Home Blog Pagina 1334

Primo Maggio a Milano, le due facce di #NoExpo

«Era bellissimo: musica, allegria, gente che ballava… veniva voglia di scendere in strada». Vincenzo sta sulla porta del palazzo con altri inquilini. «Poi, nel giro di qualche minuto, un gruppo si è coperto il volto. Quanti erano? Forse solo una cinquantina. Hanno spaccato tutto». Auto bruciate, vetrine in pezzi, muri imbrattati.

Il Primo maggio di Milano è passato alle cronache per una scia di danni, esplosi a ondate nel cuore della città, fra corso Magenta e via Monte Rosa. A sfilare sono stati però, in grandissima parte, donne e uomini abituati a misurarsi con il precariato e impegnati a costruire percorsi politici e sociali alternativi.

Cinzia, del presidio dei braccianti della Bassa Valle Scrivia, nel vicino Piemonte spiega di essere venuta «con mio figlio, di 14 anni abbiamo sostenuto le rivendicazioni dei braccianti marocchini sfruttati dai caporali in Piemonte, una sorta di Rosarno del nord. Ci hanno insegnato che essere uniti è fondamentale». Vicino sfilano i lavoratori dei sindacati di base, impiegati nella logistica, nei trasporti. Intere famiglie di ivoriani, senegalesi, nigeriani accanto a uomini nord africani dai volti severi. «Siamo venuti – dice un uomo – per ricordare che senza di noi l’Italia sarebbe più povera. Siamo scappati dalla fame, ma Expo è pagata da chi ci ha affamato».

La solidarietà ha lasciato il posto alla paura anche per molti manifestanti, rimasti bloccati nelle retrovie del corteo. «Sono entrata in un bar, per sfuggire al fumo dei lacrimogeni – racconta Eva, giovanissima, con la voce spezzata – ma ne hanno tirati anche dentro il locale. Un anziano si è sentito male, l’ho dovuto trascinare fuori». Come è comparsa, la violenza dei pochi si è dileguata, lasciando per terra bastoni, caschi, maschere antigas, guanti. Oggetti del delitto senza più padroni, confusi tra la folla o svicolati oltre la parata. E’ rimasto anche lo sgomento di alcuni, il “si sapeva già” di altri, la rabbia di chi voleva manifestare, orgogliosamente, in un Primo maggio diverso da altri, rafforzato dall’opposizione all’Expo, inaugurato a pochi chilometri di distanza.

“Insieme siamo più forti”. Questo è il Primo maggio di Taranto

Non so quanti fra quelli che c’erano la prima volta, sotto il palco del Primo maggio di Taranto, avrebbero immaginato cosa sarebbe diventato dopo soli tre anni, mi riferisco sia ai musicisti che agli organizzatori, e anche al pubblico.

Noi musicisti spesso veniamo coinvolti in eventi che hanno uno spessore notevole, ma Taranto ha un sapore diverso. Saranno le ferite della città, che sono un simbolo importante, o forse una certa incoscienza che ha caratterizzato l’organizzazione di questa giornata sin dall’inizio. Credo che a rendere tutto così speciale ci sia soprattutto il fattore “dal basso”, questo è un evento che nasce davvero da un’esigenza irrefrenabile. Quella delle persone che tutti i giorni fanno i conti con determinati problemi. Lavorare al loro fianco è un enorme privilegio. E questo da, senza dubbio, all’evento una cornice di autenticità che è rara.

E poi c’è la musica, che ha un ruolo importante nel veicolare il messaggio. Fa parte della potenza della musica stessa, non è una cosa che dipende da noi, è una caratteristica abbastanza intrinseca. Sembra naturale che ci sia la musica quando si manifesta un disagio, quando si rivendicano diritti dimenticati. La musica c’è sempre, nel bene e nel male.

Noi musicisti siamo fortunati, il nostro lavoro ci consente di incontrare tanta gente, di venire a conoscenza dei loro sogni, delle loro speranze, dei loro problemi. Il contatto con la realtà ci impedisce di girarci dall’altra parte. Taranto per noi musicisti è questo, significa esserci, o almeno per me significa questo, ma credo sia lo stesso tipo di sentimento degli amici e colleghi che ci aiutano a fare in modo che il Primo Maggio di Taranto sia quello che è oggi.

Avrei bisogno di molto spazio per ringraziarli tutti, sono quelli che ci hanno messo il lavoro, la faccia, il tempo, l’empatia, la vicinanza alle tematiche che si affrontano su quel palco, in quel giorno. Non è scontato. E in quel giorno, su quel palco non conta la carriera, non conta la fama, siamo tutti sulla stessa barca, tutti uguali. Questo è importantissimo, imprescindibile direi, se si vuole parlare del Primo Maggio di Taranto: il valore della collettività. Quello di Taranto è un lavoro collettivo, insieme a Michele Riondino e a me c’è una squadra di persone che sono la vera forza di questa giornata, parlo del Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti. È la dimostrazione pratica di quello che ormai sembra diventato un luogo comune e invece è solo una stupenda verità: “Insieme siamo più forti”.

Questo è il Primo maggio di Taranto, la forza del collettivo, dell’impegno comune, delle idee che si fanno forma e che sono anche sostanza, imprescindibile, di tutto. Non saprei come spiegare cosa facciamo, cosa succede quel giorno, però so che è sotto gli occhi di tutti, so che chi partecipa anche solo una volta, da addetto ai lavori o da spettatore, se lo porta dentro il significato di questa giornata. Invito tutti a trascorrere questa giornata con noi, per capire come sia possibile oggi dividere un palco, condividere un impegno, dare voce a chi non ne ha e speranza a una lotta così importante come quella per la dignità delle persone. Perché quando si parla di lavoro, di salute, di accoglienza, di diritti, è sempre di dignità che stiamo parlando.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/RoyPaci” target=”on” ][/social_link] @RoyPaci

Registi precari alla riscossa, in bici senza sella

In bici senza sella

«Vi faremo sapere» è il refrain di ogni colloquio di lavoro. Poi cala il silenzio. E si ricomincia. Liste di collocamento, disoccupazione, ingaggi a chiamata, che non arriva mai. Ma i giovani – precari, lavoratori a intermittenza, freschi di licenziamento – non ci stanno a farsi mettere al collo l’etichetta NEET, per diventare la scimmietta del sociologo di turno.

Meglio essere cervelli in fuga. In fuga sì, su una bici senza sella. Olio di ginocchia. Fantasia e una buona dose di auto ironia. Per provare a sfangarla.

Nasce così il progetto cinematografico In bici senza sella ideato da Alessandro Giuggioli che mette in rete autori da ogni parte d’Europa. Autori di talento, che sanno bene di che si parla quando si dice precarietà. «In Bici senza sella nasce due anni fa. Ero da poco tornato da un’esperienza di tre anni a Londra e avevo appena cominciato il mio lavoro di produttore», racconta Giuggioli.«Ma in Italia mi sono trovato davanti una realtà ben diversa: qui vengono date poche possibilità per realizzarsi.

Così, una sera, dopo il classico Signori e Signore buonanotte mi si è accesa una lampadina. Perché non provare a mettere insieme giovani di talento facendoli esordire insieme al cinema?». Così con Vittoria Brandi, coautrice di alcuni degli episodi del film, Alessandro Giuggioli ha chiamato a raccolta amici attori e registi. «Intorno ad un tavolo, abbiamo cominciato a scambiarci idee.

Il tema del precariato era forte per tutti, avendolo vissuto tutti i giorni sulla nostra pelle». Ma ognuno voleva affrontarlo da un punto di vista diverso. Su un punto però erano tutti d’accordo: «Non piangersi addosso, non attaccare nessuno, ma proporre una propria visione per quanto grottesca, ridendoci sopra, e soprattutto avanzare soluzioni, per assurde che siano». Ma per noi, com’è essere precario? Azzarda qualcuno: è un po’ come andare in bici senza sella, abbozza il Giuggioli. «Ci siamo guardati sorridendo, avevamo già capito. La sera dopo accendo la TV e vedo gli ultimi minuti di una gara di Mountain Bike: non volevo credere ai miei occhi, un ciclista stava tagliando il traguardo per secondo senza sella. La giornalista chiede come si fa a pedalare senza sella?. E lui: “mah, è un po’ come stare in Italia”. Senza dubbio, quello era il titolo!».

La precarietà, niente affatto immaginaria, dei registi come cambia l’opera finale?

Spero la renda più vera. Chi scrive sceneggiature sa bene che è difficile scrivere nella propria stanza. Se voglio parlare di precariato devo conoscere cosa significa essere precario. E poi credo che questa nostra condizione abbia tirato fuori un’energia creativa incredibile. Penso, solo per fare un esempio, all’episodio girato da Francesco Dafano: praticamente è muto. Con la sua sensibilità il regista è riuscito a realizzare 15 minuti di pura poesia.

Ad accendere la miccia è stato l’episodio girato da Sole Tonnini?

Tutto è cominciato dal lavoro di Sole e Gianluca Mangiasciutti. E’ stato la prima pietra. Forse la più importante. Con pochissimi mezzi e il tempo limitato ( praticamente è stato girato in una notte) hanno realizzato un piccolo gioiello. Loro due, così come gli altri sette registi, hanno le carte in regola per diventare dei grandi registi.

Quale è stata la reazione del pubblico alle anteprime nei festival?

Al festival di Trevignano avevo accanto a me Sole e l’attore Luca Scapparone, dall’altro lato Francesco Dafano. Eravamo impauritissimi. Pensavamo però di aver portato qualcosa di bello. Al buio sono partiti gli applausi, uno scroscio che non terminava più, credo di essermi commosso… io piango sempre anche davanti ai Simpson.

Così è partito il tam tam del crowdfounding?

E’ partito il 27 marzo e abbiamo tempo fino a fine maggio. Abbiamo superato i 10mila euro, ma speriamo di riuscire a raggiungere il nostro obiettivo. Dobbiamo lavorare duro, sollecitare le persone, attirare la loro attenzione. Lo strumento crowdfunding non è ancora molto conosciuto in Italia e trova delle resistenze, ma vedo che cominciano ad accorgersi di noi e ogni giorno sempre più persone ci supportano.

Qual è l’obiettivo creativo di questo progetto a più mani?

Portare al cinema questo film, farlo vedere. Poi non nascondo che l’obiettivo sia anche “politico”. Nel senso bello del termine. Mi piacerebbe che fosse un progetto pilota. Che apre la strada. E’ inutile fare le battaglie da soli. Si cerca di custodire le idee (e a volte è giusto) ma spesso porta a dire “o lo faccio io o non lo deve fare nessuno”, invece serve cercare alleanze con chi ha un modo di pensare affine. Le battaglie, sopratutto se fatte “dentro casa” non portano vittorie.

E poi…?

Vorremmo far capire che siamo tanti, che non ci arrendiamo, e che nonostante tutto abbiamo ancora voglia di ridere e far ridere. Abbiamo preso tante “sberle” in questi anni, ma forse ci hanno rafforzato. Il gruppo è importantissimo. Il nostro ha funzionato. Nel tempo poi altri si sono affiancati, penso ai ragazzi dell’AMARO (Giovanni Battista Origo, Francesco Formica, Ermes Vincenti) che stanno facendo un lavoro incredibile. Siamo una squadra, nessuno è più importante dell’altro

Nel frattempo In bici senza sella sta diventando un progetto europeo?

Il precariato non è una condizione esclusivamente Italiana, quindi certo, noi ci rivolgiamo ad un pubblico più ampio. Quando ho compiuto 19 anni siamo entrati nell’ Euro, si viaggiava con la sola carta d’identità, i miei amici sono partiti, alcuni sono tornati, altri sono rimasti. Io mi sento Italiano ma mi considero un cittadino europeo, anche se vedo una grande miopia a Bruxelles. Io spero che i governi dei singoli Paesi inizino prima o poi a collaborare per il bene comune. Io continuo a crederci, speriamo non mi facciano cambiare idea.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

[vimeo vimeourl=”123427670″ ][/vimeo] Bici senza sella

Disoccupazione in crescita, nonostante il Jobs act. Lo dice l’Istat, non Landini

È come se una città media della provincia italiana diventasse improvvisamente deserta. È quanto è successo nel mese di marzo: 59mila persone si sono ritrovate senza un lavoro, con un aumento della disoccupazione dello 0,3 % rispetto al mese di febbraio. E rispetto a marzo 2014 l’occupazione è in calo dello 0,3% con 70mila unità lavorative in meno. Sono i dati provvisori pubblicati nell’ultimo Rapporto Istat. In pratica, nonostante il Jobs act e le detrazioni fiscali alle imprese, provvedimenti tanto decantati dal governo Renzi, e nonostante la notizia da parte del ministero del Lavoro di 92mila nuovi contratti, l’occupazione non sale. Anzi, ritorna agli stessi livelli di un anno fa. Lo dicono, nero su bianco, le cifre dell’Istat, non i sindacati o esponenti dell’opposizione.

In dodici mesi il numero di disoccupati è cresciuto del 4,4 % (+138mila). Il tasso di disoccupazione nella media (15-64 anni) è del 13%, mentre quello della fascia giovanile sale al 43,1 % con un aumento dello 0,3%. La disoccupazione poi cresce senza fare molte discriminazioni di genere, visto che tra gli uomini il tasso è dell’1,5 e per le donne dell’1,7.

[social_link type=”chrome” url=”http://www.istat.it/it/archivio/158591″ target=”on” ][/social_link] Rapporto Istat

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/dona_Coccoli” target=”on” ][/social_link] @dona_Coccoli

Jazz, questo sconosciuto

Il 30 aprile è l’International jazz day. Tutto il mondo celebra il jazz. L’idea, del pianista Herbie Hancock, guadagna il patrocinio dell’Unesco nel 2012: «Uno strumento di sviluppo e crescita del dialogo interculturale volto alla tolleranza e alla comprensione reciproca», motivano dall’Onu. Il jazz si fa emblema in note di principi come emancipazione, pace, socialità e fratellanza. E in Italia come si festeggia? «Per noi questa giornata è un momento di riflessione», dice a Left Ada Montellanico. «Perché in Italia, dopo più di un secolo di storia, il jazz non ha ancora una sua collocazione».

Montellanico è presidente di Midj, l’Associazione italiana musicisti di Jazz. Midj nasce un anno fa e vanta al suo interno la presenza di grandi nomi del jazz italiano, per citarne solo alcuni: Paolo Fresu, Franco D’Andrea, Rita Marcotulli e, appunto, Ada Montellanico. L’associazione lavora quotidianamente per «ridare dignità umana ai musicisti, come a qualsiasi lavoratore del Paese», dice il presidente Montellanico. «E al contempo dare al jazz la dignità culturale che merita. Lavoriamo per dare un futuro al jazz, anche in Italia».

In questa giornata, Left festeggia con una breve storia del jazz, ovvero ciò che Duke Ellington definì «il tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia».

Al principio venne chiamato jass, per via del termine francese jaser (fare rumore). Le prime note jazz – la parola “jazz” viene stampata per la prima volta da un quotidiano nel 1913 – cominciano a suonare all’alba del ‘900 a New Orleans, Louisiana.

Il primo jazzista della storia? La maggioranza dei critici concorda che il “padre del jazz” sia Buddy Bolden, ovviamente da New Orleans. Il primo brano a diffondersi? “King Porter Stomp”, del pianista Jelly Roll Morton (1906). La principale formazione? La Original Dixieland Jass Band, composta da soli bianchi e diretta dal cornettista (di origini italiane) Nick La Rocca. Gli O.D.J.B. registrando “Livery Stable Blues” nel 1917 guadagnano il titolo di “inventori del jazz”.

Ritmo e improvvisazione. Il jazz si fa sintesi delle culture musicali europee – composizioni per bande militari, canti di chiesa e opera lirica – e del ritmo delle percussioni africane. Perciò la musica jazz, è da sempre definita “colta”, perché necessita di conoscenza: della musica classica, delle diverse etnie musicali e degli sviluppi armonici complessi. È a George Gershwin che, probabilmente, può essere attribuito il salto di qualità. Figlio di emigranti russi negli States, ispirato da Debussy e Ravel, Gerwshwin pur essendo morto giovane riuscì a infilare circa 700 “opere minori”.

Negli anni 20, il jazz spicca il volo, diventando sempre più popolare anche grazie alla sua “ballabilità” che lo sdogana nei night club. Il sassofonista Sidney Bechet salpa verso la Vecchia Europa, mentre il giovane Louis Armstrong, agli esordi seconda cornetta della “Creole Jazz Band” di Joe “King” Oliver, si incammina verso la storia con i suoi gruppi: gli Hot Five e gli Hot Seven (1925).

Dalla crisi del 1929 e dalla ” Grande depressione”, nasce lo swing. Per sbarcare il lunario, Benny Goodman, giovane musicista di origine ebrea, mette a punto un’originale formula musicale: tempo costante, accelerazione progressiva nei toni, nei timbri, nei contrappunti. Ogni brano è buono per scatenarsi al suono di trombe, tromboni, sassofoni, chitarra, contrabbasso, pianoforte, batteria. E, ovviamente, l’indiscusso clarinetto di Goodman. Le orchestre jazz scalano le classifiche musicali: quella di Goodman, ma anche di Duke Ellington, Cab Calloway, Woody Herman, Count Basie, Chick Webb (la cui voce era Ella Fitzgerald), Artie Shaw, Glenn Miller.

New York non resta a guardare: aprono i battenti le sale da ballo ad Harlem (tra cui il famoso Cotton Club), i club al Greenwich Village, a Broadway e alla 52esima strada (la Swing Street, “la strada che non dorme mai”). Su questi palchi cominciano a brillare le nuove stelle: Billie Holiday, Art Tatum, Fats Waller, Coleman Hawkins, Lester Young.

Il 1945 saluta la nascita di un nuovo stile, il bepop: armonie complesse e tempi velocissimi. Pioniere del genere è il trombettista Dizzy Gillespie, insieme al sassofonista Charlie Parker (detto Bird o Yardbird). Per la prima volta emerge un’assonanza tra il mondo del jazz e la droga, che agli inizi degli anni 50 miete le prime vittime, Billie Holiday, Fats Navarro e Charlie Parker tra le più celebri. Stile provocatorio e vita spericolata, presto il bebop diventa un movimento giovanile e un fenomeno sociale che attira a sé più d’una critica. La critica più severa arriva da Louis Armstrong, mentre altri esponenti della corrente classica, come Coleman Hawkins, ne difesero i contenuti innovatori.

Dopo la tempesta del bebop, è il turno del melodico e rilassante cool jazz. Tra New York e il Midwest, Miles Davis e Gil Evans (ascoltate “Birth of the Cool”!) impiantano il germe del jazz in California, dove si fanno notare Gerry Mulligan e Chet Baker, Lee Konitz, Dave Brubeck, Stan Getz e Paul Desmond.

Intanto il bepop abbandona le sue caratteristiche più sperimentali e si evolve in un nuovo genere di più facile ascolto: l’hard bop, di Art Blakey, e dei suoi Jazz Messengers, di Horace Silver, Miles Davis e delle sue classiche formazioni comprendenti John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers, Philly Joe Jones, Cannonball Adderley. Il jazz orchestrale resiste con le orchestre di Count Basie, Duke Ellington, Woody Herman, Stan Kenton, e con le originali collaborazioni di Miles Davis e Gil Evans.

Il jazz ha cominciato a diramarsi in correnti. Tra il 1960 e il 1970 gli stili si moltiplicano con crescente velocità. Le strade maestre: il jazz modale (meditativo e intellettuale) di Miles Davis e del quartetto di John Coltrane da una parte; e il soul jazz (vicino al rhythm and blues) dall’altra. E poi the New Thing (“la cosa nuova”), il free jazz di Ornette Coleman e Cecil Taylor (improvvisazione collettiva totale fino a frantumare forma, armonia, melodia e ritmo). E ancora lo spanish tinge (sfumature spagnole) di Dizzy Gillespie, che coniuga il jazz alla musica cubana e latina (afro-cuban bop) grazie all’influenza di musicisti come Chano Pozo, Xavier Cugat, Tito Puente, Arturo Sandoval.

E, ancora, le nuove leve della musica brasiliana Elizete Cardoso, Antonio Carlos Jobim, Vinicius de Moraes, Joao Gilberto, Luiz Bonfa, Chico Buarque de Hollanda iniziano a collaborare con Stan Getz e Charlie Byrd. Dall’incontro con la la bossa nova nasce il jazz samba (che in note si traduce nella stranota “Garota de Ipanema”).

Quando, negli anni 70, irrompono il rock e l’elettronica qualcuno ci si avvicina, nasce così il genere fusion. Pietre miliari: “Hot Rats” di Frank Zappa, il doppio album “Bitches Brew” di Miles Davis. Gli anni successivi agli 80, mentre la vecchia guardia continua a calcare le scene, hanno visto emergere molti e nuovi interessanti musicisti, anche in Europa. E il jazz europeo smise per sempre d’essere subalterno al buon vecchio jazz statunitense.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Ci hanno fatto la festa

“Ci hanno fatto la festa”, abbiamo titolato così la cover story di Left che esce eccezionalmente domani, primo maggio, festa del lavoro. Sì, perché se guardiamo a ritroso negli anni, come fa Marco Craviolatti nell’articolo di apertura, quello che notiamo è una corsa precipitosa verso la precarietà. Dal mito della flessibilità degli anni 90 fino all’abolizione dell’articolo 18 con l’arrivo di un ossimoro: il contratto precario a tempo indeterminato dell’era renziana. E intanto, in vent’anni, i tassi di disoccupazione sono schizzati per i giovani dal 30 per cento al 43 per cento.

A proposito di giovani, da circa un anno l’Italia usufruisce del programma europeo Youth Garantee, un piano pensato per i Neet (i giovani che non lavorano, né studiano e né fanno formazione), ma come racconta Flavia Cappellini, Garanzia giovani per il momento si sta rivelando un flop. Lunghi tempi di attesa prima di essere contattati, tirocinii dubbi, assenza di monitoraggio.

Ma il lavoro e il primo maggio è anche memoria: il regista Mimmo Calopresti scrive per Left un testo poetico in cui affiorano i ricordi del padre e della fabbrica di un tempo. Filippo La Porta ci porta nella letteratura contemporanea, consigliando cinque libri in cui il lavoro è anche quello “cattivo”. Infine Lidia Ravera racconta la sua reazione “letteraria” alla parola che da qualche tempo ha fatto furore: rottamazione. Da qui il suo romanzo Gli scaduti.

Cosa farà il governo per l’ambiente? Nell’agenda di Renzi il “Green act” sarebbe in programma per giugno. Francesco Maria Borrelli analizza le proposte di Legambiente e le reazioni dei partiti, mentre Catia Bastioli, Ad di Novamont, e “ambasciatrice” della bioeconomia, intervistata da Raffaele Lupoli sottolinea la necessità di individuare il modello di sviluppo e un radicale cambiamento culturale che lo affianchi. Sempre di sfide per l’ambiente parla il reportage di Raffaele Lupoli con foto di Mauro Pagnano: siamo a Casal di Principe, in compagnia del sindaco Renato Natale all’opera per bonificare un territorio non solo dall’inquinamento ma anche dal peso dei clan.

Francesco Baccini intervistato da Giulio Cavalli spiega i meccanismi che stanno dietro ai successi radiofonici di certe canzoni, mentre Giorgia Furlan e Ilaria Giupponi ci portano dentro gli Home restaurant, i ristoranti “fai da te” dentro le case di privati cittadini.

Negli Esteri Umberto De Giovannangeli fa il quadro della guerra dei droni nel mondo, dopo la morte del cooperante italiano in Afghanistan Giovanni Lo Porto. Cambiamo scenario e andiamo in Sudamerica, in Colombia, dove un coraggioso giornalista minacciato di morte si presenta candidato sindaco di Bogotà: Hollman Morris racconta a Emanuele Profumi la “rivoluzione pacifica” in cantiere tra i guerriglieri delle Farc e il governo.

Sul filo della memoria, Federico Tulli atttaverso le parole del suo autista personale, Julio Soto, ricostruisce le ultime ore di vita di Salvador Allende. Soto è in Italia per testimoniare al processo Condor, per la morte di 43 cittadini italiani uccisi in Cile durante gli anni del golpe di Pinochet.

Di una nuova tecnologia, che fa capo agli ologrammi, parla Alessandro Valenza. E sempre il futuro è il tema dell’articolo di apertura della Cultura: Pietro Greco ripercorre la storia di Elon Musk, un giovane imprenditore che trasforma in oro tutto quello che inventa: dal web alle auto elettriche fino al fotovoltaico.

L’arte del presente, che denuncia l’ingiustizia e tenta di immaginare altri mondi possibili, è il fil rouge della 56esima edizione della Biennale internazionale di Venezia di cui offre una panoramica Simona Maggiorelli. Sono un po’ utopisti gli architetti del laboratorio Tamassociati che costruendo con tecniche semplici adesso sono in Africa per realizzare il Maisha film garden della regista Mira Nair, come racconta Monica Zornetta. Infine, la regista francese Julie Bertuccelli intervistata da Alessandra Grimaldi, offre una visione della Francia multietnica, attraverso il suo film Squola di Babele, nelle sale in questi giorni.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/dona_Coccoli” target=”on” ][/social_link] @dona_Coccoli

Acquista Left n.16 nello Sfogliatore!

 

L’eredità di Pio La Torre ucciso da Cosa nostra 33 anni fa

Alle 9.20 di 33 anni fa, il 30 aprile 1982, fa moriva a Palermo il deputato Pci e sindacalista Pio La Torre. A ucciderlo, Cosa Nostra. Che però non ha potuto cancellare il suo operato. È a lui che dobbiamo la legge sulla confisca dei beni mafiosi e l’introduzione del reato di associazione mafiosa”.

Riteneva infatti che non ci potesse essere un reale avanzamento nella tutela dei diritti dei lavoratori, finché l’illeicità dei rapporti fra potere e mafia non fossero attaccati e quantomeno puniti. Una lotta politica che è inseparabilmente lotta contro la mafia, la sua, tanto che da parlamentare chiede, nel 1981, di farsi ritrasferire a Palermo, come semplice segretario regionale del partito.

I mandanti e i motivi dell’uccisione vennero confermati dai pentiti Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo, e nel 1995 vennero condannati all’ergastolo per l’omicidio La Torre i boss mafiosi Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò,Francesco Madonia e Nenè Geraci.

Intanto, oggi pomeriggio, alle 17.30, alla Bottega di Libera di Palermo verrà presentato Sulle ginocchia (in libreria dal 27 aprile), il libro del figlio Franco La Torre, assieme al magistrato Nino Di Matteo.L’11 maggio invece, sarà a Roma con don Luigi Ciotti (alle 18:00 alla Casa del Jazz) e il 15 maggio con Nando dalla Chiesa e Diego Novelli a Torino alle 13:00 al Salone del Libro.

[social_link type=”chrome” url=”http://archiviopiolatorre.camera.it/l-impegno-parlamentare-nazionale/legge-rognoni-la-torre” target=”on” ][/social_link] Legge Rognoni La Torre

Lavoro, l’Europa delle disuguaglianze. Il mini dossier di Openpolis

Gli anni che vanno dal 2007 al 2014 in Europa sono gli anni della disuguaglianza. Sette anni di crisi, sette anni di diritti andati in fumo. Lo racconta molto bene il mini dossier di Openpolis Piove sempre sul bagnato.

La disoccupazione in media è cresciuta del 41,7 % mentre in Germania è diminuita del 41,18 %. Rispetto agli occupati, i senza lavoro sono passati  dal 7,2% al 10,2% , alcuni Stati sono piombati giù, come l’Italia, che è passata al 12,2% (nel 2007 era del 6%), e altri, invece hanno addirittura ridotto il numero di disoccupati, come la Germania (passando dall’8,5 al 5%), Malta (dal 6,5 al 5,9) e la Polonia (dal 9,6 al 9%). Alcuni Paesi hanno retto bene, come la Svezia che è rimasta sostanzialmente allo stesso livello. Il Paese che è crollato è la Grecia che nell’ultimo anno ha raggiunto il 58,3% di disoccupazione giovanile (in Germania invece il 7,8).

Come si legge nel mini dossier  (che fa parte di una collana di approfondimento di Openpolis) l’Italia « è uno di quelli che ha maggiormente risentito degli effetti della crisi. Infatti dal 2007 al 2014 l’Italia ha visto raddoppiare la disoccupazione , è diventato il primo Stato Ue per percentuale di giovani che non lavorano e non studiano (22,2%), e il divario salariale uomo/donna è aumentato del 43% e dopo una progressiva riduzione nell’ultimo anno le morti bianche sono tornate ad aumentare». In Italia poi, la crisi ha toccato sostanzialmente tutte le regioni e la disoccupazione è cresciuta ovunque, salvo la provincia di Bolzano. Record negativo al Sud.

[social_link type=”chrome” url=”http://blog.openpolis.it/2015/04/29/minidossier-openpolis-sul-lavoro-piove-sempre-sul-bagnato/” target=”on” ][/social_link] Piove sempre sul bagnato

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/openpolis” target=”on” ][/social_link] @openpolis

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/dona_Coccoli” target=”on” ][/social_link] @dona_Coccoli

Intanto Renzi blocca gli ecoreati per favorire i petrolieri

Mentre l’attenzione dei media è tutta rivolta alla fiducia sull’Italicum, Matteo Renzi sta mettendo a segno un altro sgambetto pericoloso, stavolta ai deputati del Pd e, spiegano gli ambientalisti, al “popolo inquinato”.  La Camera sta per approvare – e potrebbe essere il via libero definitivo – il disegno di legge che introduce i delitti ambientali nel codice penale, punendo chi danneggia l’ambiente con inquinamento e disastro e allungando i tempi di prescrizione. Un provvedimento atteso da 21 anni e oggetto di una petizione di 25 sigle “In nome del popolo inquinato”, oggi mobilitate davanti a Montecitorio. Le commissioni Ambiente e Giustizia hanno dato il via libera al testo approvato in seconda lettura a Palazzo Madama lo scorso 4 marzo.

Tra le norme introdotte ce n’è però una che non piace a Matteo Renzi e a Maria Elena Boschi. Si tratta del comma che vieta il cosiddetto air gun, le prospezioni con l’aria compressa che servono a verificare la presenza di petrolio, il cui potenziale dannoso per l’ecosistema marino è sotto la lente dei ricercatori. I petrolieri hanno fatto sentire il fiato sul collo al governo: temono le ricadute economiche del divieto. Nulla hanno potuto i ministri Galletti e Orlando (che pure si erano detti favorevoli all’approvazione alla Camera senza modifiche) davanti all’ultimatum del “cerchio magico”: c’è chi ha proposto di abrogare il comma per decreto dopo il via libera definitivo della legge, ma il massimo della mediazione possibile per l’Esecutivo è cancellare l’air gun e impegnarsi ad approvare il provvedimento al successivo passaggio in Senato.

«Qualche settimana e si chiude anche la partita degli ecoreati – ha dichiarato il presidente del Consiglio – se torniamo al Senato siamo pronti a mettere la fiducia anche lì». Peccato che a Palazzo Madama i numeri e i consensi alla legge non siano gli stessi della Camera. Proprio da quel ramo del Parlamento è partito il granello di sabbia che ha bloccato l’ingranaggio del via libera definitivo al ddl: l’air gun non era previsto nel testo originario ed è stato introdotto su iniziativa del senatore di Forza Italia Francesco D’Alì. Quando poi il testo è giunto alla Camera, due deputati di Forza Italia (compagni di partito di D’Alì), hanno presentato l’emendamento per cancellare l’air gun, lanciando nuovamente la palla al Senato e mettendo a rischio il via libera definitivo alla legge.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/RaffaeleLupoli” target=”on” ][/social_link] @RaffaeleLupoli