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Dopo il lavoro, la scuola. Spetta solo al capo decidere

Dopo il lavoro, la scuola. I corpi collettivi che tengono insieme la società italiana sono nel mirino di un governo che vuole ridisegnare l’assetto del Paese, sostituire a una cultura dell’aggregazione sociale intorno alla fabbrica e alla scuola un assetto dove quello che conta è la funzione del decidere.

Decide l’imprenditore se e quando assumere e licenziare. Decide il capo d’istituto quale insegnante chiamare.

Basta questo per avvertirci che la partita della scuola richiede la massima vigilanza dell’opinione pubblica. La scuola pubblica italiana è stata nel lungo periodo la spina dorsale del Paese, il luogo dove il diritto di cittadinanza ha preso forma e le classi subalterne hanno trovato la porta di accesso al sapere.

Già adesso, mentre ancora ci manca quella riforma del diritto di cittadinanza più volte promessa e mai attuata, le minoranze di immigrati e di emarginati, mandano o dovrebbero mandare qui i loro figli quando non ne sono impediti dalla xenofobia dei gruppi sociali e delle istituzioni. E questo è un dato di fatto di cui si dovrebbe tenere conto quando si vuole rendere “buona” una scuola italiana, dimenticando che con tutti i suoi difetti questa scuola resta quanto di meglio si trova ancora in Italia. Ma la realtà delle cose resta lontana dal documento governativo.

Il cittadino deve sapere solo che si vuole fare tutto presto e bene. Eppure anche se evasivo, il documento qualcosa dice della direzione proposta al Parlamento. Chi non sarà d’accordo con obbiettivi come quelli indicati nel documento governativo? «All’Italia serve una buona scuola che sviluppi nei ragazzi la curiosità per il mondo e il pensiero critico». E così via. E’ un esempio di quello stile evasivo e scintillante in cui, come ha osservato Stefano Rodotà, «mancano riferimenti forti a principi fondativi».

Non solo mancano, ma tra le righe leggiamo una volontà di cancellazione di principi fondamentali della Costituzione italiana. Ci sono almeno due articoli che sono in gioco ogni volta che si parla di scuola. C’è l’articolo 3 che impone alla Repubblica il «compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese». E qui si affacciano i lavoratori come classe, oggi resi volgo disperso dal Jobs act. E poi l’articolo 33: che nel proclamare la libertà dell’insegnamento ricorda che «enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato».

Qualcuno ci accuserà di laicismo d’accatto, ricorderà che grazie all’impegno della Chiesa cattolica si riesce a far fronte a impegni che lo Stato non è in grado di svolgere.

No: la distinzione tra confessionale, privata (aziendale) e statale resta alla base del sistema scolastico dei Paesi civili.

Allo Stato si richiede di garantire il funzionamento a regime di una scuola capace di accogliere tutti gli aventi diritto con finanziamenti adeguati e tutti sanno quanto siano inadeguati quelli italiani. Per di più nel documento governativo si disegna un sistema in cui il contributo dei privati è richiesto come necessario. E’ una resa senza condizioni, la premessa di uno smantellamento dell’istruzione pubblica.

E poiché parliamo di soldi, con la carta di credito promessa agli insegnanti siamo di nuovo in presenza del trucco di gabellare un’elemosina come una forma di giustizia. E invece il problema è quello di stipendi inadeguati. Ma il problema più grande posto dall’indirizzo governativo è quello del governo – pardon, la “governance” della scuola. Nel disegno del sistema scolastico a regime ritroviamo il principio del comando non democratico che già abbiamo visto nello stravolgimento del sistema parlamentare ed elettorale. Lontanissimi i tempi degli organi collegiali. Tutto è nelle mani del dirigente scolastico, compreso il punto delicatissimo delle chiamate degli insegnanti.

Le scoperte della fisica moderna in Sette brevi lezioni di Carlo Rovelli

Suggerisco di usare Sette brevi lezioni di fisica di Carlo Rovelli (Adelphi), un aureo libretto divulgativo, come esercizio zen, e le sue idee come l’equivalente di un koan buddhista (paradossi o enigmi senza vera soluzione).Libri, Sette brevi lezioni, Carlo RovelliPrendiamo la meccanica quantistica: un elettrone – dentro l’atomo – se non lo guardo e non lo faccio cozzare contro altri elettroni non è in alcun luogo preciso, anzi “non è in un luogo”. I pezzi che compongono la realtà dunque sono instabili, discontinui, fluttuanti. Non somigliano a sassolini. Piuttosto sono delle vibrazioni. E se non li osserviamo o disturbiamo non si trovano da nessuna parte. Ma come è possibile? Le equazioni della meccanica quantistica ci servono per costruire i transistor ma restano per noi misteriose.

E ancora, spostiamoci dalle particelle elementari, e cioè dalla teoria della meccanica quantistica, alla teoria della relatività generale, dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande (si tratta delle due gemme della fisica novecentesca, tra loro in conflitto, ma ciascuna per suo conto perfettamente funzionante). Qui scopriamo un altro koan irrisolvibile: lo spazio è curvo, non piatto, e infatti la linea più breve tra due punti è una curva.

La terra ruota intorno al sole non tanto per la legge di gravità dell’attrazione dei corpi quanto perché dove c’è tanta materia (come nel caso di una stella, il Sole) lo spazio si incurva, e così la Terra rotola in un imbuto. Per non parlare del tempo, che non scorre sempre uguale: ad esempio in montagna è più lento. Riuscite a immaginarlo?

Insomma le scoperte della fisica moderna sfidano continuamente l’intelletto, smentiscono la nostra percezione immediata, sono contro intuitive (la terra non è piatta né ferma).

Infine: la creatività umana, in ogni campo, sembra avere la stessa genesi. Prendiamo l’idea della relatività, l’idea che il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio ma è lo spazio. Questa idea nasce in Einstein come “folgorazione”. E si contrappone all’ovvio. Proprio come avviene per l’ispirazione poetica.

#Labuonascuola Per un pugno di euro

Dopo mesi di annunci pirotecnici, Renzi ha provato ancora ad indorare articoli e commi del ddl sulla scuola con una variopinta sfilata di slide. Prima, nel video diffuso su facebook del 3 marzo, aveva tirato fuori dal cilindro la strabiliante cifra di un milione e settecentomila persone in qualche modo raggiunte dalla consultazione sulla Buona scuola. E ha detto che così la riforma è stata sottratta agli addetti ai lavori (secondo lui i sindacalisti), continuando a ignorare la sistematica esclusione dei più autorevoli addetti ai lavori (insegnanti, personale ausiliario, tecnico, amministrativo e studenti) da ogni discussione vera sulle condizioni e sulle necessità della scuola.

Poi, il 12 marzo, durante la presentazione del ddl, ha magnificato una riforma a misura di studente, ma non ha spiegato come uno studente possa sentirsi valorizzato in un ambiente già depresso e senza nuove significative risorse. L’unico cenno alla consultazione sulla Buona scuola è servito al premier per giustificare la retromarcia sulla tentata truffa di far passare come premio ai più meritevoli il diritto a non perdere gli scatti di anzianità. Nessun cenno agli aiuti statali a chi paga le rette alle scuole private, una decisione del tutto scollegata dalla consultazione.

La grande riforma annunciata ormai da mesi non è altro che uno scarico di responsabilità dall’amministrazione centrale ai presidi e ai finanziatori privati che i dirigenti scolastici saranno costretti a cercare. Non a caso Renzi ha usato l’immagine del preside-sindaco: come il governo centrale ha scaricato sugli enti locali il reperimento di fondi per i servizi ai cittadini, così sarà compito del preside-sindaco trovare le risorse per mandare avanti la baracca. A lui, tra le altre incombenze, anche quella di rispondere delle classi-pollaio o dell’allargamento dei cordoni della borsa per scongiurarle. E quella di trovare dei criteri per riconoscere la qualità dell’insegnamento.

Con l’attuale ddl l’autonomia assume sempre più chiaramente il valore di un invito del governo alle singole istituzioni scolastiche ad affinare l’arte di arrangiarsi. Nell’ottica di chi l’ha generato, l’istruzione deve diventare una spesa privata corrispondentemente a scelte private. In questa direzione vanno la frantumazione dei curricula nazionali, la possibilità di versare ai singoli istituti il 5 per mille, con esiti prevedibilmente diversi tra zone ricche e aree povere, e la scelta del corpo docente da parte dello stesso preside-sindaco, a prescindere dai titoli, destinati così a perdere valore legale, come da programma della P2.

Così il racconto della libertà garantita dall’autonomia, che lotta e vince contro la burocrazia e gli automatismi di uno Stato opprimente, veicola la massima berlusconiana secondo cui il capo può fare quello che vuole perché i diritti esistono solo sulla carta. Ancora, nel disegno di legge c’è l’obiettivo di potenziare tutto e perfino di allargare le finalità dell’istruzione, ma senza la previsione di investire adeguate risorse economiche.

Escludendo i costi legati all’immissione in ruolo dei precari, misura contenuta nel ddl in ottemperanza a una sentenza della Corte di giustizia europea, il ddl prevede nuove risorse pari a 450 milioni di euro per il 2016. Su un bilancio dell’istruzione che arriva a 40 miliardi, quale positivo cambiamento di verso possiamo aspettarci?

Quando la sinistra aveva un cuore, un volto e un nome

E’ passato poco più di un anno dalla sua morte e anche se pochi in Italia conoscono la portata delle sue battaglie, per me è fondamentale ricordarlo. Tony Benn era un personaggio eccezionale. Ricordo i suoi discorsi che campeggiavano su una scaffalatura della libreria del mio amico Dennis assieme a The Making of the English Working Class. Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra libro fondamentale, scritto da un altro gigante del socialismo Britannico, Edward Palmer Thompson.

Benn e Thompson mi hanno insegnato una cosa fondamentale: al di là dei grandi dibattiti teorici della sinistra salottiera, per avvicinarsi davvero al concetto di “classe”, occorre studiare ed analizzare l’esperienza dei più svantaggiati spogliandosi di tanti preconcetti teorici di cui ci siamo imbevuti senza mai trascorrere una giornata nel disagio. Non esistono “classi in sé” e “classi per sé”, ma semplicemente gruppi sociali che progressivamente emergono sulla base della loro esperienza di vita. La classe operaia non ha mai avuto bisogno di un demiurgo per emergere.

Gli artigiani di Sheffield e quelli della London Corresponding Society all’inizio dell’Ottocento, gli operai di Manchester e Birmingham qualche decennio più tardi, erano ben coscienti del loro sfruttamento, del loro interesse comune alla lotta. E così le storie di vita di quei personaggi, che con i loro poveri utensili irrompevano nella storia per cambiarla irrimediabilmente, si mescolavano a quelle dei grandi del socialismo britannico. Storie di vita semplici, storie di vita come quella di Tony Benn.

Tony Benn “lo si può raccontare” facendo ricorso a tre gesti fondamentali. Il primo, fu quello di rinunciare al titolo di Lord per essere eletto in parlamento. In un’Inghilterra bigotta e conservatrice Benn dovette lottare per evitare di entrare alla camera dei Lord (perché suo padre ne aveva fatto parte) e poter così correre alle elezioni parlamentari. Il secondo, quello di essersi radicalizzato da ministro. Mentre la maggior parte degli uomini politici nostrani, arrivata in posizioni di prestigio, inizia a far pesare la necessità e la contingenza per giustificare il deragliamento dalle proprie idee di base, l’esperienza da ministro convinse Benn dell’importanza di radicalizzare l’azione politica per essere fedele a se stesso. Una radicalizzazione che gli costerà un lunghissimo linciaggio mediatico e l’impossibilità di divenire il leader dei Labour. Il terzo, fu quello di dimettersi da parlamentare dopo quarantasette anni di servizio per protesta contro la guerra in Iraq.

Ormai ottantenne pronunciò un discorso in parlamento, il cui significato va ben oltre il casus belli di una guerra assurda: quando la politica parlamentare si distacca dalla volontà popolare, per rimanere fedeli al proprio mandato bisogna tornare per strada fra la gente. Quanto stride l’esempio di Tony Benn con quello di molti politici della sinistra italiana. Molti di essi si dichiarano progressisti pur continuando a mescolarsi a una destra retriva (che hanno criticato per decenni!) e pro-austerità. Oggi il Partito democratico, così come il Labour britannico si situa agli antipodi rispetto alla lezione di Tony Benn, implementa una riforma del lavoro che non farà nulla per migliorare la condizione della maggioranza invisibile, e si pone in continuità con altri governi social democratici europei che, con la loro azione politica, hanno tradito tutti i principi del socialismo. Ecco perché a un anno dalla sua morte è importante richiamare l’esempio di Tony Benn, quando la sinistra aveva un cuore, un volto e un nome.

Nell’83-84 la Juventus di Platini vince lo scudetto, mentre Craxi taglia la Scala mobile

Domenica 19 febbraio 1984, quinta giornata di ritorno. In testa c’è la Juventus, inseguita dalla Fiorentina e dal terzetto composto da Roma, Torino e Verona. Il Festival di Sanremo è appena andato in archivio con la vittoria di Al Bano e Romina davanti all’eterno secondo Toto Cutugno e dietro la rassicurante conduzione di Pippo Baudo: una garanzia per i telespettatori ancora scossi dalla bestemmia di Mastelloni in diretta su Rai Due e furbo nel far salire sul palco dell’Ariston gli operai in protesta dell’Italsider di Genova.

Il Belpaese intanto subisce un’altra conduzione: quella assai meno rassicurante di Bettino Craxi il quale proprio ieri, a Villa Madama, ha firmato il rinnovo dei Patti Lateranensi insieme al cardinal Casaroli, segretario di Sua Santità al secolo Karol Wojtyla da Cracovia, ormai rassegnato alle mancate qualificazioni della Polonia al campionato d’Europa. Ma se per la Nazionale di Varsavia è normale saltare gli Europei, l’Italia di Bearzot campione del mondo sarà, al pari dell’Inghilterra, l’assenza più grave al torneo continentale di giugno in una Francia pronta a stringersi intorno a Michel Platini, capocannoniere della nostra Serie A e di scena con la sua Juve a San Siro.

E proprio lui, nel primo tempo, batte al volo di sinistro e infila Nuciari: portiere del Milan ridotto in dieci perché Damiani, ex di lusso, ha mandato al tappeto Cabrini con due pugni. Nella ripresa, Paolo Rossi raddoppia in contropiede e Vignola fa 0-3. La Fiorentina crolla a Udine. Zico, su punizione, risponde al pareggio dell’argentino Bertoni, ma è un doppio Virdis a fare la differenza. Ne approfitta la Roma, vittoriosa nel Marassi genoano grazie a due incornate di Ciccio Graziani che fulminano il brizzolato Favaro. E ne approfitta il Toro ferito in casa dall’Avellino finché non si sveglia Selvaggi: doppietta e atterramento in area per il 3-1 di Hernandez. Schachner e Diaz fissano il punteggio sul 4-2. In quel di Ascoli, il Verona viene abbattuto dai siluri di Mandorlini e di Greco tampo-nati da Iorio su rigore. L’Inter passa a Napoli per merito di Beccalossi: tunnel ai danni di Celestini a metà campo, corsa (si fa per dire) fino al limite dell’area e pallonetto morbido a scavalcare il giaguaro Castellini. Anche Ferrario scavalca Castellini di testa, ma è l’autogol del 2-0. In zona retrocessione, la Lazio supera la Samp e prende due punti d’oro a firma di Batista e di D’Amico dal dischetto intervallati da una zampata del giovane Mancini. In coda, il Pisa affossa il Catania. Classifica: Juve 30, Roma e Toro 26, Fiorentina 25.

I bianconeri del Trap allungano e si godono quattro punti sulle inseguitrici proprio mentre il Belpaese, oltre al rinnovo dei Patti con la Chiesa, si ritrova un altro regalo firmato Craxi che, in settimana, complice la Cisl, la Uil e il fido ministro del Lavoro Gianni De Michelis, quattro punti li ha tagliati con decreto alla scala mobile. La conversione in legge arriverà quasi sul fischio finale, a giugno, esattamente 24 ore dopo la morte di Berlinguer e 48 ore prima dell’apertura dei seggi per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo. Era il 12 giugno: stesso giorno in cui Francia e Danimarca danno il via alla coppa Europa senza Italia ed Inghilterra. Il trofeo andrà proprio alla Francia socialista di Mitterrand, il cui ministro Jacques Delors ha abolito la scala mobile già da due anni.

#21Marzo Quando il razzismo è nelle istituzioni

«Ha in mente gli anni ‘50? La segregazione razziale, la discriminazione nei luoghi pubblici? Beh, è quello che viviamo oggi». Urla, rumori metallici e cancelli che sbattono irrompono nell’accento british di Riaz, nome di fantasia. «Sa, c’è un grande via vai perché ancora per un’ora, fino alle nove di sera, possiamo stare nei cortili, dove la protesta continua, poi ci chiudono nelle camerate per dodici ore».

In occasione della Giornata Mondiale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali, Left del 21-27 marzo racconta degli undici Immigration Removal Center, i Centri di identificazione e espulsione del Regno Unito, e dei richiedenti asilo messi ai margini nei Paesi Bassi. Per continuare, come ci ha insegnato Liliam Thuram nel servizio di copertina del numero 7/2015, a scendere in campo per l’uguaglianza.

«Sono arrivato in UK più di trent’anni fa, ho una moglie inglese e tre figli, ma ora sono qua, in un posto che è peggio di un carcere, senza aver commesso nulla». Riaz è uno dei quasi 300 internati di Colnbrook, non lontano dall’aeroporto di Heathrow. Parla poco di sé, pur avendo vissuto momenti difficili. «Lo scorso weekend mi hanno chiuso nella stanza di segregazione, qui la chiamano proprio così, perché avevo organizzato una protesta non violenta nei cortili. Sono rimasto 36 ore senza nulla».

Dopo nove mesi a Harmondsworth, il più grande centro di detenzione europeo per migranti, anch’esso adiacente all’aeroporto londinese, Riaz è stato trasferito a Colnbrook proprio per evitare che organizzasse altre proteste. Ma non si è fatto intimidire, e negli ultimi giorni ha coinvolto altri 70 trattenuti, «se siamo uniti – dice – non possono metterci tutti in segregazione».

«La protesta sta crescendo – fuori e dentro i centri – e c’è chi protesta urlando slogan, chi facendo sciopero della fame, chi con atti di autolesionismo. Siamo in una situazione critica, e la gente è disposta a tutto». Fra i compagni di camerata di Riaz ci sono richiedenti asilo, lavoratori a cui è scaduto il permesso di soggiorno, persone con problemi di salute. Uomini di paesi diversi, arrivati nel Regno Unito senza visto o fermatisi oltre la scadenza dei documenti. «Pensate che c’è un uomo che ha più di 70 anni, ha avuto un attacco di cuore pochi giorni fa e lo tengono ancora qui, senza visitarlo, in un posto freddo e sporco». A rendere più difficile la vita nei centri è l’incertezza sul proprio futuro. «Sono un irakeno di Mosul – spiega Riaz – dove ora c’è Isis. Là non mi rimanderanno, spero, ma allora perché mi tengono qui, in queste condizioni? E per quanto tempo ancora?».

La Giornata contro le discriminazioni nasce nel 1966 per ricordare 69 manifestanti anti-apartheid uccisi dalla polizia sudafricana nel ‘60. Il tema scelto dalle Nazioni Unite per il 2015 è “Imparare dalle tragedie del passato per combattere oggi la discriminazione razziale”. A 50 anni dal Race Relation Act, la prima legge della Corona contro il razzismo, che offriva alcune tutele ai migranti arrivati dalle colonie, le strade inglesi saranno percorse da cortei che chiedono la chiusura immediata dei centri di detenzione. In Italia sono cinque i CIE attivi e circa 290 le persone trattenute a marzo 2015.

Innovare “senza chiedere il permesso a nessuno”. Non è cosa da corrotti o corruttori

Lo so, dovremmo parlare di Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture, e dei suoi guai. Invece pubblichiamo una lunga intervista a Naomi Klein, giornalista e ispiratrice del movimento No global, donna dei movimenti che da anni si batte per trovare soluzioni «non razziste», come dice lei stessa, che sfuggano alla logica dell’austerity e della supremazia dei pochi sui molti.La sua idea fissa? Che tutti, ma proprio tutti, debbano vivere meglio. Bianchi, neri, gialli, rossi. Al Sud come al Nord del mondo.

All’uomo del cemento, della Tav e delle grandi opere, Maurizio Lupi, Left contrappone la donna dell’ambiente e dei popoli: «A cosa serve l’economia? Io sono dell’idea che serva a proteggere la vita sul pianeta e a favorirla». Naomi Klein non è la sostenitrice di una decrescita naïf ma di un’idea di crescita diversa: 100 per cento di energie rinnovabili, trasporto pubblico e gratuito, più attività a basso consumo come la medicina, l’istruzione, l’arte. Perché è convinta che trovare il “modo” di crescere senza distruggere il mondo nel quale si vive sia la soluzione della crisi economica e sociale.

Lo so, dovremmo parlare di Maurizio Lupi, del troppo cemento, e della corruzione. Di quello stesso Lupi che solo qualche tempo fa pretendeva di spiegarci in tv quale fosse la famiglia “naturale”. La sua, sostanzialmente. Lo stesso che poco prima ti diceva anche come dovevi nascere e morire. E a chi, nel frattempo, dovevi chiedere aiuto. Ma come si fa a parlare di Maurizio Lupi? Qualche anno fa scrivevo su Left che i razzisti, piccoli o grandi, saltuari o abitudinari, non erano amanti della poesia. Oggi aggiungerei che i corrotti, in fondo razzisti perché non amanti del bene degli altri (che evidentemente non considerano uguali), non amano proprio leggere. Niente, né poesia né altro. Sono certa che non passano ore o anni a leggere del mondo. Alla ricerca di soluzioni diverse.

Pochi giorni fa Nancie Atwell (lo leggerete nella fotonotizia), un’insegnante del Maine, ha vinto il Global Teacher prize, il premio Nobel della scuola. E dal palco ha detto: «Ho fatto innovazione. Senza chiedere il permesso a nessuno». La sua innovazione sono dei libri. Tanti, più di diecimila. Per i suoi allievi: «Sono loro a dirmi cosa vogliono leggere, di cosa vogliono scrivere e imparano a farlo». Una “sfigata” ai tempi di Matteo Renzi, nessun tablet, niente internet, niente manager o ministri a cui pensare “di dover chiedere” il permesso, da cui aspettare il giudizio o la “buona scuola”.

Solo libertà e libri. Libertà e tempo, libertà e possibilità di scegliere cosa leggere e poi cosa scrivere. Ecco i cardini della sua innovazione “che non chiede il permesso a nessuno”. Sembra quasi una rivincita sulla tecnologia ma non lo è. È innovazione vera, quella che trasforma la vita di giovani donne e uomini. Io la guardo, mentre parla dal palco, e per una volta non vedo trucchi nell’insegnante del Maine, non vedo paccottiglie né battute. Solo un volto pieno e l’immagine di studenti messi nella condizione di leggere più di quaranta libri l’anno. Quelli che vogliono. E non so perché penso che l’insegnante del Maine la pensi come il giovane spagnolo Pablo Iglesias, leader di Podemos, mentre ripete di continuo ai suoi attivisti: «Studiate, studiate, studiate». In pubblico e in privato. E insieme a una “banda” di insegnanti, ricercatori e professori universitari pensa di cambiare la vita della sua gente.

Studiare, innovare “senza chiedere il permesso a nessuno” non è cosa da corrotti o corruttori. E neanche da razzisti. Presuppone desiderare la realizzazione altrui prima ancora della propria, anzi presuppone che la realizzazione altrui sia la propria. L’unica possibile. L’unica vera. Esclude qualsiasi idea “facile” di tolleranza e persino di misericordia. Memorabili le parole dette a Left da Emma Bonino: «Detesto la parola tolleranza. Implica che ci sia uno su un gradino più in alto che per generosità o bontà fa il piacere all’altro più in basso, di tollerarlo. E non è così». Peggio ancora la misericordia, quella tanto cara al nostro pontefice. La compassione, la pietà per l’infelicità altrui. Quella caritas che soccorre ma che non innova mai. Anzi, alla fine, diviene terreno fertile per la corruzione (il Cl Lupi docet) e forse anche per il razzismo (non riconoscendo nessuna uguaglianza).

Lo so, dovevamo parlare di Maurizio Lupi e invece vi raccontiamo di Naomi e di Nancie. «Conoscenza. Conoscenza. Conoscenza, quaranta volte, sempre. Studiare, scoprire anche quello che non vogliamo scoprire, non fa niente. E poi sicuramente uguaglianza», l’ha detto Emma. “Senza chiedere il permesso a nessuno”.

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La linea, da Fontana a Klein nel Museo del Novecento di Milano

Quando incontrò Yves Klein già da tempo Lucio Fontana faceva arte con i tagli che si espandono come onde nella carne viva della tela. Usando i buchi e poi il neon per aprire l’opera alla quarta dimensione, a una spazialità ulteriore, che significava soprattutto allargare il proprio spazio interiore. Sperimentando a tutto raggio fra ceramica, disegno e scultura polimaterica.

Per questo Fontana era forse uno dei pochi che in quell’ultimo scorcio degli anni 50 poteva intuire ciò che quel giovane francese approdato a Milano una sera del 1957 con un carico di tele blu oltremare cercava di fare ricorrendo al monocromo, stendendo lunghi tappeti di puro pigmento, facendo in modo che lo spettatore attraversandoli avesse la sensazione di entrare in una nuova dimensione.

A modo suo il giovanissimo Yves Klein cercava attraverso l’astrattismo una nuova spazialità che non fosse solo fisica. E anche se quella sua prima mostra alla Galleria Apollinaire di Brera, nel 1957, rimase pressoché deserta, trovò l’attenzione di un coraggioso maestro come Fontana che negli anni non aveva mai smesso di cercare strade per uscire dalla realtà monodimensionale della tela.

Lui, artista già maturo, che per mantenersi collaborava con architetti e faceva ceramica, non aveva voluto mai rinunciare alla propria ricerca “spazialista”, dopo aver intuito «che l’arte non era più da fare col pennello come nella pittura a dimensione di quadro o di affresco». Come racconta la bella mostra milanese Klein Fontana Milano Parigi 1957- 1962 che si può ancora vedere questo fine settimana nel Museo del Novecento a Milano (e come si legge nei saggi dei curatori Silvia Bignami e Giorgio Zanchetti pubblicati nel catalogo Electa) i due artisti, pur essendo molto diversi per età, formazione e poetica, avevano ben compreso che l’arte aveva del tutto cambiato dimensione.

«Non le dimensioni di primo, secondo, terzo piano. Ma dimensione come volume di idee», come scrisse Fontana in un articolo apparso su Domus, in cui accusava Pollock di essersi fermato al post impressionismo, riconoscendo a Boccioni ai Cubisti e, soprattutto, a Manzoni di aver “scoperto” la “linea” e la sua corsa verso l’infinito mentre rivendicava per sé il coraggio di una ricerca sulla «dimensione incognita». «Queste in fondo sono le mie idee ma non le hanno mai capite» scriveva smagato. «L’unico che ha capito il problema dello spazio – aggiungeva – è Klein, con la dimensione blu; quello è veramente astratto, è uno dei giovani che ha contato. E poi Manzoni con la “linea”… Ecco, la “linea” di Manzoni non è stata ancora raggiunta, la si capirà tra cento anni!».

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