Home Blog Pagina 1293

Obama a 8 milioni di immigrati: «Diventate cittadini»

In questi giorni la Casa Bianca lancia una campagna, un sito e dei servizi online per incoraggiare i residenti stranieri che hanno titolo per farlo a fare domanda di cittadinanza. Facendo questo, dice il presidente nel videomessaggio (qui sotto) ai ragazzi e ai loro genitori stranieri che sono nel Paese da decenni, acquisirete diritti e poteri, e potrete perseguire il sogno americano. «Siate cittadini» dice Obama agli 8,8 milioni di immigrati che hanno potenziale diritto alla nazionalità.

Ecco la conferma che il presidente nero è un musulmano, non nato negli Stati Uniti, deve aver pensato qualche seguace di Salvini (e Calderoli).

Negli stessi giorni in cui Obama registrava e faceva mettere online il suo messaggio, i candidati repubblicani alle primarie si sbracciavano per convincere gli elettori del loro partito che no, loro non faranno nessuna sanatoria per gli irregolari e che, anzi, risolveranno il problema dell’immigrazione rispedendo milioni di persone in Messico. Solo il senatore Marco Rubio e Jeb Bush, che hanno come forza quella di essere figure potenzialmente capaci di attirare voti moderati, parlano delle necessità di riformare la legge sull’immigrazione, ma, quando dibattono con i loro avversari schierati più a destra, li rincorrono. O almeno, nel dibattito Tv di mercoledì scorso è successo così.

Del resto, sia Donald Trump che Rand Paul hanno messo in discussione il diritto di suolo come titolo per acquisire la cittadinanza.

Ma perché, mentre l’Europa si divide e complica la vita affrontando una crisi epocale – che non è un’ondata migratoria – negli Stati Uniti il presidente si prende la briga di chiedere agli stranieri di diventare americani?

La risposta cinica è semplice: è un calcolo elettorale. Ogni ora negli Stati Uniti nascono più ispanici, asiatici e afroamericani che non bianchi e nei prossimi venti anni la demografia elettorale è destinata a cambiare in maniera drammatica. Non solo, i cittadini naturalizzati votano più degli appartenenti alle comunità che invece sono nati nel Paese. Dev’essere la voglia di esserci.

Le scelte di Obama e dei democratici in materia di immigrazione e diritti degli stranieri sono dunque un bieco calcolo politico: concedere diritti per assicurarsi una porzione di elettorato in crescita costante. Con gli afroamericani è andata così: dopo che Lyndon Johnson pose fine alla segregazione legale dei neri, questi scelsero i democratici. Da allora non li hanno più lasciati. Se pure fosse vero, sarebbe buon senso: i partiti politici parlano e devono parlare alla popolazione che esiste, non a quella che immaginano o desiderano.


candidati-repubblicaniLa nostra guida alle primarie repubblicane

[divider] [/divider]
C’è anche un’altra spiegazione e riguarda il pragmatismo americano – e la storia di un Paese cresciuto grazie all’immigrazione. E anche la biografia personale di Obama.

Gli Usa, come anche l’Europa, sono un Paese che invecchia. Senza le minoranze e l’immigrazione presto ci si troverebbe con carenza di manodopera, mancato prelievo fiscale e un drammatico buco nel lavoro di cura e welfare – che è uno dei segmenti del mercato del lavoro in crescita, proprio a causa dell’invecchiamento della popolazione. Favorire ingressi regolari e stabilizzare famiglie ha come cascame quello di dare stabilità al tessuto demografico del Paese.
Avere più cittadini e meno immigrati significa anche rendere meno precaria la società, rafforzare il senso di appartenenza al Paese di milioni che ci abitano e si sentono ospiti.

Quanto al presidente, la sua visione è quella di un uomo di mondo in senso stretto. Obama è figlio di un kenyota, ha vissuto in Indonesia ed è cresciuto con dei nonni bianchi alle Hawaai, arcipelago pieno di asiatici. Una persona con una biografia simile sa bene che le identità contemporanee sono complicate – sulla sua ha scritto Dreams of my father, il libro che lo ha reso famoso – e che dare cittadinanza significa far sentire i non-cittadini che vivono, lavorano e moriranno negli Stati Uniti, parte di qualcosa. Non si tratta di essere di destra o di sinistra, ma pragmatici. Si tratta di saper guardare al futuro. Quello che non sanno fare i governanti europei, incapaci di dire qualcosa di sensato su un tema epocale che riguarda tutti. E che, come Jeb Bush e Marco Rubio, che rincorrono i loro avversari di destra, si fanno dettare l’agenda da Matteo Salvini, Viktor Orban e Marine Le Pen.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link]@minomazz

 

 

Europa blindata. Il blocco dell’Est adotta la linea dura

Da quando si è affollata, la balkan route, la strada percorsa dai profughi attraverso i Balcani, è diventata scenario di detenzioni arbitrarie e respingimenti violenti, gas lacrimogeni e manganellate. Muri e leggi repressive. La frontiera Est d’Europa, è evidente, sta adottando la linea dura. Una linea documentata da Amnesty international in un lungo e dettagliato rapporto, che mette in fila le violazioni dei diritti umani di quello che l’Ong definisce un percorso “certainly not safe”.

Muro dopo muro, è la costruzione di una neoCortina di ferro quella a cui assistiamo. Anche la Croazia nella notte tra il 17 e il 18 settembre, ha di fatto chiuso 7 valichi di frontiera su 8 con la Serbia – eppure il premier Zoran Milanovic aveva rassicurato: «Per ora non impediremo a nessuno di entrare in Croazia ma neanche di uscire dal Paese». Resta aperto alla circolazione un solo valico, quello di Bajakovo. In 48 ore Zagabria ha registrato 13mila ingressi e «non abbiamo le capacità per accoglierne altri», ha reso noto il ministro dell’Interno croato Ranko Ostojic.

Ma Belgrado non ci sta. La Serbia, dal canto suo, annuncia che «se anche la Croazia chiuderà il confine farà istanza alle sedi giudiziarie internazionali». Le parole inequivocabili sono del ministro del lavoro e affari sociali Aleksandar Vulin. Del resto Belgrado si è appena vista costruire un muro lungo il confine con l’Ungheria e adesso vede un’altra barriera con la confinante Croazia. Quello stesso confine che in queste ore è diventato un campo di battaglia: scontri tra la polizia croata e migranti che hanno sfondato i cordoni degli agenti alla stazione di Tovarnik.

RefugeeCrisis_WesternBalkanRoute_DailyMap

I cambi di rotta sono sotto gli occhi di tutti. Anche chi attraversa la porta Est ha come meta finale la Germania, Paese in cui gli arrivi oscillano tra i 6 e i 9mila al giorno. «Quasi tutti provengono dall’Austria, circa 2mila sono arrivati in treno e molti altri dei 7.100 a piedi», ha precisato la polizia tedesca. E questo nonostante i controlli ripristinati tanto in Germania, quanto in Austria e Slovenia.

Proprio la Slovenia, infatti, è il nuovo fronte di transito. Paese membro dell’Ue e dell’area Schengen, a seguito della chiusura delle frontiere sia ungheresi che croate, è proprio la Slovenia adesso a “candidarsi” come tappa obbligatoria per il flusso di migranti. Le autorità slovene hanno già allestito campi per l’accoglienza e il primo ministro Miro Cerar ha annunciato che il Paese «consentirà il transito soltanto a coloro che rispettano i requisiti Ue».

In allarme anche l’Italia. Il Viminale – ha detto il ministro Alfano – è preoccupato perché, date le chiusure di questi giorni, i flussi potrebbero piegare verso i confini italiani.
E ha annunciato che potenzierà i posti di polizia alla frontiera nordorientale, soprattutto a Gorizia.


I muri e le barriere in tutto il mondo (dati Economist.com)

L’Ungheria si auto-recinta. Intanto Orban ha già “ordinato” che la barriera di lamette e filo spinato – quello alto 4 metri e lungo 175 chilometri – venga esteso anche al confine croato: altri 41 chilometri. L’Ungheria si blinda, alzando muri tutto intorno a se stessa, perché – sostiene il premier magiaro – «non possiamo aspettarci alcun aiuto dalla Serbia, dalla Croazia o dall’Europa occidentale nell’affrontare la crisi dell’immigrazione».

Le crepe di Schengen. Introdurre controlli alla frontiera significa anche sospendere Schengen (qui trovate un documento della Commissione che spiega il trattato), ovvero lo spazio di libera circolazione all’interno della Ue entrato in vigore il 26 marzo 1995 e oggi valido per 26 Stati membri (Croazia, Cipro, Bulgaria e Romania hanno sottoscritto l’accordo che però non è ancora entrato in vigore). E sono molti i paesi che hanno già agito in tal senso: Germania, Austria, Slovenia, Ungheria. Anche la Bulgaria è in allerta, il governo ha già inviato 50 soldati a presidiare il confine con la Turchia e in queste ore potrebbe inviarne degli altri.

L’ipotesi di sospendere il trattato di Schengen è ormai all’ordine del giorno dell’Ue, nel caso in cui si «presenteranno serie problematiche che costituiscono una minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna nell’area Schengen», riporta il testo che circola da settimane tra le mani di ministri e capi di governo della Unione: «Il Consiglio potrà allora raccomandare che uno o più Stati reintroducano i controlli ai confini interni». Anche di questo – oltre che del ricollocamento immediato di 40mila richiedenti asilo e dell’apertura di hotspot e centri di accoglienza cofinanziati dall’Ue – si discuterà al prossimo vertice, fissato per il 23 settembre. Il presidente Donald Tusk ha infatti convocato l’ennesimo vertice straordinario di capi di Stato e di governo.

La terrorizzata Unione europea rischia di rinunciare a un trattato fondante, quello di Schengen. Sarebbe, forse, la prima tangibile sconfitta per l’Unione. Ma il blocco dell’Est rifiuta le politiche di accoglienza e continua a usare il pugno di ferro. Eppure è sui principi di quelle politiche che si è fondato il loro ingresso nell’Unione europea.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ]https://twitter.com/TizianaBarilla[/social_link] @TizianaBarilla

Trivelle, nove Regioni verso un referendum per dire no

Un referendum di iniziativa regionale per dire no alle estrazioni petrolifere nei mari italiani. Sono nove le Regioni che oggi si sono impegnate ad approvare in tempi brevi una delibera per promuovere l’abrogazione della parte di Sblocca Italia che dà il via libera alle trivelle.

Riuniti alla Fiera del Levante di Bari, i presidenti di Puglia, Abruzzo, Basilicata, Calabria, Marche e Molise – cui si sono associate a distanza Sardegna, Sicilia e Veneto (che ha manifestato interesse annunciando che se ne discuterà in consiglio il 25) – hanno annunciato le date in cui approveranno in consiglio regionale le delibere contenenti i quesiti.

Comincia domani la Basilicata, seguita da martedì 22 da Abruzzo, Marche Molise, Puglia e Sardegna. Tutte approveranno lo stesso testo per ribadire che davanti alle loro coste va fermata la ricerca e lo sfruttamento di petrolio «per un quantitativo così esiguo che non vale assolutamente la pena di rischiare di compromettere per sempre il nostro mare e il turismo collegato» spiegano.

Entro il 28 settembre tutte le regioni avranno chiesto con delibera l’indizione di un referendum per abrogare, tre gli altri, l’articolo 38 del decreto Sblocca Italia (il n. 133/2014, convertito con modifiche con la legge 164 dell’11 novembre 2014), lo stesso “preso di mira” da uno dei quesiti referendari per i quali sta raccogliendo le firme Possibile.

L’articolo in questione, oltre a dichiarare di interesse strategico nazionale le attività di «prospezione, ricerca e coltivazione di gas e petrolio», rende sufficiente una concessione unica e assegna al ministero dell’Ambiente i poteri sostitutivi nel caso le Regioni non completino ile procedure di Valutazione dell’impatto ambientale entro il 31 dicembre. E l’autorizzazione avrà anche effetto di variante urbanistica.

Prossimo appuntamento delle regioni anti-trivelle, il 9 ottobre, per fare il punto della situazione a valle dell’approvazione delle delibere. Il governatore della Puglia Michele Emiliano, smorza i toni e sottolinea che non è una rivolta contro il governo Renzi, ma che l’intento è quello di puntualizzare le prerogative costituzionali delle Regioni.

Dal canto loro, le associazioni ambientaliste e i comitati locali, presenti all’incontro di questa mattina a Bari, festeggiano il punto segnato «a favore delle energie pulite e contro gli interessi della lobby petrolifera che pressa il governo». Ma a decidere la partita, se non arriva prima una modifica parlamentare della norma, saranno le urne.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/RaffaeleLupoli” target=”on” ][/social_link]@RaffaeleLupoli

I massacri di Sabra e Chatila. Cosa successe in quei giorni

valzer con bashir

Quasi 40 anni fa, esattamente tra il 16 e il 18 settembre 1982, si compiva uno dei peggiori e agghiaccianti massacri della storia: quello del quartiere di Sabra e del campo profughi di Chatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut, in Libano. Tra i 1500 e i 3000 palestinesi furono barbaramente uccisi dalle falangi cristiano maronite libanesi e dall’esercito del Libano del Sud, con la complicità di Israele, che aveva lanciato la sua operazione “Pace in Galilea”, invadendo il paese per la seconda volta. sabra1-400x604Quella guerra fece 20.000 vittime e distrusse un intero paese. Bombardamenti, bombe a grappolo e al fosforo, ridussero il Libano e la sua capitale ad un cumulo di macerie fumanti. Ed è nella periferia della capitale che l’esercito libanese ordinò lo sterminio finale. La guerra, iniziata nel giugno del 1982 su suolo libanese e condotta da Israele per combattere l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina guidata da Yasser Arafat, stanziata ormai in Libano dal 1948, raggiunse il suo apice all’inizio del mese di settembre. Dopo l’attentato dinamitardo a Bashir Gemayel, da poco eletto Presidente del Libano, le forze israeliane, alleate del governo libanese, occuparono Beirut Ovest. Il generale dell’esercito israeliano Ariel Sharon decise di chiudere ermeticamente i campi profughi e di mettere cecchini sui tetti di ogni palazzo. Niente e nessuno poteva entrare nei campi. Ebbero quindi gioco facile le milizie cristiane libanesi, costituite dai falangisti: dinanzi a loro quasi solo donne, anziani e bambini.


 Ariel Sharon, generale dell’esercito israeliano, decise di chiudere ermeticamente i campi profughi e di mettere cecchini sui tetti di ogni palazzo. Le milizie cristiane libanesi ebbero gioco facile. Mai uno sterminio così atroce fu compiuto sotto gli occhi di un esercito di un paese democratico.

[divider] [/divider]

Pochi giorni prima, infatti, si era firmato un accordo per il quale i fedayin palestinesi, militanti della guerriglia armata palestinese contro lo Stato israeliano, avevano accettato di lasciare il Libano in cambio della garanzia di una protezione internazionale sulla popolazione palestinese rimasta. Ma la protezione non ci fu. Persone inermi, indifese e disarmate furono sgozzate come animali, le donne violentate, i corpi dei bambini sventrati e mutilati. Mai uno sterminio così atroce era stato compiuto sotto gli occhi di un esercito e di un paese democratico.

Quando i giornalisti stranieri e la Croce Rossa entrarono nei campi il giorno dopo provarono solo orrore. Sembrava di vivere in un incubo: donne che urlavano sui corpi dei loro cari, che vagavano tra i vicoli, bambini che piangevano in mezzo ai corpi senza vita stesi sotto il sole. Elaine Carey, giornalista del Daily Mail, in un articolo del 20 settembre 1982, raccontò così la tragedia di quei giorni: «Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore».


 «La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore»

Elaine Carey, giornalista del Daily Mail, in un articolo del 20 settembre 1982

[divider] [/divider]

Loren Jankins, autorevole firma del Washington Post, raccontò con altrettanto crudo realismo l’orrore a cui stava assistendo inerme: «La scena nel campo di Chatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l’angolo, in un’altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso gli edifici vuoti – dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 – raccontava la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull’altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche».

100_0213

img_57761

IMG_4206

Nelle foto: alcune donne durante le commemorazioni della strage mostrano le foto dei loro cari vittime del massacro

Il 16 dicembre 1982, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con una risoluzione condannò il massacro, definendolo un atto di genocidio. L’8 febbraio 1983, la Commissione Kahan, istituita dal governo israeliano stesso, giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano state le falangi libanesi, guidate da Elie Hobeika. Hobeika non fu mai processato e durante gli anni novanta fu più volte deputato e ministro in vari Governi libanesi, avvicinandosi sempre più alla Siria. Morì il 24 gennaio 2002 in un attentato.

Pertini in Libano

La stessa Commissione ammise la responsabilità indiretta del Primo Ministro israeliano Menachem Begin, del Ministro della Difesa Ariel Sharon, del Capo di Stato Maggiore Rafael Eitan e di altri ufficiali per aver ignorato quanto stava accadendo e non aver cercato di fermare il massacro. La Commissione suggerì inoltre le dimissioni di Sharon, mai attuate. Il 31 dicembre 1983, durante il discorso di fine anno, il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini, dopo essere stato a Sabra e Chatila, condannò con dure parole gli esecutori dell’eccidio di massa: «Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. E’ una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. E’ un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società». A 33 anni di distanza, invece, i colpevoli del brutale eccidio rimangono ancora impuniti e le vittime, i palestinesi, ancora senza pace e senza giustizia.

Nella foto in testa all’articolo un fotogramma del film-grafic novel “Valzer con Bashir” che racconta anche i fatti di Sabra e Chatila 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/schultzina1″ target=”on” ][/social_link]  @schultzina1

No, papa Francesco, preferisco restare tentatrice

Il serpente aveva detto ad Eva che la conseguenza del mangiare i frutti dell’albero proibito sarebbe stata l’ «apertura degli occhi» e il diventare «come Dio» (o «come una divinità»), cioè in grado di discernere il bene dal male.

Il resto della storia la conoscete. Il morso, la caduta, la mortalità. Il peccato originale. La donna tentatrice, “porta del male” addirittura. Male inteso come capacità di discernere? Come apertura degli occhi? Come lascivia? Comunque secoli di roghi. Io li ho studiati tutti, dalle prime herbarie, donne medico nelle campagne dei secoli alto medievali che dispensavano cure, per aiutare la vita e la morte alleviandone i dolori, alle streghe dei secoli basso medievali bruciate nelle piazze dell’Inquisizione. Le stesse donne a cui la Chiesa tolse il “patentino” di curatrici. Perché quelle cure, quella conoscenza o anche solo quella prassi era opera del demonio, era male e non bene. Il dolore, la morte, la vita erano un dono di Dio. E nessuna poteva interferire.

Secoli di gloriosa ribellione delle donne. Indimenticabile Ildegarda di Bingen, Trotula di Salerno e tutte quelle anonime donne “porte del male”, tentatrici dagli “occhi aperti” che, nascoste si opposero, al modello di madre e moglie imposto dalla Chiesa di Roma.

Tremo all’idea che ci venga tolto anche questo. Anche questo glorioso passato di identità di tentatrici, di peccatrici, di porte di un “male” che io intendo come rottura di schemi, ricerca di conoscenza, ribellione a quel modello di vita e di umanità, per schiacciarci in quello che Francesco ha chiamato: «Una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». E temo anche quei tutti che subito gridano “bravo Francesco, quanto è moderno Francesco”.

Possibile che non si accenda alcuna spia di allarme nella mente di nessuno di questi? Perché lo fa? perché lo dice? Perché farlo in un momento in cui i roghi non si rischiano più, al limite si rischia la “definitiva” libertà di dire No. No al matrimonio, no ai figli. No. “Sacrosanti” no. «La donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge», ha detto il papa. Ha spiegato il motivo, non siamo il male, anzi noi, donne, produciamo e proteggiamo i figli dal male. Madri dunque. Sempre e solo madri. Custodi di piccoli animali possibili prede del male. «Cristo è nato da una donna – ha aggiunto poi durante l’udienza di qualche giorno fa a piazza San Pietro – e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto». Sì Cristo è nato da una donna, è vero. Illibata lei e illibata sua madre che l’ha generata. Dunque il modello è quello: madre e moglie, per giunta illibata. Che porta avanti questa creazione di Dio sulle nostre piaghe e sui nostri peccati.

Allora io vi dico, timidamente ed educatamente, grazie No. Preferisco la tentatrice, la peccatrice.

La donna non è il male, per il papa che vuole rompere questo offensivo luogo comune, perché salverebbe la famiglia (quella tra uomo e donna ovviamente) e la famiglia poi («questa alleanza, la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ‘nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo») salverebbe il mondo dal disastro.

Ecco, io il mondo non lo voglio rendere domestico, non voglio essere liberata da nessun male se questo vuol dire essere riconosciuta solo come madre e moglie all’interno di quel progetto sulle nostre piaghe e i nostri peccati.

Preferisco gli occhi aperti.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ilariabonaccors” target=”on” ][/social_link] @ilariabonaccors

Migranti e storie di vita al Festival della Fotografia Etica

© Giulio Piscitelli/Contrasto
© Giulio Piscitelli/Contrasto

La foto scioccante del bambino siriano morto sulla spiaggia ci  apre gli occhi sul modo disumano e criminale con cui l’ Europa tratta l’emigrazione? Oppure pubblicarla aiuta solo le nostre lacrime di coccodrillo?  In molti dicono invece che quella foto scattata sulla spiaggia di Bodrum è come quella della bambina vietnamita che scappava dalle bombe al Napalm, che è diventata un  simbolo imperituro della ferocia della guerra americana in Vietnam. E se è vero, come sostiene un fotoreporter come Ferdinando Scianna in Etica e fotogiornalismo (Skira), che non esiste un’etica specifica della fotografia ma esiste un’etica più generale che viene dal rapporto con la realtà dell’altro, è pur vero che situazioni drammatiche che il fotorepoter è chiamato a documentare fanno scattare una ridda di domande su ciò che è lecito o meno, andando alla ricerca dei modi migliori, più efficaci, emotivamente potenti e insieme rispettosi di fare questo mestiere.
Proprio di questo si discuterà alla VI edizione del Festival della Fotografia Etica che prenderà il via il  10 ottobre a Lodi.

 

Ed Kashi_HIGH RES_01
© Ed Kashi/VII

Streets of Athens
© Francesco Anselmi/Contrasto

Ed Kashi tagliatori di canna da zucchero, Chichigalpa, Nicaragua

Pablo Ernesto Piovano_Hi RES_01
© Pablo E. Piovano

civil war in rca
© Ugo Lucio Borga/Echo photojournalism

Francesco Anselimi, Pattuglia anti immigrati per le strade di Atene

Pablo Ernesto Piovano, Un bambino affetto da Ittiosi, la madre lavorava con gli erbicidi durante la gravidanza, provincia di Misiones, Argentina

Ugo Lucio Borga, Visita del presidente Samba Panza al campo profughi di Saint Paul

Valery Melnikov_HR_02
© Valery Melnikov

Valery Melnikov Civili fuggono dalla loro casa distrutta da un attacco aereo Luhanskaya, Ucraina

ElenaAnasova_HR03
© Elena Anosova

Elena Anasova, L’intimo dell’uniforme ha una sola taglia

Nata nel 2010 la kermesse ideata dal  Gruppo fotografico progetto immagine invita ad approfondire e discutere in dibattiti, esposizioni e workshop temi che chiedono al repoter una particolare sensibilità e attenzione verso i soggetti fotografati. Spesso si tratta di bambini  che giustamente, come avverte la nostra Carta di Treviso,  si possono fotografare solo se questo è nel loro interesse, se li aiuta ad uscire da situazioni difficili e che mettono a rischio la loro vita. Più in generale il fotoreporter si trova a che fare con situazioni di guerra o di oppressione che devono essere denunciate e fatte conoscere al grande  pubblico ma in modo rispettoso verso chi vi si trova coinvolto. Un caso emblematico è quello che riguarda i migranti, di fatto,  truffati e abusati dagli scafisti nel Mediterraneo ma anche violentati dagli obiettivi di fotografi  che non ne rispettano la dignità di essere umani e che soffiano sul fuoco dell’allarmismo. Per mostrare come la fotografia in questo caso possa evitare le trappole della retorica e, peggio ancora, del razzismo, Fotografia etica si è affidata  a Jocelyn Bain Hogg e a Massimo Sestini rilanciando il suo celebre scatto di un barcone carico di gente ripreso dall’alto; immagine diventata a sua volta un simbolo, in questo caso dell’epos dei migranti.

Un altro filone della rassegna che proseguirà fino al 25 ottobre riguarda  la sfera nutrizionale, il cibo e  la sua produzione.  Sotto il titolo Il cibo che uccide sono riunite quattro mostre che indagano realtà drammatiche, si tratta di Under Cane: A Worker’s Epidemic di Ed Kashi, A Life Apart: The Toll of Obesity di Lisa Krantz, El costo humano de los agrotóxicos di Pablo Ernesto Piovano e Terra Vermelha di Nadia Shira Cohen e Pablo Siqueira.  Una sezione della mostra sarà riservata alle Ong presentando i lavori commissionati da alcune organizzazioni non governative ad alcuni fotoreporter di fama  o emergenti. Mentre della sezione Uno sguardo sul mondo, faranno parte una serie di mostre importanti, come Tra terra e nuvole – cronache dalla Grecia di Francesco Anselmi, Black Days of Ukraine di Valery Melnikov e Where Love is Illegal di Robin Hammond. Last but not least il premio:  The World Report Award Documenting Humanity quest’anno è stato assegnato a Giorgio Piscitelli, Elena Anasova, a Mariano Silletti

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”on” ][/social_link]@simonamaggiorel

Dai centri sociali al campo di Roszke in Ungheria: «La sinistra deve fare di più»

Il suo nome significa “mare nostro” – i genitori divisi dal mar Adriatico lo chiamarono così – e Detjon Begai, attivista del centro sociale Labàs di Bologna ne va particolarmente fiero. Lo ha anche detto all’assemblea di Coalizione sociale domenica 13 settembre focalizzando l’attenzione – più di altri – su un tema su cui la sinistra, ha sottolineato, «non ha una narrazione forte»: i migranti e la situazione storica che l’Europa sta vivendo. Tra l’altro, quando ha parlato era appena tornato da un viaggio, insieme a due compagni dei centri sociali, nell’Ungheria dei fili spinati e delle migliaia di siriani in fuga. Dove già si preannunciava la violenza di queste ultime ore. A Detjon, studente di Giurisprudenza a Bologna nato 24 anni fa in Albania e arrivato a 10 mesi in Italia chiediamo di raccontare a Left le sue impressioni sul viaggio in Ungheria ma soprattutto una riflessione su come la sinistra si pone rispetto al problema dei flussi migratori così impetuosi e carichi di responsabilità da parte di tutta l’Europa.

Cominciamo dal viaggio in Ungheria. Com’è che siete partiti?

La situazione stava evolvendo, erano i giorni in cui la marea di migranti era ferma alla stazione a Budapest. Siamo partiti in tre, non avevamo le idee chiare ma siamo rimasti colpiti da quella straordinaria rete – Refugee convoy – organizzata attraverso i social da centinaia di cittadini austriaci. Un atto di disubbidienza civile, con tutte quelle auto che andavano a prendere i profughi in Ungheria per portarli in Austria. Una volta arrivati a Budapest, siamo andati alla stazione centrale, dove allora la situazione si era un po’ normalizzata, con i convogli che partivano e venivano accolti tra gli applausi in Germania.

Poi siete andati anche al confine con la Serbia, al famigerato campo di Roszke.

Lì abbiamo assistito all’inganno in cui sono stati fatti cadere i profughi. Dalla Serbia li avevano trasportati in autobus facendogli credere che li avrebbero portati a Budapest, invece li hanno scaricati nel campo a un chilometro dal confine. Nei giorni successivi abbiamo assistito agli scontri, violenti, che però non sono stati documentati. I profughi erano ammassati a migliaia in un campo dove erano separati per settori. Li controllavano continuamente, dandogli solo un pezzo di pane e una bottiglietta d’acqua la mattina mentre la notte era un Far West, perché cercavano di scappare in tutti i modi possibili. Lo stesso luogo in cui la reporter ungherese ha preso a calci coloro che cercavano di forzare il blocco.

[huge_it_gallery id=”33″]

(Le foto scattate da Detjon Begai a Roszke)

E adesso costa accadendo in Europa a livello di movimenti sul tema dei migranti?

È aumentato il livello di discussione e anche di azione. Noi facciamo parte della rete di Blockupy – la stessa che protestò a Francoforte -, questo week-end si riunisce per preparare la manifestazione del 15-17 ottobre, in cui ci sarà una giornata dedicata al tema dei confini. Le cose sono in continuo movimento: oggi mi è arrivata una mail dalla Slovenia dove vogliono formare una carovana che vada verso la Croazia (dove si stanno concentrando i profughi che non possono passare dall’Ungheria Ndr).

Veniamo alla sinistra, tu hai parlato chiaro all’assemblea della Coalizione sociale. Hai detto di un’assenza di riflessione sul problema dei migranti.

Quello di sinistra è stato un europeismo non abbastanza antirazzista. La sinistra si è costruita una narrazione debole, è stata “mangiata” proprio sul tema dei confini e di una nuova idea di cittadinanza. Come si fa a ripensare l’Europa se non si affronta il tema dei diritti dei cittadini in questa fase storica? A me ha stupito molto questa carovana di auto partita dall’Austria, mi è sembrato un gesto di consapevolezza politica straordinaria, oltre che un atto concreto che li ha strappati, per esempio, dalle mani dei trafficanti.

Forse è arrivato il momento in cui a sinistra ci si ponga il problema dei migranti dal punto di vista più “alto” nell’ambito di una lotta per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani?

Il dibattito italiano è molto schiacciato sul tema dell’accoglienza. Ma stiamo sottovalutando il tema della libertà di scelta: i migranti devono avere il diritto di arrivare a destinazione, questo è il punto. Non c’è dubbio che bisogna fare di più, e anche interpretare la migrazione con nuove categorie e non con più con quelle del passato. Ho provato a dirlo alla Coalizione sociale: cos’è un atto solidale e cos’è un atto politico? E questo lo dico anche come autocritica perché appartengo al mondo dei movimenti e di centri sociali. Abbiamo sempre visto questo tema dei migranti da un punto di vista caritatevole – le scuole di italiano, i servizi -, in realtà in questo momento di fronte a una trasformazione epocale del genere, qualunque atto tu fai di sostegno ai migranti è di sicuro un atto politico e questo va rivendicato. Non si deve sfilare per i migranti ma a fianco dei migranti. La loro pressione ora sta trasformando l’Europa, perché sia accogliente, rompa le disuguaglianze. Come si fa a slegare il sistema dell’austerity e il nazionalismo con il discorso dei confini?

All’interno della Coalizione sociale il tema non è ancora un po’ debole?

Nei partiti e nei movimenti sta cambiando tutto a sinistra, con percorsi comuni anche se un po’ caotici, anche difficili da leggere, ma un po’ di fermento c’è. Dentro la coalizione sociale, negli ultimi giorni c’è stato un buon dibattito, penso che si sono evidenziate azioni di solidarietà importanti e esplicitamente politiche. Mi riferisco anche all’Arci con cui, per esempio, noi che veniamo dai centri sociali, in passato non c’è mai stata una sinergia. Adesso invece, si possono trovare modi di lavorare comuni; in questo senso l’intervento di Filippo Miraglia (vicepresidente e responsabile immigrazione Arci Ndr) è stato positivamente radicale. Insomma, bisogna stare con i migranti che sono il diritto vivente di questa Europa, rispetto al diritto morto dei trattati che fanno morire le persone in mare.

La legge anti-profughi della Lombardia (e i numeri dell’accoglienza in Italia)

In Lombardia, se sei un albergatore e ospiti dei profughi (e ricevi per questo i contributi dello Stato), non riceverai i contributi regionali. È quanto deciso – e approvato – ieri dal Pirellone. Un pratico disincentivo di cui è molto fiero il governatore leghista Roberto Maroni. E ancor di più Matteo Salvini, che non ha aspettato nemmeno una manciata di minuti per esultare sul suo (solito) twitter. L’emendamento – discusso a lungo e spesso al centro di dure polemiche – alla fine è stato approvato ed è quindi legge. Maroni, per portare a casa questo risultato ha dovuto fare un paio di passi indietro: il testo originale prevedeva pure una sanzione da 5 a 10mila euro e la sospensione dell’attività da sei mesi a un anno per i gestori delle strutture alberghiere. Ma alla fine ha potuto contare su una maggioranza che va da Forza Italia alla Lista Maroni e tiene dentro Ncd. Sì, proprio Ncd, che su questa vicenda mette a nudo una forte spaccatura. Roma, che ha a capo del Viminale il massimo esponente di Ncd, minaccia di impugnare questa legge presso la Corte costituzionale come discriminatoria.

 

La nuova legge regionale, di fatto, si rivela penalizzante nei confronti degli albergatori che ospitano – o hanno ospitato – profughi: non potranno ricevere i contributi regionali per acquisto, costruzione, riqualificazione, ristrutturazione e ammodernamento degli immobili. Non potranno contare sulla loro Regione, insomma. E l’unica “salvezza” è dimostrare di essere stati costretti dal prefetto.

Il Testo dell’emendamento approvato

«I contributi di cui al comma 1, nel caso in cui i richiedenti siano strutture ricettive alberghiere e non alberghiere ai sensi della presente legge, possono essere concessi esclusivamente qualora il fatturato o il ricavato dell’attività ricettiva degli ultimi tre anni sia integralmente derivante dall’attività turistica. Nel fatturato o ricavato non sono computate le entrate relative ad attività conseguenti a clamità naturali o altri eventi determinati sda disastri naturali o incidenti di particolare rilevanza o altresì in esecuzione di specifici provvedimento coattivi». (emendamento 113 alla legge regionale sul turismo in Lombardia)

Registrateli, registrateli, continua a chiedere l’Europa. Ma poi, pur riuscendo a registrarli, dove vanno a finire? Il sistema Dublino – ricordiamo – è ancora in vigore, nonostante le buone intenzioni. E le quote – ricordiamo anche questo – sono ancora sulla carta, nonostante gli infiniti vertici. Perciò l’Italia, come anche la Grecia e adesso i Paesi di frontiera dell’Est Europa, continua a ricevere migranti, ogni giorno, senza sosta.

Qual è lo stato dell’accoglienza in Italia?

I grandi centri sparsi sul territorio nazionale sono 23, sono elencati sul sito del ministero dell’Interno. E ospitano 32.471 stranieri (dato di fine 2014). La Regione che ne conta di più è la Sicilia.

infografica-cie

I 4 Centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa) ospitano gli stranieri al momento del loro arrivo in Italia: prime cure mediche, fotosegnalazione, richiesta protezione internazionale. Successivamente, a seconda della loro condizione, vengono trasferiti nelle altre tipologie di centri.

Le 14 strutture tra Centri di accoglienza (Cda) e Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara): garantiscono prima accoglienza allo straniero rintracciato sul territorio nazionale per il tempo necessario alla sua identificazione e all’accertamento sulla regolarità della sua permanenza in Italia. Nel Cara vengono inviati gli stranieri irregolari che richiedono la protezione internazionale, per l’identificazione e l’avvio delle procedure relative alla protezione internazionale.

I 5 Centri di identificazione ed espulsione (Cie): per stranieri giunti in modo irregolare non fanno richiesta di protezione internazionale o non ne hanno i requisiti. Il tempo di permanenza (18 mesi al massimo – link al decreto legge n.89/2011 convertito dalla legge n.129/2011) è funzionale alle procedure di identificazione e a quelle successive di espulsione e rimpatrio.

Il Viminale annuncia un nuovo approccio di accoglienza: basta grandi centri e accoglienza diffusa con gli Enti locali. Lo ha fatto anche il capo del dipartimento Immigrazione, senza peli sulla lingua: Morcone. È in questa direzione che dovrebbe, quindi, muoversi il nuovo bando per potenziare di 10mila posti i progetti Sprar. Bando, già annunciato sia dal Viminale che dall’Anci di Piero Fassino. Ma sono ancora pochi i Comuni a usare fondi e progetti Sprar: 500 su 8.100.

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. Insieme al terzo settore, negli Sprar, si garantiscono interventi di “accoglienza integrata”, superando la sola distribuzione di vitto e alloggio, e prevedendo misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento.

I progetti Sprar sono in 500 Comuni e ospitano 22mila richiedenti.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Renzi mangiatutto

Ma quale partito della Nazione, quello di Matteo Renzi è una partito “destrinistra” in cui destra e sinistra si mischiano, in un vortice di tattiche astute, pur di ottenere voti, come dimostra l’annuncio dell’abolizione della tassa sulla casa. Al nuovo corso impresso al Pd Left dedica la sua storia di copertina partendo da un saggio della politologa Nadia Urbinati che scrive: «Come in una chiesa senza più fede e fedeli, il partito-totale di oggi assomiglia a un involucro vuoto (anche di iscritti) riempito da un partito che è solo e soltanto un Partito-pigliatutto».

E così si dimostra la scelta ideologica di togliere l’Imu, nell’ottica di una politica fiscale «che potrebbe essere fatta da un partito di destra». Left ha voluto approfondire il tema della politica fiscale con una lunga intervista a Vincenzo Visco. Quella del premier «è una linea sbagliata», afferma l’ex ministro delle Finanze del governo Prodi, D’Alema e Amato che fin dall’inizio si è detto contrario alla proposta di Renzi. «La cosa che più mi preoccupa del premier è l’assoluta inconsapevolezza della complessità del sistema fiscale», conclude l’ex ministro che concorda con Urbinati: «Io penso che Renzi sia uno che cerca in ogni modo di ottenere consensi, l’anno prossimo ci sono le amministrative e per quelle vuole dare un segnale».

In Società Left indaga sui fermenti e maldipancia tra i partiti. Ncd sempre più nel guado, tra la trattativa sull’Italicum, il tema delle alleanze e il voto al Senato; Sel in cui Elettra Deiana non risparmia critiche a Vendola, il Movimento cinque stelle dove nonostante quello che dichiara Alessandro Di Battista è in atto una metamorfosi. Infine, Stefano Fassina, racconta dell’incontro della sinistra europea a Parigi con Varoufakis, Mélenchon e Lafontaine, e spiega cosa sia e a cosa serva il piano B che contempla una possibile uscita dall’euro. In primo luogo ad evitare ricatti. E ancora: un reportage da una fabbrica chiusa (la Rimaflow) che è passata dalla produzione di tubi al limoncello, l’abbazia di Trivulzi (Frosinone) in stato di abbandono e l’odissea delle piste ciclabili a Roma grazie alle uscite del nuovo assessore Pd Esposito.

Negli Esteri Umberto De Giovannangeli racconta il regime eritreo, che dal Paese africano, oltre che dalla Siria, arrivano una parte cospicua dei richiedenti asilo sulle nostre coste. Ha appena vinto le primarie del Labour in Gran Bretagna, e Left non può non approfondire il personaggio Jeremy Corbyn.  E ancora: il punto sulle elezioni in Catalogna dove Podemos spera in un nuovo colpaccio e due reportage: dal Kosovo, Paese ancora diviso tra due popoli e dall’isola di Giava dove nelle miniere di zolfo il lavoro è disumano.

Apre la Cultura un’ampia intervista allo scrittore argentino Marcelo Figueras che ha appena pubblicato per L’Asino d’oro il romanzo Aquarium, una storia d’amore «insensata» che si svolge in Palestina. Infine, i diari della Grande Guerra che riscrivono la storia e per la scienza, le ultime novità della ricerca sugli effetti della cannabis.

Ahmed Mohamed: da presunto terrorista a studente modello in meno di 24 ore

cool clock ahmed obama

Sta facendo molto discutere la storia di Ahmed Mohamed, un adolescente di 14 anni arrestato in Texas martedì 15 settembre per aver costruito e portato a scuola un orologio artigianale. I funzionari scolastici hanno avvisato la polizia pensando che l’innocente oggetto costruito in casa dal ragazzo fosse in realtà una bomba artigianale. Il ragazzo è stato ammanettato, arrestato e interrogato da almeno cinque agenti di polizia, che gli hanno chiesto perché stesse cercando di costruire una bomba. Il ragazzino si è giustificato più volte sostenendo che il suo era semplicemente un orologio e che non aveva nessuna intenzione di costruire una bomba, né qualcosa di simile. Il padre del ragazzino, originario del Sudan, ha detto che suo figlio è stato accusato per il suo nome e per il colore delle sua pelle: «Visto che il suo nome è Mohamed, e per via dell’11 settembre, penso che mio figlio non sia stato trattato equamente».

Ahmed Obama cool clock

Dopo l’interrogatorio e la raccolta delle impronte digitali, Mohamed è stato rilasciato ricevendo in ogni caso tre giorni di sospensione dalla scuola. Il capo della polizia, durante una conferenza stampa, ha negato che la vicenda sia in qualche modo legata a problemi di tipo etnico o religioso, aggiungendo che gli agenti avrebbero agito nello stesso modo in qualsiasi caso, a prescindere dal colore della pelle della persona coinvolta.
Tante manifestazioni di supporto e messaggi di solidarietà a Mohamed sono arrivati dai social network. Sotto l’#IstandwithAhmed, migliaia di utenti di Twitter hanno elogiato l’iniziativa del ragazzo e si sono domandati il perché del suo arresto. Con un tweet, Obama lo ha invitato alla Casa Bianca per mostrargli l’orologio: «Fico il tuo orologio, Ahmed. Vuoi portarlo alla Casa Bianca? Dovremmo convincere più ragazzi come te ad amare la scienza. È quello che rende grande l’America».

Anche Hillary Clinton, candidata alle presidenziali del 2016, ha espresso solidarietà nei confronti di Mohamed scrivendo che «i pregiudizi e la paura non ci danno sicurezza: ci fanno andare indietro. Ahmed, mantieni la tua curiosità e continua a creare nuove cose». Mark Zuckerberg, CEO di Facebook, ha scritto un post ricordando che: «avere le capacità e l’ambizione di creare qualcosa dovrebbe portare a un applauso, non a un arresto», e ha invitato Mohamed per un incontro privato. Anche il Council on American-Islamic Relations, l’organizzazione per i diritti civili della comunità musulmana negli Stati Uniti, sostiene che si tratti di un atto discriminatorio. Secondo il portavoce dell’organizzazione Alia Salem, «il caso non si sarebbe verificato se il giovane studente non si fosse chiamato Ahmed Mohammed».

Schermata 2015-09-17 alle 13.45.15
Nel corso di una conferenza stampa, Ahmed ha detto ai giornalisti che: «è stato molto triste costruire un oggetto per impressionare il proprio insegnante e scoprire che per lui quell’oggetto era una minaccia». Dopo aver accettato l’invito alla Casa Bianca, ha concluso invitando gli studenti di ogni età a continuare a lavorare alle loro invenzioni: «Non lasciate che le persone cambino ciò che siete, anche nel caso in cui porti a qualche conseguenza».

 

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/schultzina1″ target=”on” ][/social_link] @schultzina1