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Dal web alla trincea in guerra contro l’Is

Mi hanno dato un visto per  il Kurdistan, aspetti che lo tiro fuori. Non ha un valore formale, perché la regione curda è in parte dell’Iraq, ma può evitarmi qualche problema durante il viaggio. E poi ho un nuovo nome, da combattente». Albert è un soldato di vocazione. Basco con passaporto francese e tedesco, a 20 anni è entrato nella Legione straniera francese, per combattere a fianco dei marines a Bassora, Iraq del sud. L’esplosione di una mina nei pressi di Kuwait City, appena liberata dalle truppe della coalizione Nato, gli ha portato via tre amici. Oggi, 24 anni dopo quella “lunga battaglia nel deserto”, sta per partire di nuovo. «Ho lavorato dieci anni per Lufthansa e adesso lascio tutto. Casa, famiglia, lavoro. Vado per la libertà di tutti noi, la mia, la vostra. Perché stare a guardare significa essere complici». Albert, il nome è di fantasia, è fra le centinaia di uomini – e alcune donne – che hanno raggiunto negli ultimi mesi i combattenti curdi, yazidi e assiri in lotta contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. Europei, australiani, americani, uniti da un nemico comune. Non raggiungono i numeri dell’Is, che secondo il dipartimento di Stato Usa può contare su 18.000 foreign fighters, 3.000 dei quali occidentali, eppure sempre più persone aspirano alla prima linea contro gli uomini di Al-Baghdadi. E tra loro ci sono anche alcuni italiani. Gli occidentali entrano in contatto con i gruppi armati locali, proponendosi come volontari in quella che il basco Albert definisce «una battaglia contro forze maligne e oscurantiste, come nella guerra civile spagnola. Una rivoluzione in cui voglio lasciare la mia impronta, a costo della vita».

«Vede qui? È una linea di quasi mille chilometri ». Ali punta il dito su una vecchia mappa del Kurdistan. Siamo nella sede dell’Ufficio informativo del Kurdistan in Italia, un’associazione, spiega Ali, «che lavora per favorire la cooperazione fra l’Italia e i curdi turchi e siriani». La linea a cui si riferisce è il confine sud del “grande Kurdistan” che, per il momento, esiste solo nei desideri di molti di questi cittadini senza patria. L’instabilità degli ultimi anni e l’avanzata dello Stato islamico hanno sanato alcune storiche divergenze fra i curdi di Siria, Turchia, Iran e Iraq, dando maggiore legittimità internazionale alle loro aspirazioni autonomiste. Proprio la lotta contro l’autoproclamato Califfato ha reso fondamentali le forze armate curde. «A sud del Kurdistan iracheno e di quello siriano, nel Rojava (Occidente in lingua curda kurmanji, ndr) – racconta Ali – i curdi sono faccia a faccia con l’Is. In Kurdistan si riescono a schierare fino a 200.000 uomini, ma con poche armi pesanti e i soldati sono impreparati». Il Califfato, invece, da queste parti può contare su un numero minore dicombattenti, probabilmente 30-40.000, ma ha armi sofisticate e finanziamenti cospicui dalla vendita di petrolio. «Possono pagare i combattenti anche 1.000 euro al mese», conferma Ali.

20150421_Foreign_Fighters_illustJordan Matson, un ex marine del Wisconsin, è stato fra i primi stranieri a raggiungere le Unità popolari di protezione (Ypg), braccio armato del Partito democratico unito del Rojava. Pare sia stato proprio Matson, diventato oramai una star dei social network, a lanciare nell’autunno del 2014 la pagina facebook “The Lions of Rojava”, i leoni del Rojava, una community che invita a «unirsi alle Ypg per mandare all’inferno i terroristi e salvare l’umanità». Ed è con i “leoni” di Matson che, lo scorso febbraio, Kevin decide di entrare in contatto: 26 anni e un passato da cacciatore di taglie per lo Stato del Virginia. Dopo averci pensato per mesi, Kevin ha deciso che «non era più possibile stare seduti a guardare in tv quello che l’Is faceva a persone innocenti, ad amici degli Usa come i curdi. Ho iniziato a provare rabbia e tristezza, fin quando un giorno mi è ribollito il sangue. Allora ho contattato i Lions, che hanno promesso di formarmi e mandarmi sul campo». Così, decide di arruolarsi: «Sto mettendo da parte i soldi necessari per partire entro l’estate», ci dice al telefono. «Ho già 5.000 dollari, ma solo il viaggio ne costa circa 1.600, e voglio che mi resti qualcosa per quando sarò sul posto, anche se le Ypg offrono quasi tutto il necessario. Se serve venderò la macchina». L’aspetto economico è uno dei primi ostacoli per gli aspiranti combattenti, che negli Usa aprono spesso pagine di crowdfunding, ovvero micro finanziamento via internet, per sostenere spese di viaggio, kit medici, giubbotti antiproiettile e altro. Oltre ai “Lions of Rojava”, le Ypg – che contano fra i 20 e i 30.000 combattenti, di cui il 30 per cento sono donne – ricorrono in alcuni casi a intermediari locali, appartenenti alla diaspora curda, che danno indicazioni sul futuro ai combattenti e ne verificano l’adeguatezza. Come è successo ad Albert: «Mi hanno chiamato per un incontro ad Amburgo – racconta -, hanno controllato che non avessi precedenti penali, che fossi in salute e che avessi le motivazioni giuste». Per Kevin, invece, la selezione è avvenuta online: «Ho inviato materiale su di me e dopo un po’ mi hanno comunicato che rientravo nelle linee guida».

La fase del reclutamento è fra le più delicate sotto il profilo legale, persino più del fatto di combattere. Nonostante unirsi a forze armate straniere sia un reato in diversi Paesi, non si ha notizia fino a oggi di procedimenti contro combattenti rientrati in patria. Negli Usa, confermano diversi fighters, Fbi e Cia contattano chi parte e chi rientra per motivi di intelligence, mentre una nota del Home office del Regno Unito, già nel settembre del 2014, ricorda come «combattere in guerre all’estero non è automaticamente un reato, dipende dal tipo di conflitto e dalle attività svolte». Una posizione adottata anche da altri Stati europei. Persino l’Australia, spesso dura contro i combattenti, ha rilasciato dopo poche ore Matthew Gardiner, ex leader laburista rientrato in patria il 3 aprile dopo alcuni mesi di militanza nelle Ypg. In Italia reclutare è più rischioso: il codice penale prevede fino a vent’anni di carcere, e alcuni degli intermediari contattati usano nomi fittizi, proteggendosi sul web dietro le sigle di forum e communities pro-Kurdistan. Così avviene per molti dei combattenti, che già prima di partire per il Rojava ricevono nomi come Shoresh, Heval, Berxwedana, ovvero rivoluzione, compagno e resistenza in lingua kurmanji.

Il viaggio è altrettanto delicato. «La Turchia va assolutamente evitata, così come la compagnia Qatar Airlines», sottolinea Albert. «Bisogna partire da Svezia o Germania, passare dalla Giordania e atterrare a Sulaiymanyah, nel Kurdistan iracheno. Qui ti aspettano altri combattenti occidentali delle Ypg, che tiportano nel Rojava passando da Erbil, dove hanno una base di addestramento». Ulteriori dettagli, per chi parte dagli Usa, sono forniti da un documento trasmesso a Left da alcuni aspiranti combattenti. Si tratta della risposta data da Peshmerga Frame – sigla che sta per “programma di registrazione, valutazione e gestione degli stranieri” – a chi chiede di unirsi alle truppe Peshmerga, ovvero all’esercito regolare del Governo autonomo del Kurdistan, regione dell’Iraq riconosciuta dalla costituzione di Baghdad. Secondo la comunicazione, dagli Usa si deve partire da Chicago con Royal Jordan Air, facendo scalo in Giordania, senza portare con sé elmetti o giubbotti antiproiettile, non autorizzati alla dogana e acquistabili in Kurdistan. Per il resto, 500-1.000 dollari sono sufficienti per mantenersi a lungo.

Apparentemente più strutturati del Ypg sono i peshmerga, cioè “coloro che guardano la morte”, che contano 150-200.000 soldati, supportati secondo diverse fonti da alcune decine di volontari occidentali. Fra questi Ryan Gueli, unico contatto ad autorizzare l’uso del nome. Veterano della seconda guerra irachena, Gueli ha raggiunto i peshmerga a febbraio 2015: «Ricordo quel giorno – scandisce -, Is aveva forze superiori, ci localizzava tramite droni, con tecnologie degne della Nato. Ci hanno accerchiato e un’esplosione mi ha fatto volare di diversi metri. Mi sono messo a correre con il sangue che colava lungo la coscia, in mezzo alle pallottole. Sono riuscito a buttarmi dietro un terrapieno. Pensavo fosse la fine, quando due soldati curdi sono venuti a prendermi, rischiando la vita». Insieme a Gueli sono partiti anche dieci suoi colleghi americani. «Avendo esperienza militare eravamo usati per operazioni speciali a cui i Peshmerga, che arrivano in battaglia dopo 20 giorni di addestramento, non sono preparati. Come tutti, mangiavamo riso e fagioli, e dormivamo per terra in baracche. L’esercito Usa in confronto è una vacanza». Un concetto confermato anche dal comunicato del Frame, che descrive la guerra contro come qualcosa di «simile al campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale unito al Vietnam. Si avanza costruendo terrapieni e si viene colpiti da nemici invisibili, che appaiono e scompaiono da tunnel. Is sa come combattere, ha tiratori scelti e armi nuove». Oggi Gueli, dopo le prime cure in Kurdistan – «ricevute gratuitamente e con grandi premure », sottolinea – è rientrato negli Usa per una riabilitazione fai da te, «visto che non ho l’assicurazione sanitaria». Ha molti anni di meno ma la stessa convinzione Robert, 16enne americano con il sogno di «fare il soldato per aiutare la gente. I Lions of Rojava mi hanno detto che per partire con loro dovevo avere 18 anni, allora ho sentito direttamente le Ypg, che invece accettano anche 17enni. Poi il Peshmerga Frame, che mi ha risposto. Spero di partire presto».

Sono diversi i combattenti stranieri anche tra le milizie cristiane assire, nate per difendere villaggi attaccati da Is in Siria e Iraq e in gran parte riconquistati da Ypg e peshmerga. Emanuel Khoshaba Youkhana, segretario del Partito patriottico assiro, a cui fa capo il gruppo Dwekh Nawsha (gli “autosacrificatori” in siriaco), spiega che «per ora abbiamo dieci volontari stranieri, di diversi Paesi, su 200 uomini armati, stanzionati a Baqofah, vicino a Ninive. Ogni giorno però ci arrivano decine di richieste, ormai ne ho accumulate 800. Ma non possiamo accettarle, non abbiamo posto né mezzi per sostenere queste persone». La crescita delle domande di volontari è confermata dagli addetti stampa di Ypg, che pur non rivelando il numero di stranieri presenti a oggi – circa 100 secondo Bbc – hanno garantito che «entro fine anno saranno 500, fra cui diversi italiani». Di un solo italiano, il marchigiano Marcello Franceschi, militante con le Ypg a Kobani, si conosce però fino ad ora l’identità.

La quasi totalità di chi parte ha già esperienza militare e molti, come Ryan Gueli, sono veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan. «Nella mia unità operativa – conclude Gueli – in un solo mese gli stranieri sono raddoppiati. Sa, a noi americani piace fare la guerra, e poi non serve l’autorizzazione di un governo per battersi contro un male che minaccia tutto il pianeta». Mentre i raid aerei e gli scontri sul terreno continuano – lasciando sul terreno morti da entrambe le parti, tre dei quali fra i combattenti stranieri delle Ypg – su facebook crescono gli “how do I join?” (Come posso unirmi?) di centinaia di persone, spesso ignare delle divergenze politiche e delle lotte di potere tra gli stessi gruppi con cui si battono.

Quell’empatia immediata con Francesco Nuti

Arricchiamo la nostra raccolta filatelica omaggiando l’estro sfortunato ma immenso di Francesco Nuti. Un omaggio sincero ispirato da ogni sua singola peculiarità umana e artistica. È impossibile non affezionarsi a Nuti e alla sua ironia, alla sua soffice voglia di raccontare e raccontarsi. L’empatia scatta immediata.

Toscanaccio di Prato classe ’55, poliedrico protagonista della scena artistica nostrana, attore, regista, paroliere, cantante e poeta, Francesco Nuti è uno degli interpreti garbati della più dolce commedia italiana.

È il protagonista buono di quel senza senso romantico e arguto proprio dei poeti e dei giullari. È un amico caro, un “Caruso” venuto da lontano, da Ovest di Paperino. Un gentile eroe per tutta quella generazione che, con romantico disincanto ha attraversato sommessamente gli, anche troppo, sfavillanti anni 80 e 90.

Anni troppo appariscenti per chi, come Francesco, prende la vita con semplice ma arguta ironia. La sua musa poetica è “alta, bella, bionda con gli occhi celesti e le puppe a pera”. Francesco la riconosce, se ne innamora e le dedica una canzone che diventerà un vero e proprio inno generazionale.

È nei suoi modi così cortesemente buffi e impertinenti che noi ritroviamo la sua epicità. La ritroviamo e le rendiamo omaggio perché la percepiamo carica di nobiltà e di voglia di raccontare, attraverso l’arte, la propria anima, con le sue scintille e le sue ombre.

Proprio dietro a una di queste ombre il genio di Francesco viene pian piano offuscato, la depressione e l’alcool l’hanno allontanato dall’affetto del suo pubblico. Quel pubblico spesso spietato e distratto che, tuttavia, non l’ha mai dimenticato e forse anche in questo lui ha trovato la forza e la voglia di resistere, di continuare a produrre poesia.

Noi a Francesco gli vogliamo bene, per imprescindibile empatia. E a Francesco, noi tutti, mandiamo un bacino.

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Le cinque delle 13.00

Il naufragio sul canale di Sicilia sarebbe dovuto a due cause: lo spostamento dei migranti sull’imbarcazione, che era sovraffollata, e l’errata manovra dello scafista che l’ha portata a collidere con il mercantile King Jacobs. Lo scafista dell’imbarcazione forse nel tentativo di nascondersi avrebbe condotto il barcone contro la nave portoghese che era arrivata nelle vicinanze per prestare soccorso. La versione è confermata anche dai pm di Catania.

In carcere i due presunti scafisti del barcone che si è ribaltato al largo di Malta provocando un’altra ecatombe di migranti. Si tratta di un tunisino, ritenuto il comandante del peschereccio naufragato, e un siriano, suo assistente di bordo.

Decine di arresti questa mattina a carico di presunti componenti il clan mafioso barese Di Cosola. L’operazione è definita dai militari un colpo mortale al clan ai cui beni sono stati apposti i sigilli. L’indagine avrebbe ricostruito anni di egemonia in settori vitali dell’economia, primo fra tutti quello dell’edilizia.

In dieci via dalla Commissione Affari Costituzionali. Tutti critici sull’Italicum 2.0 atteso il 27 aprile in Aula alla Camera. La notizia, ratificata dall’ufficio di presidenza del gruppo Pd, era annunciata da giorni e conferma come, sulla riforma delle legge elettorale, il premier Matteo Renzi sia più che mai convinto a non concedere nulla al dissenso Pd.

Egitto, Morsi condannato a 20 anni. Nella prima sentenza a suo carico, il deposto presidente egiziano Mohamed Morsi è stato condannato dalla Corte d’assise del Cairo a 20 anni di carcere in un processo per la morte di manifestanti che nel dicembre 2012 protestavano contro un suo decreto.

Arriva il Def e la “volta buona” sarà la prossima

Non ci sono slogan, promesse e slide che tengano. Quando il governo Renzi si ritrova al bivio, imbocca strade già viste, rampe verso pericolosi precipizi sulle quali spingere le persone.

Arriva il terribile Def, documento di economia e finanza, e si scopre che la volta buona sarà magari la prossima. Perché questo benedetto Def di epoca renziana prevede nuove sforbiciate per le città, con i sindaci costretti a mettersi le mani nei capelli. Anche quelli della scuderia del premier, da Piero Fassino a Torino allo stesso Dario Nardella, succeduto per via quasi dinastica a Firenze. Però i titoli dei tg e le prime pagine dei giornali sono distratte dal “tesoretto” (parola orribile): 1,6 miliardi che, a quanto sostiene Palazzo Chigi, saranno subito disponibili per nuovi bonus (80 euro è una cifra che piace molto al governo) da distribuire ai redditi più bassi.

Secondo fonti governative la misura interesserebbe circa sette milioni di italiani. Tesoretto e bonus, quindi. Ammesso che esistano, perché secondo il Sole24ore «quei soldi non ci sono, è tutta roba di carta, numeri astratti e potenziali». Di sicuro esistono i tagli: tra trasporti locali e altri interventi pubblici da rivedere, ridurre e magari abolire, mentre le scuole cadono a pezzi, ovviamente sono i redditi più bassi ad essere colpiti, quindi tesoretti e bonus se esistessero si annullerebbero, rivelandosi nient’altro che uno specchietto per le allodole. Le città metropolitane, come Napoli e Milano se la vedranno davvero brutta: «Sono tagli gravi e irresponsabili – reagisce Luigi de Magistris da Palazzo San Giacomo – che rischiano di cadere sui lavoratori e sull’erogazione di servizi essenziali alla comunità».

Il default è dietro l’angolo per tutti. Dietro sorrisi di facciata e frasi di circostanza scorreranno sudori freddi. Ai 9 miliardi di tagli che sindaci e governatori stanno già affrontando nel 2015, quindi, bisognerà sottrarre 5 miliardi alle Regioni (di cui più della metà è spesa sanitaria), 2,2 ai Comuni e almeno uno a Città metropolitane e Province. Un salasso che nella migliore delle ipotesi imporrà un aumento delle tasse comunali, con botte da 92 euro a persona a Roma fino ai 651 calcolati proprio per Firenze, la città del premier. Tutto questo dovrebbe servire a scongiurare un aumento dell’Iva, ma cosa sposta, se la conseguenza, per un commerciante per esempio, è quella di dover pagare di più il suolo pubblico o l’immondizia?

Davvero strano per un presidente del Consiglio, che si era proposto come sindaco d’Italia, passando direttamente da Palazzo Vecchio a Palazzo Chigi dopo l’amichevole defenestrazione di Letta. Michele Emiliano, ex sindaco di Bari e già in corsa col Pd per la presidenza della Puglia nel dopo-Vendola, ha sostenuto in tv che troppo spesso la politica è vittima dei burocrati che infestano lo Stato. Troppo facile: finché c’era Berlusconi la colpa era di Berlusconi. Adesso la politica non sarebbe in grado, invece, di agire con le sue scelte sugli uffici dei funzionari? Il problema è che la classe dirigente del Pd renziano non pare all’altezza della situazione, che all’opposizione la voce del M5S è troppo debole e confusa anche quando sostiene buoni argomenti e che non c’è traccia né di un’altra destra credibile né di una sinistra – in attesa che il progetto di Coalizione sociale sognato da Maurizio Landini possa trasformarsi da bruco in farfalla. Cgil permettendo, perché la prima a non gradire l’attivismo politico della Fiom sembra essere proprio la casa madre guidata da Susanna Camusso.

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Le cinque delle 20.00

#Italicum 10 deputati della minoranza Pd in commissione Affari Costituzionali saranno «tutti sostituiti» dall’ufficio di presidenza del gruppo che dovrebbe riunirsi lunedì sera. Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Rosy Bindi, Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Alfredo D’Attorre, Barbara Pollastrini, Marilena Fabbri, Roberta Agostini, Marco Meloni. Non dovrebbe invece essere sostituito Giuseppe Lauricella.

Un barcone con 200 migranti è naufragato davanti alla costa orientale di Rodi, in Grecia. Lo riferiscono i media locali. Per ora sono stati recuperati tre corpi, tra cui quello di un bambino, mentre 57 sono stati messi in salvo ma si temono molte vittime.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente greco Prokopis Pavlopoulos al telefono hanno concordato sulla necessità che l’Ue rafforzi significativamente il suo ruolo nella gestione del problema migratorio nel Mediterraneo affinché questi drammi non abbiano più a ripetersi.

L’Inps presenterà a giugno una proposta per introdurre un reddito minimo garantito per le persone tra i 55 e 65 anni. A dichiararlo il presidente Tito Boeri che spiega: Non credo che dare loro un trasferimento, che sarà basso, li esponga al rischio di non mettersi in cerca di un lavoro.

Il governo greco avrebbe obbligato le amministrazioni degli enti locali a trasferire alla banca centrale tutte le disponibilità di contante. Lo scrive l’agenzia Bloomberg citando il decreto governativo pubblicato in Gazzetta ufficiale.

La Roma noir di Yari Selvetella fra Gadda e la tv

In tempi di Mafia Capitale è lecito giocare con le tristi vicende del crimine e usarle per fare dell’intrattenimento noir? Forse sì, a patto di infilare nell’intrattenimento un potente effetto di realtà e alcune considerazioni antropologiche non del tutto ovvie.

Libri, La Banda Tevere, LeftCosì fa Yari Selvetella, giornalista e esperto di criminalità, in La banda Tevere (Mondadori, Strade blu). Stavolta la quarta di copertina inventa una formula appropriata: «l’incontro miracoloso tra i Soliti ignoti e la Banda della Magliana». Selvetella infatti coniuga un tono da commedia, con il racconto di eventi drammatici. Più che a Monicelli però fa pensare, almeno cinematograficamente, al Monnezza e al genere poliziottesco degli anni 70, più sbracato e tutto rudemente girato on the road.

Il cinquantenne Tevere, così soprannominato per un tuffo spettacolare da Ponte Sant’Angelo, esce dal carcere di Rebibbia per iniziare una vita onesta, lavorando in una cooperativa di spazzini. Ma la figlia è incinta e senza soldi. Allora ricostituisce la vecchia banda per un colpo risolutivo, tra soci assai pittoreschi, vecchi amici-nemici e poliziotti corrotti. La trama ha un puntuale contrappunto nelle riflessioni sul genius loci della città. Poiché Tevere è anche un gran cuoco apprendiamo che «le ricette romane sono volubili come il popolo cui appartengono» dato che ognuno è convinto di sapere lui la vera ricetta: «pancetta no, pecorino certo parmigiano mah».

C’è poi l’inizio di un capitolo che è una criptocitazione dall’ incipit dell’Orologio di Carlo Levi: «A ridosso dell’alba, a Roma, non ruggiscono più i leoni; è il momento di ratti e scarafaggi. Persino gli sbadigli fanno rumore». Selvetella non si crede Gadda, non ha pretese letterarie e sembra confrontarsi soprattutto con ritmi e stilemi della fiction tv. Però ha creato almeno un personaggio memorabile, Tevere – spavaldo e fragile, coriaceo e sentimentale – destinato a restare per un po’ nell’immaginario. Mi chiedo solo se ne esistono ancora in giro.

Fermare la strage. Subito! Martedi 21 aprile la giornata di mobilitazione nazionale

In una settimana più di mille morti in due stragi annunciate. Stragi che hanno responsabilità precise: le scelte politiche e le leggi dei governi dell’UE (compreso quello italiano) che consegnano le persone in cerca di protezione nelle mani dei mercanti di morte.

Aumentando controlli e mezzi per pattugliare le frontiere non si fermeranno le stragi, come dimostra quest’ultima tragedia con più di 900 morti avvenuta a poche ore da quella che ha portato a morire altre 400 persone. Chi scappa per salvare la propria vita e quella dei suoi cari non si ferma davanti al rischio di morire in mare.

Non c’è più tempo da perdere. Si aprano subito vie d’accesso legali, canali umanitari, unico modo per evitare i viaggi della morte. Il governo italiano, in attesa dell’intervento europeo, assuma le sue responsabilità e riattivi subito un programma di ricerca e salvataggio. Chieda contemporaneamente all’UE di farsi carico di un programma di ricerca e salvataggio europeo.

Si sospenda il regolamento Dublino e si consenta alle persone tratte in salvo di scegliere il Paese dove andare sostenendo economicamente con un fondo europeo ad hoc l’accoglienza in quei Paesi sulla base della distribuzione dei profughi. Questi morti non consentono più rinvii, basta con le parole che non si traducono in azioni concrete e immediate. Erano persone in carne e ossa. E invece sembrano fantasmi.

Domani, martedì 21 aprile, mobilitazioni in tutta Italia, organizzate da decine di associazioni, organizzazioni sindacali e ong. A Roma sit in e flash mob a partire dalle 17.00 davanti a Montecitorio. Nelle altre città gli appuntamenti saranno articolati secondo quanto deciso dalle organizzazioni locali.

Scuola, segnali di rivolta in ordine sparso

Dopo la bocciatura del documento sulla cosiddetta “Buona scuola” e del ddl che ne è scaturito da parte dei collegi dei docenti in ogni parte d’Italia, prende corpo l’opposizione al ricatto del governo che vorrebbe imporre la sua linea sfruttando l’assunzione dei precari, già intimata dalla Corte di giustizia europea.

Mentre proseguono le proteste nelle scuole, con gli insegnanti che si vestono a lutto, trenta associazioni – professionali, sindacali, studentesche e sociali – hanno rivolto un appello al parlamento perché il ddl sia modificato. Si sono unite, nonostante la diversità di vedute, per avanzare cinque proposte:

  1. Potenziare gli organici, attraverso un adeguato finanziamento, per ridurre le disuguaglianze tra scuole imputabili al diverso contesto socioeconomico di riferimento;
  2. Salvaguardare lo stile di lavoro cooperativo all’interno degli istituti, minacciato dalla gerarchizzazione forzatamente introdotta con il preside-sindaco;
  3. Distribuire tante risorse alla scuola quante ne servono per riallinearle con la media europea;
  4. Orientare il rapporto scuola-lavoro verso il potenziamento del percorso educativo e concrete opportunità occupazionali;
  5. Stralciare gli articoli relativi alla stabilizzazione dei precari e ricondurre al dibattito parlamentare temi cruciali, come il diritto allo studio, la revisione degli organi collegiali e del testo unico sulla scuola, che sono stati delegati all’intervento del governo (in tutto sono addirittura 17 le deleghe in bianco).

In commissione, i parlamentari di Sel, del Gruppo Misto e del M5s sono riusciti ad ottenere che il testo della Legge di iniziativa popolare sulla scuola fosse inserito nella discussione sul ddl del governo. L’Unione degli  studenti ha dato impulso alla nascita di un Coordinamento nazionale per la scuola pubblica che chiede lo stralcio della parte riguardante le assunzioni dei precari, lo stop del ddl e l’inizio di una discussione veramente democratica sulla riforma della scuola, un impegno produttivo per una scuola pubblica e di qualità, la tutela del diritto allo studio, il rafforzamento degli organi collegiali, il recupero della dignità professionale dei docenti, l’abbandono di una politica scolastica che vuole rendere l’istruzione subalterna alle logiche del mercato.

Anche se hanno sottoscritto l’appello al parlamento, i sindacati di categoria, si sono segnalati, perfino stavolta, per mancanza di tempestività e di coesione. I Confederali, con Gilda e Snals, hanno indetto una manifestazione per il 18 aprile. Hanno pure escogitato un’astensione da tutte le prestazioni aggiuntive, dal 9 al 18 aprile, tanto cervellotica (come testimonia la diffusione di un allegato pieno di istruzioni sulle attività coinvolte e sulle ritenute spettanti) quanto inutile (chi se ne accorgerà?).

Invece i sindacati di base si sono accordati per uno sciopero e una manifestazione il 24 aprile. Si segnalano gli interventi sui social di Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Corte di Cassazione, secondo il quale gli albi regionali dei docenti si configurano come liste di proscrizione e i superpoteri ai presidi cancellerebbero l’art. 33 della Costituzione, posto a garanzia della libertà di insegnamento.