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Terremoto in Nepal, sul tetto del mondo che crolla

Non c’è tregua nella valle di Kathmandu, colpita duramente dal terremoto del 25 aprile scorso. Nella capitale sono iniziate le proteste per i ritardi nei soccorsi e tra le macerie continua la drammatica conta: per ora, più di 5000 morti e oltre 10.000 feriti. Cinque dei dieci italiani dispersi sono ora in contatto con la Farnesina, degli altri non si hanno ancora notizie.

Le foto nella gallery sono state scattate con i telefonini e inviate in esclusiva alla redazione di Left dai responsabili nepalesi della Friuli Mandi Nepal Namastè, onlus nata 10 anni fa dall’incontro con un gruppo di alpinisti italiani. Una realtà gestita in condivisione con la comunità locale, a sostegno di bambini in difficoltà, scuole, ospedali e in difesa dei diritti delle donne vittime di tratta. Nepalesi che ora dormono nelle tende per strada, osservano le loro case distrutte e faticano a trovare acqua e cibo. Ma hanno smesso di piangere.

Su Left in edicola sabato 9 maggio l’approfondimento sulla tragedia.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/EmilyMenguzzato” target=”on” ][/social_link] @EmilyMenguzzato

INFOGRAFICA: l’Italicum spiegato bene. Cosa prevede la nuova legge elettorale

Alla Camera in questi giorni è in discussione la nuova legge elettorale sulla qual il governo Renzi ha posto la fiducia. In questa infografica tutto quello che dovete sapere sull’Italicum tra critiche e forti contestazioni che paragonano la nuova legge a momenti poco nobili della nostra democrazia come la Legge truffa, redatta dal governo a guida Dc di De Gasperi e approvata nel 1953, e la legge Acerbo che, approvata nel 1923 su spinta del partito fascista al potere dopo la marcia su Roma, decretò il definitivo successo di Mussolini alle urne durante le elezioni del 1924 (le ultime prima dell’inizio della dittatura) e gli mise in mano il paese per 20 anni.

 

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I migranti, l’Europa e Juncker che dà un colpo al cerchio e uno alla botte

Condivisione e umanità. La prima impressione a sentire le parole del presidente Juncker è quella di vedere finalmente “il volto buono dell’Europa”. Quello che decide di intervenire, e non militarmente. «È necessario che la nuova strategia dell’Europa sull’immigrazione preveda un meccanismo di quote che vada al di là della volontarietà: l’Europa deve fare la sua parte con azioni di solidarietà condivisa».

Quella di oggi è stata una giornata calda a Strasburgo. Il Parlamento europeo si è riunito in una sessione dedicata ai migranti: tra i corridoi del Palazzo d’Europa, più di un eurodeputato si aggirava con addosso il cartello “Io sono un migrante”, in attesa di votare. Il voto si è concluso con l’approvazione a larghissima maggioranza – 449 sì, 130 no e 93 astenuti – di una risoluzione che prevede quote nazionali per l’accoglienza dei profughi e più mezzi per Frontex.

Il presidente della Commissione europea, che sempre oggi era in audizione davanti al Parlamento europeo, ha dato un colpo al cerchio e uno alla botte. Al cerchio: definendo l’interruzione di Mare Nostrum «un grave errore che ha provocato gravi perdite di vite umane». Una frase che in queste ore viene riportata con enfasi, con tanto di reazione arrabbiata del solito Farage, il leader dell’inglese Ukip («Non possiamo accettare milioni di migranti», ha detto il Salvini d’Europa). Poi Junker ha dato pure un colpo alla botte dicendosi «soddisfatto che la proposta avanzata a nome della Commissione Ue di triplicare il budget di Triton, nonostante qualche resistenza, sia stata accolta dai membri del Consiglio». Ricordiamo che, infatti, la scorsa settimana il vertice straordinario del Consiglio d’Europa ha approvato la proposta della Commissione Ue di triplicare il finanziamento a Triton, portandolo a 120 milioni di euro l’anno.

Quindi per il presidente Juncker l’operazione Triton non è da cambiare. Anzi, se potenziata, è abbastanza per riparare al «grave errore». L’Europa continua a mettere sullo stesso piano missioni che hanno spiriti e nature diverse: quella di soccorso in mare (Mare Nostrum) e quella di difesa delle frontiera (Triton).

Intanto, il principale ostacolo alle quote resta il Regolamento Dublino II, che obbliga i profughi a rimanere lì dove sono stati identificati, e quindi nei Paesi di ingresso, ovvero di confine. E, in quel di Strasburgo, le paroline “regolamento” e “Dublino” non sono ancora uscite di bocca a nessuno.

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Qualcuno mi spieghi perché andare a votare dovrebbe rappresentare una minaccia in democrazia

Qualche tempo fa, un mio caro amico a una giornalista che gli chiedeva: «Se ci fosse un incendio e fosse costretto ad abbandonare la sua casa, cosa porterebbe con sé?», ha risposto: «Niente, la mia onestà». Un giorno o l’altro devo trovare qualcuno che mi spieghi perché in democrazia andare a votare dovrebbe rappresentare una minaccia. O perché dovremmo sentirci minacciati quando Renzi dice “o passa questa legge elettorale, o salgo al Colle”. Sarebbe magnifico vedere un Partito e un Parlamento che gli dicono “beh, così in effetti non va, sali pure. Andiamo a votare e vediamo che succede”. Soli con la loro onestà.

Andiamo a votare con il Consultellum (la legge che avremmo ora, se si andasse a votare), un proporzionale secco dove per vincere serve raggiungere una maggioranza assoluta, senza inganni e senza trucco. Senza premi di maggioranza. E vediamo che succede. Vediamo soprattutto se è davvero così, o se sotto c’è il bluff. Uno dei tanti. Perché l’impressione è che, di questi tempi e a questo gioco, a votare ci si va solo quando si è sicuri di vincere, non prima e non solo con la propria onestà. Ci si va quando si ha una legge (l’Italicum) che se superi la soglia (il 40%) ti regala la maggioranza assoluta (il famoso premio, 340 deputati), ma se la soglia non la superi, ti regala un secondo giro in cui “dove arrivi, arrivi” il premio di maggioranza è tuo lo stesso. Il che in un sistema monocamerale (o meglio, in cui la seconda Camera, il Senato, è ridotta ad arredo) ti mette in mano un potere pressoché assoluto. Il famoso premierato. Allora sì che si va a votare.

È come giocare una partita quando si è comprato l’arbitro, scelto il campo e decimato la squadra avversaria. A molti piace questo modo di giocare. Anche perché l’eroe è Renzi, mica Salvini. Certo piace a tutti quelli fedeli alla Ditta che ora vince, e pure a quelli che non hanno voglia e tempo per fermarsi a capire bene questa nuova legge elettorale, oltre a quelli che hanno altri pensieri (tra cui “e poi Renzi almeno le cose le fa”) e soprattutto che sono contenti che si risparmi (eliminazione del Senato) e che un po’ di politici vadano a casa (i senatori eletti). Insomma, alla fine è meglio se c’è uno solo che decide, almeno decide! E poi vediamo. Peggio di così, pensano, non può andare.

Allora la minaccia di Renzi non è per noi, che a votare ci andremmo, anche subito, anche ogni anno. Anche con il Consultellum. È il sale della democrazia, l’abbiamo sempre scelta. Né per loro, tutti quelli che non hanno tempo di farsi troppi problemi e che Renzi lo voterebbero con l’Italicum e pure con il Consultellum. La differenza non gli interessa, perché “almeno lui le cose le fa”. La minaccia di Renzi di portarli al voto se non passa questa legge è, evidentemente, diretta a quelli che lui “non” reputa onesti. A quei colleghi che, se la casa andasse a fuoco, non riuscirebbero a lasciare tutto. Perché non hanno onestà a sufficienza. Hanno bisogno di salvare denari e soprammobili rischiando la loro incolumità (mentale).

Due cose mi fanno paura di questo scenario così prossimo: il livello di diffusione di questa poca onestà, intendo non quella materiale, ma quella più profonda che ti fa compromettere e vivacchiare al peggio, e soprattutto votare il peggio. E quello che ha prodotto (fine della sinistra) e continua a produrre questa poca onestà (su cui Renzi conta): lo smantellamento progressivo di un sistema democratico che, per quanto perfettibile, garantisce la condivisione, la discussione, il miglioramento o anche, in extremis, la cancellazione di misure non considerate dai più, giuste.

Oggi abbiamo Renzi che smantella lo Statuto dei lavoratori (questa è la prima festa del Primo maggio senza articolo 18), domani potremmo avere, allo stesso modo, Salvini o similia e allora vedo ruspe, respingimenti, classi separate, diritti negati. E nessuno più a fermarlo. Allora continuo a pensare al mio amico e alla sua onestà. E a immaginare un Partito e un Parlamento che di fronte alla “minaccia di Renzi” di farli saltare dalla finestra, rispondono, “così non va, sali pure al Colle. Andiamo a votare e vediamo che succede”.

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Angolo sinistro. #Fiducia all’Italicum: la diretta vista da Left

La minoranza Pd è sempre più all’angolo, polverizzata non solo dalle mosse arroganti del premier Matteo Renzi ma anche da un autoannullamento dei componenti i cui motivi sono sempre più difficili da sondare. Ieri, ennesima mossa: il Presidente del consiglio ha posto il voto di fiducia sull’Italicum, oggi ci sarebbe quella coraggiosa e desueta possibilità di votare contro, ma sembrerebbe chiedere troppo. Ecco la diretta e gli interventi e il voto dell’aula, da una prospettiva insolita. Ecco il voto visto da sinistra.

Ddl Buona scuola: clima surreale, tensioni e prove di forza in Commissione

Un clima surreale per il decreto precari che aleggia da stamattina e che rischia di far lavorare tutti a vuoto. Un sistema “ghigliottina” che riformulando gli emendamenti ne fa decadere decine di altri (dell’opposizione). E soprattutto, la maggioranza compatta nel portare a casa il ddl così come è stato presentato. In una tensione palpabile. Questo lo scenario in cui si recita il soggetto del ddl 2994 alias della Buona scuola.

La notizia sui “ripensamenti” del Pd sulla figura del preside-capo assoluto «è molto fumo negli occhi, in sostanza per ora non è stato cambiato granché», dice Gianluca Vacca, deputato M5s che fa parte della VII Commissione Cultura della Camera dove articolo su articolo, comma dopo comma, sfila il disegno di legge governativo. Per ora siamo ai primi articoli, ce ne vorrà ancora per oltre una settimana. Ben oltre lo sciopero generale del 5 maggio. Da stamattina circola la voce che per garantire il piano assunzioni dei precari, il governo sta pensando a un decreto legge. Così i 41 componenti della Commissione su certi articoli del ddl relativi alle assunzioni si troveranno ad approvare testi che saranno vanificati dal documento governativo. «Non sappiamo che cosa accadrà di quello che approviamo», racconta Gianluca Vacca, molto attivo nel presentare emendamenti al ddl («in pratica lo prevedo completamente stravolto»). «Si lavora con un pressapochismo totale, senza sapere l’impatto di questi provvedimenti che stiamo discutendo».

«Sa cosa ci ha risposto il sottosegretario Faraone a cui abbiamo chiesto notizie? Che per il momento andiamo avanti così», dice il deputato abruzzese che è un insegnante di scuola media. La notizia del decreto che dovrebbe provvedere all’assunzione dei 101mila precari è rimbalzata dalle pagine di Repubblica, un giornale che dà voce spesso al Governo (ricordiamo qualche giorno fa l’intervista al ministro Giannini in cui la responsabile di Viale Trastevere ha dato degli “squadristi” ai prof che la contestavano a Bologna). «E dire che il decreto l’avevamo proposto noi, mesi fa, per stralciare la questione delle stabilizzazioni dei precari dal ddl, ma ci hanno sempre risposto che non era possibile perché le assunzioni sono legate a tutto il resto», commenta Vacca.

Il preside-capo assoluto che è uno dei punti più contestati della riforma renziana rimane ancora saldo al suo posto, anche se «alcuni emendamenti cercano di annacquare, almeno formalmente il suo ruolo», continua il deputato M5s. «Per esempio oggi abbiamo approvato l’emendamento sull’articolo 2 comma 8 presentato dalla relatrice Coscia sul piano triennale del Pof che deve essere elaborato dal collegio dei docenti, ma sulla base delle scelte e degli indirizzi del dirigente scolastico». Come a dire, alla fine la decisione è sempre del preside, quella figura che Matteo Renzi, nel presentare il ddl in conferenza stampa, aveva definito «leader educativo del territorio». Ma quando si tratterà di discutere sulla chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente, si vedrà se il Pd ha realmente intenzione di ascoltare le proteste che arrivano unanime dal mondo della scuola. Vacca non si illude: «Su quel punto il partito democratico non vuole trattare».

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Pierluigi Bersani l’uomo della “Ditta” non vota la fiducia all’Italicum

Renzi si prende la sua responsabilità, come ha scritto su twitter, ponendo la fiducia all’Italicum. Ma Bersani quella fiducia non la vota.

Dopo 17 volte in cui alla Camera ha obbedito al volere del suo segretario e presidente del Consiglio, Pierluigi Bersani da Bettola (Piacenza), stavolta non ci sta. «Gli atti del governo che riguardano il governo» li voterebbe anche subito, scrive sulla sua pagina di facebook. Ma «sulla democrazia un governo non mette la fiducia». Stavolta l’uomo della “Ditta”, il segretario piddino spazzato via dalla furia rottamatrice di Renzi, si ribella. «Si sta creando così un precedente davvero serio, di cui andrebbe valutata la portata. Questa fiducia io non la voterò».

Una zampata di orgoglio per il leader che viene dal Pci, e che voleva “smacchiare il giaguaro”?  Di sicuro “l’uomo solo al comando” a Bersani non è mai piaciuto. Più volte se n’è uscito con critiche al modo con cui Renzi stava guidando il partito, quella Ditta che ormai nei territori incontra sempre meno iscritti. E che, invece, a livello di dirigenti, mostra clamorosi cambi di scena. Come sta accadendo in Toscana o in Emilia Romagna, dove esponenti bersaniani improvvisamente sono passati sotto la nuova bandiera renziana.

Adesso Bersani vota no alla fiducia in nome della democrazia. Mentre sulla riforma del Senato e sullo smantellamento dell’articolo 18, due questioni che toccano da vicino i diritti dei cittadini, si era fatto sentire solo pallidamente.

Con lui non votano la fiducia l’ex capogruppo Pd Roberto Speranza, Giuseppe Civati, Enrico Letta, Roberto D’Attorre, Francesco Boccia, Rosy Bindi, Gianni Cuperlo e Stefano Fassina e si vocifera anche altri esponenti della corrente Area riformista. Resta da capire se i “dissidenti” del Pd voteranno palesemente contro o sceglieranno di uscire dall’aula.

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Fiducia sull’Italicum. E nel Pd si avvicina la scissione

A Matteo Renzi piacciono le prove di forza. E questa è cosa nota. Altrimenti non avrebbe mai messo la fiducia sulla riforma elettorale, un’ora dopo aver incassato – registrando solo 12 defezioni nell’intera maggioranza di governo – il no alle questioni pregiudiziali poste in aula alla Camera dalle opposizioni: Sel, 5 stelle, Lega e Forza Italia.
 
Anche la minoranza bersaniana ha votato con il governo (e Alfredo D’Attorre aveva subito detto: «Abbiamo dimostrato che la fiducia si può evitare»), ma a Renzi piacciono le prove di forza e infatti ha messo la fiducia sulla riforma elettorale, twittando ridondante: «La Camera ha il diritto di mandarmi a casa, se vuole. La fiducia serve a questo». E pazienza che lo stesso premier, quando non era premier, nel gennaio del 2014, dicesse che «fare la legge elettorale a colpi di maggioranza è uno stile che abbiamo sempre contestato». Lo stile non era il suo, e quindi non vale.
 
Le opposizioni protestano (Renato Brunetta grida al «fascismo renziano». I grillini se la prendono soprattutto con Laura Boldrini, colpevole di applicare il regolamento che riconosce al governo la possibilità di porre la fiducia anche sulla riforma elettorale). Ma i supporter apprezzano la risolutezza del leader: «Chi critica la scelta di porre la fiducia» dice ad esempio il senatore Giorgio Tonini, «dovrebbe rileggersi cosa diceva in proposito Aldo Moro alla Camera durante la seduta del 18 gennaio 1953». Già. Perché la fiducia su una legge elettorale è stata messa già due volte nella storia della Repubblica. Nel 1923 per l’approvazione della legge Acerbo che, consacrò l’ascesa al potere del partito nazionale fascista, e nel 1953, quando appunto la Dc fece approvare la cosiddetta ‘legge truffa’.
 
E se il passaggio parlamentare non dovrebbe riservare particolari sorprese, è cosa succederà subito dopo l’approvazione dell’Italicum che potrebbe consegnare definitivamente il Pd nelle mani di Matteo Renzi, e però aprire anche la stagione delle scissioni. Non è più un mistero alla Camera che Giuseppe Civati si immagina già seduto nel gruppo misto, in una componente ribattezzata «Italia Bene Comune», in onore dei tempi andati (era il nome dell’ultima coalizione di centrosinistra, guidata da Bersani, con Pd, Sel e socialisti).
Anche Stefano Fassina ormai dice che «la scelta di Renzi non può non avere conseguenze». Non ci sono conferme, né dichiarazioni ufficiali. Zero virgolettati. Ma possiamo darci appuntamento appena passata la battaglia parlamentare. Una, due settimane al massimo. «È un passaggio drammatico, non solo per me» dice Civati: «Se non vado via io, mi cacceranno loro. Ma preferisco andare via. Vediamo, aspettiamo qualche giorno». «La fiducia sull’Italicum», intanto, «non la voto». Ma non è la prima volta.
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