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Direzione Pd, ecco il Partito “destrinista” di Matteo Renzi

Il numero di Left in edicola si apre con un saggio di Nadia Urbinati, che definisce il Pd renziano un partito “destrinista” e individua nella politica fiscale (gli 80 euro e l’abolizione della tassa sulla casa) uno dei tratti salienti di questa natura. Ne pubblichiamo qualche riga proprio oggi, che alla direzione del Pd convocata per discutere di riforme istituzionali, si consumerà un altro passaggio di questa mutazione. L’articolo di Urbinati e tutto il numero di Left sono disponibili qui

«Come in una chiesa senza più fede e fedeli, il partito-totale di oggi assomiglia a un involucro vuoto (del resto anche di inscritti), riempito da un partito che è per davvero solo e soltanto un Partito-Piglia-Tutto, il cui obiettivo è quello di affastellare tutti i voti possibili, da tutte le parti della società. È un partito aggregativo a tutti gli effetti. Quale sia del resto la visione della Nazione che intende forgiare non è chiaro, anche perché il chiarirlo comporterebbe rischiare di perdere anziché guadagnare elettori.

Partito-Piglia-Tutto non perché convince le varie parti a identificarsi con un progetto unitario, ma perché attrae con tattiche astute quelle parti, o la maggior parte di esse. Lo scopo è di entrare nella stanza dei bottoni per restarci più a lungo possibile. Questo vuole essere il Pd. Una prova di questa politica aggregativa e maggioritarista (che i reduci del passato leggono ancora con gli occhi di ieri come il segno di un Partito totale o della Nazione) è data dalla promessa di politica fiscale fatta da Matteo Renzi, che ha in questo modo cominciato la campagna elettorale.»

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Quanto è distante la Grecia

C’è un dato sostanziale a poche ore dalle elezioni greche, guardando i numeri usciti dalle urne e ancora prima di leggere i soliti commenti dei soliti illuminati: la distanza siderale tra la narrazione della Grecia e di Tsipras arrivata fin qui e il quadro uscito dalle urne. Tsipras in pochi mesi è passato dall’essere il messia di una nuova sinistra europea, poi il volto pubblicitario dei No-Euro (strumentalizzato addirittura a destra, per rendere l’idea) fino al “grande traditore” che ha ceduto alla Germania, bersagliato dai giudizi non proprio benevoli dei suoi due ex ministri Varoufakis e Lafazanis. In mezzo a tutto questo ci sono state due elezioni nello stesso anno, un referendum, un rapporto difficile con l’Europa per un accordo strappato all’ultimo momento e la speranza di molti che l’effetto Tsipras appassisse, che davvero potesse essere la dimostrazione che non ci sia l’alternativa all’austerità, che la sinistra per sopravvivere debba essere per forza “venduta”.


 Il racconto della notte ad Atene di Luca Sappino

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Eppure i numeri, chiarissimi, ci dicono che Alexis Tsipras (e Syriza) è l’unico leader che conferma il consenso per tre volte in pochi mesi, ci dicono che la visione di un’Europa come unione di popoli prima che di banche si conferma nonostante il prezzo altissimo dell’ultimo accordo che la Merkel e i suoi hanno sottoposto al popolo greco e ci dice che la sinistra non convince solo se gioca ad essere più a sinistra degli altri ma (e soprattutto) quando riesce a rimanere in costante contatto con i propri elettori.

Oggi, sicuro, qui da noi festeggeranno Tsipras più o meno tutti quelli che da un anno non riescono a mettersi intorno ad un tavolo per formare un progetto di governo serio, esulteranno fingendo di non sapere che il processo innescato da Tsipras (e verificato di continuo) non ha nulla a che vedere con noi che viviamo la politica europea con l’occhio miope dei tifosi e dei fans.

Pensa te, verrebbe da dire, che non solo c’è una sinistra che vince ma c’è addirittura una sinistra che si conferma mentre paga prezzi sociali altissimi. C’è una sinistra che rivince in un Paese con le spiagge che sono l’approdo dei rifugiati. C’è una sinistra che non si appella a algebriche alleanze costruite in Parlamento ma che si fa votare. Pensa te.

Ora mi raccomando: tutti greci per qualche giorno e poi subito a dividersi. Che da noi funziona così: vogliamo l’europa unita e non riusciamo a stare insieme su due punti due di governo. Avanti così.

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Ribaltati i sondaggi, vince Tsipras. Ma quanto spazio c’è a sinistra?

vittoria tsipras elezioni grecia

(ATENE) Come fu per i referendum, ribaltati pronostici e sondaggi. «I sondaggisti sono degli assassini», ha sbottato a un certo punto della serata di domenica Pános Kamménos, l’enorme leader di Anexartitoi Ellines, i nazionalisti greci dati sotto la soglia di sbarramento e che invece con 10 parlamentari rendono possibile dar vita al governo Tsipras bis. Che avrà la stessa maggioranza dell’uscente, ma senza i dissidenti di Syriza, loro sì fuori dal parlamento: questo è il verdetto delle urne.

 

risultati del voto in Grecia

Non c’è stato il testa a testa con Nea Demokratia (quasi identica la distanta con Syriza rispetto alle elezioni di gennaio). Syriza è sopra il 35, Nea Demokratia al 28. Terzi i neonazisti di Alba dorata, anche loro più o meno stabili. A crescere un po’ di più è il Pasok che però è sempre al 6 per cento, irrilevante, sfumato ogni scenario di grande coalizione.

 


Il commento di Giulio Cavalli sulle elezioni greche

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Non è ancora mezzanotte quando Tsipras sale sul piccolo palco allestito a Plateia Klathmonos, nel centro di Atene. Poche parole e un abbraccio, con Kamménos, appunto, che per la folla che li circonda – si percepisce dagli sguardi – è un estraneo, così distante, di destra, ma anche lui «è duro a morire», come dice Tsipras di Syriza e del suo governo: «Il popolo ci chiede di continuare la battaglia di questi sette mesi», dice. Risuonano canti popolari, l’internazionale, pure i Daft punk. La piazza si svuota presto, mentre sale il fumo dai chioschetti che arrostiscono souvlaki.

 

Meriterebbero un dipinto le lacrime dei più anziani, in piazza, commossi dal risuonare di Bella ciao, ma al risveglio, in Italia, tocca fare i conti con Fabrizio Rondolino, che rovina la poesia e su l’Unità nota l’assenza della «Brigata Kalimera», la solitamente nutrita pattuglia di italiani in trasferta per sostenere Tsipras.

C’era anche questa volta, in realtà. C’era Paolo Ferrero, c’era il bandierone enorme dell’Altra Europa con Tsipras – che è stato sventolato fino a notte fonda da un mix di mani italiane e greche. C’era Sel, con un gruppo di parlamentari e il capogruppo alla Camera Arturo Scotto. Poi militanti sparsi, appassionati. Certo, innegabile è il fatto che la sinistra italia abbia vissuto molto la crisi tra Tsipras e Varoufakis. Stefano Fassina, in particolare (lo abbiamo intervistato sul numero di Left in edicola) ha sposato la tesi dell’ex ministro greco: in un recente convegno alla Camera dei deputati ha detto «non c’è spazio in questa Europa per la sinistra». Ecco dunque la sfida di Tsipras. C’è spazio, nelle maglie del memorandum, per delle politiche di sinistra?

 


«Il popolo ci chiede di continuare la battaglia di questi sette mesi»

Alexis Tsipras, dopo l’annuncio della vittoria

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Oggi la sentenza a Erri de Luca? «Se la mia opinione è reato, continuerò a commetterlo»

«La Tav va sabotata». Lui l’ha detto, loro, la società francese Lyon-Turin Ferroviarie (Lft), l’hanno trascinato in Tribunale. Oggi, lunedì 21 settembre, l’amatissimo scrittore Erri De Luca ascolterà la requisitoria dei pm al processo (iniziato il 28 gennaio 2015) in un aula del tribunale di Torino, con l’imputazione d’istigazione a delinquere finalizzata al sabotaggio ai cantieri dell’Alta Velocità in Val di Susa. Rischia da uno a cinque anni di carcere.

«Entra l’autunno e io rientro nell’aula del processo. Ascolterò le richieste penali dei miei accusatori pubblici e di quello privato, della ditta. Saprò quanta prigione per me desiderano ottenere dalla sentenza. Sarà la parte più interessante, per i toni di voce e gli argomenti».

Solito garbo, solita combattività di chi non retrocede da quello in cui crede. Erri lo scrive su facebook, augurandosi che, dopo le rispettive requisitorie, la sentenza sia immediata. Ricordiamo che l’autore partenopeo dal passato di militante di sinistra rivoluzionaria, rifiutò il rito abbreviato perché si sarebbe svolto a porte chiuse. Noi, ci auguriamo che ripristini il senso del limite e delle motivazioni profonde di una protesta che viene dal territorio, che d’ideologico non aveva niente. Il sovversivo, è arrivato dopo. Molto dopo.

A sostegno dello scrittore, era arrivato perfino dal presidente – un altro, quello francese – Hollande, e dalla classe intellettuale – sempre un’altra, sempre quella francese, con un appello in sua difesa. Perché la libertà di espressione, ancorché (e ancor più) se incitazione alla civiltà, non può essere messa alla sbarra.
La sua posizione, la scritta in un pamphlet, La parola contraria, un titolo che già da solo ribadisce con fermezza. Nel quale infatti afferma, per nulla intimorito: «Se la mia opinione è reato, continuerò a commetterlo»

Nell’aula del tribunale di Torino il 28 gennaio 2015 non sarà in discussione la libertà di parola. Quella ossequiosa è sempre libera e gradita. Sarà in discussione la libertà di parola contraria, incriminata per questo. Per questo diritto sto nell’angolo degli imputati. Ho detto le mie convinzioni a un organo di stampa e i pubblici ministeri le hanno fatte rimbalzare su tutti gli altri. Se quelle frasi istigavano, la pubblica accusa le ha divulgate molto di più, ingigantendole e offrendo loro un ascolto di gran lunga maggiore. Quelle parole dette a voce al telefono sono state messe tra virgolette e dichiarate capo d’imputazione. Quelle virgolette attorno alle mie parole sono delle manette. Non posso liberarle da lì, ma quelle manette non hanno il potere di ammutolirle. Posso continuare a ripeterle e da quel mese di settembre 2013 lo sto facendo su carta, all’aria aperta e ovunque. Se la mia opinione è un reato, continuerò a commetterlo.

 

«La frase – conclude – rientra nel mio diritto di malaugurio». Per parte nostra, esprimiamo il nostro diritto all’augurio, che possa continuare a sabotare le coscienze addormentate, e l’assenza di partecipazione civile.

Se i musei sono essenziali, il ministro Franceschini cambi la sua riforma

Il diritto di sciopero non è una conquista democratica sancita dallo statuto dei lavoratori ma un “reato” come ha detto il sotto segretario Barracciu, (poi corsa ai ripari correggendosi). Di fatto per il governo Renzi va limitato per legge quando si tratta di servizi essenziali fra i quali, ora, annovera l’accesso a musei e monumenti. L’aver chiuso per un paio d’ore il Colosseo per assemblea sindacale ha prodotto un danno d’immagine all’Italia agli occhi del mondo, sentenzia il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, che ai custodi del Colosseo (poco più di una ventina per 6mila visitatori al giorno) e di altri siti archeologici romani riuniti in assemblea regolarmente annunciata ha moralisticamente risposto di usare il buonsenso nell’esercitare un proprio diritto fondamentale, invece di impegnarsi a risolvere alla radice un problema annoso come la mancata retribuzione degli straordinari a chi fa anche i turni di notte. Chiudere seppur per poco il Colosseo o quello di Pompei, come è accaduto nei mesi scorsi, per denunciare lo sfruttamento e lo svilimento professionale di chi ci lavora, dunque, non sarà più ammesso in Italia.«I sin­da­cati deb­bono capire che la musica è cam­biata», ha sen­ten­ziato, il premier Renzi con modi e contenuti irrecevibili.

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L’esterofilo Matteo Renzi che ha varato un bando internazionale per scegliere i i 20 direttori dei maggiori musei italiani non si confronta in questo caso con il resto d’Europa. Altrimenti avrebbe notato che François Holland non ha minacciato di restringere il diritto di sciopero quando è comparso sulla torre Eiffel il cartello «chiuso per assemblea sindacale». Nemmeno il conservatore Cameron si è permesso di stigmatizzare i ripetuti scioperi alla National Gallery che vanno avanti dal febbraio scorso. In queste settimane Gabriele Finardi, ex direttore aggiunto del Prado e autorevole neo direttore di questo importante museo londinese che permette a tutti l’ingresso gratuito, invece di fare pubblici proclami si sta dando da fare per risolvere le criticità sollevate dal personale che protestano contro tagli all’organico e contro ipotesi di privatizzazione dei servizi.

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sciopero alla National Gallery di Londra

Detto questo registriamo che il ministro Franceschini, che appena insediato pontificava sul patrimonio d’arte come petrolio d’Italia da sfruttare, ora si renda conto che i musei non sono giacimenti di risorse finite, ma offrono un servizio essenziale per la qualità della vita. Perché, potremmo aggiungere, invitano ad avere un rapporto con il linguaggio universale ed emozionante delle immagini d’arte, perché producono conoscenza, perché stimolano e arricchiscono il mondo interiore delle persone, superando le barriere di nazionalità, di lingua, di provenienza.
La conseguenza logica di questa affermazione del ministro dei beni culturali e paesaggistici è evidente a tutti: comporta un’inversione di tendenza rispetto alle politiche di tagli ai finanziamenti alla cultura ridotti ormai al lumicino; comporta il rafforzamento dei ruoli di storici dell’arte, archeologi, custodi e di altri professionisti che lavorano alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio.

protesta di archeologi a Roma , 2014
protesta di archeologi a Roma , 2014

Nei fatti però con la riforma che porta la sua firma Dario Franceschini è andato esattamente nella direzione opposta, indebolendo il ruolo delle soprintendenze territoriali, mortificando le competenze di chi lavora e fa ricerca in questo settore, a tutto vantaggio di manager che trattano opere e monumenti alla stragua di qualsiasi altra merce e ora addirittura provando a regimare il diritto di sciopero. Un diritto che il personale della Soprintendenza archeologica di Roma ha osato esercitare «proprio mentre i dati del turismo sono tornati straordinariamente positivi, proprio mentre Expo e Giubileo portano ancora di più l’attenzione del mondo sull’Italia», ha sentenziato il ministro. Ma ammesso e non concesso che i due eventi citati siano da annoverare fra quelli che danno lustro all’Italia dal punto di vista culturale, non è uno scandalo agli occhi del mondo che il ministero dei beni culturali da un anno non paghi gli straordinari a gente che guadagna 1100 euro al mese? Non è uno scandalo che con la regola del silenzio assenso si apra la strada a svendite incontrollate del patrimonio italiano? Non è uno scandalo che la nota integrativa al bilancio statale per il triennio 2014-2016 preveda un ulteriore calo delle risorse per la «tutela e la valorizzazione dei beni culturali e del paesaggio» pari all’8,3 per cento e addirittura del 9,4 per cento per i beni archeologici? Non è uno scandalo agli occhi del mondo che la più importante biblioteca italiana, la Nazionale di Firenze, sia costretta a ridurre gli orari di apertura a causa della grave carenza di organico, causata proprio dai tagli del ministero?

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Mosè, l’egizio. Jan Assmann al Festivalfilosofia

L’assassinio praticato in nome della religione, la strage perpetrata in nome di Dio. È stato quasi una costante nella storia dei tre grandi monoteismi. Dalla ferocia delle crociate cristiane, ai roghi delle streghe, fino al fondamentalismo dell’Isis oggi. La violenza è intrinseca al monoteismo secondo l’egittologo tedesco Jan Assmann. Nasce dalla divisione manichea fra chi crede in Dio e chi no, per cui da una parte c’è la Verità dall’altra ci sono gli infedeli.

Il monoteismo impone un concetto di verità esclusiva, collegato ad una rivelazione. Diversamente dal politeismo che invece ammette un pantheon di divinità. Che nell’antica Roma era mobile, mutevole, aperto alle divinità degli altri, specie quelle dei popoli assoggettati per mantenere la cosiddetta pax.
Con le tre religioni monoteistiche, ebraica-cristiana- islamica insomma, si interrompe la tradizione di «reciproco riconoscimento e traducibilità» propria delle precedenti religioni politeistiche, dice il professore emerito dell’Università di Heidelberg e dell’Università di Costanza che su questo tema ha tenuto una lectio magistralis al Festivalfilosofia di Modena Carpi e Sassuolo, quest’anno dedicato al verbo “ereditare”.
«Nell’antichità egiziana, babilonese, indiana, greca e romana tutti gli dei rappresentavano un unico Dio e risultavano dunque reciprocamente compatibili e traducibili», sostiene Assmann. Ma con il passaggio al monoteismo si riducono i culti di tutte le altre religioni al rango di aberrazioni e di menzogne e si incita così alla persecuzione dei miscredenti. Questa è la tesi di Non avrai altro Dio (Il Mulino), uno degli ultimi libri di Assmann tradotto in italiano e noto soprattutto per un originale saggio uscito nel 1997, Mosè l’egizio (Adelphi, 2000) in cui avanzava l’ipotesi che il Mosè ebraico fosse esemplato su un precedente egizio: il faraone Akhenaton della XVIII dinastia che chiuse i templi e proibì culti diversi dall’unico da lui ammesso, il culto del sole.

Nel libro La distinzione mosaica ovvero il prezzo del monoteismo (Adelphi, 2011) Assmann afferma che «Il monoteismo biblico nacque in contrasto e in contrapposizione con il politeismo egiziano e mesopotamico. Anche se nel mondo egizio non mancò un certo concetto del Dio sovrano in forma di monoteismo inclusivo che vede Dio in tutti gli dei». Ma allo stesso tempo secondo l’eminente egittologo c’è uno stretto nesso fra la storia ebraica e l’Egitto. Nella Bibbia per esempio si racconta la diffusione del monoteismo fra i figli d’Israele come la storia del loro esodo dall’Egitto. «E ella memoria biblica è l’Egitto, non la Mesopotamia, a giocare il ruolo dell’altro che deve essere abbandonato per poter abbracciare la nuova religione», precisa il professore. E lo stesso Mosé potrebbe essere di derivazione egizia, da mes, mesu, che vuol dire “figlio” . Ma chi era realmente Mosè? «E’ un mistero – dice Assmann -. In ogni caso il Mosè storico, ammesso che sia esistito, ha poco a che fare con la tradizione di Mosè. Rappresenta colui al quale Dio detta i precetti, è il recettore del comando puro, Dio non può mai parlare a tutto il popolo e usa lui per consegnare al popolo la legge scritta». Una legge  scritta nel sangue, come racconta la Bibbia, costellata di scene di massacri, azioni punitive, persecuzioni, condanne di matrimoni misti e così via. «Fin dalla fuga dall’Egitto, indotta con la violenza delle piaghe inviate da Dio e ancor più la conquista della terra di Canaan ottenuta attraverso un conflitto sanguinoso, attraverso la condanna degli adoratori del vitello d’oro e le sue feroci conseguenze. Questi episodi non sono ritenuti storici dallo studioso tedesco ma come «fatti simbolici al pari di saghe e leggende con le quali una società si costruisce o ricostruisce un passato in grado di dare senso e prospettiva alle finalità e ai problemi attuali».

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Perché conviene pagare IMU e Tasi. Spiegato facile

Se vado al ristorante pago. Ne sceglierò uno adeguato alle mie tasche, mi aspetterò un conto in linea con quanto e cosa ho mangiato: più salato per una bistecca, meno per una pizza. Avrò preso la mia decisione su dove andare, cosa ordinare, quanto spendere, dopo aver consultato il menù e i relativi prezzi delle portate. Insomma a fine pasto, se tutto è andato “normalmente” non dovrei avere grandi sorprese. Se poi è Se poi è un momentaccio per le mie finanze mi limiterò a un fast food o accetterò l’invito di un amico. O, semplicemente, resterò a casa. Difficilmente mi verrà in mente di andare a cena fuori gratis. Per quanto ne sappiamo, invece, i proprieta-ri di prima abitazione dal prossimo anno potranno “fare il vento”. Usufruire di spazi, strade, fogne e via dicendo senza pagare nulla in cambio. E non importa se mangio pizza o bistecca, costa tutto uguale: niente.

Si obietterà, non a torto, che al “ristorante Italia” pagare il conto è impresa ardua. Con le quasi 200mila aliquote della Tasi così come la conosciamo oggi, sfido chiunque a consultare il menù. «Mi ero infortunata e non c’è stato verso: sono dovuta andare con le stampelle dal commercialista per capire quanto diavolo dovessi pagare di Tasi. A quel punto avrei voluto pagarla tutta insieme e non pensarci più, poiché non era nemmeno una gran cifra, ma non è stato possibile», racconta Tina, professoressa di Fisica residente in provincia di Lecce. Ci si chiede infatti di sederci a tavola a giugno, pagando un acconto più o meno orientativo, che il saldo lo scopriremo a dicembre. Giusto in tempo per capire se digiunare a Natale.
 Oltre ad essere poco trasparente, nel ristorante più pazzo del mondo il prezzo della pizza sale, quello della bistecca resta in assoluto più alto, ma scende. Nel passaggio tra Imu prima casa e Tasi la pressione fiscale è aumentata del 4 per cento per le case a basso valore catastale, diminuita del 7,7 per cento per quelle di medio valore e del 19,6 per cento per gli immobili di maggiore pregio.

 

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Questo articolo lo trovate su Left n. 36

In edicola e qui sul nostro sfogliatore online

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Incomprensibilmente, poi, qualunque prezzo paghi e pietanza ordini, nulla è più buono, anzi: strade sempre più rotte e buie, allagamenti, sporcizia. Ad alcuni va un po’ meglio che ad altri, ma in generale la percezione che a questa tassa non corrispondano adeguati servizi è diffusa e maggioritaria. Di che ti lamenti allora se non ti faccio pagare più nulla? Mah, veramente io preferirei, a seconda delle mie disponibilità, pagare il giusto una buona pizza o una buona bistecca piuttosto che mangiare una schifezza gratis. Tanto se proprio non ho i soldi chiariamolo non basta lo sconto sul caffè a trascinarmi a cena fuori. Secondo un recente studio di Nomisma, l’abolizione della tassa sulla prima casa vale, su orizzonte decennale, un risparmio inferiore all’1 per cento del prezzo medio di acquisto di un immobile, attualmente pari a 181mila euro: non saranno un paio di centinaia di euro in più o meno a influenzare la mia scelta di acquisto. Né a rilanciare il settore immobiliare. «Per carità, una tassa che viene tolta è di per sé una buona notizia, ma non è l’abolizione della Tasi che ci cambierà la vita». Il signor Carlo ha sei figli e di Tasi paga «meno di 300 euro l’anno, capisce che nella gestione di una famiglia come la mia è un risparmio che incide relativamente». Con una «famiglia come la sua» questo padre di Piacenza è, per forza di cose, attento ai conti e avvezzo a certi meccanismi.

«La mia paura vera – osserva – è che per togliere la Tasi oggi, aumentino qualcos’altro domani: in genere si finisce con l’alzare le accise sulla benzina o, peggio ancora, l’Iva. Queste sì sarebbero brutte notizie per il mio bilancio famigliare: sulla Tasi sono comunque previste detrazioni, mentre dall’aumento delle tasse sui consumi non se ne esce, si paga e basta. Insomma», chiude il suo ragionamento il signor Carlo, «in fondo di tante tasse che pago, la Tasi è tra le meno peggio».
La Cgil ha calcolato che con l’abolizione della tassa sulla prima casa circa un milione di contribuenti più ricchi risparmierebbe, in media, 827 euro pro-capite. La cifra sale a 1.940 euro per i 35.700 proprietari di immobili di lusso. E scende ad appena 55 euro per gli otto milioni di contribuenti appartenenti alle fasce di versamento più basse.

Va bene, ma cosa posso
 farci se per permetterti 
di mangiare una pizza
 in più, qualcuno ci gua
dagna oltre trenta bistecche? Qualcosa puoi.
«Si potrebbero esentare 
quelle famiglie che possedendo immobili di
valore più basso sono 
in media anche più povere», spiega il portale la voce.info nel presentare un’articolata proposta di riforma e sottolineando che «non c’è bisogno di eliminare del tutto l’imposta sulla prima casa per avvantaggiare la gran parte delle famiglie italiane, quelle meno ricche, e i soldi così risparmiati potrebbero essere utilmente riutilizzati da qualche altra parte». A questa stessa idea Nens (Nuova economia e nuova società), l’associazione di Vincenzo Visco e Pier Luigi Bersani, affianca quella di eliminare le imposte sugli affitti, abbassare quelle sulle transazioni immobiliari (registrazione e imposte catastali: queste sì zavorrano le compravendite…) e istituire una patrimoniale statale, fortemente progressiva, sui patrimoni più consistenti. «Occorre trovare soluzioni funzionali alla crescita più che alla raccolta di consenso a breve termine», ha argomentato Visco su Il Sole24Ore: «Dopo troppi interventi scoordinati la tassazione oggi è irrazionale e ha bisogno di più razionalità, equità e progressività». Insomma un ristorante “normale”: leggere, capire, scegliere, ordinare, pagare? La chiamavano local tax.

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Grecia al voto: chi è Vaghelis Meimarakis, che incalza Tsipras nei sondaggi

Oggi si vota in Grecia, la sfida è all’ultimo voto tra Syriza, il partito della sinistra guidato da Alexis Tsipreas e Nea Dimokratia, guidata da Vaghelis Meimarakis. Come abbiamo raccontato sul numero 35 di Left,  La campagna elettorale è stata sottotono, gli entusiasmi di nove mesi fa non ci sono più e Syiriza rischia di perdere una parte del voto dei giovani. Sullo stesso numero di Left raccontavamo di Meimarakis, ex ministro della Difesa di Atene, amico di Berlino e molti scandali legati ai contratti sulle armi alle spalle. Ecco un suo ritratto di Francesco De Palo.

Un Paese che è il quarto importatore di armi al mondo e che in Europa detiene il record della più alta percentuale del suo Pil spesa per carri armati e caccia da combattimento, come può non sollevare sospetti su chi quei contratti miliardari ha siglato? Le elezioni elleniche del prossimo 20 settembre potrebbero portare sotto i riflettori un nuovo personaggio della politica greca, il neo segretario dei conservatori di Nea Dimokratia Vaghelis Meimarakis. Nei primi sondaggi sul gradimento ha staccato Tsipras di cinque punti percentuali e il suo partito è praticamente alla pari con Syriza. Non solo Meimarakis è stato presidente della Camera e fedelissimo di Berlino, ma soprattutto già ministro della Difesa di Atene, attenzionato per un buco da 210 milioni di euro per forniture militari alla Grecia.

Più volte ministro e portavoce parlamentare di ND, è riuscito a mettersi al riparo da dibattimenti e condanne grazie alla bizantina norma per l’autorizzazione a procedere che in Grecia ha una scadenza che si rinnova ad ogni cambio di parlamento. Negli ultimi tre anni nel Paese ve ne sono stati ben tre con i tempi che sono stati ricalcolati ad ogni nuova assemblea, con il plauso di chi altro non aspetta se non la prescrizione.

Ma facciamo un passo indietro. Dopo l’arresto nel 2012 dell’ex ministro della difesa Akis Tsogatsopoulos, braccio destro di Papandreou senior, accusato in solitario di tangenti per centinaia di milioni di euro, quasi tutti i ministri della Difesa ellenica degli ultimi tre lustri sono stati coinvolti in indagini su mazzette versate per contratti militari: Evangelos Venizelos (segretario del Pasok, poi vice premier e ministro degli esteri e delle finanze coinvolto anche nella Lista Lagarde che non fece mai protocollare), Vangelis Meimarakis e Yiannos Papantoniou. Esattamente un anno fa, del nostro, si è occupata la Corte Suprema per una serie di denunce sui programmi di armamento e sulla gestione dei sistemi di difesa ellenici. La recente storia parlamentare ellenica è piena zeppa di episodi inquietanti, come quando il leader della destra popolare George Karatzaferis portò in Aula un dossier con tutte le domande sugli acquisti specifici di armi, poi epitetato da Meimarakis “ricattatore”. O quando in occasione di un’audizione della commissione Difesa, chiamato a rispondere di alcuni numeri trovati nell’agenda di Tsogatsopoulos, Venizelos disse che erano numeri di telefono privati e non importi di mazzette come invece i pm sostenevano.

Le modalità relative alla fornitura di armi in Grecia sono sconcertanti. Secondo l’inchiestista greco Kostas Vaxevanis, che nel 2012 venne arrestato e processato perché pubblicò la Lista Lagarde degli evasori greci, non solo le armi venivano acquistate senza gare di appalto ma il denaro pubblico era elargito senza un controllo diretto del Parlamento. Sommergibili con timoni rotti, carri armati senza proiettili (si pensi che la Grecia ne ha 1000 mentre la Germania solo 250) il tutto con la giustificazione dell’urgenza, vista la delicata posizione geopolitica e lo spettro della Turchia che non manca di fare settimanalmente sconfinamenti aerei nell’Egeo con i suoi F16. Seguire il denaro, ripeteva Giovanni Falcone e nella storia greca moderna è un mantra utilissimo per mettere assieme fatti e policies.

Proprio a pochi giorni dalle nuove elezioni, la quarte in tre anni e le seconde in otto mesi, ecco farsi largo l’uomo che potrebbe essere chiamato a governare un esecutivo di larghe intese se i primi sondaggi dovessero essere rispettati. Meimarakis, subentrato alla guida del partito all’ex premier Samaras, gode infatti di buone sponde da parte del Presidente della Repubblica Procopios Pavlopoulos, anch’egli conservatore della prima ora e custode dei fatti greci degli ultimi trent’anni.

Nell’agosto del 2014, l’allora commissione d’inchiesta che analizzava documenti e testimonianze, venne scossa dall’intervento dell’eurodeputato di Syriza Chatzilamprou il quale puntò l’indice su contratti di armamenti firmati con note multinazionali, da cui mancavano circa 210 milioni di euro su totali 85 contratti che poi costarono all’erario ellenico anche una serie di penali per 3 miliardi. Secondo le accuse quei denari – in tutto o in parte – finirono ai tre ministri della difesa citati, tra cui anche Meimarakis che fino ad oggi ha sempre negato, ma su cui non c’è stata occasione neanche di votare l’autorizzazione a procedere.

Sullo sfondo ecco la sicurezza con cui Meimarakis sta guadagnando posizioni a discapito del Tsipras reo, agli occhi dei greci, di aver fatto una assurda piroetta. Prima è riuscito a vincere le elezioni di gennaio con lo slogan “la speranza è arrivata”, con riferimento al cambio di passo contrario al memorandum. Poi ha dovuto piegarsi alle logiche berlinesi, portando a casa un accordo ben peggiore di quello propostogli last minute da Jean Claude Juncker. Infine oggi anche nei comizi pubblici sconta una sfiducia frutto di questi otto mesi di governo, su cui Meimarakis invece ha puntato la propria campagna. “Saremo noi il primo partito” ha ripetuto in questi giorni il conservatore con un’aria trionfante. Per certi versi le sue elezioni le ha già vinte. La scorsa primavera non era lui la prima scelta per guidare i conservatori, stretto nella morsa dei giovani rampanti Mitsotakis e Bakoyannis, appartenenti a una delle tre famiglie che da quarant’anni in Grecia fanno il bello e il cattivo tempo, con i Papandreou e i Karamanlis. E invece riuscì ad agguantare la segreteria politica. Oggi è in pole position per essere premier in un governo di unità nazionale, se le urne dovessero consegnare un quadro di instabilità. Comunque vada a vincere sarà ancora una volta Berlino.

Cinque Stelle, il fine che giustifica i mezzi

Alessandro Di Battista alla manifestazione contro il Ddl Scuola

«Non c’è nessuna metamorfosi»,parola di Alessandro Di Battista, deputato e volto noto del Movimento 5 Stelle. Raggiunto al telefono da Left, cerchiamo di capire se il mutamento che sta attraversando il Movimento rispetto a quando è entrato in Parlamento, sia incoerenza dovuta alla maggiore confidenza con la politica da loro tanto aborrita, o normale evoluzione. «Nessun mutamento, semmai un’evoluzione». Ma la metamorforsi c’è. È iniziata tempo fa, silenziosa per il mainstream, meno per chi la viveva: è iniziata sul territorio. La si respirava non solo nei grandi meeting nazionali, in cui c’era una netta separazione non fra il palco e la piazza il primo è sempre stata l’arma vincente di Beppe, sin dal primo V-day a Bologna nel 2007 ma fra chi vi saliva sopra e chi restava sotto. Sopra le stelle, sotto i cittadini. Tanto che in alcune manifestazioni, come quella di Genova del 2013, lo staff della Casaleggio associati pensò bene di vietare ai parlamentari l’ingresso al palco, in modo che Grillo potesse urlare: «Vedete? I nostri sono fra la gente». Di Battista non è d’accordo, naturalmente: «Abbiamo ascoltato tanto, soprattutto la gente. E proprio su questo abbiamo impostato la nostra attività, in virtù dei cittadini. Si pensi al reddito di cittadinanza». Vero, e gli va riconosciuto, come infatti ha fatto la Caritas nel suo rapporto. Ma è anche vero che è proprio fra la gente che si respirava la distanza fra i leader e gli attivisti.

Come a Roma: l’anno scorso al Circo Massimo, c’era addirittura chi meditava di affittare interi pullman per andare a Milano, alle sede della Casaleggio associati, pur di farsi sentire da chi era a un passo da loro. Era tanto forte che si temette addirittura la fronda di “Capitan Pizza”. Quel sindaco di Parma, unico ad avercela fatta finora, ad aver messo in pratica un modo nuovo di governare, ma colpevole di non seguire i dictat calati dall’alto.
E proprio qui si vede il più grande degli strappi del Movimento, ormai istituzionalizzato: l’esistenza di un alto, e la svalutazione del basso, di quel basso da cui doveva nelle origini provenire la democrazia, condivisa, partecipata. Eppure no, «nessuna mutazione, te lo ripeto. Non abbiamo sempre rispettato i patti? Restituiamo gli stipendi, non facciamo alleanze, due mandati e poi via? Manterremo anche questa». Anche questa, parola del “Dibba”, come confidenzialmente lo chiamano i suoi. Quindi nessuna candidatura a sindaco della Capitale? «Se a Roma si voterà prima della scadenza del mio mandato, io non posso candidarmi, quindi no. Non mi candiderò. Dopodiché, io non ci credo ai salvatori della patria, credo nella squadra. Senza, a Roma possono candidare pure De Gaulle».

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Left n. 36: “Renzi mangiatutto. Perchè il governo Renzi imita il governo Berlusconi e non il governo Prodi? “

Da sabato in edicola e qui sul nostro sfogliatore online: http://sfogliatore.left.it/ 

 

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Purtroppo, l’inizio del distacco, si sentiva proprio nella solitudine dei silenziosi consiglieri locali, comunali o regionali: quegli eletti, ancora sparuti, apripista di un sistema politico oppositivo, del tutto lasciati soli dal mainstream pentastellato e meritevoli di un post sul blog solo di rado o per essere rimessi in riga. C’era perfino un lessico, un tempo, guai a chiamarli onorevoli, guai a parlare di leader. E, un tempo, guai a prendere decisioni senza sottoporle alla rete, soprattutto perché era difficile controllarne la trasparenza. Oggi il proprio candidato in Rai lo si decide nelle segrete stanze: “non c’era tempo”, si dirà. E c’era, nel primo Movimento, una cosa che oggi è difficile anche solo pensare di proporre: la remissione del mandato. Ogni 6 mesi, i primi cittadini eletti in Regione, in Emilia-Romagna, si presentavano in tutte e nove le province e farsi valutare dai loro elettori. Eventualmente, erano pronti a lasciare la poltrona. Ogni sei mesi. Di questo, non c’è più traccia. Né nei nuovi, né nei vecchi. L’unico a far qualcosa di simile, è Patrizio Cinque, nuovo sindaco di Bagheria, che ha introdotto il “question time comunale” in cui i cittadini possono interrogarlo su scelte e problemi della città, e il sindaco sarà tenuto a rispondergli pubblicamente come da nuovo Statuto. I palchi e la tv, allora, per chi lavorava sul territorio, erano appaltati a Beppe e di ben poco interesse. Il leaderismo, come ben sanno gli ex consiglieri regionali Giovanni Favia e Andrea Defranceschi, quest’ultimo praticamente minacciato a mezzo blog perché colpevole di fare “scuole di politica”, semplicemente perché, a richiesta del territorio, era l’unico rappresentante a potersi radunare assieme ai nuovi arrivati e spiegare loro i tranelli del macchiavellico Pd.

Tutto questo perché, sul territorio, il blog taceva. Oggi, il contatto con i meet-up, è appaltato al Direttorio. Anche questo, calato dall’alto. Cosa sarebbe successo, nel Movimento delle origini, se qualcuno avesse proposto una struttura simile a una segreteria di partito? Impensabile. «Com’era impensabile due anni fa che avremmo avuto 1.700 eletti. E queste persone vanne messe in rete, quindi si sono affidate maggiori responsabilità, non un comando, a determinate persone. Tutto si evolve. Ma un membro del Direttorio vale quanto chiunque altro». Difficile crederlo, perché spesso sul territorio, l’uno vale uno si è trasformato nell’uno vale l’altro. Tuttavia, secondo il membro del Direttorio, «la fiducia generale nel M5s cresce, perché la coerenza, alla fine paga», probabilmente perché certe azioni, come la costruzione di una strada in Sicilia con i soldi restituiti, fanno più effetto dei proclami.

A proposito di coerenza però, a noi spiace ma la domanda sorge spontanea. Mentre scriviamo, Di Battista sarà a Ballarò. Tre anni fa Federica Salsi, consigliera comunale di Bologna, venne espulsa senza appello proprio per questo. A questo, il deputato si rifiuta di rispondere. E sempre a proposito di coerenza, un tempo, il protagonismo di pentastellati eletti era ritenuto il massimo oltraggio allo spirito del Movimento. Pazienza se quelli che lo gridavano prima, insultando, ora sono i primi a cavalcare palchi e decisionismo.

Come il consigliere comunale di Bologna Massimo Bugani. Ha recentemente annunciato che in barba ai saldi principi di democrazia dal basso, sarà lui a calare dall’alto la squadra che si proporrà alle prossime elezioni amministrative del 2016. «A me questo non interessa. A me interessa parlare della Terra dei fuochi, del fatto che a Taranto si muore ancora di tumore e della disoccupazione giovanile al sud». Perfetto, ma la disuguaglianza dei metodi resta. Due pesi due misure? «Il giorno in cui un candidato non verrà deciso dalla rete, ti darò ragione». Insomma, forse non ci sarà una metamorfosi, ma l’uguaglianza è una stella che nel Movimento è caduta presto. Una cosa, granitica, è però rimasta in piedi: il fine che giustifica i mezzi. E dunque, proprio in nome di questo principio, qualsiasi cambiamento è bene accetto. Si chiami pure evoluzione, che in effetti fa parte della storia di tutti i partiti.

 

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Un anno, un amico e Left. Una palestra di pensiero. Anzi di pensieri

Alessandro Gilioli Left

Domenica scorsa Facebook mi ha ricordato che un anno fa ho stretto amicizia con Alessandro Gilioli, giornalista de l’Espresso. E per ricordarmelo mi ha riproposto una foto del luogo in cui ci siamo parlati per la prima volta. Eravamo entrambi al congresso dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica. Ci siamo individuati e chiusi in un bar. Un anno fa mi ha detto cosa avrebbe fatto di Left. Un pensatoio, una palestra di pensiero, anzi di pensieri. Un giornale bello, profondo, completamente diverso dal resto. Diverso da tutto quello che circola sul web. Storie idee personaggi. I Politici? Solo quando se lo meritano. Così mi ha detto. Parole importanti, grandi, di cui “ho fatto tesoro”. Tutto il tesoro di cui sono capace. Gli esiti? Non so, mi direte.


Left deve essere un pensatoio, una palestra di pensiero, anzi di pensieri. Un giornale bello, profondo, completamente diverso dal resto. Diverso da tutto quello che circola sul web. Storie idee personaggi.
I Politici? Solo quando se lo meritano.

 

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Questa settimana siamo difficili. Ci scuserete? Ne valeva la pena. Inutile semplificare cose che semplici non sono. Abbiamo deciso di pubblicare, quasi per intero, un saggio di Nadia Urbinati perché ci è sembrato proprio bello. Intelligente. Difficile sì, ma come dice l’autrice stessa, «se invece di parlare coi twitter discutessimo di queste visioni, delle concezioni che danno forma alla politica politicata, forse faremmo un miglior servizio alla nostra discussione pubblica».
Ci vuole del tempo per leggerlo, il piombo è tanto e lo stile non è giornalistico. Anzi lo stile è difficile. Ma il “pensatoio” serve a pensare. E pensare serve alla sinistra che vogliamo costruire. Non contenti abbiamo chiesto a Vincenzo Visco, ex ministro del Tesoro del governo Prodi I e II, D’Alema I e II e Amato II, di ragionare sul saggio della Urbinati perché a sostegno della sua tesi porta proprio la politica fiscale di Renzi che salta dagli 80 euro all’abolizione della tassa sulla prima casa. E poi, dopo tanto ragionare, ce ne siamo andati per strada. A vedere se tutto quel pensare coincideva con quello strano “buon senso” che spesso le cose le “sente” e basta, come ci racconta il signor Carlo nell’articolo di Isotta Galloni.


Abbiamo deciso di pubblicare, quasi per intero, un saggio di Nadia Urbinati che spiega come si sia passati dal Partito della Nazione al Partito Piglia-Tutto. Perché questa è l’evoluzione del Pd ai tempi di Renzi

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Dal Partito della Nazione al Partito Piglia-Tutto, questa è l’evoluzione del Pd ai tempi di Renzi: «Che fine fa il Partito della Nazione quando l’ideologia che lo armava non c’è più? Come in una chiesa senza più fede e fedeli, il partito-totale di oggi assomiglia a un involucro vuoto (del resto anche di iscritti), riempito da un partito che è per davvero solo e soltanto un Partito Piglia-Tutto, il cui obiettivo è quello di affastellare tutti i voti possibili, da tutte le parti della società». Questo scrive Nadia Urbinati. Un partito involucro vuoto in cui tutto viene confuso e poi fuso. Destra e sinistra. Misure di destra e misure di sinistra. L’importante è prendere tutto. Un partito-Totale che non ammette più il partito-Parte, nel senso di partigiano. E che ci porta dritti al «Destrinismo» in cui “vale tutto”. “Vale tutto” in America è uno sport (Vale todu). E va per la maggiore in questo periodo. In cui “vale tutto”: calci, pugni, schiaffi, morsi, tutto per vincere il combattimento. Niente escluso. Questo vorrebbero farci credere. Niente è più escluso. E qui da noi “vale tutto”. Vale anche resistere lì dentro (al partito) accecati dalla «strategia dei due tempi e delle due politiche – una per vincere (di destra) e una per fare le cose giuste (o di sinistra)», come se il partito e il Paese fossero «una casamatta tenuta da un gruppo granitico di dirigenti che manovrano le truppe per un fine che loro assicurano essere quello giusto», precisa la Urbinati. Ma non è vero, e la palestra di pensieri serve a questo. Occorre guardare la realtà con occhi diversi e poi scrivere. Di idee, storie e personaggi. Questa settimana non potevamo non tornare a raccontarvi di Jeremy Corbyn e delle “reazioni” alla sua vittoria. “Persino un’associazione di attivismo politico. Farei anche questo di Left”. Così mi ha detto il mio amico. Un anno fa.