughi in Europa, seduto su una poltrona dorata davanti un camino ornato di bianco, un mazzo di fiori e un tavolo di marmo, Vladimir Putin ha convinto Benjamin Netanyahu ad entrare nel “meccanismo di coordinamento militare per prevenire scontri” nei mortali giochi che continuano in Siria. Il nemico del mio nemico è mio amico. Ma d’ora in poi anche l’amico del mio nemico può essere mio amico. Il leader russo ha stretto patti con lo Tel Aviv rimanendo alleato dell’Iran di Rouhani, a sua volta legato agli hezbollah libanesi, entrambi nell’asse del male per Israele.

Mosca – Damasco, Mosca – Kiev. Vincere in Ucraina combattendo in Siria, distogliendo l’attenzione da un fronte all’altro, da uno slavo a uno mediorientale, da uno ucraino e congelato ad uno dove si scaldano le braci per l’incendio siriano. La Russia in Siria ha due capitali: una base di terra a Latakia e un orizzonte liquido e navale nel porto di Tartus, unica base russa nel Mediterraneo. Tra le navi anfibie mai abbandonate dall’inizio della guerra il Cremlino avrebbe spedito negli ultimi giorni quasi duemila militari specialisti.

Il ponte aereo è invece a Latakia, fortino alawita di Assad, ora blindata da 28 caccia slavi e mezzi corazzati per attacchi di terra. Non è la prima volta che le uniformi russe aiutano le divise siriane, ma è la prima volta che Mosca lo ammette. Non ha fatto lo stesso per il Donbas. In Ucraina la guerra riprenderà a primavera, i russi non avanzano, ma non indietreggiano dalle trincee.

Mosca sotto tiro nel deserto: il ministero degli Esteri di Putin ha confermato un attacco all’ambasciata russa a Damasco, pretendendo la solidarietà della comunità internazionale. I ribelli addestrati dagli americani contro l’IS sono invece stati sconfitti sonoramente da Al Nusra. Lo ammette lo stesso Pentagono, immobile davanti all’ennesima mossa russa in Medio Oriente. Mosca muove pedine sullo scacchiere senza aspettare il turno di un avversario che non si sa più bene chi sia perché dall’altro lato del tavolo nessuno gioca. È il secondo scacchiere dove russi e americani si confrontano e il secondo dove l’amministrazione a stelle e strisce perde a tavolino abbandonando la partita senza giocare.

Due anni fa la minaccia di Obama fu letta ad alta voce a Washington. Era l’annuncio di una pianificazione d’attacco per la “linea rossa” superata da Assad dopo i bombardamenti chimici di civili innocenti. L’avvertimento americano fu ingoiato dopo qualche dichiarazione del leader russo e la linea sbiadì. Allora Obama diventò il presidente più riluttante che gli USA ricordassero. Nel 2013 a Putin toccò indossare la maschera dell’uomo di pace che aveva impedito la guerra. Quando l’aveva solo rimandata, dall’altro lato della barricata.

Chi sono i nuovi ministri del governo Tsipras

Eccola schierata, la nuova compagine di governo di Alexis Tspiras. Unica novità rispetto alla precedente formazione, tre ministeri in più. Resta invece la coalizione, obbligata possiamo dire, con i Greci Indipendenti (Anel). Rimane una squadra di color rosso Syriza e tutta al maschile (se si eccettua il portavoce del governo con incarico di viceministro, Olga Yerovasili). Unica incognita, sarà la compagine di estrema sinistra uscita da Syriza e che strada politica deciderà di attuare nei confronti delle decisioni di un esecutivo con cui sono in aperto disaccordo.

Proprio al “vecchio” Panos Kamménos (classe ’65 è in Parlamento dal 1993), il primo Ministro ha assegnato – o meglio, riconfermato – il ministero della Difesa. Un ruolo strategico, evidentemente funzionale frenare spinte e pretese dell’estrema destra in un settore fondamentale oggi come non mai, come quello della politiche di frontiera. Più di qualsiasi altra descrizione può una frase da lui stesso pronunciata in un’intervista al Guardian a gennaio di quest’anno: “l’Europa è governata da ‘tedeschi nazisti’. In compenso, se proprio vogliamo dire che Tsipras ha guadagnato da questa coalizione, a perderci è proprio l’Anel, che dal 4,75% dei voti e 13 seggi su 300 delle scorse elezioni di gennaio, ha perso tre seggi e oltre un punto percentuale (3,69 %) sfiorando la soglia di sbarramento. Oltre alla carica dei 10 di Anel, Syriza invece può contare su 145 deputati su 300, nell’emiciclo (35,47 %). Una maggioranza abbastanza risicata, dunque.

Altre due importanti riconferme nell’esecutivo: Euclides Tsakalotos come ministro delle Finanze e Ioannis Mouzalas all’Immigrazione. Entrambi in posizioni cruciali, e soprattutto reduci da ampie trattative condotte negli ultimi mesi con l’Europa rispettivamente su debito ed emergenza migratoria. Mouzalas si è inoltre distinto nelle ultime settimane di governo tecnico, per il miglioramento delle strutture sovraffollate per i rifugiati sulle isole di Lesbo e Kos.

La grande sfida sarà ora (e nuovamente) l’alleggerimento del debito e il ripristino non solo della stabilità degli istituti di credito, ma anche il delicato equilibrio fra i tagli e gli aiuti necessari a far ripartire la Grecia.

«È una grande vittoria del nostro popolo, che ci ha dato mandato di lottare dentro e fuori il nostro Paese. Continueremo la lotta cominciata sette mesi fa» ha dichiarato Alexis Tsipras. E ha concluso, sigillando questa volta il proprio mandato: «Il popolo greco è sinonimo di lotta e dignità. Questo è un mandato per i prossimi quattro anni».

 

 La squadra di Tsipras

squadra greca-01

Primo ministro: Alexis Tsipras (Syriza)
Vice primo ministro: Yannis Dragasakis (Syriza)
Ministro dell’Interno: Panayotis Kouroumplis (Syriza)
Ministro dell’Economia: Giorgos Stathakis (Syriza)
Ministro delle Finanze: Euclides Tsakalotos (Syriza)
Ministro della Difesa: Panos Kammenos, l’unico ministero in mano dei Greci indipendenti (Anel) in coalizione
Ministro dell’Istruzione: Nikos Filis (Syriza)
Ministro degli Esteri: Nikos Kotsias (Syriza)
Ministro della Giustizia: Nikos Paraskevopoulos (Syriza)
Ministro del Lavoro: Georgios Katrougalos (Syriza)
Ministro della Salute: Andreas Xanthos (Syriza)
Ministro della Cultura e dello Sport: Aristides Baltas (Syriza)
Ministro dell’Ambiente e dell’Energia: Panos Skourletis (Syriza)
Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti: Christos Spirtsis(Syriza)
Ministro della Marina mercantile: Thodoris Dritas (Syriza)
Ministro dell’Agricoltura: Evangelos Apostolou (Syriza)
Ministri di Stato (senza portafoglio): Nikos Pappas (Syriza) e Alekos Flaburaris (Syriza)
Portavoce del governo con incarico di viceministra: Olga Yerovasili.

Come nel primo governo a guida Syriza non ci sono donne fra i ministri.

 

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Abortire a Roma? Dimenticatevelo! Una docu-inchiesta sulla legge 194

Docu-inchiesta su legge 194 a Roma

«La legge 194 è una legge che ha quasi 40 anni ed è figlia di lotte e rivendicazioni, ci sembrava giusto raccontare cosa stesse accadendo». Dicono Claudia Torrisi, Filippo Poltronieri, Federica Delogu e Sebastian Viskanic, ex studenti della Fondazione Lelio Basso e autori dell’inchiesta-documentario, che Giovedi 24 settembre verrà trasmessa alle 21.20 su Rainews 24. La loro inchiesta Obiezione Vostro Onore, finalista della quarta edizione del Premio Roberto Morrione, si concentra sul tema del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza nella città di Roma, verificando quanto la legge 194 trova applicazione negli ospedali della capitale.

A Roma, secondo i dati raccolti dagli autori del documentario, 9 ginecologi su 10 sono obiettori di coscienza. Nonostante, quindi, la legge 194 sia applicata in Italia dal 1978, ancora non è facile per le donne che decidono di intraprendere un aborto portarlo a termine nelle strutture pubbliche ospedaliere, tenute per legge a offrire il servizio. Questo perché al diritto della donna di decidere del proprio corpo si sovrappone un altro diritto: quello del medico a esercitare l’obiezione di coscienza, non effettuando interruzioni di gravidanza. La facilità con cui l’obiezione di coscienza può essere posta, compilando un semplice modulo e revocata, senza dover addurre motivazioni, determina un dilagarsi del suo utilizzo.

Percentuale obiettori di coscienza a Roma

Dall’inchiesta emerge che solo nella città di Roma ci sono almeno tre ospedali che non garantiscono il diritto ad abortire: il Centro per la donna Sant’Anna, l’Ospedale Sant’Andrea e il Policlinico Tor Vergata, due dei quali sono policlinici universitari, dove vengono formati i nuovi ginecologi. Anche negli ospedali in cui si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza i problemi a cui vanno incontro le donne sono molti: «Si ha la sensazione di un percorso a ostacoli, ci si sente invisibili e abbandonate in una scelta che richiederebbe agevolazioni e supporto» racconta Valentina, che alle 5 di mattina è insieme ad almeno altre dieci donne, in attesa del suo turno in un sottoscala dell’ospedale San Camillo, davanti ad una porta di vetro sbarrata.
C’è però un altro tipo di interruzione di gravidanza, di cui si parla pochissimo, ed è effettuata dopo il primo trimestre: l’aborto terapeutico. Questo è effettuato per legge dopo il primo trimestre, nei casi di pericolo per la vita della donna o se gli esami a cui si è sottoposta hanno evidenziato gravi malformazioni del feto. Se la donna sceglie di interrompere una gravidanza dopo il terzo mese si rende necessario ricoverarla per qualche giorno e indurre il parto. Per questo i medici non obiettori devono organizzare i loro turni per seguire la paziente, ma spesso negli ospedali i non obiettori sono così pochi che le donne devono attendere per ore, in locali non idonei. Roma è solo l’esempio di come questa legge, in tutta Italia, e in particolare al sud, fatica ancora a trovare una vera applicazione.
Obiezione vostro onore è un’inchiesta che denuncia e porta davanti agli occhi di tutti una cruda verità: la garanzia del diritto all’aborto non è ancora una realtà consolidata in Italia e per le donne non è facile usufruire di un diritto che dovrebbe essere già ampiamente affermato.

 

Via al piano Juncker: 120mila quote e sanzione di 6.500 euro per ogni rifiuto. Chi e quanti coinvolge

«120 mila rifugiati? Siamo ridicoli data la grandezza del problema». Alla fine il piano di Jean Claude Juncker – che ha pronunciato queste stanche parole, ieri all’ennesimo vertice straordinario – è passato a colpi di maggioranza. Da ottobre tutti i Paesi membri dell’Unione si divideranno 120mila profughi, così ha deciso il Consiglio europeo. Tutti, anche chi ha votato contro o chi si è astenuto. Il fronte del No – che coincide con quello dell’Est – perde due pezzi ma non si dissolve: la Finlandia alla fine ha deciso di astenersi, mentre la Polonia (dapprima contraria) ha votato a favore. Fermi oppositori restano in quattro: Repubblica Ceca, Ungheria, Slovacchia e Romania.

profughi

Da dove saranno prelevati

I 120.000 in questo momento si trovano in Italia (15.600), Grecia (50.400) e Ungheria (54.000). In attesa della riunione del primo ottobre, che dovrebbe essere – finalmente – una riunione operativa, si possono contare 66mila richiedenti asilo attualmente tra Italia e Grecia, principali luoghi di arrivi via mare. Altri 54mila, poi, si trovano in Ungheria, meta principale della rotta balcanica. Ma Budapest continua a dire no, e pur di opporsi alle quote, si terrà in casa. Nei prossimi Consigli straordinari si deciderà se “prelevare” i 54mila sempre da Italia e Grecia oppure da altri Paesi in difficoltà, come Slovenia, Croazia e Austria.

 

Chi entrerà nelle quote

I migranti che avranno il “diritto di essere distribuiti” saranno persone che hanno diritto alla protezione internazionale, quindi rifugiati o comunque richiedenti asilo. Val la pena ribadire, perciò, che non riguarderà tutti gli sbarchi e gli ingressi, ma solo chi – secondo gli istruttori o le commissioni di valutazione – ne avrà i requisiti necessari. Riguarderà solo chi è sbarcato nei due Paesi fra il 15 agosto e il 16 settembre. In pratica, secondo l’accordo, dopo l’identificazione iniziale dei richiedenti asilo in Grecia e Italia, all’interno dei centri dedicati (gli hotspot). Proprio quei centri che il Viminale tardava ad aprire in attesa che le quote divenissero concrete. Adesso è così? Intanto a Lampedusa è partito il primo hot spot sperimentale, lo ha ammesso il vice capo dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno, Angelo Malandrino.

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Le sanzioni

Per chi rifiuta senza comprovate ragioni, invece, si prevede una sanzione di 6.500 euro per ogni richiedente asilo rifiutato. La proposta originaria di Bruxelles prevedeva che una nazione potesse esimersi in cambio di una multa pari allo 0,002 del Pil, ma l’idea non piaceva nemmeno a Germania e a Italia e Francia. Nessuna sanzione per gli Stati che dichiareranno (e dimostreranno) di poter accogliere un numero inferiore a quello fissato dall’Ue. L’eventuale riduzione, però, potrà essere al massimo del 30% e potrà durare massimo un anno. Adesso tocca aspettare il primo ottobre – quando a Bruxelles si terrà la riunione dei funzionari di collegamento di ogni Stato membro e dei rappresentanti della Commissione e dell’Ufficio Ue per l’asilo (Easo) – per dare attuazione concreta alla relocation dei primi 40mila rifugiati nei diversi Paesi.

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