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Crimini contro l’umanità

«Come se la guerra fosse niente, come se la povertà fosse niente… io sono un’italiana sanata, come se fosse una malattia da guarire», così scrive Edda Pando questa settimana nel monologo di Left.

Questo numero è dedicato a chi scappava in cerca di una vita e ha trovato la morte a largo della Sicilia. 700, 800, 950… non si sa. Per colpa di un’Europa che ha calcolato il costo e ha preferito spendere meno per presidiare la sua Fortezza. Left condanna questo modo di pensare che diventa agire. Un agire mostruoso che lascia morire esseri umani. E condanna il governo Renzi che ha tagliato nel nome dello stesso calcolo l’operazione Mare Nostrum per sposare Triton, il risultato? 2.000 morti in cinque mesi. Contro i 20 dello scorso anno.

Miraglia, Prosperi, Vassallo, Cavalli ognuno esprime la propria condanna nelle pagine che leggerete.

Raffaele Lupoli vi racconterà del suo viaggio sulle nave San Giusto ai tempi di Mare Nostrum, dell’importanza del know how nelle operazioni di save and rescue e di quale differenza ci sia con quello che si sta facendo oggi.

Luca Sappino invece ripercorre le parole “a vanvera” della nostra politica.  Incapace di fare “la sua parte di umanità”, come dice Emma Bonino.

La nostra storia di copertina è di colore nero per scelta, è importante per noi che voi sappiate e leggiate che Left farà tutto quello che potrà per cambiare quel mal-pensare che porta ad un mal-agire.  E che con ogni mezzo, culturale, informativo e legale tenterà di riaffermare un’uguaglianza possibile. Buona lettura.

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La risposta ad Aldo Grasso di una collega che lavora

«Forse ci sono le vacanze di mezzo, ma è ben strano che questi giovani abbiano detto di no a un lavoro, in questi momenti di crisi. Probabilmente c’è una generazione che non è ancora stata abituata al lavoro, anche al lavoro estivo, ma dovranno imparare presto».

Questa l’opinione del critico televisivo Aldo Grasso a commento dei molti giovani che avrebbero rifiutato un lavoro – stando a quanto uscito in un articolo del Corriere della Sera – tutto sommato ben pagato. 1.300-1.500 euro per uno stage di sei mesi. Narravano.

Peccato che le cose non siano andate proprio così, come hanno poi denunciato i giovani chiamati in causa, ovvero il 46 per cento di quei seicento selezionati con dubbie procedure da Expo. Ci piacerebbe che il giornalismo fosse verifica, ma quand’anche si pensasse che sia la propria opinione ad assurgere al valore di notizia di interesse pubblico, ci piacerebbe che un giornalista verificasse quantomeno i fatti su cui la fonda.

E tanto per dare un esempio di opinioni di valore, opinioni che raccontano realtà e non visioni sprezzanti del tutto avulse da essa, pubblichiamo la risposta di una giovane giornalista precaria, Selene Ciluffo:

Aldo Grasso, grazie per il suo editoriale

Egregio professor Aldo Grasso,

Mi chiamo Selene, ho 28 anni e da circa 8 lavoro come redattrice, tra poco prenderò il tesserino da pubblicista. Ho iniziato a fare questo mestiere mentre ancora facevo l’università e senza essere pagata. Quindi, per necessità, ho fatto anche altri lavori: baby sitter, cameriera, davo ripetizioni private ai bambini.

Ho visto il suo editoriale in cui afferma che “i giovani non sono abituati al lavoro e presto dovranno farlo”. Non mi permetto di definirmi una professionista al suo livello, dopo tutto faccio questo lavoro (nel senso che vengo pagata per la mia prestazione professionale e ho rinunciato alla mia carriera da baby sitter e cameriera) solo da circa tre anni. Ma le faccio presente che nel suo stesso ambito siamo tantissimi i giovani in questa condizione. Inoltre quella viviamo noi piccoli suoi colleghi non è una condizione solo del lavoro editoriale: non ho un amico della mia età che non abbia un contratto precario, il cui lavoro può non essere riconosciuto come tale perché effettivamente non ha ferie, non ha malattia, non ha tutele sindacali. Avvocati, infermieri, farmacisti, professori, impiegati, per non parlare di chi lavora nel sociale, nei call center, nei supermercati con le aperture domenicali, nei magazzini.

Ha ragione: non siamo abituati al lavoro, perché la mia generazione è precaria e il precariato non è esattamente lavoro, lo definirei meglio come sfruttamento legalizzato. L’altro giorno ho proprio sentito quello che diceva lei nel suo editoriale in un bar: lo balbettava un uomo della sua generazione al bancone. Sentendolo al bar avevo pensato che fosse un “luogo comune”, per eccellenza l’esempio più lampante di del pressapocchismo. Ma visto il suo editoriale, dovrò ricredermi, sarà sicuramente una splendida conclusione a cui è arrivato dopo un’attenta verifica. Comunque stia tranquillo, perché a questo sfruttamento legalizzato ci stiamo già abituando. Ci scusi se ogni tanto pensiamo che sia sbagliato e magari scendiamo anche in piazza. Ma gli sfaticati questo fanno no? Si lamentano e parlano per luoghi comuni.

La #coalizione27febbraio delle libere professioni a Tito Boeri: l’Inps renda la previdenza più equa

Il paradosso dei paradossi: non si tratta più di lavorare per avere un reddito ma avere un reddito per poter lavorare. E’ quanto racconta Valeria, titolare di uno studio legale in una lettera-manifesto che circola in rete. Valeria è avvocato, ha 42 anni, ma non ce la fa a pagare i contributi richiesti dalla Cassa forense. E se non paga rischia di essere cancellata dall’Albo e quindi di non poter lavorare. Ma se non lavora non può pagare la previdenza. E così all’infinito. Un incubo che non riguarda solo gli avvocati ma anche tanti altri liberi professionisti: architetti, farmacisti, ingegneri ecc.

E poi ci sono gli archivisti, gli archeologi, i giornalisti, le guide turistiche, i geometri. Il popolo delle partite Iva, gli autonomi, il “quinto stato” per riprendere il titolo di un libro di Peppe Allegri e Roberto Ceccarelli, ma anche la maggioranza invisibile raccontata nell’omonimo saggio da Emanuele Ferragina. Queste categorie di nuovi sfruttati, sempre divise in passato, per la prima volta si sono unite ideando una piattaforma comune e due mesi fa è nata la #coalizione27febbraio. Chiedono una previdenza e un’assistenza più equa, ammortizzatori sociali estesi a tutti, una unificazione del sistema previdenziale che oggi è diviso in 21 casse private.

La “carovana dei diritti” venerdì 24 aprile alle 9.30 si presenterà davanti alla sede dell’Inps all’Eur a Roma. Il popolo degli autonomi e delle libere professioni hanno già una lettera pronta da consegnare al presidente Tito Boeri, le cui dichiarazioni sull’estensione di un reddito minimo per gli over 55 senza lavoro hanno fatto ben sperare il popolo degli autonomi.

Questa la lettera per il presidente dell’Inps Tito Boeri

Egregio Dott. Boeri,
siamo lavoratori, professionisti autonomi, atipici e ordinisti, parasubordinati, precari della ricerca, studenti, iscritti al programma ‘Garanzia giovani’; Le scriviamo perché venerdì 24 aprile saremo sotto il suo ufficio, con un’intenzione chiara: poterLa incontrare, presentarLe le nostre istanze.

In queste settimane abbiamo letto con attenzione le Sue dichiarazioni: una vera e propria proposta di riforma del sistema previdenziale, che presenterà al governo entro giugno. Abbiamo notato la Sua insistenza sull’estensione in senso universalistico delle protezioni sociali, così come l’indisponibilità di Palazzo Chigi a prestarLe ascolto. Ci è chiaro: Lei ha in mente un nuovo INPS capace, riprendiamo le Sue parole, di combinare previdenza e assistenza. Non sono casuali, dunque, i Suoi espliciti riferimenti ad un reddito minimo di cittadinanza per gli over 55 che perdono il posto di lavoro e non possono accedere alla pensione; all’idea di ricalcolare le pensioni alte con il metodo contributivo per una redistribuzione delle risorse verso il basso (così auspichiamo e abbiamo capito); all’unificazione dei trattamenti previdenziali. Al centro l’«operazione trasparenza», in netta controtendenza rispetto alle politiche del suo predecessore.

Tutto molto importante, indubbiamente; ma se la direzione è quella di estendere in senso universalistico le protezioni sociali, ancora insufficiente. Oltre agli ‘esodati’ ‒ da tutelare a ogni costo intendiamoci ‒ c’è un mondo, il nostro, che in questo stato di cose non accederà mai ad una pensione dignitosa. Un mondo del lavoro che non dispone di ammortizzatori sociali, che è sottoposto a una pressione fiscale insostenibile, che non dispone di welfare né diritti.

Tanti, tantissimi, che giunti al bivio dell’insostenibilità hanno scelto di mutare la rabbia in proposizione; hanno sollevato il capo, cercato persone, confronti ed opinioni, in rete ed in tante assemblee pubbliche; assieme abbiamo definito una prima serie di istanze che in questa lettera Le riassumiamo e che il 24 mattina vorremmo, con Lei, approfondire in colloquio. Le nostre richieste riguardano:

  • l’introduzione di correttivi solidaristici all’attuale sistema contributivo;
  • lo sblocco immediato dei pagamenti della DIS-COLL;
  • lo sblocco immediato per le indennità dei tirocinanti iscritti al programma ‘Garanzia giovani’;
  • la rivalutazione del montante contributivo, realisticamente conveniente, almeno parametrata al rendimento dei titoli di Stato o a benchmark assicurativi di mercato;
  • una ‘pensione minima di cittadinanza’ indipendente dal montante contributivo accumulato e superiore all’attuale assegno sociale;
  • un’aliquota della Gestione Separata effettivamente sostenibile; non solo il blocco degli aumenti previsto dalla riforma Fornero, ma l’avvio di un piano di riduzione sui parametri europei;
  • l’unificazione delle prestazioni previdenziali: basta con le ricongiunzioni onerose o con i versamenti di contributi a vuoto!
  • l’avvio di un processo di unificazione delle casse previdenziali degli ordini professionali;
  • l’estensione universale del welfare (malattia, maternità, ammortizzatori sociali) ed un reddito di base.

Riteniamo queste le premesse fondamentali per cambiare rotta e ripensare la previdenza e le protezioni sociali di un paese ‒ il nostro, lo ricordiamo ‒ affossato dalla crisi, dalla disoccupazione di massa, dall’impoverimento, dalla svalorizzazione del lavoro. Confidiamo nella Sua disponibilità a incontrarci, confermandoLe che la nostra mobilitazione non si fermerà fino a quando non otterremo risposte ‒ confidiamo, soprattutto, concrete.

Distinti saluti,

Coalizione 27 febbraio

ACTA, ADU – Associazione degli avvocati Difensori d’Ufficio, ANAI – Associazione Nazionale Archivistica Italiana, Archivisti in Movimento, Assoarching, Associazione delle guide turistiche, Camere del Lavoro Autonomo e Precario – CLAP, Comitato per l’Equita Fiscale, Comitato Professioni Tecniche – Ingegneri e Architetti, F.N.P.I. – Federazione Nazionale Parafarmacie Italiane, Geomobilitati – Geometri, IVA sei Partita, Inarcassa Insostenibile, Intermittenti della Ricerca – Roma, MGA – Mobilitazione Generale degli Avvocati, Rete della Conoscenza, Sciopero Sociale – Roma, Stampa Romana

Divorzio breve all’italiana

legge divorzio breve

Divorzio breve? Non proprio. Più che altro un separazione breve, quella in esame in queste ore alla Camera, quindi niente, non cantate vittoria troppo presto: non riuscirete a liberarvi del vostro matrimonio così facilmente. Il divorzio breve rimane un miraggio. O meglio, il disegno di legge è passato a grande maggioranza in Senato (228 a favore, 11 contrari e altrettanti astenuti) e i tempi per poter chiedere il divorzio effettivamente si accorciano: dai 3 anni si passa ai 12 mesi (se giudiziale, 6 se consensuale) dal momento della separazione legale. Ma essendo un divorzio breve all’italiana, la nuova legge – attualmente in terza lettura e per l’approvazione definitiva alla Camera – maneggia i tempi della separazione più che quelli del divorzio, e va a modificare una condizione che si potrebbe invece eliminare completamente, o quanto meno rendere facoltativa come in Spagna: la separazione legale.

Quella invece non si tocca. Fa niente se esisteva ed era stata ideata nei tempi arcaici preesistenti il divorzio al fine di sostituirlo, e fa niente se nel frattempo, la Chiesa non se ne abbia, il divorzio è passato e la separazione non ha più motivo di esistere – se non forse come residua speranza di un “ripensamento” (termine utilizzato per denominare questo periodo). In Italia l’immediatezza crea delle perplessità, quindi la possibilità di saltare questo passaggio è stata stralciata proprio al Senato: via il comma 2 dell’articolo 1 e con lui l’emendamento che introduceva il divorzio immediato. Più che di “divorzio” breve, si tratta di “separazione” breve, dunque. Una leggerezza comunicativa che fa la differenza. Ad accorciarsi infatti, sono i tempi dei quest’ultima più che quelli del divorzio vero e proprio, che invece resterà invariato. Anzi, non è mai stato oggetto di discussione. I tempi di quel divorzio che massacra uomini, donne e soprattutto i loro figli, che riscrive decenni di vita passata e trasforma risorse economiche in armi per abbattersi l’un l’altro, ecco: quello resta esattamente com’era. Semplicemente, inizierà due anni prima. Infinito, fatto di ricorsi e parcelle salate, il divorzio resterà immutato perché necessiterebbe, come molti altri campi, di una riforma della giustizia e soprattutto delle sue procedure.

L’unica vera novità della mini-riforma infatti, è che si riduce il termine del suddetto “ripensamento”, ovvero il margine che intercorre fra quando si decide di separarsi e quando effettivamente ci si troverà davanti al giudice per “ratificare” la separazione legale. Come a dire: ma siete sicuri-sicuri che volete separarvi? Sarebbero anche questioni private fra le persone, nelle quali lo Stato non dovrebbe intromettersi, se il nostro, di Stato, non fosse paternalistico. In ogni caso: se proprio siete decisi con questa storia del divorzio, ora almeno potrete risparmiare due anni e mezzo. Non male. Se si è d’accordo. E se non ci sono figli minorenni, non indipendenti economicamente o portatori di handicap. Anche se economicamente cambia poco perché, e questa è una novità importante, lo scioglimento della comunione dei beni inizia dal momento della separazione legale certificata dal giudice – o da un ufficiale di stato civile (il sindaco), come già introdotto dall’articolo 12 della riforma della giustizia civile del ministro Orlando entrata in vigore a novembre: la negoziazione assistita che ha comportato la possibilità di redigere accordi di separazione o divorzio in forma privata.

Ma di saltare questo passaggio non se ne parla. Il motivo? Ufficialmente quello di accorciare i tempi di approvazione della legge. Per il divorzio diretto comunque non preoccupatevi: se ne scriverà un’altra. Più avanti. A breve, ma più avanti. Ci vuole tempo anche a essere rapidi, in Italia. Tempo e altri soldi, se si pensa ai costi che comporta la stesura, le modifiche nelle commissioni, la discussione e la pioggia di controproposte ed emendamenti che puntualmente vi si accompagnano, le sedute in aula.

Nei fatti, ancora una volta dietro al blocco dello sviluppo della legge c’è la rappresentanza cattolica in Parlamento: Udc e Ncd, poi appoggiati immancabilmente dal Partito democratico sempre meno laico e da Forza Italia, avevano alzato le barricate rischiando di far saltare l’intero provvedimento. «Il Partito democratico troppo spesso lancia il sasso e ritira la mano. L’ha fatto con le adozioni, la stessa cosa sta facendo col divorzio diretto e così faranno anche con le unioni civili, che interesseranno solo le coppie omosessuali e solo in alcuni aspetti. Fanno accelerazioni per poi tornare indietro ed evitare così una spaccatura con la rappresentanza cattolica. Ma non ci fanno una bella figura. Paradossalmente chi è stato innovativo e sorprendente, qui, è proprio Ncd», ha commentato Diego Sabatinelli, segretario della Lega Italiana per il Divorzio breve. Il problema, secondo Sabatinelli, è che «sul divorzio diretto si sarebbe trovata una maggioranza trasversale, e questo fa paura al governo. Quindi s’impedisce che i senatori esprimano il proprio voto in maniera indipendente rispetto alle indicazioni di governo. In Paesi che hanno una tradizione democratica molto più forte della nostra, una cosa del genere non esiste: su questi temi di questo calibro, non esiste disciplina di partito ma libertà di coscienza». Non è l’unica differenza di civiltà, fra noi e l’Europa: «La fase della separazione legale è rimasta praticamente solo a Malta, in Irlanda del nord, in Polonia, e… in Italia», tutti i Paesi di forte impronta cattolica.

Ma perfino in Spagna, prosegue il radicale, «dove hanno una tradizione di tipo cattolico, hanno due binari, dando la possibilità di scegliere se fare la separazione legale o accedere direttamente al divorzio». Dalla modifica del codice civile del 2005, separazione e divorzio vengono considerate come due opzioni distinte alle quali i coniugi possono fare ricorso indifferentemente per far fronte alle vicissitudini matrimoniali. Alla base vi «è il rafforzamento del principio della libertà dei coniugi, che si realizza limitando il più possibile l’intervento giudiziale e lasciando il più ampio spazio alla libera volontà delle parti», si legge. Stessa cosa in Francia, dove il legislatore non ha prescritto l’obbligo di una successione temporale tra separazione e divorzio ai fini dello scioglimento del vincolo matrimoniale, soprattutto in presenza dell’accordo consensuale dei coniugi, e per la quale è necessaria una sola udienza.

Ma in Italia, no: «Abbiamo due giudizi per la stessa “colpa”», rincara Sabatinelli. Tra il sostegno alla scelta individuale da una parte e la tutela della sacra moralità dall’altra, ancora una volta la burocrazia in Italia si strutturerà per garantire la seconda, a scapito della facilitazioni per le quali invece i progetti di legge andrebbero invece pensati. «È in gioco l’esistenza stessa della famiglia!», hanno tuonato le associazioni familiari. «Una forma sociale stabile a rischio: esattamente quello che dicevano nel 1970 quando hanno introdotto il divorzio. Le obiezioni sono sempre le stesse», ribatte Sabatinelli. Siamo pur sempre il Paese dei panni sporchi che si lavano in casa, della famiglia che è una sola, meglio frustrati e sofferenti, piuttosto che liberi di scegliere. «Modificarlo con una norma ulteriormente innovativa come il divorzio lampo è un rischio», ha detto il capogruppo Pd Luigi Zanda: e in effetti già vediamo orde di feticisti del divorzio sposarsi solo per il gusto di separarsi velocemente. Senz’altro invitante. Innovazione? Non scherziamo.

 

 

Garanzia Giovani, la Flexsecurity All’italiana. Il retroscena

 La disoccupazione giovanile, in Europa, è diventata una piaga da 153 miliardi di euro. Soldi che evaporano tra tasse non pagate, assistenza sociale e mancata produttività. Per questo quando la Commissione Europea ha approvato Garanzia Giovani, un piano da 21 miliardi per la piena occupazione dei ragazzi tra i 18 ed i 25 anni, i governi del continente intero hanno esultato: finalmente qualcosa di concreto da proporre a platee elettorali sempre più euroscettiche.

Cos’è Garanzia Giovani: il modello scandinavo

Il piano si rivolge ai NEET – giovani dai 18 ai 25 anni senza occupazione e  non impegnati in alcuna attività formativa. L’Italia, con un under30 disoccupato su quattro, rappresenta il paese più colpito dal fenomeno insieme alla Grecia: per questo il nostro governo ha deciso di estendere le tutele del programma europeo fino ai 29 anni di età. L’obiettivo è ambizioso: ridurre il tempo di inoccupazione ad un massimo di 4 mesi dall’ultimo contratto o dal termine degli studi.

L’Europa, per parte sua, ha proposto di finanziare progetti che si ispirassero a quelli sperimentati con successo nel 2011 in Finlandia, Svezia ed Austria. Un cocktail di sussidi, incentivi all’assunzione per le aziende e formazione per i ragazzi, gestiti da efficienti centri per l’impiego che sono riusciti, in Finlandia, ad occupare l’83% degli iscritti alle loro liste in un solo anno.

La via italiana alla flexsecurity

Quando l’Italia, insieme alla Francia, è stato il primo paese europeo a presentare un piano per istituire Garanzia Giovani, molti esperti hanno iniziato a porsi qualche perplessità. La stessa Commissione Europea, in un documento informale, aveva giudicato il piano italiano adeguato ma poco concreto: generico e ambizioso sulla carta, l’Italia praticamente incaricava Regioni e Centri per l’Impiego territoriali di offrire una proposta di lavoro o di formazione a tutti gli aderenti di Garanzia Giovani entro 4 mesi dalla formalizzazione del partecipante al progetto stesso. Pietro Ichino, lo studioso che del modello scandinavo ha fatto la propria battaglia accademica, già nel 2013 si dichiarava diffidente: “Come sempre la Commissione ha colto il punto” scriveva sul suo blog, “Per le nostre claudicanti amministrazioni regionali e i loro fragili servizi per l’impiego sarà molto difficile mantenere le promesse”. Ichino si faceva portatore di dubbi più che legittimi: l’anno precedente 95.779 italiani avevano depositato un curriculum presso il Centro per l’Impiego ma solo poco più di mille trovarono effettivamente un lavoro (di cui 440 tirocini).

Così, mentre le Regioni si preparavano – a malincuore e con tutte le preoccupazioni del caso –  a gestire questa nuova ondata di disoccupati under 29, l’Europa staccava un assegno da oltre un miliardo e mezzo di lire per finanziare corsi di formazione ed incentivi aziendali all’assunzione nel Bel Paese.

Non è tutto oro quel che doveva luccicare

Circa 255.000 ragazzi italiani sospesi in un limbo tra l’adesione formale e quella sostanziale di Garanzia Giovani fanno dubitare, e di molto, sul rispetto delle tempistiche del progetto. Migliaia i tirocini attivati e molti di questi non ancora pagati dall’INPS: i ragazzi si indebitano per continuare a frequentare i tirocini garantiti dalla Regione Lazio, in posti di lavoro – spesso non attinenti con i profili lavorativi degli stessi – come supermercati, panifici ed imprese edili. E intano, gli imprenditori usufruiscono di un ricambio di manodopera non pagata per tre anni. Tutti argomenti che approfondiremo nei prossimi articoli.

Nel prossimo capitolo_ Il mantra del progetto, opportunità per gli under29 nei primi 4 mesi: come dovrebbe funzionare e perché non funziona.

News: i tirocinanti di Garanzia Giovani, visti i ritardi semestrali nel pagamento delle indennità da tirocinio da parte della Regione e dell’INPS, si uniscono alla manifestazione nazionale che si terrà venerdì 24 Aprile davanti la sede INPS, ore 9.30.

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#mappiamolitutti fino al 23 maggio la raccolta fondi per finanziare MafiaMaps

Loro si occupano di noi tutti i giorni. È ora di ricambiare l’attenzione». Loro chi? I mafiosi. A sostenerlo sono Pierpaolo Farina e Francesco Moiraghi, due giovani che hanno lanciato il progetto MafiaMaps: l’applicazione per mappare il fenomeno mafioso in Italia, a portata di click, sullo smartphone e sul tablet.

È così che i fondatori di Wikimafia – l’enciclopedia digitale sul crimine organizzato, fondata proprio da Farina e Moiraghi – intendono “ricambiare l’attenzione”: mappare clan e Comuni sciolti per infiltrazioni criminali, ricordare le storie di omicidi e stragi, ma anche dare visibilità a chi oggi li combatte tutti i giorni sul territorio, rilanciando direttamente le iniziative e gli eventi.

Quello che ha in mente il team di Wikimafia sarebbe il più grande database sulla criminalità organizzata progettato finora, in grado di supportare ricerche avanzate in modo semplice e veloce. E in qualunque parte d’Italia.

Per la sua realizzazione, il 21 marzo 2015 – giornata della memoria e dell’impegno per ricordare le vittime delle mafie – è partita la campagna di crowdfunding per finanziare l’app. La raccolta fondi durerà fino al 23 maggio 2015, giorno del 23esimo anniversario della strage di Capaci. La campagna, lanciata sui social network con l’hashtag #mappiamolitutti, si pone l’obiettivo di raccogliere 100.000 euro, ma il progetto partirà anche con una cifra più bassa. Per la primavera del 2016 si prevede già una prima versione dell’applicazione.

Perché sostenere MafiaMaps? Perché aveva ragione Paolo Borsellino, sono sicuri Farina e Moiraghi, quando diceva che «lo Stato può cambiare se la società civile prende coscienza di se stessa e delle sue potenzialità. Se il cittadino non aspetta che dall’alto arrivi qualche cambiamento ma si adopera per trasformare».

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Le cinque delle 20.00

#Italicum Le opposizioni lasceranno i lavori della commissione Affari Costituzionali della Camera, dopo che il Pd ha deciso di sostituire i dissidenti che avevano annunciato un voto contrario al testo. Ma il premier Renzi tira dritto: «è la democrazia».

Le operazioni di sequestro e distruzione delle imbarcazioni utilizzate dagli scafisti per trasportare migranti verso l’Europa dovranno essere condotte attraverso una missione militare e civile dell’Unione europea. È quanto ha precisato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione Ue in materia di immigrazione.

Whirlpool-sindacati, è rottura: nuovo tavolo il 27 aprile. L’azienda che ha acquisito Indesit, annuncia 1335 esuberi e la chiusura di due siti. No dei sindacati, che abbandonano la trattativa e proclamano 12 ore di sciopero entro maggio.

#ElectionDay si voterà il 31 maggio. Il Senato ha approvato con 139 sì, 62 no e 45 astenuti il disegno di legge che dà la possibilità di far svolgere il prossimo 31 maggio, le elezioni regionali e amministrative del 2015. Il provvedimento ora passa alla Camera. Voto contrario delle opposizioni, che temono l’astensione per il ponte del 2 giugno.

Reddito minimo agli over 55 con reddito basso. L’idea del Governo è che bisogna guardare prima a quelli che hanno perso il lavoro. Lo ha detto il ministro del Lavoro Giuliano Poletti commentando la proposta del presidente dell’Inps Tito Boeri.