Home Blog Pagina 1336

Ungaretti autore migrante?

Ha un titolo bellissimo il saggio di Noa Moll L’infinito sotto casa (Patròn), su letteratura e transculturalità nell’Italia contemporanea, che riannoda la recente narrativa migrante ai Marinetti e Ungaretti nati in Egitto e ai libri di viaggio di Gozzano e De Amicis. Ridisegna la storiografia letteraria del secolo scorso, sapendo che oggi più che mai abbiamo il mondo sotto (e dentro) casa, anche se non ne siamo pienamente consapevoli.Libri, Noa Moll, L'Infinito sotto casa Le mie obiezioni riguardano invece alcuni aspetti specifici. Anzitutto: si dichiara enfaticamente una poetica dialogica e della diaspora e si propone una idea di letteratura italiana come laboratorio transmediale. Bene ma non si rischia qui un po’ di nobile retorica del Dialogo e dell’Ascolto?

La nostra letteratura mi sembra caratterizzata da prodotti molto autoreferenziali, prona al genere unico del noir, pochissimo transculturale, ipnotizzata da formule di marketing come il New Italian Epic di Wu Ming, mentre in Rete prevalgono logiche autopromozionali, dove nessuno intende “ascoltare” (lo sguardo dell’autrice, sempre rigoroso, qui si fa un po’ acritico). E poi: discorrendo di scrittori viaggiatori stende l’elogio di Celati perché azzera tutti i clichè. Va bene, però siamo fatti anche dei nostri cliché (non esiste un punto di vista asettico), e proprio Moravia in Africa prende le mosse da stereotipi e apparenti ovvietà per poi darci alcune verità abbaglianti su quei paesi.

Particolarmente felice il ritratto di Amelia Rosselli, che ha voluto coltivare l’“irregolare” (lapsus, calembour, sgrammaticature), sempre un po’ straniera anche nella sua lingua madre (qui si accosta a Sanguineti, eppure lei ha solo costeggiato la neoavanguardia e alla falsa comunicazione ha sempre contrapposto una comunicazione più intensa). Ma forse le pagine più interessanti del saggio, da infliggere per punizione a leghisti e cultori delle radici, sono quelle dedicate a Pavese, per il quale la centralità della condizione umana è la non appartenenza.

Lingua più povera con l’itanglese

Si sa che la manipolazione politica della lingua oggi passa soprattutto attraverso l’abuso degli anglicismi. Un esempio recente l’ha fornito il ministro dell’Istruzione Giannini, che ha aggirato le critiche sui superpoteri del preside-sindaco previsti dal ddl sulla scuola, dicendo che crescerà la leadership ma non il potere dirigenziale.

Lo scorso febbraio, Annamaria Testa, pubblicitaria ed esperta di comunicazione, ha rivolto un appello all’Accademia della Crusca per sostenere una campagna di sensibilizzazione per un uso più responsabile della lingua da parte di chi ha incarichi pubblici. La lingua è un bene comune ed è compito prima di tutto di chi amministra i beni pubblici averne cura.

Non si tratta di una battaglia di retroguardia contro l’inglese. Si chiede di usare nei discorsi politici, nelle comunicazioni dell’amministrazione pubblica e delle imprese, oltre che negli articoli di giornale, al posto degli anglicismi, le espressioni italiane corrispondenti, per consentire a tutti di comprendere il messaggio. Come si spiega nell’appello, è un fatto di trasparenza e di democrazia. La Crusca ha subito aderito all’iniziativa e il presidente, Claudio Marazzini, ha previsto un sito dove trovare le alternative possibili ai forestierismi, l’organizzazione di un osservatorio sui neologismi e la ricerca dei modi opportuni per sollecitare le istituzioni ad un uso più consapevole della lingua italiana.

Dietro l’abuso dell’“itanglese” della nostra classe dirigente c’è l’idea che occorra sintonizzarsi con la lingua della tecnocrazia globale se non altro per seguire l’onda della modernità. Anche le riforme della scuola sono state sempre precedute da un’invasione di anglicismi, che hanno veicolato l’imitazione dello squilibrato modello educativo anglosassone.

Il documento della Buona scuola non fa eccezione. La riforma, infatti, dovrebbe far uscire la scuola dalla comfort zone, i concorsi inizieranno con una prova selettiva computer based, gli studenti affronteranno verifiche di problem solving e decision making e la formazione dei docenti sarà blended. Le scuole saranno rivitalizzate da design challenge, digital makers, living labs, agribusiness, gamification e hackathon. Tutti potranno giovarsi di Data school e Opening up education. Un’attenzione particolare alla policy, alla governance e al format, ma ancor di più, perché si tratta di soldi e di privatizzazione, a spending review, School bonus, School garantee, crowdfunding e voucher.

Inoltre, un’avventata imposizione dell’inglese sta disarticolando l’impianto disciplinare con il Content and language integrated learning (Clil), ovvero l’insegnamento in inglese di una materia curricolare. Anche chi, come Tullio De Mauro, auspica che l’inglese diventi la lingua comunitaria, sostiene però che il Clil vada introdotto con parsimonia e dopo una formazione dei docenti (che non è prevista adesso). E, come ha osservato Luca Serianni (“Salviamo la lingua italiana”, Il Messaggero, 31 marzo), il risultato paradossale di un passaggio indiscriminato all’inglese di alcune discipline sarà la perdita del lessico di quella materia. Chi studierà la matematica in inglese perderà, ad esempio, parole come teorema o isoscele. Più in generale, con l’esclusione di alcuni ambiti culturali e del lessico corrispondente, l’italiano diventerà un dialetto.

Abbonati a Left!

Carta + Digitale, o solo in formato digitale! Annuale, semestrale, trimestrale o mensile, oppure la singola copia a scelta!
Scegli il tuo abbonamento a Left e abbonati!

Davanti al fallimento dell’Europa la domanda passa all’Onu

Un commento dell’autorevole Faz (Frankfurter Allgemeine Zeitung) di lunedì 20 aprile alla strage dei 950 (ma lì il numero era 700) poneva il problema della colpa e rispondeva: la colpa non è dei Paesi europei ma dei governanti africani. È uno dei tanti casi in cui chi segue le notizie e i commenti sulle stragi in atto nel Mediterraneo è colpito dalla dismisura tra gli accadimenti e la coscienza che se ne ha in Europa. E non è solo perché l’Europa, chiusa negli egoismi nazionali, è «spaventosamente indietro nella creazione di uno spazio pubblico europeo», come scrive Andrea Zannini al termine della sua Storia minima d’Europa dal neolitico a oggi (Il Mulino).

Il bilancio di questa storia millenaria rischia di essere un rendiconto notarile in una causa per fallimento. L’Europa che era risorta dicendo “mai più” al genocidio dei lager oggi chiude gli occhi davanti al genocidio per annegamento. Sono lontani i tempi in cui si dibatteva sull’identità europea e sul preambolo che doveva definirne i caratteri: il cristianesimo? L’Illuminismo? Non troviamo né solidarietà cristiana né un barlume di quell’idea dei diritti e della dignità umana che animò la migliore cultura europea del ’700 e mise in moto le rivoluzioni dell’età contemporanea.

Siamo spettatori di una strage sempre più grande e ne siamo in qualche modo tutti responsabili. Il comandante generale della guardia costiera italiana Felicio Angrisano, intervistato da Repubblica, ha parlato di “un esodo epocale”, quello di “una nuova nazione di migranti e rifugiati”. I poveri del mondo, le vittime di sistemi creati dal neocolonialismo e dalla lotta per l’egemonia mondiale nello sfruttamento delle risorse, affrontano il pericolo di morire annegati perché non hanno altra scelta.

“Vivere liberi o morire” fu il motto delle rivoluzioni politiche nello spazio europeo e atlantico; “vivere di lavoro o morire combattendo” fu quello delle rivoluzioni sociali. Oggi libertà e lavoro sono negati ai dannati della terra e l’Europa li rigetta nel nulla: corpi senza nome, censiti ogni giorno a centinaia nei verbali degli obitori. E intanto il mare inghiotte quantità incontrollabili di annegati. Sono i caduti di una guerra mondiale di tipo nuovo, in cui tutti siamo coinvolti, ma con ruoli assai diversi. Stiamo ricordando nelle feste nazionali i giorni della Liberazione: che fu liberazione da uno stato di guerra mai visto prima, un conflitto senza frontiere che non risparmiava nessuno.

Quella che oggi è in atto è la figlia dell’età della globalizzazione – una guerra globale. Ma è anche una guerra dove gli schieramenti sono paurosamente disuguali. Da una parte ci sono i Paesi ricchi, dove i cittadini godono diritti di libertà e abbondanza di beni di consumo e sono spaventati dal rischio di doverli condividere con altri. E i capi di Stato obbediscono a questi istinti, da Obama, premio Nobel della pace, a tutti gli altri. Dall’altra c’è un’umanità disperata, lacerata da mille divisioni, che affronta il pericolo e la realtà della morte perché non ha alternative. L’esito del conflitto è scritto in anticipo. A meno che, questa volta almeno, il vedere tutti i giorni l’inferno che ignoreremmo volentieri non ci tolga l’alibi che funzionò al tempo della Shoah. Il senso di colpa grava su tutti noi e non saranno sofismi come quello della Faz a cancellarlo. Ci sarà una istituzione mondiale capace di reagire? Davanti al fallimento dell’Europa la domanda passa all’Onu.

Comandante Bruno Neri, presente!

A Faenza, sul muro di una casa, una lapide recita: «Qui ebbe i natali Bruno Neri, comandante partigiano caduto in combattimento a Gamogna il 10 luglio 1944».

Bruno Neri, LeftBruno Neri, studente in agraria, cresce nella squadra del Faenza, in Seconda Divisione Nord e capace di salire di categoria nel campionato ’27-’28. Più terzino che mediano, il ragazzo si ritrova al Livorno, militante nel massimo campionato nazionale ancora articolato su due gironi, ma il tecnico ungherese Vilmos Rady gli concede una sola partita. La stagione seguente, per 10.000 lire, il diciottenne finisce in serie B alla Fiorentina del Marchese Ridolfi, gerarca fascista, e allenata da un altro ungherese: Gyula Feldmann abile nel proporre il neoacquisto nel ruolo di mediano. Il quarto posto purtroppo non vale ancora la promozione, raggiunta invece l’anno dopo quando gli uomini con più presenze saranno proprio il ventenne faentino ed il portiere Bruno Ballante da Tivoli, detto “il gatto magico”.

Per affrontare la serie A, ormai a girone unico, serve lo stadio nuovo. Nella gara d’inaugurazione del Giovanni Berta, Bruno Neri è il solo tra tutti i giocatori schierati in fila a non alzare il braccio per il saluto alle autorità fasciste presenti nell’unica tribuna agibile. In sette stagioni a Firenze, il centrocampista romagnolo segna un solo gol, datato novembre ’31. È il vantaggio viola in casa dell’Internazionale ribattezzata Ambrosiana prima del pari firmato da Meazza.

Nell’estate del ’36, mentre l’Italia di Vittorio Pozzo, campione del mondo in carica, vince anche le Olimpiadi di Berlino, Neri passa a Lucca agli ordini dell’ennesimo stratega magiaro, Ernest Erbstein la cui vita meriterebbe un libro a parte. E proprio come calciatore della Lucchese, disputa le prime due gare in Nazionale: contro la Svizzera a San Siro e contro la Cecoslovacchia a Genova. Gioca il terzo ed ultimo match in azzurro a Ginevra nell’autunno del ’37 quando ormai veste la maglia granata.

A Torino, Neri frequenta artisti e scrittori, molti dei quali lo stimano come esempio di lealtà e coraggio. Continua a giocare regolarmente e trova il tempo di iscriversi all’Università degli Studi orientali di Napoli. Dopo l’entrata in guerra, decide di smettere e rientra nella sua Romagna. Investe i risparmi in un’officina di Milano nella quale assumerà alcuni amici e trascorre la stagione ’40-’41 come allenatore del Faenza.

Quando gli eventi precipitano e il regime vacilla, sceglie di tornare sul campo per un’altra carriera. Prima l’armistizio di Cassibile e poi l’8 settembre rivelano il volto dell’ex alleato nazista. Bruno Neri sogna un Paese migliore e si arruola nel Battaglione Ravenna: partigiani attivissimi alle spalle della Linea Gotica. Il suo nome di battaglia è Berni, grado Comandante. Il 10 luglio ’44, insieme a Vittorio Bellenghi, nome di battaglia Nico ed ex giocatore di basket, si imbatte in un drappello tedesco nei pressi dell’eremo di Gamogna. Nel conflitto a fuoco che ne segue, rimangono uccisi entrambi.

La lapide sulla casa di Faenza prosegue: «Dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni rivelò nell’azione clandestina prima e nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida. Esempio e monito alle  generazioni future».

25 aprile con Pietro Ingrao

Oggi è 25 aprile, oggi è festa di aprile, la festa della Resistenza, della Liberazione dai soprusi perpetrati nel corso di un ventennio dal regime fascista che, tra “le cose buone che ha fatto”, ha reso il nostro Stato complice della blasfemia politica, sociale e antropologica perpetrata dal nazismo contro l’umanità.

Oggi è la 70esima volta che ricorre il 25 aprile. L’Italia veniva liberata grazie alla carsica e impavida resistenza dei Partigiani. Manipoli autocostituiti di donne e uomini, di ragazze e ragazzi, di padri e madri, di sorelle e fratelli. Banditi, soldati, semplici idealisti che hanno creduto in un sogno come bambini. Pirati della libertà, anticorpi sociali accumunati dalla incontenibile necessità di vivere e di lottare per e con la speranza di poter ripristinare le libertà, valore supremo su cui fondare e ricostruire un mondo nuovo, libero e democratico.

Oggi, nel ribadire l’importanza della memoria, dedichiamo l’effige del nostro francobollo a Pietro Ingrao, partigiano, padre fondatore della sinistra italiana, giornalista, comunista a oltranza. Abbiamo scelto Ingrao per il suo carattere sanguigno, per i suoi 100 anni vissuti da uomo libero, per la sua impronta indelebile nell’evoluzione del pensiero della nostra sinistra democratica, repubblicana e anti-fascista.

Ingrao è stato un leader, la sua voce tuonante caratterizzava i contenuti del suo pensiero rafforzandone la convinzione. I suoi discorsi nelle piazze restano un raro esempio di empatia politica con il popolo, con la massa, magistralmente ricercata anche attraverso piccoli silenzi. Un leader, un comunicatore d’altri tempi, che è riuscito a far convivere gli ideali e la realtà. Un partigiano che voleva la luna, un cittadino, un amico di famiglia che ha sempre avuto piena consapevolezza dei propri ideali. Un marito, un padre, un nonno sia in famiglia sia nell’attività politica. Un uomo saggio che riconosce anche nella sconfitta l’epicità dell’avventura vissuta. Un sognatore che, nei suoi 100 anni, ha vissuto, raccontato e fatto la storia di un popolo.

Questo francobollo è un omaggio implicito a tutti i Partigiani che, come Pietro Ingrao, hanno combattuto e resistito per la nostra libertà con il loro impegno e la loro forza di volontà, con il sacrificio degli affetti e della vita. Ci piacerebbe citarli tutti, conoscere ogni singolo uomo, ogni singolo nome. E ci piace immaginare di poter regalare loro un sorriso affettuoso, un gesto simbolico di ringraziamento devoto e dovuto per aver donato a tutti noi il bene più grande immaginabile: la Libertà.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/SaroLanucara” target=”on” ][/social_link] @SaroLanucara

[social_link type=”facebook” url=”https://www.facebook.com/antoniopronostico” target=”on” ][/social_link] Antonio Pronostico

Forni liquidi e desaparición. Quell’orribile modo di pensare

Stanotte mi è tornato in mente Ahmed, l’ho conosciuto a Lampedusa due anni fa. Ti mando la sua storia…» mi ha scritto Michela all’alba di lunedì. Domenica è stata infinitamente dura. L’immagine di quei corpi che galleggiavano era assurda, atroce. Troppi, troppo ancora.

Ci siamo sentiti tra noi giornalisti. Poi hanno iniziato a chiamarci tutti. Collaboratori, fotografi, editore, amici. Adriano Prosperi, Giulio Cavalli, Fulvio Vassallo, Filippo Miraglia. È uno sterminio dicevano. Sì, è uno sterminio. Di massa. Non ci siamo più fermati. Non ci riuscivamo. Abbiamo cominciato a chiederci come fare, che fare. Abbiamo imprecato ancora contro quest’Europa orribile che “risparmia” nel nome di una Fortezza. La loro.

Left ha dedicato decine e decine di copertine ai migranti e ai morti. Avevamo previsto tutto. Tutti avevano previsto tutto, questa è la cosa peggiore. Ci siamo sgolati a urlare che era una follia mettere fine a Mare Nostrum. Ci siamo disperati nel dire che Triton non aveva senso. Anzi, che ne aveva uno bruttissimo. «C’è un’Europa che, vista così, fa veramente orrore. Questa Europa è stata artefice di due guerre mondiali e un genocidio. Abbiamo detto mai più! Il mai più non va riferito soltanto ai forni crematori. Mai più anche ai forni liquidi!». Lo ha detto Emma Bonino e il riferimento a certi “metodi” di eliminazione di vite umane non è velato. È chiaro. «Forni liquidi». «Hanno cancellato Mare Nostrum con una motivazione che fa vergogna. Perché costava 9 milioni di euro al mese. Triton ne costa 3. Siamo il Continente più ricco del mondo, secondo tutti gli standard, e stiamo costruendo nella psiche di milioni di africani il concetto di Fortezza Europa», ha aggiunto.

Due caffè al giorno. Gli italiani avrebbero dovuto rinunciare a due caffè al giorno per finanziare Mare nostrum. Ma «il nostro Paese ha rinunciato a fare la sua parte di umanità». Perché il governo Renzi ha cancellato l’operazione Mare Nostrum accettando non solo la motivazione economica – il risparmio – ma anche la motivazione dei colleghi europei che sostenevano e sostengono che l’operazione di salvataggio avrebbe attirato ulteriori sbarchi. Ha rinunciato a fare la «sua parte di umanità» volontariamente. Che modo di pensare è questo?

Si può dire, come fanno i bambini, “schifo”?
Sì. È uno schifo di modo di pensare. Non trovo altre parole oggi.

Non ha pensato così la Tunisia che ne ha accolti un milione, né la Giordania che ne ha 600.000 o il Libano che ha dato asilo a più di un milione di profughi. Noi sì. Anzi, loro sì. Governo ed Europa. Si difendono dagli invasori, blaterano di droni e blocchi navali (morte a domicilio, questa volta), hanno il coraggio di dire che con Mare nostrum era la stessa cosa (Alfano, ministro degli Interni del governo Renzi). Parlano a tv e giornali, pensano persino alla benzina degli scafisti. Il loro modo di pensare è un orrore. Produce forni liquidi. Ha ragione Emma. Desaparición, aggiunge Calamai.

Allora noi, lo ribadiamo, questa Europa che manda a morte chi non ce la fa, che sia greco o africano o altro, non la vogliamo più. E non vogliamo più neanche quest’Italia finta. Quella che va in America a portare il vino e a scherzare di calcio e bellezza. E quando torna va a Pompei, che crolla da anni, e continua a parlare di bellezza. Il mondo ha bisogno della nostra bellezza, ha detto il premier. Quale bellezza? Il mondo ha fame d’Italia, ha detto il premier. Avranno avuto fame d’Italia anche quelli che arrivavano dalla guerra?

Ci siamo interrogati se come giornale potevamo fare un passo in più oltre alla cronaca. Ci siamo chiesti se avessimo potuto fare un ricorso alla Corte europea dei diritti umani, magari anche solo per concorso morale in strage. Contro questa Europa. Abbiamo parlato con avvocati e associazioni tutto il giorno. Ma a noi, come giornale, non è consentito, non essendo parte giuridicamente lesa. Possono farlo i migranti stessi o i loro parenti se aiutati. Allora noi ci siamo, noi li sosterremo se vorranno procedere con azioni legali. Oggi siamo neri per scelta. La nostra condanna non scade. La nostra “parte di umanità” è irrinunciabile. Per noi. Non è vita senza.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ilariabonaccors” target=”on” ][/social_link] @ilariabonaccors

Velàzquez, maestro di libertà

Nonostante il re e la Chiesa, il pittore spagnolo mise a nudo il potere. Rappresentando la condizione umana e il teatro della vita. Una grande mostra al Gran Palais ne ripercorre l’opera

Ci voleva la garanzia scientifica del Louvre per poter mettere insieme così tanti capolavori di Diego Velàzquez (1599-1660), il pittore del Siglo de oro, a cui il musei spagnoli, e non solo, devono ampie fette del proprio pubblico. Ma questa è decisamente un’occasione speciale. Si tratta della prima grande antologica dopo quella del Prado e del Metropolitan Museum di New York negli anni Novanta; la prima in assoluto che la Francia dedica a questo maestro del Seicento, pittore del re eppure mai allineato, che entrò a corte mentre fioriva la stagione del romanzo picaresco, quando uscivano i capolavori di Cervantes, di Luis de Góngora e di Calderón de la Barca, l’autore de La vida es sueño (1635) con il quale Valàzquez ha in comune l’interesse per il teatro della vita e una raffinata riflessione sul rapporto fra realtà e fantasia, fra verità e finzione e, per l’autore di Las Meninas (1656), fra rappresentazione e creazione di immagine.

Proprio seguendo il filo rosso che in questo caso lega pittura, poesia e teatro, il curatore della mostra parigina Velàzquez, Guillaume Kientz, è riuscito a costruire uno scenografico percorso che al Grand Palais, fino al 13 luglio 2015, raduna centoventi opere, di cui 57 attribuite all’artista spagnolo, prestate dai maggiori musei d’Europa, e poi dai musei di Boston, di Dallas, di Chicago (come la splendida Mulatta del 1617 che esce dal buio di una cucina) e Forth Worth in Texas (dove è conservato l’elegante ritratto di Don Pedro de Barberana), ma anche da collezioni private fuori dalla portata del grande pubblico.

E, malgrado l’assenza di Las Meninas, fin dalle prime sale, dove sono ripercorsi gli anni della formazione di Velàzquez a Siviglia, le sorprese non mancano. Figlio della piccola nobiltà locale l’artista entrò giovanissimo nella bottega di Francisco Pacheco, pittore colto anche se interamente inscritto nella corrente del naturalismo iberico e religioso. Fin dagli esordi con bodegones di tipo tradizionale, incentrati su scene sacre in ambienti apparentemente quotidiani, il giovane Velàzquez si stacca completamente dalla produzione a lui contemporanea. La sua Scena in taverna e La cena ad Emmaus (1617) spiccano per l’atmosfera intima e umanissima e per i chiaroscuri caravaggeschi in questo confronto diretto con le virtuosistiche nature morte di Zurbarán, con crudo realismo di Ribera e con il patetismo dei bamboccianti.

Anche quando sotto il giogo controriformista ha il compito di ritrarre i potenti esponenti del clero, come madre Jeronima de la Fuente che andò a evangelizzare le Filippine, non cela nulla della loro realtà. Tutt’altro che idealizzata la suora appare come una arcigna e torva presenza che impugna una croce come fosse una lancia da guerra. Già in questa tela del 1620, scura e improntata a uno smagato realismo, si scorge la straordinaria libertà creativa che Velàzquez seppe darsi. Nonostante l’inquisizione e i rigidi protocolli di corte. Come testimoniano qui i ritratti di Filippo IV, il malinconico imperatore al quale l’artista fu legato da un sodalizio durato 37 anni: un rapporto anche di amicizia, oltreché di stima professionale, tanto che il sovrano scelse proprio lui per un importante incarico diplomatico in Italia volto all’acquisto di opere d’arte per la collezione reale accettando il ritardo di mesi con cui il pittore rientrò a Madrid volendo aspettare la nascita del figlio avuto dalla giovane pittrice romana Flaminia Triva.

In quel periodo Velàzquez ebbe modo di approfondire lo studio di Tiziano, Tintoretto e dei maestri del Rinascimento, veneto e toscano, come non aveva potuto fare durante il suo primo viaggio nella penisola (1629 -31) che gli era stato consigliato da Rubens. Nella capitale realizzò uno dei suoi ritratti più celebri, quello di papa Innocenzo X (1650). Arrivato dalla romana Galleria Doria Pamphilj questo quadro apre una spettacolare teoria di ritratti di vescovi, di inquisitori, dell’infanta Marie-Therese del principe Baltassar e dell’infanta Marguerite ma anche di persone comuni di cui non si conosce il nome e poi di vividi ritratti di teatranti e nani di corte, che esprimono un’umanità schietta e distante dall’espressione del potere. Come Il buffone Calabazas proveniente dal museo di Cleveland e quello dell’attore Pablo de Valladolid (1635) giunto dal Prado. Opere in cui Velàzquez mostra una straordinaria capacità di intuire la psicologia del soggetto, cogliendo l’individualità di ognuno con fresca immediatezza. Al punto che al gretto e rancoroso Innocenzo X il proprio ritratto parve troppo crudelmente vero per essere mostrato in pubblico. Ma grande capacità di scavo psicologico mostra anche nel nobile e austero ritratto proveniente da Boston del poeta Luis de Góngora (1622), amareggiato – si dice – per l’invidia e le trame di corte; quadro potentissimo come, per altri versi, lo è quello di un giovane uomo che si ipotizza possa essere un autoritratto, al pari da quello incluso in Las Meninas che James Hall nel L’autoritratto. Una storia culturale (Einaudi) legge come rappresentazione della libertà del pittore capace di relegare sullo sfondo il potere per dedicarsi alla propria arte. Il terzo autoritratto, quello degli Uffizi, in cui appare in età matura intorno agli anni 1640-50, con un colpo di teatro, sigla la conclusione del percorso, in una buia sala ovale, da cui spunta l’immagine di un cavallo bianco, che fa pensare alla vitalità creativa di questo straordinario artista, che è ancora in grado di toccarci profondamente dopo molti secoli.

Prova ne è la sensuale ed enigmatica Venere allo specchio (1651) della National Gallery che, prima di arrivare all’evocativo epilogo della mostra, ci aveva sorpresi alla fine del primo piano. Con stridente e aperto contrasto la tela, che ritrae forse la giovane pittrice che Velàzquez conobbe a Roma, è qui accostata all’Ermafrodito, la statua di età romana appartenuta alla collezione privata del cardinal Scipione. Tanto le morbide forme della misteriosa Venere appaiono affidate a una pittura dalla pennellata sfrangiata ed evocativa, tanto quelle della statua romana appaiono fredde e di una bellezza solo materiale.

Il soggiorno italiano certamente addolcì la tavolozza di Velàzquez, la rese più sfumata. Ma in questa tela c’è qualcosa di più. C’è il gioco di sguardi che, attraverso lo specchio, Venere ingaggia con chi vede il quadro, azzerando ogni distanza temporale e aprendo lo spazio pittorico a quello reale dello spettatore, qui e ora. Ma soprattutto c’è l’ interesse per lo spazio, per lo studio del nudo femminile (quasi assente nell’arte spagnola seicentesca dominata dall’Opus dei), inteso come rappresentazione di affetti e passione. @simonamaggiorel