Il 30 aprile è l’International jazz day. Tutto il mondo celebra il jazz. L’idea, del pianista Herbie Hancock, guadagna il patrocinio dell’Unesco nel 2012: «Uno strumento di sviluppo e crescita del dialogo interculturale volto alla tolleranza e alla comprensione reciproca», motivano dall’Onu. Il jazz si fa emblema in note di principi come emancipazione, pace, socialità e fratellanza. E in Italia come si festeggia? «Per noi questa giornata è un momento di riflessione», dice a Left Ada Montellanico. «Perché in Italia, dopo più di un secolo di storia, il jazz non ha ancora una sua collocazione».
Montellanico è presidente di Midj, l’Associazione italiana musicisti di Jazz. Midj nasce un anno fa e vanta al suo interno la presenza di grandi nomi del jazz italiano, per citarne solo alcuni: Paolo Fresu, Franco D’Andrea, Rita Marcotulli e, appunto, Ada Montellanico. L’associazione lavora quotidianamente per «ridare dignità umana ai musicisti, come a qualsiasi lavoratore del Paese», dice il presidente Montellanico. «E al contempo dare al jazz la dignità culturale che merita. Lavoriamo per dare un futuro al jazz, anche in Italia».
In questa giornata, Left festeggia con una breve storia del jazz, ovvero ciò che Duke Ellington definì «il tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia».
Al principio venne chiamato jass, per via del termine francese jaser (fare rumore). Le prime note jazz – la parola “jazz” viene stampata per la prima volta da un quotidiano nel 1913 – cominciano a suonare all’alba del ‘900 a New Orleans, Louisiana.
Il primo jazzista della storia? La maggioranza dei critici concorda che il “padre del jazz” sia Buddy Bolden, ovviamente da New Orleans. Il primo brano a diffondersi? “King Porter Stomp”, del pianista Jelly Roll Morton (1906). La principale formazione? La Original Dixieland Jass Band, composta da soli bianchi e diretta dal cornettista (di origini italiane) Nick La Rocca. Gli O.D.J.B. registrando “Livery Stable Blues” nel 1917 guadagnano il titolo di “inventori del jazz”.
Ritmo e improvvisazione. Il jazz si fa sintesi delle culture musicali europee – composizioni per bande militari, canti di chiesa e opera lirica – e del ritmo delle percussioni africane. Perciò la musica jazz, è da sempre definita “colta”, perché necessita di conoscenza: della musica classica, delle diverse etnie musicali e degli sviluppi armonici complessi. È a George Gershwin che, probabilmente, può essere attribuito il salto di qualità. Figlio di emigranti russi negli States, ispirato da Debussy e Ravel, Gerwshwin pur essendo morto giovane riuscì a infilare circa 700 “opere minori”.
Negli anni 20, il jazz spicca il volo, diventando sempre più popolare anche grazie alla sua “ballabilità” che lo sdogana nei night club. Il sassofonista Sidney Bechet salpa verso la Vecchia Europa, mentre il giovane Louis Armstrong, agli esordi seconda cornetta della “Creole Jazz Band” di Joe “King” Oliver, si incammina verso la storia con i suoi gruppi: gli Hot Five e gli Hot Seven (1925).
Dalla crisi del 1929 e dalla ” Grande depressione”, nasce lo swing. Per sbarcare il lunario, Benny Goodman, giovane musicista di origine ebrea, mette a punto un’originale formula musicale: tempo costante, accelerazione progressiva nei toni, nei timbri, nei contrappunti. Ogni brano è buono per scatenarsi al suono di trombe, tromboni, sassofoni, chitarra, contrabbasso, pianoforte, batteria. E, ovviamente, l’indiscusso clarinetto di Goodman. Le orchestre jazz scalano le classifiche musicali: quella di Goodman, ma anche di Duke Ellington, Cab Calloway, Woody Herman, Count Basie, Chick Webb (la cui voce era Ella Fitzgerald), Artie Shaw, Glenn Miller.
New York non resta a guardare: aprono i battenti le sale da ballo ad Harlem (tra cui il famoso Cotton Club), i club al Greenwich Village, a Broadway e alla 52esima strada (la Swing Street, “la strada che non dorme mai”). Su questi palchi cominciano a brillare le nuove stelle: Billie Holiday, Art Tatum, Fats Waller, Coleman Hawkins, Lester Young.
Il 1945 saluta la nascita di un nuovo stile, il bepop: armonie complesse e tempi velocissimi. Pioniere del genere è il trombettista Dizzy Gillespie, insieme al sassofonista Charlie Parker (detto Bird o Yardbird). Per la prima volta emerge un’assonanza tra il mondo del jazz e la droga, che agli inizi degli anni 50 miete le prime vittime, Billie Holiday, Fats Navarro e Charlie Parker tra le più celebri. Stile provocatorio e vita spericolata, presto il bebop diventa un movimento giovanile e un fenomeno sociale che attira a sé più d’una critica. La critica più severa arriva da Louis Armstrong, mentre altri esponenti della corrente classica, come Coleman Hawkins, ne difesero i contenuti innovatori.
Dopo la tempesta del bebop, è il turno del melodico e rilassante cool jazz. Tra New York e il Midwest, Miles Davis e Gil Evans (ascoltate “Birth of the Cool”!) impiantano il germe del jazz in California, dove si fanno notare Gerry Mulligan e Chet Baker, Lee Konitz, Dave Brubeck, Stan Getz e Paul Desmond.
Intanto il bepop abbandona le sue caratteristiche più sperimentali e si evolve in un nuovo genere di più facile ascolto: l’hard bop, di Art Blakey, e dei suoi Jazz Messengers, di Horace Silver, Miles Davis e delle sue classiche formazioni comprendenti John Coltrane, Red Garland, Paul Chambers, Philly Joe Jones, Cannonball Adderley. Il jazz orchestrale resiste con le orchestre di Count Basie, Duke Ellington, Woody Herman, Stan Kenton, e con le originali collaborazioni di Miles Davis e Gil Evans.
Il jazz ha cominciato a diramarsi in correnti. Tra il 1960 e il 1970 gli stili si moltiplicano con crescente velocità. Le strade maestre: il jazz modale (meditativo e intellettuale) di Miles Davis e del quartetto di John Coltrane da una parte; e il soul jazz (vicino al rhythm and blues) dall’altra. E poi the New Thing (“la cosa nuova”), il free jazz di Ornette Coleman e Cecil Taylor (improvvisazione collettiva totale fino a frantumare forma, armonia, melodia e ritmo). E ancora lo spanish tinge (sfumature spagnole) di Dizzy Gillespie, che coniuga il jazz alla musica cubana e latina (afro-cuban bop) grazie all’influenza di musicisti come Chano Pozo, Xavier Cugat, Tito Puente, Arturo Sandoval.
E, ancora, le nuove leve della musica brasiliana Elizete Cardoso, Antonio Carlos Jobim, Vinicius de Moraes, Joao Gilberto, Luiz Bonfa, Chico Buarque de Hollanda iniziano a collaborare con Stan Getz e Charlie Byrd. Dall’incontro con la la bossa nova nasce il jazz samba (che in note si traduce nella stranota “Garota de Ipanema”).
Quando, negli anni 70, irrompono il rock e l’elettronica qualcuno ci si avvicina, nasce così il genere fusion. Pietre miliari: “Hot Rats” di Frank Zappa, il doppio album “Bitches Brew” di Miles Davis. Gli anni successivi agli 80, mentre la vecchia guardia continua a calcare le scene, hanno visto emergere molti e nuovi interessanti musicisti, anche in Europa. E il jazz europeo smise per sempre d’essere subalterno al buon vecchio jazz statunitense.
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“Insieme siamo più forti”. Questo è il Primo maggio di Taranto
Non so quanti fra quelli che c’erano la prima volta, sotto il palco del Primo maggio di Taranto, avrebbero immaginato cosa sarebbe diventato dopo soli tre anni, mi riferisco sia ai musicisti che agli organizzatori, e anche al pubblico.
Noi musicisti spesso veniamo coinvolti in eventi che hanno uno spessore notevole, ma Taranto ha un sapore diverso. Saranno le ferite della città, che sono un simbolo importante, o forse una certa incoscienza che ha caratterizzato l’organizzazione di questa giornata sin dall’inizio. Credo che a rendere tutto così speciale ci sia soprattutto il fattore “dal basso”, questo è un evento che nasce davvero da un’esigenza irrefrenabile. Quella delle persone che tutti i giorni fanno i conti con determinati problemi. Lavorare al loro fianco è un enorme privilegio. E questo da, senza dubbio, all’evento una cornice di autenticità che è rara.
E poi c’è la musica, che ha un ruolo importante nel veicolare il messaggio. Fa parte della potenza della musica stessa, non è una cosa che dipende da noi, è una caratteristica abbastanza intrinseca. Sembra naturale che ci sia la musica quando si manifesta un disagio, quando si rivendicano diritti dimenticati. La musica c’è sempre, nel bene e nel male.
Noi musicisti siamo fortunati, il nostro lavoro ci consente di incontrare tanta gente, di venire a conoscenza dei loro sogni, delle loro speranze, dei loro problemi. Il contatto con la realtà ci impedisce di girarci dall’altra parte. Taranto per noi musicisti è questo, significa esserci, o almeno per me significa questo, ma credo sia lo stesso tipo di sentimento degli amici e colleghi che ci aiutano a fare in modo che il Primo Maggio di Taranto sia quello che è oggi.
Avrei bisogno di molto spazio per ringraziarli tutti, sono quelli che ci hanno messo il lavoro, la faccia, il tempo, l’empatia, la vicinanza alle tematiche che si affrontano su quel palco, in quel giorno. Non è scontato. E in quel giorno, su quel palco non conta la carriera, non conta la fama, siamo tutti sulla stessa barca, tutti uguali. Questo è importantissimo, imprescindibile direi, se si vuole parlare del Primo Maggio di Taranto: il valore della collettività. Quello di Taranto è un lavoro collettivo, insieme a Michele Riondino e a me c’è una squadra di persone che sono la vera forza di questa giornata, parlo del Comitato dei cittadini e lavoratori liberi e pensanti. È la dimostrazione pratica di quello che ormai sembra diventato un luogo comune e invece è solo una stupenda verità: “Insieme siamo più forti”.
Questo è il Primo maggio di Taranto, la forza del collettivo, dell’impegno comune, delle idee che si fanno forma e che sono anche sostanza, imprescindibile, di tutto. Non saprei come spiegare cosa facciamo, cosa succede quel giorno, però so che è sotto gli occhi di tutti, so che chi partecipa anche solo una volta, da addetto ai lavori o da spettatore, se lo porta dentro il significato di questa giornata. Invito tutti a trascorrere questa giornata con noi, per capire come sia possibile oggi dividere un palco, condividere un impegno, dare voce a chi non ne ha e speranza a una lotta così importante come quella per la dignità delle persone. Perché quando si parla di lavoro, di salute, di accoglienza, di diritti, è sempre di dignità che stiamo parlando.
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