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Grecia, ora Tsipras è più forte. Ma per fare cosa?

«Chi di scissione ferisce, di elezione perisce e, per usare un tecnicismo, anche ’sto Varoufakis ce lo siamo tolto». Ha detto così Matteo Renzi alla direzione del Pd, commentando l’esito delle elezioni greche. Questa settimana avrei passato il giro volentieri. Ho bisogno di qualche tempo per provare a dirvi meglio della Grecia. Il dato di fatto lo avete letto e straletto. Le elezioni in Grecia le hanno “rivinte” Syriza e Tsipras. L’ex primo ministro, nuovo primo ministro, ha giurato e fatto il suo governo. Fotocopia del vec- chio. Ad eccezione di qualche fuoriuscito. E ai fuoriusciti “perdenti” – ovviamente – va il pensiero del nostro primo ministro. Gente come Lafazanis (ex ministro dell’Energia), Konstantopoulou (ex presidente della Camera) e anche Varoufakis (ex ministro delle Finanze), quello che “ce lo siamo tolto”, sono andati malissimo. Unione popolare non ha superato lo sbarramento del 3% e non avrà nessuna rappresentanza in Parlamento. E Tsipras ha rivinto. Tsipras è bravo perché vince. Gli altri non sono bravi perché perdono. O perderanno (come Corbyn). E invece di ferire, periscono. Ecco il Renzi pensiero.

Purtroppo non ho la “fortuna” di aderire a tanta semplicità agonistica, continuo a ripetere a mia figlia che l’importante è partecipare, anche divertendosi, insieme agli altri. Anzi che l’importante è essere bravi, che poi si vinca o si perda. Che vincere è bello solo se la vittoria è il risultato di un sacco di cose insieme: coraggio, onestà, amore, interesse per gli altri, concentrazione, empatia, generosità, felicità, divertimento, impegno, intelligenza. Un mix raro ma immensamente appagante.

Una cosa che invece non ho mai detto a Sofia – e che temo non le dirò in futuro – è questa storia del «chi di scissione ferisce, di elezione perisce». E non riuscirò a farlo perché contesto il punto di partenza. Chi si separa non lo fa per ferire (rarissime le ecce- zioni?), di solito lo fa perché si sente ferito (tradito nelle intenzioni) o anche, nella migliore delle ipotesi, perché si scopre diverso e non più compatibile con quel pezzo di vita e di esperienza politica (nel nostro caso). E lo fa – molto spesso – consapevole di perdere molto, non tutto, ma molto. Il partito, la maggioranza, la gestione di un qualche potere, la visibilità. Lo fa per ferire? E deve perire per questo?

Sono anni che ripeto a Sofia che “ogni separazione è una nascita”.  Il problema qui – ovviamente – è la nascita. Fare una nascita dopo essersi separati senza voler ferire, né perire.

E per tornare alla Grecia, voglio dirvi che mi ci vorrà un po’ di tempo per capire. Uno dei miei pochi pensieri è andato all’astensionismo. Ne scriviamo da anni, gridiamo di una democrazia malata, di mezzo Paese “neet” che non cerca neanche più la politica. Che sta chiuso in casa. Ecco, è accaduto anche in Grecia. Tsipras ha rivinto con il 35% dei voti della metà dei greci. Poco meno del Pd alle scorse Europee. Di fatto, metà dei greci non ci ha creduto. Si prenderà del tempo, come me, per capire. Alcune cose sono scontate, lo so. Meglio Tsipras di Meimarakis, e non c’è dubbio. Meglio Syriza e Tsipras, tassello del puzzle per “l’altra Europa” che aspetta il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda, e non c’è dubbio. La Grecia non è l’Italia e non c’è dubbio. Syriza non è il Pd e Tsipras non è Renzi, e non c’è alcun dubbio.

 Per esempio, Tsipras non avrebbe mai fatto il Jobs act, ne sono certa. Ma poi qualche dubbio mi viene lo stesso. E mi prendo il tempo per vedere se è solo pessimismo il mio oppure qualcosa scricchiola e i più non lo vedono. Perché Tsipras ora è più forte, lo scrivono tutti. Non si deve guardare le spalle. È vero. Ma per fare cosa? Si può stare a quei patti del memorandum europeo da sinistra? O quei patti non possono corrispondere a nessuna sinistra che lo sia davvero? Io me lo continuo a chiedere. Se lo chiede anche Luca Sappino su questo numero e lo ha chiesto ad alcuni economisti.

Tornerà al tavolo di Bruxelles più forte? Capisco chi gioisce perché vede il futuro in attesa o perché ritiene sia una “rivincita” su chi quel governo di sinistra lo voleva schiacciare, come non riesco più a bia- simare chi scrive che, a questo punto, Tsipras è un buon alleato per la Merkel, perché fa i compiti. Come Renzi, che finalmente lo elogia. Grandi complimenti e compiti a casa assieme. Il ribelle è stato domato e poi incoronato, e i rivoltosi sono traditori, gufi perdenti. E Tsipras è più forte, mi ripetono. Sì, lo so, ma per fare cosa? Perché il problema rimane “la nascita”. Dalla separazione che non vuole ferire e non vuole perire, deve venire fuori una cosa nuova.

 

 

 

 

 

 

Jobs act. Tutele crescenti, proteste pure

«Il centro del puzzle» delle sue riforme, lo ha definito a gennaio 2014 Matteo Renzi. Non era ancora premier ma aveva già bene in mente come ridisegnare il mondo del lavoro. Il Jobs act ora è realtà. Una rivoluzione per il presidente, un ritorno all’Italia pre-anni 70 per i sindacati. L’iter legislativo è completato e c’è da concordare con il premier sulla definizione di puzzle. Non è affatto facile mettere assieme i numerosi tasselli che compongono la riforma del lavoro. Dalla legge delega del 2014 (la n. 183) in poi, Renzi e il suo ministro del Lavoro Giuliano Poletti hanno infilato una lunga serie di decreti attuativi: contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti e nuovi ammortizzatori sociali (a marzo), riordino dei contratti di lavoro, disciplina delle mansioni e conciliazione tra tempi di vita e di lavoro (a giugno). Gli ultimi quattro decreti attuativi sono arrivati il 4 settembre. Al loro interno l’amara ciliegina sulla torta: la tanto dibattuta introduzione dei controlli a distanza 2.0, ovvero come “seguire” il lavoratore attraverso device di ogni tipo.

Referendum e contratto

A niente sono serviti due scioperi generali e centinaia di migliaia di persone in piazza: Renzi ha portato a termine il suo disegno. Non vuole però sentir parlare di sconfitta la Fiom: «Il governo crede di aver chiuso il cerchio, ma la partita è ancora aperta», è sicuro Michele De Palma di Fiom Cgil. Il fronte anti-Jobs act, in queste ore, prova a organizzarsi e la Cgil pensa a un referendum abrogativo della (ormai) nuova legge. In verità, per un referendum abrogativo del Jobs act sta già raccogliendo le firme Possibile: quello sul lavoro è uno degli otto quesiti referendari che il movimento politico di Pippo Civati sta promuovendo, fino al 30 settembre. Ma questa iniziativa referendaria non ha visto convergere il sindacato: «Era necessario un confronto generale, che non c’è stato», taglia corto De Palma.

«Farlo con la Cgil significa avere un’organizzazione di alcuni milioni di iscritti, in grado quindi di fare una battaglia capillare. Non è una questione di bandiera, ma del tutto pratica». Polemiche a parte, nel frattempo il sindacato non è fermo: «Abbiamo sempre utilizzato la contrattazione per fare applicare le leggi. Ma quando si fanno delle leggi contro il lavoro è il caso di fare esattamente il contrario: contrattare per “non” applicarla. E lo stiamo già facendo». L’Emilia Romagna guida la mobilitazione, con la Fiom che ha inviato migliaia di lettere di diffida ad utilizzare il Jobs act per ridurre i diritti. «È evidente che una legge di carattere nazionale si smantella solo attraverso un’iniziativa nazionale come il referendum abrogativo», spiega Bruno Papignani segretario generale della Fiom Emilia Romagna. «Ma intanto abbiamo scritto alle aziende non solo per diffidarle, ma anche per chiedere di discutere con loro di demansionamento, i controlli a distanza, i licenziamenti individuali e collettivi. Altrimenti saranno esposti al conflitto». Ogni imprenditore di ognuna delle 11 province della regione, si è visto recapitare in azienda una lettera che lo invita a non applicare le nuove norme del Jobs act. Un fiume di missive, solo nel Modenese ne sono state spedite più di 900. Le prime risposte arrivano e, parafrasando Papignani, «sono molto piccate».

L’ora del grande fratello

Il Jobs act non cambia solo la vita di chi è fuori o sull’uscio del mondo del lavoro, ma pure di chi è già dentro. Il punto forse più controverso della riforma è l’introduzione dei controlli a distanza: l’articolo 23 del decreto legislativo approvato il 4 settembre concede all’azienda la possibilità di effettuare controlli a distanza sui propri dipendenti attraverso dispositivi tecnologici come pc, tablet, telefoni aziendali o altri strumenti, anche senza l’autorizzazione del ministero e senza l’obbligo di stipulare accordi sindacali preventivi. Per l’installazione di impianti audio e video, invece, sarà necessario il via libera del sindacato. A che pro controllare i lavoratori? Per verificarne gli accessi e le presenze (si pensi ai badge), prevede la legge, e i dati così acquisiti potranno essere «utilizzati ad ogni fine connesso al rapporto di lavoro, purché sia data al lavoratore adeguata informazione circa le modalità d’uso degli strumenti e l’effettuazione dei controlli». Non c’è da temere, si difende il governo, perché sarà fatto in maniera «rispettosa della privacy». Ma proprio dal presidente dell’Authority per la tutela die dati personali è arrivata la richiesta di «fare chiarezza». Antonello Soro – che sollecitato da Left non ha ritenuto di dover aggiungere altro -, in una lunga lettera pubblicata su Huffington Post l’8 settembre, ha spiegato: «Una così rilevante estensione delle finalità per le quali utilizzare i dati dei lavoratori è un dato sul quale ci siamo sentiti in dovere di far riflettere le Camere e il governo. Vedremo quanto il governo ascolterà queste nostre riflessioni». Anche il Consiglio d’Europa, peraltro, viaggia in direzione contraria a quella del governo: con una Raccomandazione del primo aprile, infatti, ha auspicato la minimizzazione dei controlli difensivi o comunque rivolti agli strumenti elettronici. «In Italia invece si pensa che per rendere più produttivi ed efficienti le proprie aziende bisogna minacciare i lavoratori, togliendo l’articolo 18 e sorvegliandoli impunemente», aggiunge De Palma della Fiom.

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Left n. 37
Se questo è un uomo.
Bianca, cristiana e autoritaria. Ecco come il premier ungherese Viktor Orbàn vuole l’Europa.

Qui sullo sfogliatore online

 

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La selva dei dati

Ma il gioco vale la candela? La candela, in questo caso, è la crescita occupazionale, il punto di forza del Jobs act secondo il governo. Nel primo semestre del 2015 il numero di persone che in Italia lavorano è salito di 180mila unità. Le nuove assunzioni a tempo indeterminato nel settore privato – secondo Istat – sono cresciute del 36% rispetto all’anno precedente. E le trasformazioni a tempo indeterminato di rapporti di lavoro a termine hanno registrato un +30,6%. Il governo esulta, la maggioranza esulta, il mondo dell’impresa esulta. Esultano meno i lavoratori. Perché i numeri vanno pure interpretati: è “a tempo indeterminato” un contratto di lavoro che contempla una così estesa possibilità di ricorrere al licenziamento (vedi rottamazione dell’articolo 18)? E ancora: quanti realmente vengono assunti e a quanti, invece, viene semplicemente modificato il contratto? Qui, la selva dei numeri e delle percentuali si infittisce.

Ma il sindacato, in particolare la Fiom Cgil, ci vede benissimo: quei numeri tengono dentro anche chi un contratto lo aveva già, è stato licenziato e poi riassunto. «La legge avrebbe dovuto prevedere che operazioni di questo tipo non si potessero fare, invece si fanno eccome», dice Michele De Palma. «Proprio ieri ho conosciuto due impiegati, uno metalmeccanico e l’altro in una grande catena distributiva. A entrambi i loro imprenditori si sono presentati e hanno detto: “Vi dovete dimettere tutti” e sono stati riassunti con il Jobs act». L’affare prevede pure generosi incentivi economici concessi dal governo alle imprese (con la legge di Stabilità): uno sgravio sui contributi fino a 8mila euro ogni 12 mesi, per tre anni e per ogni lavoratore reclutato. «Di fatto, con le nostre tasse, paghiamo un’impresa per poter licenziare un lavoratore e riassumerlo con nuovi contratti e diritti minori. Così si riparte da zero dal punto di vista delle malattie, dell’anzianità, eccetera». Sotto questa luce, persino un tassello che appariva positivo, come quello relativo alle dimissioni in bianco assume toni diversi. Con il Jobs act le dimissioni vanno presentate per via telematica direttamente al ministero del Lavoro, in modo superare il meccanismo delle lettere di dimissioni firmate in bianco, a lungo tanto illegale quanto diffuso. «Sono sempre state una pratica barbarica, siamo tutti d’accordo. Però contestualmente è stata reintrodotta la libertà per le imprese di poter licenziare tutti» dice De Palma. «Non succede mai che uno venga licenziato per discriminazione, quale imprenditore è così idiota da farlo? Si viene licenziati per motivazioni economiche, sempre».

 

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Xi Jinping firma accordi con l’hi-tech americano e fa pace con Obama sugli attacchi informatici

«E’ un vero piacere vedere insieme i leader delle aziende di Internet della Cina e degli Stati Uniti. Vedo molti volti familiari tra di voi, e tutti voi qui oggi siete dei pesi massimi che hanno guidato la rivoluzione tecnologica e i cambiamenti industriali nel settore dell’informazione. Le vostre storie di successo sono state fonte d’ispirazione per molti, in particolare per i giovani». Lo ha detto il presidente cinese Xi Jinping a Seattle dove, in occasione dell’ottava edizione dello US-China Internet Industry Forum, ha partecipato a un incontro con alcuni dei più importanti Ceo della comunità imprenditoriale e finanziaria americana della Silicon Valley: il CEO di Apple, Tim Cook, il numero uno di Amazon, Jeff Bezos, e il miliardario Warren Buffet.

Chinese President Xi Jinping Visits Washington State

Xi Jinping ha poi incontrato altri esponenti delle aziende della Silicon Valley in un meeting pubblico presso la sede di Microsoft a Redmond, Washington. Il leader cinese ha così potuto parlare direttamente con Satya Nadella, amministratore delegato di Microsoft. Grazie all’accordo stipulato con Baidu, il potentissimo motore di ricerca cinese con oltre 600 milioni di utenti attivi, Microsoft punta ad espandere Windows 10 nel paese. I suoi sistemi operativi, infatti, sono molto popolari in Cina, ma il divieto del governo cinese in materia di appalti di Windows 8 provocava enormi perdite alla società americana. In base all’accordo siglato, Baidu.com sarà la homepage e il motore di ricerca predefinito del browser Microsoft Edge nel mercato cinese. Microsoft ha inoltre confermato che sono 10 milioni gli utenti cinesi che hanno scelto di aggiornare i propri PC a Windows 10 ma la società di Redmond deve fronteggiare il fenomeno della pirateria e del largo utilizzo di versioni di Windows datate, a partire da XP.
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All’incontro hanno anche partecipato il fondatore di Alibaba, colosso dell’e-commerce cinese, Jack Ma, Bill Gates, che ha personalmente accompagnato il leader cinese a vedere i nuovi prodotti Microsoft e il CEO di Facebook Mark Zuckerberg, che in più occasioni ha dimostrato il suo interesse nei confronti della Cina, nonostante i social network siano illegali e sottoposti a censura. In Cina, Il Great Firewall del Ministero di pubblica sicurezza della Repubblica popolare cinese è un sistema di controllo meticoloso che permette di bloccare l’accesso ai siti vietati dal governo cinese e di monitorare il traffico dati in entrata e in uscita dalla Cina. Lo scudo informatico permette di bloccare i contenuti contrari alle leggi cinesi quali la pornografia o la propaganda occidentale.

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Fa sorridere quindi la notizia che la Cina abbia creato una pagina Facebook per raccontare la visita del presidente Xi Jinping negli Stati Uniti, nonostante il sito sia fuorilegge. Tra le fotografie sulla pagina di Facebook ci sono le immagini di Mr. Xi che riceve una maglia di calcio da una squadra del liceo a Tacoma, l’incontro con alcuni uomini d’affari americani e un video del presidente presso lo stabilimento di produzione Boeing fuori Seattle.

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Il presidente cinese ha poi affrontato i punti più problematici del suo rapporto con gli Usa: ha promesso di ridurre le restrizioni agli investimenti esteri, nonostante le recenti turbolenze della Borsa di Shanghai e di combattere i crimini informatici e il cyber-spionaggio. E poi, a sorpresa, ha annunciato assieme a Obama il raggiungimento di un accordo in materia. La promessa reciproca è che nessuno dei due paesi condurrà spionaggio economico nel cyberspazio. L’accordo, raggiunto durante i colloqui tra i presidenti è un importante passo avanti su una delle spine querelle più aspre tra i due giganti. Gli Stati Uniti hanno accusato la Cina di aver rubato centinaia di miliardi di dollari di proprietà intellettuale e segreti commerciali da società statunitensi ed erano pronti a imporre sanzioni economiche alle imprese cinesi che avessero beneficiato di quei furti. L’accordo lancia un dialogo congiunto per evitare nuovi attacchi e istituisce una linea rossa per discutere dei problemi che potrebbero sorgere in questo processo. L’ultimo richiamo nei confronti dei pirati informatici sponsorizzati dal governo cinese era venuto dal consigliere per la sicurezza nazionale americana Susan Rice e i giorni che hanno preceduto la visita del presidente sono stati segnati dalle polemiche a distanza sulla pirateria informatica ai danni degli Usa. In un’intervista al Wall Street Journal alla vigilia del viaggio in Usa, il presidente ha detto: «Il governo cinese non è coinvolto in attività di cyber-spionaggio e si impegna a combattere le attività dei pirati informatici. Il furto di dati informatici e gli attacchi contro enti governatici sono entrambi illegali: sono atti criminali e dovrebbero essere puniti in base alla legge e alle convenzioni internazionali».

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Saviano e il maledetto fact-checking anglosassone

Lo spunto è questo: su DailyBeast c’è un articolo che stronca l’ultimo lavoro di Roberto Saviano (ZeroZeroZero), accusandolo di aver attinto molto a fonti secondarie e di aver ripreso interi pezzi di articoli pubblicati su altri media e di averli riscritti. Secondo Michael Moynihan ZeroZeroZero è un «libro stupefacentemente disonesto» che è «pieno di reportage e scritti saccheggiati da giornalisti meno conosciuti, include interviste con ‘fonti’ che potrebbero non esistere e contiene numerosi casi di plagio evidente». Oggi su Repubblica, lo scrittore replica alle accuse con un lungo articolo. Non altrettanto lungo del pezzo di Daily Beast, che oltre a stroncare il libro, dedica un fiume di parole al fact checking, segnala le mail spedite a Saviano, cite le sue risposte.

La difesa di Saviano è in parte una spiegazione delle scopiazzature che Moynihan gli imputa e in parte una risposta generale:

Ora, dopo questa lunga ricostruzione, è chiaro o no perché mi si attacca? Perché sono un simbolo da distruggere. Perché le parole, quando restano relegate alla cronaca, sono invisibili: ma quando diventano letteratura, quelle stesse parole, quelle stesse storie, diventano visibili, eccome. Ma si può fare un processo a un genere letterario?

L’articolo, insomma, sarebbe mirato a distruggere Saviano. Oggi in rete impazza l’ironia, si moltiplicano gli attacchi (a DailyBeast e all’autore di Gomorra) e, naturalmente, in molti mostrano solidarietà a Saviano. Il cui metodo di scrivere i libri, raccontare le cose, il cui genere letterario è quello che l’articolo di DailyBeast mette, in fondo, in discussione. È giornalismo? No. È letteratura? Nemmeno. È la traduzione letteraria di fenomeni e cose accadute. Bene. Ma a noi non viene venduto così. In Italia la vulgata corrente è che quello di Saviano sia giornalismo. Oggi scopriamo che non lo è.

È servito il lavoro di fact checking accurato di un media americano. Un lavoro che qui da noi siamo abituati a fare solo in parte, in rare occasioni e per essere rassicurati dall’autore che propone un’inchiesta a una redazione che il suo lavoro sia a prova di querela, inchiesta giudiziaria. Nel mondo anglosassone non è così: l’articolo di Moynihan è lunghissimo, noioso e rigoroso (a prescindere da quel che si pensa sulle sue conclusioni e senza sapere se si tratti di un fact-checking rigoroso, quello dipende dal suo direttore). Il giornalista che scrive una recensione importante sul libro di un personaggio famoso ci lavora. E dopo che lo ha scritto, qualcuno fa il lavoro di verificare che le fonti, le mail, le citazioni siano corrette. Lo si fa anche per le battute dei politici, che poi non possono smentire: a volte vengono richiamati da un secondo giornalista. Anche se il pezzo è per il web e non dice nulla di clamoroso. È un metodo di lavoro.

A noi, qui, non piace lavorare così. A noi piacciono le firme, i personaggi, la lirica, gli eroi da esaltare e, poi, da massacrare. E quindi i personaggi come Saviano, la cui difesa dipinge con precisione questa distanza tra il giornalismo anglosassone e il nostro: io sono un eroe anti-mafia, se non lo fossi DailyBeast non mi attaccherebbe. Sbagliato, DailyBeast attacca perché non gli piace il lavoro e il metodo di Saviano. Una cosa legittima e il fatto che l’articolo di Moynihan stia facendo tanto rumore segnala un tratto caratteristico della nostra sfera pubblica. Non siamo un Paese dove si lavora assieme per costruire qualcosa, combattere un fenomeno, ma un Paese di eroi solitari, paladini senza macchia, martiri. Che si commuove, partecipa, fa il tifo, si indigna. E poi dimentica in fretta la ragione per cui si è esaltato o arrabbiato, mentre criminalità organizzata, politica corrotta, diseguaglianze o devastazione del territorio non passano.

PS polemiche come quella di oggi fanno comunque la fortuna dei media che li ospitano: oggi DailyBeast avrà un record di connessioni dall’Italia e Repubblica un bel po’ di click americani

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Trivelle, sei Regioni dicono sì. Il referendum si può fare

Abruzzo e Sardegna sono arrivate ieri dopo il sì di Marche, Molise, Puglia e Basilicata. Il referendum abrogativo contro le trivelle si farà. Sono sei le Regioni che hanno finora approvato in consiglio la delibera per promuovere la consultazione, una più del numero minimo previsto dalla Costituzione. E altre potrebbero aggiungersi fino a lunedì 29: in particolare, devono ancora esprimersi, Veneto, Campania, Liguria, Umbria e Calabria, dopo di che il 30 settembre i quesiti saranno depositati presso la Corte di Cassazione perché la consultazione si svolga il prossimo anno.

 

Il No dell’Assemblea siciliana
Annunciato ma non pervenuto, invece, il voto favorevole dell’assemblea regionale siciliana. Dopo l’adesione annunciata nel corso dell’assemblea alla Fiera dl Levante di Bari il 18 settembre, ieri l’Ars ha respinto sia il quesito riguardante l’articolo 38 dello Sblocca Italia del governo Renzi sia quello che abroga l’articolo 35 del decreto Sviluppo di Monti. Ago della bilancia, il voto contrario di quasi tutti i parlamentari siciliani del Pd (Crocetta compreso), che diversamente dai colleghi delle altre Regioni non hanno voluto esprimersi contro norme introdotte dai vertici nazionali del partito. Spaccando anche la maggioranza in Regione, dal momento che l’Udc, partito che sostiene Crocetta, si è espresso  a favore del referendum.

«Chi ha votato per prostrarsi al diktat del governo nazionale e agli interessi delle compagnie petrolifere dovrà risponderne ai cittadini» hanno commentato gli esponenti del Movimento 5 Stelle all’Ars, e anche il deputato siciliano di Sel Erasmo Palazzotto parla di un Parlamento e un governo regionale che lavorano «per la tutela dei grandi interessi economici e non per la difesa degli interessi dei siciliani».

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Il fronte del Sì
«Appartenere a un partito non significa accettare tutto quello che il vertice del partito ha deciso» ha detto invece Michele Emiliano dopo l’adesione del consiglio regionale pugliese. Lo scontro tra il governatore già segretario regionale del Pd e Matteo Renzi si è già manifestato su altri fronti, dalla localizzazione della Tap (la Trans European Pipeline che porta sulla spiaggia di Melendugno un enorme gasdotto) alla costruzione di nuovi inceneritori, ma come altri governatori Emiliano precisa che la questione riguarda l’esigenza di difendere le attribuzioni costituzionali delle Regioni, espropriate delle loro prerogative autorizzative dal decreto Sblocca Italia.

In Abruzzo il sì alle due delibere sui quesiti è giunto ieri con il voto unanime del consiglio, che ha rivendicato di aver promosso per primo la via referendaria per evitare le trivelle offshore del progetto Ombrina Mare. Il mese scorso il ministero dell’Ambiente e quello dei Beni culturali hanno firmato il decreto di compatibilità ambientale per la realizzazione della piattaforma petrolifera al largo della costa abruzzese. La Regione Abruzzo si è sempre detta contraria all’impianto estrattivo manifestando accanto a cittadini e comitati NoTriv. «Oggi abbiamo alzato il livello visto lo Sblocca Italia. Dopo questa delibera, ci metteremo al lavoro perché cresca la mobilitazione affinché il governo rifletta » ha dichiarato in aula il presidente Luciano D’Alfonso dopo il voto di ieri.

 

Cinquestelle contro Realacci
Mentre anche Secondo molti osservatori non è detto che dopo il deposito dei quesiti il referendum ci sarà: è più probabile che il governo – spinto dalla mobilitazione di Regioni e associazioni – decida di intervenire sulle norme in questione evitando così la consultazione. Un primo segnale è arrivato ieri dal presidente della commissione Ambiente della Camera Ermete Realacci. Su facebook il deputato Pd ha spiegato che con il prezzo del petrolio sotto i 50 euro non ha senso cercarlo nei nostri mari. «La cosa migliore è proporre una moratoria e mi auguro che il governo lo faccia». Ma la richiesta fatta al governo costa a Realacci l’accusa di essere salito sul carro dei NoTriv dopo aver visto montare la protesta. «Siamo d’accordo con la proposta di moratoria – dice il deputato M5S Massimo De Rosa – ma ricordiamo che il famigerato decreto Sblocca Italia, che ha portato a nuove concessioni avallate da una commissione Via illegittima, scaduta e con palesi conflitti di interesse, è stato scritto dalle lobby del petrolio e sostenuto strenuamente da questa maggioranza di cui Realacci fa parte».

La morte di Federico Aldrovandi 10 anni dopo

È il 25 settembre. Ma di 10 anni fa. Federico incontra la pattuglia “Alfa 3”. A bordo Enzo Pontani e Luca Pollastri. Ha passato la serata con gli amici al Link, centro sociale di Bologna. Una serata normale per un giovane studente diciottenne di Ferrara appena tornato in città, a due passi da casa.

Da questo momento, tutto cambia. Tutto si inverte. Lui verrà definito “invasato violento in evidente stato di agitazione” che sferra “colpi di karate” a caso, “senza motivo apparente”, tanto che i due poliziotti chiamano a rinforzo la pattuglia “Alfa due”, con altri due “eroi”, gli agenti Paolo Forlani e Monica Segatto. E lo Stato, rappresentato dalla divisa dei 4 poliziotti, diventerà il criminale.

Eppure a morire, è lui, Federico Aldrovandi, sul quale vengono addirittura spezzati due manganelli (generalmente in legno o in alluminio). Il “violento” morirà per “asfissia da posizione”, con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. E con le mani legate dietro alla schiena dalle manette. “Arresto cardio-respiratorio e trauma cranico facciale”.

Le 54 echimosi e lesioni renderanno l’ipotesi della morte per malore preannunciato dai poliziotti al 118 poco credibile. E apriranno la strada per l’ennesimo caso (per citarne alcuni fra tanti, si pensi all’uccisione di Stefano Cucchi o Riccardo Rasmann) di giustizia deviata e abuso di potere da parte di persone che non dovrebbero ricoprire non solo la divisa, ma nemmeno un posto una società che vuole chiamarsi civile.

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(Patrizia Moretti)

La famiglia viene avvisata solo 5 ore dopo la dichiarazione del decesso. La battaglia della mamma di Federico, Patrizia Moretti, inizierà ora per non fermarsi più.

Si apriranno due inchieste, che porteranno a due diversi processi. Il primo dei quali, per omicidio colposo, vedrà nel giugno del 2012 la condanna a 3 anni e 6 mesi di reclusione per i quattro uomini in quella divisa usurpata per “eccesso colposo in nell’uso legittimo delle armi“.

Nessuno dei quattro colpevoli della morte di Federico, Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, sconterà la propria pena, grazie all’indulto varato nel 2006. E tre di loro torneranno in servizio in veste amministrativa a gennaio 2014.

Il secondo processo, Aldrovandi bis, per diversi reati tra cui falso, omissione e mancata trasmissione di atti, si chiuderà nel marzo del 2010 con la condanna di altri tre poliziotti per depistaggio. Paolo Marino, dirigente dell’Upg all’epoca, a un anno di reclusione per omissione di atti d’ufficio, per aver indotto in errore il PM di turno, non facendola intervenire sul posto. Marcello Bulgarelli, responsabile della centrale operativa, a dieci mesi per omissione e favoreggiamento. Marco Pirani, ispettore di polizia giudiziaria, a otto mesi per non aver trasmesso, se non dopo diversi mesi, il brogliaccio degli interventi di quella mattina.

A dieci anni dalla morte del figlio, e dopo molte umiliazioni subite da parte dei sindacati di polizia (il Sap applaudì ai poliziotti condannati, mentre il Coisp pensò bene di querelare la Moretti), nonché da un senatore della nostra Repubblica, Carlo Giovanardi («Aldrovandi è morto di infarto. E i poliziotti si sono comportati secondo manuale»), Patrizia parteciperà al dibattito con i rappresentanti delle forze dell’ordine, promosso dalla Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato che avrà luogo durante la due giorni di Ferrara. Assieme a lei, Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, oltre a Lorena La Spina, segretario nazionale dell’Associazione funzionari di Polizia e Daniele Tissone, Segretario Generale del Silp, uno dei sindacati della polizia.

 

 

Eutanasia: 2 anni contro i malati e la Costituzione

13 settembre 2013 depositammo alla Camera la proposta di legge di iniziativa popolare per la legalizzazione dell’eutanasia. Oggi ho ricevuto questa email: «sono un ragazzo di 24 anni affetto da (…). La mia “vita” è ormai solo 24 ore su 24 di dolore neuropatico cronico nelle zone più intime della persona, bloccato a letto a causa del dolore, senza che gli antidolorifici più forti abbiano un effetto apprezzabile, e non voglio più stare in queste condizioni, a subire coltellate nel mio corpo e, forse ancora di più, nella mia anima. Sono stanco, esausto e non ho più speranze di uno straccio di vita. La vita mi è stata depredata, vi scongiuro almeno di aiutarmi a porre fine a questa inutile tortura.»

Lettere come questa arrivano ogni giorno, da quando abbiamo deciso di aiutare pubblicamente le persone che cercano di andare in Svizzera per l’eutanasia, e di farlo fino a quando il Parlamento italiano non stabilirà di affrontare il problema.

Pochi giorni fa, il Parlamento britannico ha respinto a larga maggioranza (330 no contro 118 sì) la legge sul suicidio assistito, che avrebbe permesso ai malati terminali di ottenere assistenza medica per mettere fine alla loro vita. Negli stessi giorni, il Senato della California aveva approvato 23 contro 14 il suicidio assistito, consentito già da altri quattro stati americani (Oregon, Washington, Montana e Vermont) mettendo la questione nelle mani del Governatore Jerry Brown ed eventualmente di un referendum, tenendo conto che secondo un sondaggio di Gallup (fonte askanews) circa il 70% dei californiani sostengono il suicidio assistito. Infine, l’Assemblea nazionale francese riprenderà l’esame della legge sulla sospensione delle terapie, recentemente modificata dal Senato.

 

Insomma: nel mondo si discute. E si decide. Non sempre nella stessa direzione, ma si decide, in un contesto di opinione pubblica sempre più favorevole: la legalizzazione è sostenuta dalle opinioni pubbliche di quasi tutti i Paesi “avanzati” (Italia inclusa) come documentato dal recente numero di “The Economist”.

Il Parlamento italiano, però, rimane fermo. Assieme a Mina Welby e Filomena Gallo, ci siamo rivolti a ciascun Parlamentare per proporre di assumere un’iniziativa comune: la costituzione di un intergruppo per l’eutanasia legale, per il diritto fondamentale a determinare che cosa si vuol fare della propria vita e ad ottenere tutto l’aiuto possibile per consentire scelte libere, consapevoli e responsabili.

La nostra proposta di legge è stata affidata alle commissioni Giustizia e Affari sociali, ma la discussione non è stata ancora avviata, nonostante la Costituzione preveda che “il popolo esercita l’iniziativa delle leggi”. Si sono rivolti al Parlamento per sollecitare una discussione in particolare molti malati terminali e personalità come Umberto Veronesi, Vasco Rossi, Roberto Saviano, Michele Ainis, Corrado Augias, Marco Bellocchio, Furio Colombo, Maurizio Costanzo, Filippo Facci, Vittorio Feltri, Giulia Innocenzi, Selvaggia Lucarelli, Mara Maionchi, Neri Marcorè, Paolo Mieli, Giampaolo Pansa, David Parenzo, Emma Bonino e Marco Pannella.

Chiunque abbia a cuore l’obiettivo della legalizzazione dell’eutanasia può fare qualcosa: sottoscrivere la proposta su www.eutanasialegale.it; partecipare al XII Congresso dell’Associazione Luca Coscioni, che si terrà presso l’Acquario civico di Milano da oggi al 27 settembre e che discuterà anche le azioni di disobbedienza civile per consentire ai malati di accedere all’eutanasia.

*Tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni

Demolizioni e sgomberi forzati a Rafah, la denuncia di Human Rights Watch

«Ero abituata io stessa a fare da mangiare e a dare da bere ai soldati che venivano per sedersi all’ombra del nostro ulivo quando il sole picchiava troppo forte su di loro. Mia madre mi disse: l’albero è una tua responsabilità. Ti ho dato da mangiare e ti ho cresciuto sotto questo albero. Anche in tempi di guerra abbiamo vissuto grazie al suo olio quando nessuno poteva trovare cibo. Ora non c’è nulla che io possa fare, se non abbracciarlo e baciarlo per l’ultima volta mentre sussurro: perdonami, mamma, non so più cosa fare per salvarlo». Con questa testimonianza, si apre l’ultimo rapporto di Human Rights Watch: “Look for Another Homeland: Forced Evictions in Egypt’s Rafah”, sugli sgomberi massivi condotti dall’esercito egiziano, guidato dal presidente al-Sisi, a Rafah, nel nord della penisola del Sinai, al confine con la Striscia di Gaza. Il rapporto evidenzia come tra il mese di luglio 2013 e quello di agosto 2015, le autorità egiziane siano riuscite a demolire almeno 3.255 edifici e centinaia di acri di terra coltivata, sfrattando con la forza migliaia di persone.

Quanto sono aumentati gli sgomberi dal luglio 2013 all’agosto 2015

Secondo il rapporto, gli sgomberi forzati portati avanti dal regime hanno un preciso obiettivo: distruggere i tunnel del contrabbando che connettono Gaza al Nord della Penisola del Sinai e creare una zona cuscinetto lungo il confine con la Striscia, dove risiede il governo di Hamas. Dal 2007 Gaza è sotto il blocco israeliano di viveri, rifornimenti e persone. I tunnel sono l’unica risorsa alimentare che i palestinesi della Striscia hanno per potersi rifornire. Nello stesso tempo sono utilizzati da Hamas per far entrare o nascondere armi e combattenti del jihad.


Dal 2007 Gaza è sotto il blocco israeliano di viveri, rifornimenti e persone. I tunnel sono l’unica risorsa alimentare che i palestinesi della Striscia hanno per potersi rifornire. 

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L’Egitto ha collaborato al blocco limitando fortemente il flusso di persone e merci tra Gaza e il Sinai. Secondo il report, però, le autorità del Cairo avrebbero violato lo stato di diritto demolendo case nel raggio di settantanove chilometri quadrati e sfrattando forzosamente coloro che vi abitavano senza fornire una giustificazione per la misura intrapresa e senza concedere altre abitazioni temporanee né risarcimenti per le proprietà distrutte e i terreni coltivati.

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Nella foto case di civili demolite a Rafah

Dal luglio 2013, infatti, quando i militari rovesciarono Mohamed Morsi, il primo presidente liberamente eletto del paese, le autorità egiziane hanno chiuso la zona nord del Sinai, vietando l’accesso a quasi tutti i giornalisti e osservatori internazionali per i diritti umani. Sulle operazioni condotte dal governo in questa zona, il regime rilascia poche informazioni e minaccia i giornalisti che cercano di occuparsi del problema. Nel mese di agosto, il presidente Abdel Fattah al-Sisi ha emanato una legge che prevede una multa fino a 500.000 sterline egiziane e il divieto di lavoro per un anno per tutti coloro che riportano informazioni sul terrorismo nel paese.


 Secondo il report, però, le autorità del Cairo avrebbero violato lo stato di diritto demolendo case nel raggio di settantanove chilometri quadrati e sfrattando forzosamente coloro che vi abitavano senza fornire una giustificazione per la misura intrapresa

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Sarah Leah Whitson, Direttrice dell’organizzazione per il Medio Oriente e Nord Africa, ha detto che: «la distruzione di case, interi quartieri e mezzi di sussistenza è un esempio da manuale di come perdere una campagna di contro-insurrezione. L’Egitto deve spiegare il motivo per cui non ha utilizzato tecnologie avanzate già in suo possesso per rilevare e distruggere i tunnel, invece di cancellare interi quartieri dalla carta geografica».

Gli Stati Uniti addestrarono, infatti, già nel 2008 militari egiziani all’utilizzo di un sofisticato sistema di rilevamento dei tunnel, che li potesse trovare e distruggere senza spazzare via l’intera zona. Il rapporto richiede, quindi, che la lotta contro gli insorti nel Sinai venga condotta in maniera che i civili non vengano colpiti arbitrariamente e che non sia violato il loro diritto all’abitazione o che rimangano indifesi in seguito agli sfratti. Secondo il governo egiziano non ci sono problemi, l’operazione rispetta le leggi e gli standard internazionali e gli abitanti di Rafah, la città che sorge al confine con la Striscia di Gaza, sono d’accordo nel trasferirsi altrove per contribuire alla sicurezza nazionale. Intanto, nessuna fonte ufficiale governativa o militare ha rilasciato dichiarazioni sul rapporto di Human Rights Watch.

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EurHope? L’agorà della sinistra europea per riprenderci la speranza. A Bari dal 25 al 27 settembre

Se il neoliberismo è sempre più la Costituzione materiale su cui si fonda questa Unione europea, le politiche di austerità – lungi dal fornire una via d’uscita dalla crisi – hanno agito come una gigantesca leva di “redistribuzione” dal basso verso l’alto. Il risultato più evidente è l’aumento delle disuguaglianze: tra Nord e Sud Europa, tra i nord e i sud dello stesso Paese, tra uomini e donne (gender pay gap), tra ricchi e poveri. La mia generazione e quelle più giovani sono cresciute già nello smantellamento (o nell’assenza) di un’idea di welfare come elemento di giustizia sociale e come politica redistributiva (del reddito, del lavoro, dei diritti).

L’idea di un’altra Europa possibile è stata messa a dura prova in questi mesi, in uno scontro durissimo tra il neoliberismo a trazione tedesca e il governo greco. Uno scontro che ha messo ulteriormente in chiaro quali fossero i rapporti di forza, oggettivi e soggettivi. Dobbiamo ripartire dalla sconfitta di luglio, con l’imposizione del memorandum. Consapevoli che la vittoria di Syriza e di Tsipras dello scorso 20 settembre mantiene aperta la partita, ma che senza una soggettività unitaria e forte della sinistra europea, di tutte le forze che hanno sostenuto da sinistra l’Oxi, senza una dimensione europea delle lotte e dei conflitti, quei rapporti di forza non cambieranno.

E, poi, abbiamo bisogno di proposte. Di un’idea di cittadinanza europea che parli a tutte le generazioni e a tutti i generi, a nativi e migranti: che parli anche a quella parte del 99% per cento molto spesso escluso da un welfare lavorista, familista, nazionale. Da queste domande nasce “Eurhope?”: un meeting internazionale che abbiamo organizzato come Gue/Ngl, il gruppo parlamentare europeo della Sinistra unitaria europea-Sinistra verde nordica di cui facciamo parte come Altra Europa con Tsipras, insieme a, tra gli altri, Syriza, Podemos, Izquierda Unida. E insieme ad ACT! Agire, costruire, trasformare.

 

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Saremo a Bari il 25, 26 e 27 settembre, per provare a ripensare l’Europa partendo dal Sud, dall’Europa meridionale e mediterranea. Un posizionamento politico, contro l’Europa fortezza e contro tutti i muri. È dalle persone che fuggono dalle guerre, dai flussi determinati dalle disuguaglianze prodotte dall’Occidente, che quest’Europa deve ripartire. Dalla dignità di donne e uomini che attraversano un continente ostile, con un cammino che, come ci ricordava Balibar, sta allargando l’Europa e può rifondarla.

Servono proposte concrete, alternative possibili e praticabili. Perciò abbiamo lanciato una call for proposals, per raccogliere idee e visioni, suggestioni e strumenti. Per il futuro dell’Europa, per sottrarre le giovani generazioni a un destino di precarietà, per capire come si crea occupazione, pensare nuovi modelli di welfare, un reddito di cittadinanza europea e molto altro. A Bari, dal Sud che più di altre regioni europee è vittima delle politiche di austerity e della crisi, vogliamo quindi incrociare le analisi e le proposte dei movimenti e delle forze europee della sinistra. Ci proponiamo di dar vita a un’agorà in cui attivisti, associazioni, reti, forze sociali e politiche, possano arricchire la propria “cassetta degli attrezzi” con nuove rivendicazioni e analisi, proposte concrete per costruire, ognuno nel proprio contesto locale e nazionale.

Saranno tantissimi le relatrici e i relatori: il segretario della Fiom Cgil Maurizio Landini, Giuseppe De Marzo di Libera, Salvatore Altiero di A Sud, Anne Trompa e Jan Schlemermeyer di Blockupy International, Serena Fiorletta del collettivo Femministe Nove e gli eurodeputati Tania Gonzales di Podemos, Fabio De Masi della Linke, Marina Albiol di Izquierda Unida, Daithi Doolan del Sinn Feinn e molti altri.

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La fretta di Renzi sul senato, fa slittare le unioni civili. Opposizioni e maggioranza si rimpallano la responsabilità

Colpa di chi? Decidetelo voi. Maria Elena Boschi e il Pd sostengono che la legge sulle unioni civili corra il rischio di slittare al 2016 per via dell’ostruzionismo delle opposizioni sulla riforma del Senato. Della Lega, certo, ma anche e soprattutto di Sel che ha presentato 62mila emendamenti – molti meno degli 80 milioni di Calderoli – e che però è stata indicata come responsabile direttamente dal ministro Boschi. Le opposizioni, invece, dicono che il punto è solo che Ncd sta ricattando il governo Renzi, che preferisce avere alla svelta il voto del Senato sulla riforma costituzionale.

Per respingere l’accusa Sel ha anche ritirato quasi tutti gli emendamenti – «ne teniamo solo 1200» dice la capogruppo Loredana De Petris – e ha poi proposto di modificare il calendario dei lavori dell’aula portando già lunedì la legge in aula. La proposta è stata però bocciata dal Pd che ora assicura che le unioni verranno approvate comunque prima della pausa natalizia. «Prima della legge di stabilità» dice anzi la deputata Micaela Campana.

La relatrice della legge, la democratica Monica Cirinnà – che ha votato in dissenso dal suo gruppo sulla calendarizzazione – non è però così ottimista: «Non lo so cosa succede adesso», dice. Il testo resta così – almeno per il momento – bloccato in commissione giustizia, dagli emendamenti di Giovanardi&co.