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Colpo di scena! È Sherlock

Segnatevi il nome: CollettivO CineticO. Sono giovani, vivono a Ferrara, interpretano la danza come un gioco affascinante di tecnica rigorosa e di slanci nella poesia del corpo, di geometria e follia. Vincitori nel 2014 del premio Rete critica, la rete dei blog e siti di teatro, compongono incursioni nei territori contaminati dell’immaginario contemporaneo.

Li abbiamo visti per strada nel festival Danza urbana di Bologna alle prese con le gesta fisiche di alcuni (improbabili) supereroi o in teatro in un talent Amleto, con bando per le iscrizioni su Facebook, con prove esilaranti e molto serie per i partecipanti. Hanno composto un vero e proprio manifesto generazionale con «age», chiamando un gruppo di adolescenti a improvvisare sentimenti, emozioni, rapporti reagendo a stimoli dati, come su uno struggente ring dell’esibizione di sé.

In Miniballetto n.1 Francesca Pennini (con il drammaturgo Angelo Pedroni, l’anima della compagnia) alterna momenti di virtuosismo coreutico a slanci nella pura visionarietà, con un drone volteggiante e piume smosse come un vento cosmico. Nella loro continua indagine sui meccanismi della performatività, sui confini tra rappresentazione, tecnica e incrinatura esistenziale, sono approdati ora a Sherlock, uno spettacolo per ragazzi prodotto con il glorioso Teatro delle Briciole di Parma.

Secondo lo spirito del personaggio di Conan Doyle si tratta di una divertente, ammiccante investigazione deduttiva. Gli addetti della compagnia di pulizie Watson Srl devono rimuovere le tracce dello spettacolo della sera precedente, e per farlo devono prima ricostruirle in modo “scientifico”.

Il pretesto narrativo conduce a un viaggio in diversi stili di danza e possibilità coreografiche, per mostrare come solo lo scatto nell’immaginazione possa definire i modi che l’arte ha per trasfigurare la realtà. I giovani spettatori sono coinvolti in un gioco che chiede continuamente di guardare oltre le apparenze, per estrarre inedite visioni dal flusso della vita quotidiana.

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Le ragioni dell’odio delle banlieue parigine

L’arbitro fischia un fallo, va incontro al giocatore indispettito in maglia biancoverde e fa per estrarre il cartellino giallo. Attraverso le tribune fatiscenti si intravede un tipico palazzo della banlieue parigina degli anni Settanta: il taglio modernista dell’architettura evidenzia l’asprezza del paesaggio urbano. All’improvviso, alcune donne africane e un gruppo di uomini magrebini intonano uno slogan: “Flic, arbitre ou militaire, qu’est-ce qu’on ferait pas, pour un salaire”, ovvero “sbirro, arbitro o militare, che cosa non si fa per un salario!”. La rima si perde nella traduzione, ma sulle tribune il ritmo incalza e riecheggia forte e chiaro. L’inno è quello dei quartieri popolari a nord di Parigi, lontano dal blasone turistico della ville lumière. Dove, in campo, regna il Red Star Football Club,la formazione calcistica di terza divisione francese.

Il club, fondato nel 1897, ha una storia antica e gioca le sue partite nella banlieue de Saint Ouen, in zona Saint Denis. La squadra della “stella rossa” è un emblema delle Zone urbane ad alto rischio (Zus) di Parigi, che rivendica da sempre la propria appartenenza proletaria. La sua tifoseria è composta da donne e uomini degli strati popolari marginalizzati della società francese, annoverando sia signore africane in abiti tradizionali che giovani ragazzi in felpa e cappuccio.

Il club tiene vivo il suo forte legame con il quartiere anche attraverso un settore giovanile da cui sono emersi diversi calciatori di talento. Come fanno notare con orgoglio e senso di appartenenza alcuni tifosi, nell’ultimo Mondiale di calcio erano quattro i giocatori che avevano militato, anni or sono, nelle file delle giovanili del Red Star. Anche in questo il Red Star è l’antitesi del calcio champagne e finanza, che in terra francese si materializza nel Paris Saint-German di Ibrahimovich e dell’emiro qatariota, padrone del club. A contraddistinguere la Red Star non è tanto il dato sportivo, ma quello sociale.

Nella Francia post attentati a Charlie Hebdo, le banlieue rischiano di diventare, o di essere considerate, territori dell’estremismo e del disordine sociale. Il discorso pubblico sulle banlieue ha assunto toni ancor più allarmisti – quando non addirittura xenofobi – rispetto al passato. L’etimologia stessa della parola “banlieue” suggerisce una sostanziale esclusione dalla società civile: “ban” indica il “mettere al bando” e “lieue” è il luogo. In altre parole la banlieue, letteralmente, significa un luogo bandito, o meglio: di banditi.

Non è una novità per la Francia quella di considerare le banlieue, zone speciali. Circa dieci anni fa, nel novembre 2005, il presidente Jacques Chirac, il cui ministro degli Interni era Nicolas Sarkozy, aveva dichiarato lo stato d’emergenza nazionale quando gruppi di giovani, per lo più figli di immigrati africani e arabi di seconda e terza generazione, erano scesi in strada per protestare contro l’uccisione di due adolescenti da parte della polizia. I due ragazzini, Bouna Traoré e Zyed Benna, nel tentativo di fuggire all’inseguimento degli agenti, si erano nascosti all’interno di un recinto di una piccola cabina elettrica, rimanendo fulminati dai cavi scoperti. “Morti per nulla”, scandivano e ripetevano le persone scese in piazza, morti per paura delle forze dell’ordine, del loro atteggiamento persecutorio e minaccioso contro i giovani dei quartieri popolari, delle banlieue.

La rabbia popolare in quel caso si era materializzata in atti incendiari contro le autovetture parcheggiate lungo le zone di protesta, fatto che aveva scaturito l’indignazione, molto borghese e celatamente classista, dei media che bombardavano il pubblico con immagini, ripetitive, di macchine bruciate lungo le strade. Il dato effettivo dei danneggiamenti era stato ancora una volta esagerato dai media francesi, alcuni notoriamente vicini, al tempo, al partito popolare e al ministro degli Interni Sarkozy. Infine con lo stato d’emergenza nazionale, la Francia aveva trasformato le banlieue parigine in zone, effettive quanto immaginarie, di guerra.

Allo stesso modo per capire l’isteria collettiva – e mediatica – all’indomani degli attentati di Parigi del gennaio 2015, bisogna comprendere il contesto sociale, l’atmosfera conflittuale, delle banlieue come luogo di vita e scontro quotidiano. Non per giustificare il radicalismo di alcuni giovani francesi, che sono stati progressivamente attratti dalla propaganda islamista, ma per situare gli eventi e le loro ragioni all’interno di un’analisi alternativa alla dilagante islamofobia, in cui gli elementi “spettacolari” si trasformano in semplici quanto pericolosi mezzi di campagna elettorale in tempi di crisi. La realtà nelle banlieue si svela, scontatamente, diversa e più controversa della narrativa criminalizzante dei media o del governo. Assomiglia, per dirla con una metafora, al gioco del gatto e del topo.

L’antropologo e medico francese Didier Fassin è uno dei pochi ricercatori che hanno avuto l’onere di osservare le operazioni quotidiane della polizia di quartiere nelle banlieue di Parigi. Tre anni di ricerca al seguito di una Brigata anti criminalità (Bac), hanno permesso al ricercatore francese di avere prova ed esperienza diretta di cosa significa pattugliare le Zone urbane sensibili (Zus), ovvero le aree della capitale francese più povere e con la più alta densità di popolazione immigrata. La Bac, la polizia speciale per le banlieue, ha fama di grande severità e i suoi membri hanno l’obbligo di superare addestramenti ad hoc.

Le forze delle Bac si ritrovano di norma ad avere a che fare con ragazzi di origine araba o africana: ispezioni, controlli virulenti e linguaggio aggressivo (spesso apertamente razzista) nei confronti dei cittadini delle banlieue è la norma nel loro lavoro. E in caso di reazione non pacifica dei soggetti controllati, l’arresto è la conseguenza più immediata, mentre l’umiliazione ne è l’effetto psicofisico perdurante. Più che lottare contro il crimine, conclude Fassin, le Bac operano come presenza materiale dello Stato in territori spesso definiti dall’autorità come ingestibili e caotici, dunque a rischio.

Anche secondo le statistiche ufficiali, la loro efficacia nel contrastare il crimine è pressoché nulla, mentre la maggior parte del tempo lavorativo è occupato da ispezioni casuali e pattugliamenti nelle banlieue, durante le quali la quasi totalità dei soggetti fermati sono «soggetti appartenenti alle minoranze nera e araba del Paese». La valutazione di fondo che la polizia fa nei confronti dei giovani delle banlieue sembra essere quella del diritto garantista, all’inverso: al cittadino (di banlieue) spetta il dovere di dimostrare la propria non-colpevolezza, altrimenti segue la detenzione temporanea in caserma. Questo modus operandi è il risultato di politiche pubbliche che hanno adottato il linguaggio e le pratiche della “guerra al crimine”, producendo di fatto una militarizzazione della polizia e delle aree considerate pericolose.

Come racconta l’antropologo Fassin, la polizia francese che opera nelle banlieue si rifà a un linguaggio e a una visione militaresca altrimenti estranea alle forze dell’ordine delle città francesi. Dopotutto, se lo Stato veste i poliziotti con uniformi militari, armi da guerra e dice loro di prepararsi a “una guerra al crimine”, “al terrorismo”, o “alla droga”, il risultato, scontato, è che la polizia inizia a combatterla, questa guerra, individuando nei cittadini delle aree interessate i “nemici”. E nel momento in cui i giovani di città si ritrovano a essere il target, umiliati dalla polizia di fronte ai loro coetanei, familiari e vicini di casa, l’odio verso le istituzioni non può che crescere. Così, quello di fuggire alla vista di un poliziotto diventa un riflesso quasi pavloviano che i giovani delle banlieue sviluppano nel corso della loro vita.

Per assurdo, la polizia, da forza dell’ordine istituita per proteggere i cittadini, si trasforma in forza che li perseguita e li intimorisce. Con la polizia che agisce militaristicamente, emerge anche una spettacolarizzazione della gestione delle città: inseguendo i miti polizieschi delle serie tv americane, i guardiani dell’ordine pubblico adottano uno stile d’azione esagerato, con sgommate, inseguimenti pseudo-immaginari ad alta velocità e atteggiamenti spavaldi da sceriffo di contea.

Nel contempo i ragazzi delle banlieue guardano alla mitologia di Scarface o a quella dei tre ragazzi del film La Haine (L’odio, 1995). In entrambi domina lo spettacolo e la vendetta, due elementi che sono fulcro semantico anche degli eventi di Charlie Hebdo. Il martirio, poco islamico, nel marzo 2012 di Merah Mohammad nella città di Toulouse ne è un caso esemplare. A detta dei suoi amici, il ragazzo non aveva mai frequentato una moschea nella sua vita, era stato ripetutamente in prigione per piccoli crimini (droga, furti e guida spericolata), ed era sotto osservazione dei servizi di sicurezza francesi dall’anno 2006. Dopo un periodo in prigione, manifesta una sindrome narcisistica e paranoica a cui si accompagnano i contatti con cellule estremiste che lo porteranno a sparare contro dei militari francesi e in seguito ad attaccare una scuola ebraica a Toulouse. Si direbbe una traiettoria sociale pressoché identica a quella dei fratelli Koucachi e di Amedy Coulibaly negli attentati del gennaio 2015 contro Charlie Hebdo. L’atto terroristico avviene in solitario, secondo linee spettacolari, nei cui calcoli l’attenzione mediatica è requisito essenziale.

Si tratta non tanto di individui ideologicamente complessi, la cui fede impone l’azione drammatica, eroica e distruttiva in nome dell’Islam, ma di giovani socialmente emarginati, a cui il Paese d’accoglienza (o di nascita) non ha offerto, né a loro stessi né ai propri genitori, quella fortuna sperata, relegandoli a cittadini di secondo ordine. Prima perseguitati dalle forze dell’ordine poiché ‘diversi’, poveri e pericolosi, poi incarcerati per piccoli reati di furto e droga; infine, come anche nel caso del giovane britannico divenuto il boia dell’Isis, Jihadi John, sorvegliati dalle forze di sicurezza al seguito del loro intervento come combattenti in una guerre che l’Occidente (la Francia in testa) ha voluto fortemente. Il caso della Siria e della Libia ne sono due esempi lampanti.

Eppure, la retorica politica all’indomani degli eventi tragici di Parigi non solo ignora complessi segnali tra le classi popolari del Paese, preferendo, come scrive il filosofo Slavoj Žižek, la formula di identificazione patetica je suis Charlie, ma essa presiede a un immaginario precedentemente impensabile. Paradigmatico di questo nuovo immaginario sono i cartelloni con su scritto je suis flic, “sono un poliziotto”, che ipotizzano una riconciliazione della generazione del ’68 con il suo arci-nemico, la polizia. Uno scenario solo superficialmente rassicurante a cui solo le banlieue, tra cui quelle della Red Star Football Club sembra sfuggire.

Nel celebre film di Mathieu Kassovitz, La Haine, la voce fuori campo riassume il messaggio della storia con queste parole: «È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani; man mano che cadendo passa da un piano all’altro, per farsi coraggio, si ripete fin qui tutto bene, fin qui tutto bene, fin qui tutto bene. L’importante però non è la caduta, ma l’atterraggio».

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Le cinque delle 13.00

#Cannes2015 Moretti, Sorrentino e Garrone in concorso. I film Mia madre di Nanni Moretti, Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino e Il racconto dei racconti di Matteo Garrone al Festival dal 13 al 24 maggio. I tre registi: felici e orgogliosi di rappresentare l’Italia.

#Tortosa sospeso dal servizio. L’annuncio del capo della polizia, Alessandro Pansa, a margine di un convegno all’Università La Sapienza di Roma. Il poliziotto aveva scritto su Facebook: Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte.

#Italicum strappo nel Pd, il capogruppo Roberto Speranza si dimette. Il segretario ha chiesto ai deputati Pd di votare la proposta di legge elettorale senza modifiche. Dopo l’annuncio delle dimissioni del capogruppo, la minoranza ha lasciato l’assemblea. Vi libera alla linea del segretario premier con 190 sì e nessun contrario, ma 120 deputati non votano.

#Ilva La Corte europea dei diritti umani ha dichiarato inammissibile il ricorso di una donna contro l’Ilva. Secondo i giudici la ricorrente non ha dimostrato che sono state le emissioni dell’Ilva a causare la sua leucemia.

#Grecia L’agenzia Standard & Poor’s ha abbassato il rating del paese da B- a Ccc+, per il rischio che in assenza di riforme economiche radicali o un ulteriore sconto sul debito la situazione del bilancio pubblico greco diventi “insostenibile”.

Wolfgang Schäuble il signor “no” d’Europa

La Grecia è parte dell’euro ma ora dobbiamo discutere che cosa fare e su questo non siamo d’accordo. Il mio addetto stampa, che è un diplomatico, mi ha suggerito di dire che siamo d’accordo sul non essere d’accordo». È capace di grondare bonomia da tutti gli artigli Wolfgang Schäuble, come il Romano Prodi descritto da Edmondo Berselli.

Ed è proprio con questa bonomia che, il 5 febbraio scorso, il finanzminister di Angela Merkel ha interrotto bruscamente la luna di miele europea del governo targato Syriza. Il primo incontro con Varoufakis andò talmente male che, secondo fonti vicine al ministro greco, Schäuble ha rifiutato di lasciare il proprio numero di telefono al suo corrispettivo di Atene. E quando, due settimane dopo, la bozza Moscovici finì online durante le trattative tra Grecia ed Eurogruppo, Schäuble, infuriato, aveva già pronto il suo capro espiatorio. Alcuni parlamentari vicini al tesoriere del Reich chiesero la testa di Varoufakis, in carica da meno di un mese, minacciando che il Bundestag non avrebbe mai approvato alcun accordo fino a che il professore greco fosse stato al tavolo dei negoziati.

Martellante come il J.K. Simmons di Whiplash, l’11 marzo da Bruxelles Schäuble ha definito «stupidamente ingenuo» il ministro greco. Tanto che l’ambasciatore greco a Berlino presentò una protesta ufficiale stigmatizzando gli insulti personali, in seguito negati. «Si tratta di un vero scontro di personalità», ha dichiarato dietro le quinte un ufficiale europeo. Uno scontro che si gioca sulla pelle dell’Unione. Il 13 marzo scorso, a poco più di ventiquattro ore dalle rimostranze della diplomazia greca, è stato lo stesso Schäuble a rompere il grande tabù dell’euro, ipotizzando pubblicamente un’uscita dalla Grecia dalla moneta unica: «Poiché la responsabilità e la possibilità di decidere cosa accadrà è solamente in mano greca, e poiché non sappiamo cosa faranno, non possiamo escludere questa possibilità», ha detto leccando uno dei suoi artigli.

Dalla Germania descrivono Schäuble come un negoziatore con grande capacità di calcolo: più attacca un bersaglio facile come Varoufakis, più è credibile a Berlino e solo il suo intervento avrebbe convinto i parlamentari più conservatori ad approvare la recente estensione del bailout greco. In più, un’uscita della Grecia dall’euro è ben vista dal 52% dei tedeschi e la linea dura del ministro spinge in alto il consenso del governo. Altri lo dipingono invece come un 72enne rancoroso, a cui la po- litica ha promesso molto più di quanto abbia dato. Nel 1997 era il delfino di Kohl, candidato a una successione che sarebbe dovuta avvenire una volta traghettata la Germania nell’euro, ma naufragata con la vittoria elettorale del socialdemocratico Schroeder l’anno successivo.

Nel 2004 era pronto per la presidenza della Repubblica, ma per settimane attese invano una chiamata di Angela Merkel. Oggi è l’uomo forte del suo governo, il Signor No dell’euro, quello che ha maggiormente influenzato la risposta di Berlino alla crisi: austerità e riforme, un mantra ripetuto persino di là di ogni evidenza da colui che si trova ai comandi del treno in quel “disastro ferroviario a rallentatore” che secondo Nouriel Roubini è oggi l’Europa. «La Cancelliera può contare sulla mia lealtà», dice. «Ma questo non significa che me ne sto buono, io ho la libertà di fare quello che ritengo giusto».

Senza nascondere gli elementi di una sordida autorappresentazione (un hacker rivelò che la sua password è “gewinner”, il vincitore), si fa vanto di svolgere il proprio ruolo di ministro delle finanze “senza pietà” – un principio che cinque anni fa decise di applicare con successo agli affari europei. Per esempio, senza comunicarlo a Merkel, chiamò il ministro delle Finanze greco Venizelos, per annunciargli la sospensione degli aiuti da parte della Germania in seguito all’annuncio del premier Papandreou di un referendum sull’euro. E quando Angela Merkel, in una serata a margine di un summit del G20, provò a prendersi il merito della linea dura, il vecchio Wolfgang la redarguì pubblicamente, mettendo agli atti la sua versione della storia. Non è usuale vedere il leader più potente d’Europa essere ripreso pubblicamente da un finanzminister, un ragioniere glorificato. C’è chi sostiene che Merkel tolleri la sua presenza proprio perché i suoi 72 anni non ne fanno un candidato credibile alla leadership, e che lo ha nominato ministro solo per sottrarre il Parlamento alla sua enorme influenza.

Nato nel 1942 a Friburgo in Brisgovia, dove la Germania meridionale profonda si allunga a toccare la Francia e la Svizzera, suo padre Karl era un dirigente regionale della Cdu e commercialista. Wolfgang ne seguirà le orme fino alla sua morte, in quel 2000 che rivolta la sua vita come la pagina che chiude un libro. Diventato dottore in legge nel 1971, ottiene un lavoro nell’amministrazione pubblica e nel 1972 viene eletto in Parlamento, dove siederà per i 43 anni successivi. Nel 1984 Kohl lo sceglie a capo della Cancelleria, suo uomo ombra e tutto fare, il Gianni Letta del vecchio cavallo da guerra.

Nel 1989, da ministro, gestisce in prima persona le negoziazioni per la dissoluzione della Repubblica democratica tedesca, la Germania est, cosa che avverrà, dopo uno storico accordo, il primo luglio 1990. Schäuble è quindi il demiurgo dell’unificazione tedesca e il suo primo ministro dell’Interno. Poco più di tre mesi dopo, il 12 ottobre 1990, durante un evento elettorale lo raggiungono tre colpi alla schiena, sparati con una Smith & Wesson calibro 38 da Dieter Kaufman, che sarà dichiarato incapace di intendere e di volere. Da allora Schäuble vive su una sedia a rotelle. «Da quel giorno, nei miei sogni sono un pedone», dichiarò a Der Spiegel. E nonostante ripeta strenuamente che la politica è l’arte di fare i conti con la realtà, in fondo è proprio questo idealismo, radicale nel senso fichtiano dell’obliterazione dell’oggetto, a caratterizzare il pensiero e la sua pratica politica.

La sua fede nel disegno europeista è talmente salda da renderlo in questi anni sordo a qualsiasi possibile mutamento di rotta. Sotto la sua guida la Germania ha raggiunto il pareggio di bilancio proprio mentre gli economisti chiedevano alla Germania di spendere di più per dare fiato alle economie della periferia. Il suo durissimo stile di negoziazione è giustificato dalla convinzione di fare gli interessi dei Paesi più deboli, che con riforme impopolari e austerità si starebbero avviando sulla strada di un’Eurozona più forte e sostenibile.

Dotato di un senso pratico popolare che gli permette di ridimensionare Goethe all’altezza di un postino, Schäuble è anche capace di visioni lunghe, come quando propose – inascoltato da Merkel – un Fondo monetario europeo sul modello di quello di Washington, anni prima che lo sprofondare della crisi richiedesse la creazione di un’istituzione simile con la nascita dei Fondi di Salvataggio. Merkel lo ha definito «una manna dal cielo per la politica europea».

Non sono pochi a ritenere che solo Schäuble riesca a spingere la Cancelliera aprendere posizioni di leadership internazionale avverse alla sua natura di politica domestica che non ama il rischio. E se la soluzione alla crisi del Continente passasse per la rimozione renitente della realtà fino a forgiarne una nuova, «la figura più talentuosa e tragica della politica tedesca», colui che lavora 70 ore a settimana, potrebbe paradossalmente essere l’unico in grado di riuscirci.

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Le cinque delle 20.00

#Paita indagata per mancata allerta. L’assessore regionale alle infrastrutture e alla protezione civile della Liguria e candidata per il centrosinistra alla presidenza della Regione ha ricevuto un avviso di garanzia per mancata allerta in occasione dell’alluvione di Genova del 9 ottobre dello scorso anno.

#Italicum è il giorno delle scelte, “no” dalle minoranze Pd. Questa sera riunione decisiva del gruppo del Pd. Matteo Renzi invita a prendere una decisione “finale” sul testo della legge elettorale. Confermato il no di Pippo Civati, dovrebbe arrivare il voto contrario anche da Area riformista ,la corrente guidata da Roberto Speranza, che potrebbe dimettersi da presidente del gruppo alla Camera. Le opposizioni avvertono Renzi: con la fiducia, sarebbe un golpe.

#Tortosa: chiedo scusa a Giuliani. Dopo le offese rivolte al ragazzo ucciso durante il G8, l’agente dice: ho sbagliato, non riesco a darmi pace. Poco prima, in una lettera pubblica, il padre della vittima aveva chiesto al capo dello Stato di chiedere scusa.

#Immigrati in Sicilia sono in tutto 236 le persone giunte all’alba su una nave mercantile che li aveva soccorsi nel Canale di Sicilia. Tra loro anche alcune donne in stato di gravidanza e alcuni minori. Mentre a Corigliano Calabro è arrivata una petroliera con 110 persone di diverse nazionalità.

#Pensioni d’oro. Poletti bacchetta l’Inps: «Non decidete voi». Il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, Giuliano Poletti ha dichiarato che il governo non ridurrà le pensioni superiori a 2mila euro, come era stato ipotizzato dalla proposta di riforma del sistema pensionistico delineate dal presidente dell’Inps, Tito Boeri.

Con Periscope arriva il live streaming per tutti

Periscope, la nuova app per il live streaming su twitter, è volata in un attimo in vetta alla classifica delle più scaricate. «Eravamo affascinati dall’idea di scoprire il mondo attraverso lo sguardo di qualcun altro. Cosa succederebbe se potessimo vedere una protesta in Ucraina con gli occhi di un manifestante? Sembra folle, volevamo realizzare la cosa più vicina al teletrasporto e abbiamo pensato ai video in diretta» così gli sviluppatori di Periscope hanno spiegato il progetto.

In Italia già molti vip sono pazzi per l’app, Fiorello e Jovanotti in primis. Perfino il solito Renzi non ha resistito postando il live streaming del suo ultimo intervento alla direzione Pd.

La sfida più interessante è però quella che si apprestano ad affrontare le redazioni. Mentre Repubblica, La Stampa e Radio 24, sono già sbarcate sul nuovo “rivoluzionario” social, c’è chi si interroga sul senso del giornalismo in un mondo in cui chiunque può riprendere in diretta quello che accade e, soprattutto, diffonderlo prima dei grandi network. Lunga vita dunque al citizen journalism e al cittadinoreporter, anche se, a ben vedere, a parte l’essere “live”, l’idea non è poi diversa da YouReporter.

Periscope può però diventare anche uno strumento fondamentale per i giornalisti portando i lettori/telespettatori dietro le quinte della notizia. La Poynter, una delle migliori scuole di giornalismo, ha addirittura già prodotto un decalogo per spiegare come usare al meglio la nuova app. Il Guardian invece preferisce scherzarci su elencando i 10 tipi di persone che si possono trovare sull’app.

Al fianco del giornalista e del citizen journalist, ci sono: il pervertito, il tizio che guarda nel suo frigo o che riprende la strada che sta facendo in macchina, l’ubriaco, il cucciolo e il pirata che viola il copyright riprendendo live lo spettacolo che sta vedendo al cinema.

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Fabio Tortosa, dalle botte sul campo di football all’irruzione alla Diaz (che rifarebbe mille volte)

Fabio Tortosa Diaz lo rifarei mille volte
Irruzione alla Diaz

C’è un film del 2006 sul football americano, s’intitola Invincibile ed è la storia di Vince Papale, giocatore a tempo perso che riesce ad arrivare fra i professionisti dell’Nfl. In una scena Mark Wahlberg, l’attore che interpreta Papale, parla con un suo compagno di squadra, che senza troppi preamboli gli dice «io gioco centro, io odio tutti». Nel ruolo di centro giocava anche Fabio Tortosa, 42 anni, romano, professione poliziotto. Non un poliziotto qualunque, ma uno degli ottanta del VII nucleo, quello che ha fatto irruzione nella scuola Diaz nel corso del famigerato G8 di Genova del 2001. “Macelleria messicana” secondo il vicecomandante del VII nucleo Michelangelo Fournier, tortura per la Corte europea dei diritti dell’uomo.

A Tortosa poco importa della sentenza di Strasburgo. Non rinnega quanto avvenuto, anzi, rincara. «Io sono uno degli 80 del VII nucleo. Io ero quella notte alla Diaz. Io ci rientrerei mille e mille volte», scrive il 9 aprile su Facebook. Gli apprezzamenti si sprecano, sono quasi duecento sotto forma di like. Un fiume di commenti segue il suo post, e molti sono a favore. Ma prima di portare il casco da celerino Tortosa ha indossato quello da football.

Si appassiona da giovanissimo, segue da tifoso gli U-Boat di Ostia, vorrebbe giocare ma non ha ancora sedici anni e le norme dell’epoca gli vietano di entrare in campo. Ci riesce nel ’90, quando veste la maglia dei Marines Ostia. Qualche parentesi in giro per l’Italia, ma coi Marines – dal 2004 non più solo Ostia, ma Lazio – è amore per la vita. Vent’anni di carriera con gli stessi colori, prima da giocatore, poi da dirigente. È forte, Tortosa: gioca centro, ruolo da giganti ed estremamente delicato.

Protegge il quarterback, il regista della squadra: gli consegna la palla a ogni azione, poi gli fa da schermo. Spinge, arretra, incassa e dà botte. Tutto, purché chi gli sta dietro non venga toccato dagli avversari. «Mi faceva vibrare la pelle pensare che in attacco tutto partiva da me», diceva in un’intervista di qualche anno fa apparsa su un sito internet. Quando smette di giocare i Marines lo onorano ritirando il suo numero di maglia, il 62: in futuro nessun altro giocatore del team potrà indossarlo. Il football non termina con l’addio ai campi: la passione di Tortosa è troppo forte, fa il dirigente e dei Marines diventa il vicepresidente.

Della sua esperienza si avvale anche la Fidaf, la federazione di football americano (il cui presidente dal 2002 è Leoluca Orlando): ottiene la carica di consigliere federale, poi di responsabile dell’organizzazione del campionato Under 19, di quello di Terza Divisione e in alcune occasioni fa il capo delegazione per il Blue Team, la nazionale italiana. Nell’ambiente lo descrivono come estremamente preparato sulla conoscenza delle norme amministrative e rigoroso nell’applicarle, ma poco incline al dialogo. In sintesi, o si è con lui o si è contro di lui. E sono tante le discussioni, non sempre pacate, che l’hanno visto protagonista, sui social network e sui forum degli appassionati di football.

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«Il football insegna soprattutto a stare in mezzo alla gente, è pieno di codici non scritti, tutti molto attinenti alla vita fuori dal campo. Se avrai rispetto del tuo coach, avrai rispetto delle persone più anziane. Se sei in grado di essere un punto fermo per i tuoi compagni di squadra sicuramente saprai esserlo anche per la tua famiglia». Le parole sono sempre di Tortosa. Del poliziotto Tortosa, che dovrebbe proteggere le persone, così come proteggeva i suoi quarterback. Ma la sera del 21 luglio 2001 forse odiava tutti.

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Uscita a sinistra

Altro che rottamazione: un pezzo dopo l’altro sono gli stessi membri del Pd a lasciare il partito. Il terreno della diaspora sono le prossime elezioni regionali.

Dopo il deputato Luca Pastorino in Liguria, è la volta di Rita Castellani, futura candidata presidente per la Regione Umbria. La docente di Economia a Perugia nonché ex membro della direzione regionale del Pd, non solo non rappresenterà il partito del premier: le elezioni saranno l’occasione per presentare un nuovo movimento che contenga valori non più rintracciabili, sembrerebbe, nel Pd. Con un nome più che evocativo: Possiamo. La professoressa umbra vuole ancora credere che ci sia un modo per fare politica col centrosinistra, e dunque ecco lo strappo, esplicitamente in contrasto con le politiche renziane. Prima fra tutti la legge elettorale, che dà il via libera a quei «capibastone che localmente dirigono un assembramento d’interessi che con un partito nazionale nulla hanno a che vedere», denuncia. E non è sola: «Militanti ed elettori del Pd non ce la fanno più».

Ha scelto di non ricandidarsi in Toscana Daniela Lastri, consigliere regionale uscente e per dieci anni assessore alla Pubblica istruzione del Comune di Firenze. Non riprenderà nemmeno la tessera del partito, lei che ne è stata una delle fondatrici: «Il partito è cambiato, è diventato più di centro che di sinistra». Critica «la politica nazionale del Pd, dall’Italicum alla Buona scuola, oltre ai provvedimenti regionali come la legge elettorale e la riorganizzazione della Sanità». È una scissione silenziosa quella che sta avvenendo nel Pd toscano. «Tanti militanti non rinnovano più la tessera e non si fanno più vedere nei circoli», dice. Quanto a lei, dirà presto quale schieramento politico appoggerà.

L’assessore regionale uscente della Puglia Gugielmo Minervini, invece, ha preferito farsi espellere. «Per difendere una delle più straordinarie esperienze di governo, la più importante al Sud» e candidarsi con la lista civica vendoliana di sostegno a Dario Stefano, è passato sopra la sua tessera Dem denunciando «il vuoto gigantesco di idee» nella proposta di Michele Emiliano, candidato neorenziano che ha commentato con la frase «Un problema in meno» l’uscita di Minervini. L’ex assessore, molto amato dai giovani e tra i protagonisti della battaglia per le primarie alla Regione, risponde così in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno: «Prendo le distanze da questo Pd che io ho creduto potesse essere la casa dell’innovazione politica. Se è solo il luogo del potere, a me non interessa».

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Le cinque delle 13.00

#Italicum scontro nel Pd sulla legge elettorale. Il premier segretario Matteo Renzi invita a prendere una decisione definitiva sull’Italicum, con l’approvazione definitiva alla Camera; un messaggio che porterà questa sera alla riunione del gruppo del Pd.

#Terrorismo: fiducia al decreto in Senato. Via libera alla fiducia al Senato sul decreto anti-terrorismo che prevede, tra l’altro, una stretta sui foreign fighters e i lupi solitari e l’obbligo di arresto in flagranza per gli scafisti.  Il testo approvato con 161 sì, 108 no e un astenuto.

#Immigrazione diecimila migranti salvati ultimi giorni. Sono 1.511 i migranti tratti in salvo nella sola giornata di ieri – in 12 diverse operazioni coordinate dal Centro Nazionale di Soccorso della Guardia Costiera a Roma – che si aggiungono agli 8.480 salvati nei giorni scorsi, per un totale di quasi diecimila persone soccorse. Lo rendono noto le Capitanerie di Porto.

Percorso a tappe per la carriera nella Pubblica amministrazione, non basterà più fare il concorso iniziale per avere degli scatti, ha detto il ministro della P.a. Marianna Madia durante un incontro alla Luiss. Servono percorsi di valutazione intermedi durante la carriera, migliorando l’esperienza internazionale.

#Milano Funerali di stato questo pomeriggio per le vittime della strage del tribunale di Milano. Ieri il Consiglio dei ministri si è riunito in una seduta lampo per deliberarlo. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, parteciperà ai funerali.