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Con lo strappo di Luca Pastorino in Liguria si aprono nuovi scenari. C’è vita fuori dal Pd

Prima c’erano i gufi: Matteo Renzi aveva liquidato così, con un nomignolo e un tweet, i dissidenti interni di un Pd che esibisce tronfio uno strabismo a destra, spacciato come chissà che rivoluzione.

Ora, mentre in Liguria la sinistra si coagula intorno alla figura del sindaco di Bogliasco e deputato Luca Pastorino, fresco di divorzio da questo Pd, il Premier alza il tiro: i gufi sono diventati tafazzi e con un’intervista a Repubblica il Premier li accusa con stonata ineleganza infantile di dividere «per fare vincere la destra». Una candidatura, quella di Pastorino, che ufficializzando con Sel, Rifondazione e comitati civici, esplicita la propria distanze dal renzismo.

Facciamo notare che Renzi non aveva perso le staffe nemmeno mentre Sergio Cofferati abbandonava il partito dei dem, accusandolo di avere avvallato delle primarie più che sospette in cui la candidata vincente Raffaella Paita aveva racimolato «dubbi voti organizzati» dal centrodestra e (per qualcuno) anche da “chiaccherate” famiglie calabresi. Ma di fronte al «piccolo sindaco di un piccolo comune» (come si autodefinisce Luca Pastorino) sembra perdere la solita equilibrata spocchia pubblicitaria per tracimare nel gne-gne.

Lui, Pastorino, risponde al telefono mentre è in riunione con la ragioniera dell’Ufficio tecnico del suo Comune. Sta studiando una soluzione possibile per fare quadrare i conti senza imporre la Tasi ai propri cittadini: «Sono i liguri a essere stufi di fare i tafazzi. Trovo particolare che Renzi si preoccupi di un sindaco di un paese (che nei sondaggi è già quasi al 20 per cento, ndr). Il disagio l’abbiamo espresso in mille modi e ora non ha più senso. Avevo già detto che le primarie liguri erano state liquidate con un tweet in spregio al militante e all’elettore. Hanno banalizzato episodi di mafie, hanno finto di non vedere personaggi di centrodestra dal passato poco chiaro. Non si fa così – dice scaldandosi -. I liguri sono molto più preoccupati di capire quale sarà il voto utile».

A proposito di utilità, qual era stata la strategia del Pd in Liguria?

Vengono indette le primarie, in campo Raffaella Paita (già dirigente del partito a La Spezia e appoggiata da molti scajolani della prima ora) e lo storico sindacalista e deputato europeo Sergio Cofferati. La sinistra (Sel in testa) resta alla finestra dando un bisbigliato “appoggio esterno” a Cofferati che comunque ne esce sconfitto: «Le primarie? Inquinate da voti strani, da cordate, voto organizzato. Cofferati non ha voluto insistere dopo avere avviato già degli esposti in Procura», dichiara infatti Nicola Di Benedetto, membro della segreteria regionale di Sel. Quindi Cofferati decide di uscire dal Pd, le sinistre cercano di riorganizzarsi pensando dapprima all’ex sindaco di La Spezia Giorgio Pagano, per poi alla fine convergere su Pastorino. «Pastorino, uscendo ufficialmente dal Pd ci ha messo nelle condizioni di poterlo candidare. C’è da costruire una nuova forma intermedia tra la liquidità dei Cinquestelle e una doverosa ricollocazione del ceto politico. Così si torna a far politica», aggiunge Di Benedetto.

Liguria come laboratorio nazionale di una sinistra che finalmente prende le distanze, sancisce le proprie posizioni e forse proprio per questo innervosisce i vertici del Partito democratico. Ne è convinto anche Pippo Ci- vati, gufo ad honorem della dissidenza interna e amico di Pastorino: «Una rappresentazione della situazione politica ligure che non sta né in cielo né in terra – ci dice – oltre a una serie di problemi nazionali, Renzi ancora una volta dimostra di sottovalutare il clima di disagio a sinistra». Attenzione, ammonisce l’esponente della minoranza dem: «La Ligura non rimane un caso isolato, in Sicilia sta succedendo la stessa cosa: in generale la gente di sinistra il Pd non lo vota più. Minimizzare il problema guardando solo la torta dalla fetta più grossa e considerando briciole tutto il resto non è un atteggiamento responsabile.Quelli che votano Pastorino, la Paita non l’avrebbero mai votata. E lo stesso succederà a livello nazionale ». Il punto è: «Interessa l’argomento o siamo tutti gufi e Tafazzi? Se è così allora ciao e l’ultimo spenga la luce. Qui chi pone il problema viene brutalizzato, rovesciato. La Liguria darà dei segnali. Non penso che per colpa di Pastorino vincerà la destra: magari vincerà la sinistra».

E se è evidente che Civati è “pastoriniano,” il contrario vale ancora?

«Io civatiano? La mia esperienza è legata al territorio – risponde il candidato ligure -. Vivo il momento con umiltà  ma con responsabilità. Ci vuole qualcuno che recuperi il senso delle cose». Un candidato che lavori contro «un’idea di progresso che ormai ha fallito, lontano dall’ansia di costruire a ogni costo in una regione in cui si è costruito troppo e male». Pastorino vuole ripartire, che già di per sé non sarebbe male, per la sinistra. In ogni caso, vuole ripartire «dalla trasparenza e dal sostegno al reddito» e occuparsi «delle tante piccole grandi opere che servono qui».

Quindi, c’è vita fuori dal Pd?

Non riesco a trattenermi e gli chiedo come si sta da fuoriusciti, lì dove molti sembrano avere paura di andare e Pastorino non si scompone: «Bene – mi spiega -. Spiace per come sono andate le cose e per l’evoluzione che ha avuto il partito in questo ultimo anno. Molti mi hanno chiesto di non andare via, ma di battaglie da dentro ne abbiamo fatte tante. Renzi ha paura  ra che vinciamo noi e che emerga un modello diverso da quello che propone». E come rispondere al Segretario che accusa Pastorino e i dissidenti di dimenticare che lo stesso Pd a Venezia appoggerà comunque Casson, pur appartenendo all’opposizione interna? «Casson ha vinto primarie pulite e regolari – puntualizza Civati – in Liguria invece hanno minimizzato i brogli e i condizionamenti del centrodestra. Hanno vissuto l’uscita di Cofferati facendo spallucce chiedendogli di dimettersi mentre Gennaro Migliore che da Sel è passato al Pd è stato incensato. La candidatura e l’uscita è stata studiata per due mesi e nessuno ha mai chiamato Pastorino».

In Liguria, certo, si apre un possibile orizzonte e per questo sarà Renzi in persona a metterci la faccia per una campagna che si preannuncia molto muscolare. Anche perché il premier ama giocare in tutti i ruoli, solo lui. Senza mai passare la palla. E prima o poi, come succede a quei ragazzini delle partitelle all’oratorio, rimarrà da solo con il suo pallone in mano.

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Le cinque delle 13.00

#CanalediSicilia si temono 900 morti. Proseguono le ricerche nel Mediterraneo dei corpi delle vittime e di eventuali altri sopravvissuti dell’ultimo terribile naufragio che avrebbe provocato oltre 900 morti: sono solo 28, infatti, le persone che si sono salvate e 24 le salme recuperate.

#CanalediSicilia la nave italiana della Guardia Costiera Gregoretti è arrivata a Malta, nel porto de La Valletta, dove ha sbarcato tutte le salme recuperate. Il governo di Tripoli ha dato disponibilità, se verrà trovata la nave, ad accogliere le altre salme che venissero recuperate in seguito.

#CanalediSicilia Il segretario generale delle Nazioni unite Ban Ki-moon ha riconosciuto il pesante impatto sull’Italia per l’arrivo di tanti migranti ed è grato al governo italiano per tutti i suoi sforzi. Ban ha fatto appello alla comunità internazionale perché dimostri solidarità e divida il peso di questa crisi.

#Italicum Battaglia in commissione Affari Costituzionali sulla legge elettorale sulla quale sono stati depositati 135 emendamenti, 11 del Pd. Il premier Matteo Renzi non esclude il ricorso alla fiducia. Intanto, dovrebbero essere sostituiti in serata i 10 componenti della minoranza Dem in commissione Affari Costituzionali.

#Somalia: bomba sul bus dei dipendenti Onu, almeno sei morti. L’ordigno, piazzato sotto un sedile, è stato fatta esplodere con un comando a distanza su un pulmino che trasportava dipendenti Onu a Garowe – capitale del Puntland. Il gruppo Al-Shabab ha rivendicato l’attentato.

Ci sono leggi vere, e leggi quaquaraquà. Direbbe Sciascia

Ci sono tanti tipi di uomini: secondo Leonardo Sciascia nel “giorno della civetta” la scala delle differenze comincia dai veri uomini e finisce coi quaquaraquà. E ci sono tanti tipi di leggi: le vere e le quaquaraquà. Le prime servono a risolvere un problema della società, le altre sono occasioni in cui lo Stato, come diceva il Don Giovanni di Mozart a Zerlina, esibisce la sua protezione – una protezione verbale, vuota di contenuto. Ne conosciamo tante. Si pensi a quella recente sul reato di negazionismo, puro fumo negli occhi, buona solo per stimolare il protagonismo di qualche finto martire della libertà intellettuale e per creare oggi imbarazzi al governo col caso del genocidio armeno.

Sicuramente inutile anzi profondamente sbagliata è la legge che sta introducendo il reato di tortura nell’ordinamento italiano. Era nata come un disegno di legge d’iniziativa parlamentare proposta dal senatore Luigi Manconi, da sempre in lotta contro le sopraffazioni del potere. Se ne sentiva l’urgenza da tempo: l’impunità di torturatori annidati nei gangli vitali delle cosiddette forze dell’ordine era stata una realtà strisciante negli anni di piombo. Un libro bianco del 1982 ne raccolse una casistica. Era emersa con prepotenza nelle cronache terribili dei fatti del G8 di Genova del 2001. E aveva continuato a tornare d’attualità nel lungo stillicidio di casi di persone morte nelle mani di vigili e poliziotti, da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi a Giuseppe Uva a Riccardo Magherini e altri ancora. Ogni volta i responsabili restarono impuniti perché il resto di tortura non era previsto nell’ordinamento italiano. Inutilmente si chiedeva che la lacuna venisse colmata, l’Italia continuava a figurare nell’elenco nero degli stati canaglia.

Ora, la tortura altro non è che l’esercizio del potere dello Stato. Fin dalle lontane origini fissate nel diritto romano è lo Stato l’ente in nome del quale si processa e si tortura. E la realtà odierna è sempre quella: lo dicono sul piano internazionale nomi come Abu Graib e Guantanamo, lo dice lo strisciante ritorno di una legittimazione della tortura nella lotta contro il Terrore. Di fatto e di diritto, il potere statale nella cultura e nella pratica del mondo occidentale si misura dalla sua capacità di esercitare il monopolio della violenza, regolando il ricorso alla forza con le sue leggi. E da secoli contro l’arbitrio del potere – quello della Chiesa e quello degli stati – la cultura occidentale ha condotto battaglie durissime.

Ma ecco che oggi, se si va a leggere il disegno di legge sulla tortura approvata con modifiche alla Camera la settimana scorsa sulla spinta della solenne bocciatura della Corte europea dei diritti dell’uomo, si scopre che nel disegno di legge italiano il reato di tortura è un “reato comune”, non un delitto del potere. Si colpisce «chiunque… intenzionalmente cagiona ad una persona a lui affidata… acute sofferenze fisiche o psichiche»: chiunque, cioè nessuno. Forse è meglio di niente, ha scritto il senatore Manconi, peraltro molto deluso per quello che hanno fatto del suo disegno di legge. Ma forse è peggio: la vergogna di quel vuoto legislativo era almeno una ferita aperta, sfidava le coscienze. Che ora si addormenteranno. E non chiederanno nemmeno la misura minima ma indispensabile dell’identificabilità dei membri delle forze di Polizia impegnate in funzioni di ordine pubblico, oggi coperti dall’anonimato e dalla solidarietà di corpo.

Alexandre Villaplane: il capitano sbagliato, amico dei fascisti

Nato ad Algeri nel 1905, Alexandre Villaplane tira i primi calci nel vivaio del Gallia Sports, il club più amato dagli occupanti francesi. Dopo la Grande Guerra, emigra sulla costa meridionale della madrepatria, a Sète, per esordire nel centrocampo della locale squadra biancoverde che, ormai nel ’23, perde la finale di coppa di Francia contro la Red Star parigina di Pierre Chayriguès, il portiere idolo del piccolo Albert Camus.

Alexandre Villaplane, LeftA 18 anni, Villaplane è chiamato al servizio di leva, si mette in mostra nelle rappresentative militari e si guadagna il debutto in Nazionale. È il 1926. La Federazione di Parigi non ammette ancora il professionismo mentre i maggiori club aggirano il divieto pagando i calciatori sottobanco.

Nel ’27, Villaplane gioca a Nimes e l’anno dopo partecipa alle Olimpiadi di Amsterdam dal cui tabellone la Francia è subito eliminata ad opera dell’Italia medaglia di bronzo. Nel ’30, in Uruguay, in occasione dei primi mondiali della storia, veste la fascia di capitano della sua Nazionale. Dopo il 4-1 al Messico nella gara d’esordio, due sconfitte per 1-0 contro Argentina e Cile rimandano a casa la comitiva.

Alexandre detto Alex, caratteraccio, soldi sempre in tasca, bordelli, bella vita e brutte frequentazioni, se ne torna a Parigi dove indossa già da un anno la maglia del Racing. Nel ’32, la Federazione si arrende al professionismo e finalmente parte il primo campionato: due gironi da 10 squadre.

Villaplane milita nell’Antibes che contende al Cannes l’unico posto utile per la finale contro l’Olympique Lilla: prima senza rivali nel suo raggruppamento. All’ultima giornata, l’Antibes batte il Cannes 1-0. Sarebbe il sorpasso decisivo, ma la società viene penalizzata per aver corrotto i giocatori di un’altra squadra nel corso della stagione. Villaplane cambia aria. La sete di soldi lo porta prima a Nizza e poi a lasciare la Costa azzurra per il nord. Accetta un club di serie B a Bordeaux nel cui ippodromo verrà arrestato per una serie di corse di cavalli truccate.

La sua carriera è finita, ormai è soltanto un delinquente. Allo scoppio della guerra si precipita a Parigi: luogo ideale per malfattori e sciacalli ingrassati dai tedeschi alle porte. Borsa nera, caccia all’ebreo e razzia dell’oro sono la sua specialità. Finisce dentro per ricettazione e proprio in galera aderisce ai collaborazionisti di Henri Lafont e di Pierre Bonny, torturatori di partigiani in rue Lauriston. Fugge a Tolosa per evitare un altro arresto per furto e ottiene da Louis Cazal, suo vecchio compagno ai tempi di Sète, i documenti falsi per rientrare nella capitale occupata. La polizia tedesca lo becca con preziosi rubati e lo sbatte di nuovo in cella. Uscirà per intercessione dello stesso Lafont. Una volta fuori, Bonny lo usa come autista personale e lo inquadra nella Carlingue, la famigerata Gestapo francese. I camerati lo chiamano SS Maometto perché guida la brigata dei collaborazionisti nordafricani.

Quando i tedeschi si arrendono agli alleati, Villaplane finisce nel forte militare di Montrouge. Coinvolto in terribili fatti di sangue e riconosciuto colpevole di almeno dieci omicidi, viene condannato a morte e fucilato nel dicembre del ’46 insieme a Lafont e Bonny, i suoi peggiori compagni di squadra.

Ragionamento di base: le disuguaglianze non sono accidenti

Facciamo piano piano e con grande calma, ma cerchiamo di rincastrare qualche ragionamento di base, così tanto per cominciare ad erodere un po’ di imbecillità.

Per esempio partiamo da un assunto semplicissimo e cioè che se esistono trappole del sottosviluppo che generano povertà in Italia, in Europa e nel resto del mondo, questo non è legato ad accidenti, o a quello che per l’ennesima volta Scalfari nel suo editorialone della domenica chiama «epoca dominata dall’egoismo dell’animale uomo, bestia pensante che oscilla di continuo tra l’istinto animalesco e la coscienza», ma è legato a scelte sbagliate di precisi governi fatti da pochissimi uomini che, in effetti, oscillano tra errori e disonestà. Almeno intellettuali.

Ve lo dico con grande convinzione e un tocco di pessimismo, come esistono meccanismi perversi tra potere economico e potere politico che determinano la scelta di mantenere lo stato delle cose dei “pochi pochissimi”, così esistono altrettanti meccanismi perversi tra cultura dominante e sistema dell’informazione per mantenere lo stesso stato delle cose di altrettanti pochi pochissimi. Allora è bene ripartire dalle basi: dai ricchi e dai poveri. Vecchia espressione forse, che usiamo per raccontarvi perché si è sbagliato e quanto. E quali sono i trucchi usati ancora oggi: tesoretti, bonus, numeri di nuovi occupati a vanvera. Miracoli, concessioni dall’alto. Veri illusionismi che continuano a produrre disuguaglianze e povertà. Perché disuguaglianze e povertà si vogliono produrre. E disaffezione. Perché la gente non è scema, se ne accorge e si allontana. Pensa a salvarsi da sola. Finché può. Finché trova. Poi più.

Onesti. Ve lo abbiamo promesso, irragionevoli vi abbiamo scritto.

Eccoci qui: Chiara Saraceno vi spiega che «solo dai poveri ci si aspetta che siano disponibili a fare “qualsiasi lavoro”, a prescindere dalle loro competenze». La chiama la “povertà estrema”, quella in cui viene uccisa «anche la capacità di aspirare, di immaginare di poter cambiare la propria condizione». È una questione di sottrazione di risorse materiali ma non solo, è perdere il potere «di decidere su di sé, di controllo sul proprio orizzonte di vita, sullo stesso senso di dignità e valore personale». Lo chiama “schiavismo” invece il regista Mimmo Calopresti ma intende la stessa cosa: «Una sorta di marcia felice che pensa solo a quanto produci e che alla fine crea disastri». Nessuno conta più nulla, vogliono farci credere – insiste il regista -, né politicamente, né nei luoghi di lavoro, né nella società nella quale viviamo. E forse è proprio questa l’idea che c’è dietro. Quella che alla fine deve portare «a una sola stella in un cielo così denso di nuvole nere: la stella di papa Francesco, il solo in grado di gestire il presente con lo sguardo verso il futuro» come scriveva, per l’ennesima volta Scalfari nel suo editorialone della domenica.

Misericordia e carità, null’altro salverà un’umanità povera per sua natura perché egoista per sua natura. Questo è l’illusionismo imperante del momento, culturale e poi politico. Per nulla di sinistra, vi avverto con altrettanta convinzione, e non perché la povertà sia un problema morale, o di mancata equità o giustizia sociale (anche), ma perché queste idee attaccano la democrazia. Escludono, allontanano, concentrano tra pochi. Impediscono una partecipazione “alla pari”, producono inadeguatezza umana che si traduce in inadeguatezza economica e sociale.

Banalmente, come vi racconteremo in questo numero di Left, questo modo di pensare che diventa fare, produce mostri, come lo smantellamento del welfare, sistemi di tassazione iniqui che continuano a scaraventarsi sulla vita dei molti che hanno meno e non “trovano” i pochi che hanno molto. Allora davvero, cominciamo a rincastrare qualche ragionamento di base e a erodere un primo pezzetto di imbecillità: misericordia e carità non equivalgono a diritti e giustizia sociale. E l’idea di una umanità cattiva/egoista per sua natura è incompatibile con quella di movimento e di uguaglianza. Con quel “capitale umano” di cui scriveva José Saramago che ti rende insopportabile l’infelicità altrui.

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Le passioni di Roberto Longhi

A Roberto Longhi (1890-1970) si deve la riscoperta dei cosiddetti primitivi. E una innovativa e sensibile interpretazione della pittura del Trcento. Con al centro Giotto che, uscendo dalla piatta visione medievale, per la prima volta fa agire i personaggi nello spazio lasciando che le passioni e i sentimenti affiorino sui volti. Ma nel quadro del gotico internazionale seppe anche cogliere tutta l’originalità del linguaggio di Masaccio, fatto di essenzialità di linee, plastica monumentalità delle figure e potenza del colore. Lo racconta bene la mostra De Giotto à Caravage aperta fino al 20 luglio nel Musée Jacquemart-André a Parigi, scegliendo una fulgida Madonna con bambino dai colori smaltati per rappresentare l’artista della Cappella Brancacci in questo percorso espositivo pensato come fosse un ideale museo longhiano.

E poi la scoperta di Masolino da Panicale, dell’anti classico Mantegna e il pieno recupero dell’arcaicizzante Piero della Francesca di cui Longhi è stato uno dei massimi conoscitori e interpreti. Con una lingua viva quanto colta, nel celebre saggio L’officina ferrarese (1934, ora nei Meridiani Mondadori) Longhi riuscì anche a far riemergere dall’oblio un pittore come Cosmè Tura, dimostrando che era tutt’altro che un bizzarro e introverso pittore di provincia. Come testimonia qui, dal vivo, una potente e spettrale composizione di figure sacre, dai colori lividi e corruschi. Un’opera che emerge con straordinaria forza dal buio di una sala foderata di rosso scuro, mescolando inquietudini nordiche ed eleganza rinascimentale.

Ma in questo ricco itinerario dal XIV al XVII secolo, che affianca importanti prestiti del Polo museale fiorentino e di altri musei europei a numerose di tele della collezione Longhi, non poteva mancare uno degli artisti più amati dallo studioso piemontese: Caravaggio. Al quale riconosceva di aver rivoluzionato la pittura naturalistica con un uso vivo e drammatico del chiaroscuro. Di fatto gli scritti longhiani sono alla base della crescente fortuna critica di Caravaggio nel Novecento.

Con l’aiuto di Mina Gregori presidente della Fondazione Longhi, il curatore Nicolas Sainte Fare Garno è riuscito a dedicargli sale in cui spiccano il Ragazzo morso da un ramarro (in foto) e l’Amorino dormiente della Galleria Pitti ma anche il Cristo coronato di spine del 1602, tra dipinti di Ribera e di caravaggisti. Ricostruendo il contesto in cui furono dipinti, con quell’attenzione alla koinè culturale che, come ricorda Orietta Rossi Pinelli ne La storia delle storie dell’arte (Einaudi), connota tutto il lavoro critico longhiano.

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Ricchi e poveri

Ripartiamo dalle fondamenta. Dai ricchi e dai poveri. Questa settimana su Left Chiara Saraceno non solo scrive i numeri della povertà in Europa (solo i minori a rischio povertà sono 27 milioni, uno su quattro) e in Italia, ma spiega cosa sia “la povertà estrema”, quella che uccide persino la capacità, l’aspirazione di immaginare di poter cambiare la propria condizione.

Le disuguaglianze crescono e non perché siano accidenti, ma per scelte precise. Come quelle che portano a sistemi di tassazione iniqui che continuano a colpire i molti che hanno poco per favorire i pochi che hanno molto.

Vi abbiamo raccontato la storia del regista inglese Ken Loach che dei losers e della working class ha fatto la sua bandiera più bella. E abbiamo chiesto al regista italiano Mimmo Calopresti di spiegarci la sua vita tra gli operai, prima della Fiat e poi della Thyssen di Torino.

Ci siamo occupati di tortura e della nuova legge chiedendo a Luigi Manconi, autore del testo originario, di spiegarci come e quanto, prima di essere approvata alla Camera, sia stata modificata e in parte snaturata. Ci siamo occupati di libertà e resistenza ricordando, a modo nostro, il 25 aprile. Dello strano caso di Attilio Manca, urologo del boss Provenzano, e di una donna unica: il giovane avvocato Tawakkul Karman, premio Nobel per la pace nel 2011, volto gentile della Primavera yemenita.

E molto altro ancora: di Kurdistan, di Velazquez a Parigi, del ritorno dell’intellettuale organico e della magnifica storia del fisico Joseph Rotblat che si rifiutò di costruire la “bomba”. Buona lettura!

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Le cinque delle 20.00

Musulmani contro cristiani, 12 migranti buttati in mare dal gommone. Sarebbero 12 le persone gettate in mare da un gommone carico di migranti che dalla Libia stava raggiungendo le coste siciliane durante una lite tra musulmani e cristiani.

#Paita ottiene la fiducia dal Pd ligure che invita la candidata presidente della regione ad andare avanti anche alla luce delle valutazioni sul merito della questione. Lo afferma il vicesegretario del Pd Lorenzo Guerini ai cronisti a Montecitorio.

#Italicum Bersani sicuro che la minoranza resterà unita e che il voto di fiducia non ci sarà. Dopo l’assemblea Pd di ieri sulla legge elettorale, durante la quale il capogruppo Roberto Speranza ha rassegnato le dimissioni, Bersani torna sulla questione e rassicura chi vede la minoranza Pd in ritirata e sulla fiducia dice: “Non voglio neanche considerare questa ipotesi”

Non c’è futuro per lo stabilimento Indesit di Carinaro, nel Casertano. Resta ora da vedere cosa ne sarà dei circa 800 lavoratori. È quanto si è appreso al Ministero dello Sviluppo dove il piano industriale di Whirlpool, che il gruppo ha presentando ai sindacati, prevede la chiusura del punto produttivo del Casertano.

#Diaz Tortosa sospeso dal servizio: sono una vittima. Rimosso dirigente reparto mobile Cagliari, aveva messo un like al post di Facebook dell’agente, oggetto di polemiche e successiva sospensione.