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Tutti i volti degli uomini al Ca’ Foscari Short Film Festival

Uomo. È la prima parola con cui inizia l’Odissea di Omero. E quest’anno, al centro delle storie raccontate nei corti dello Short Film Festival – l’odissea dei giovani talenti cinematografici di tutto il mondo – c’è proprio l’uomo. L’universo maschile in ogni sua sfaccettatura. Crisi e scoperta dell’identità, crescita, matrimonio, riti di iniziazione, virilità, amore, ma anche forza che si trasforma in violenza. Questi i temi trattati dai giovanissimi “Leoni del futuro”. A premiarli, l’altra metà del cielo: una giuria tutta al femminile nella quale spiccano i nomi della produttrice inglese Dominique Green (La Tregua, 1997) e dell’attrice romena Anamaria Marinca, protagonista del film 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, Palma D’oro a Cannes nel 2007. Perfetta anche la storica cornice dell’Auditorium Santa Margherita, un’ex chiesa sconsacrata, trasformata dal 1921 al 1977 in un cinema che i veneziani amavano chiamare el vecio (il vecchio). E che oggi si propone di diventare la pietra miliare per la carriera di molti giovani registi e sceneggiatori. Trenta le opere in concorso, realizzate dagli studenti delle migliori scuole di cinema del mondo.

Uomini che odiano gli uomini

Si chiama Bestas (Bestie) il corto scritto e diretto dai portoghesi Rui Neto e Joana Nicolau, e racconta la storia di Lucas, un ragazzino tredicenne cresciuto in una landa selvaggia e miserabile, dove «ogni uomo è lupo per gli altri uomini» e dove tentare di salvarsi o il protagonista, con i suoi affetti, nelle grinfie di un altro predatore. Un ritratto reso ancora più feroce e crudo dall’accostamento fra un’identità adulta corrotta dalla vita e la purezza fiera dell’infanzia. Infanzia e violenza sono al centro anche di Bruder (Fratelli), corto firmato dal tedesco Jarek Duda, nel quale sarà proprio il legame con il fratellino minore a riscattare il protagonista ventiquattrenne da una carriera da piccolo criminale di strada, orientata più alla tragedia che al successo.

Uomini che non hanno figli

Il Medio Oriente racconta di matrimoni, virilità e figli. L’israeliano Longing (Desiderio) del regista Nadav Mishali narra la storia di Michal, donna con la convinzione di non essere completa se non rimane incinta. E sessualmente insoddisfatta, perché sposata con un marito, ebreo ortodosso, in crisi d’identità e molto probabilmente omosessuale. A pochi chilomentri da lì, a Beirut, nel vicino Libano, si consuma la vicenda di Un parfum de citron diretto da Sarah Carlot Jaber. Una coppia libanese non riesce ad avere un bambino, la famiglia di lui accusa lei di essere sterile, ma marito e moglie sanno che la causa è l’impotenza dell’uomo. Toccherà alla donna trovare una soluzione non convenzionale per rimanere incinta ed evitare il divorzio, senza mettere platealmente in discussione la virilità del compagno.

Uomini che accarezzano il mito

L’identità si perde nell’ancestrale memoria del mito con Il segreto del serpente dell’italo-belga Mathieu Volpe e lo stupendo Das Alte Bose Wir di Lily Erlinger. Il primo è un viaggio tra le rovinedi Puglia e Basilicata, sospese nel caldo afoso e vibrante di agosto, fra realtà e superstizione religiosa. «Quante storie potrebbero raccontare queste pietre», dice la voce narrante del film di Volpe. E quante grida potrebbe raccontare la foresta del corto della Erlinger? Con Das Alte Bose Wir la regista ci immerge in un’atmosfera da fiaba nera mitteleuropea, in cui il mito diventa metafora per raccontare l’anima oscura dell’uomo. Da un lato il bisogno di essere “normali”, parte di un gruppo, dall’altra il rito sacrificale del più debole, imposto dalla società, per tutelare un ipotetico potere solidale che nessuno ha il diritto di contraddire. Dopo aver visionato tutti i lavori in concorso torna alla mente un altro verso dell’Odissea: «Raccontami musa dell’uomo dai mille volti». In Short i volti sono, decisamente, mille e più. E, come le storie che li animano, sanno farci viaggiare con occhi e cuore ben oltre la laguna e l’oggi.

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1992. C’era una volta oggi

Millenovecentonovantadue. Siamo ancora qui. Dove tutto è cominciato. Dove il futuro è stato inghiottito dal passato. Un eterno ieri che, pericolosamente, a macchia d’olio, dilaga sull’oggi e si dilata nel tempo unico di un racconto che continua a riaffiorare perché non risolto.

Una strana coincidenza ripropone oggi, quasi a volerle storicizzare, le stesse vicende contestualizzate in quelle quattro cifre. Da una parte la serie tv prodotta da Sky e in onda da martedi 24 marzo, che prende il titolo proprio da quell’anno, 1992 appunto, e dall’altra il Numero Zero di Eco ambientato nei tre mesi che vanno dall’arresto di Mario Chiesa, inizio di Tangentopoli, al giugno del 1992. «Considero quell’anno un punto di displuvio nella storia della società italiana» ha detto lo stesso semiologo parlando del suo ultimo libro.

Il clima degli anni di Mani Pulite diventa metafora perfetta per raccontare un passato che è ancora presente. Una ferita collettiva, un taglio netto al filo democratico che lascia il popolo scisso dal palazzo, la politica lontana dal Paese reale e apre spazi per una setticemia populista e dubbie medicine che propongono, come panacea di tutti i mali, il grande centro.

Dalla resurrezione della Lega di Salvini alla dialettica dell’M5s, fino al Partito della Nazione di Renzi. Un eterno ritorno in cui la soluzione viene ritrovata nella causa, e il gattopardesco “cambiare tutto perché nulla cambi” diventa l’emblema di un cortocircuito che investe e inghiotte in primis i nostri partiti politici e i mezzi di informazione.

Al centro di tutto troneggia la comunicazione, quella dell’Accorsi pubblicitario di successo ingaggiato da Publitalia’80 nella fiction Sky, quella di Domani, il giornale “macchina del fango” che prende vita dalla penna di Eco, e quella vera, ma fumosa e al limite del surreale, che, proprio a partire dal 1992, ha visto un’esplosione di presidenti operai, Roma ladrona, giaguari da smacchiare, rottamatori dall’accento dantesco e Speranze personificate ad hoc solo per prendere a braccetto la Paura. Domani: ieri, proprio come si intitola il libro che deve scrivere uno dei personaggi del romanzo di Eco per raccontare la nascita della nuova testata.

Titolo perfetto per sbrogliare il fil rouge di un presente che non è figlio della sua storia, ma la sua fotocopia,  tanto da seguirne pedissequamente i tratti in una realtà ormai sfilacciata, dove protagonisti e voci fuori campo si rincorrono in un’eco infinita. Mancano le risposte e salta agli occhi l’incapacità di mettere in atto nuovi metodi e nuove soluzioni in una crisi di sistema che sta travolgendo tutto e tutti. Senza tregua e senza arrestarsi.

Parlando di fiction è certo che le storie di ieri garantiscono a case editrici e di produzione un successo di pubblico assicurato. Da un lato grazie al meccanismo, vecchio quanto il mondo, del ritorno del già noto, dall’altro perché entriamo tragicamente in un loop simile a quello delle cronache morbose, che affollano appunto tv e giornali. Cronache in cui si parla di un delitto di cui ancora non si sono svelati mandanti e assassini, ma ben chiare rimangono le vittime: informazione e politica. Come ha dichiarato Paolo Mieli, oggi presidente di Rcs libri – e inventore del “mielismo”, un metodo di confezionare la notizia che ha cambiato (in peggio) il giornalismo dell’ultimo decennio – la storia del 1992 «costringe noi giornalisti a fare i conti col nostro lavoro». Le vicende che si sono susseguite  in quell’anno, e il loro modo di essere raccontate, come ricorda ancora Mieli «hanno segnato l’inizio di una degenerazione che coinvolge tutto il giornalismo. Dopo il 1992, è sempre stato più difficile distinguere tra la serie A e il giornalismo più scadente».

E non solo, i giornalisti dovrebbero ragionare sull’eterno ritorno dell’uguale, sulla decadenza e sui corsi e ricorsi storici del loro mestiere. Il revival della Democrazia cristiana, che vede il suo apice nell’elezione di Sergio Mattarella, uno dei figli della Prima Repubblica, oggi Capo dello Stato, ci fa rifletter su quella stagione non proprio encomiabile della storia italiana. Mai davvero defunta. Perché balzata nuovamente alla ribalta delle cronache giornalistiche con Mafia Capitale, Expo e interi consigli regionali indagati per consussione. E perché fulcro di prodotti di fiction pop che si sono rivelati premonitori e estremamente attuali, anche più di molti articoli apparsi su rinomate testate giornalistiche. Tutto torna insomma. Domani: ieri.

Giuseppe Gagliardi, regista della serie Sky 1992, presentando il suo ultimo lavoro, al ritorno dal Festival del Cinema di Berlino, ha spiegato: «La fiction ci racconta l’oggi. Molte delle vicende ripercorse evocano gli attuali scandali. Lo spettatore si troverà a rivivere l’entusiasmo con cui ai tempi venne accolta l’inchiesta Mani Pulite e proverà delusione nel riflettere sul presente». Delusione, ecco. Entusiasmi smorzati e frustrazione diffusa per le mille svolte politiche e sociali annunciate durate questi vent’anni in tripudio di proclami, spot pubblicitari e hashtag di successo, ma mai davvero realizzate.

Nel 2015 #lavoltabuona è solo l’ennesima trovata, quando ancora non sembra arrivare, la volta giusta. Quello che leggiamo tra le righe di Eco e vedremo in tv con il prossimo cult su Sky è una corsa vorace verso il futuro. Una corsa in cui l’unico movimento che l’Italia sembra compiere è un drammatico avvitamento su se stessa.

No austerity

Mentre imperversa lo scandalo del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, l’uomo del cemento e delle grandi opere, Left intervista Naomi Klein, ispiratrice del movimento No global e oggi autrice del nuovo libro Una rivoluzione ci salverà. Occupandoci di ambiente, ci racconta la giornalista, produrremmo una crescita che non distrugge, che non discrimina, che si oppone all’austerity e al suo razzismo di fondo, per cui si può sempre scaricare il peggio sui più deboli.

Uguaglianza, ampliamento delle attività a basso consumo, trasporti pubblici e gratuiti, città nuove, 100% di energie rinnovabili. Un altro mondo dove tutti, ma proprio tutti, possano vivere bene. Con l’Expo alle porte, tra camouflage delle opere incompiute e grandi multinazionali che imperversano, da Mc Donalds alla Coca Cola.  Fino al “casino” delle regionali. In sette regioni il 31 maggio si va al voto. Ognuno con la propria legge mentre coalizioni e partiti perdono pezzi. Sia a destra che a sinistra.

Ma su questo numero abbiamo voluto guidarvi nell’Italia dell'”altra antimafia, dalle parole di Pino Maniaci, anima di Telejato, a Cortocircuito, Addiopizzo, la rete antimafia Emilia-Romagna, la Casa della legalità, tutti quelli che  lavorano soli sul territorio, eroici.

Come anche abbiamo voluto proporvi due servizi sulla Grecia, una controstoria che ricostruisce le scelte scellerate che hanno portato il paese sino all’attuale crisi e un servizio nel quale vi spieghiamo perché Tsipras ha le sue ragioni nel presentare il conto dei debiti di guerra alla Germania. E poi Olanda e Inghilterra e le nuove politiche ultra restrittive nei confronti dei migranti  e il bilancio impietoso di quattro anni in Siria.

In cultura l’indagine di Critica liberale che testimonia quanto sia diventata pervasiva la presenza della religione cattolica sulle nostri reti televisive. Musica con Bobo Rondelli e il suo ultimo album e la scienza di Pietro Greco che questa settimana si occupa di cervello. Buona lettura.

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Polvere, la violenza nascosta nella pièce di La Ruina

Sottile, insinuante, celata sotto i sorrisi, sotto il reiterarsi della parola «amore» sta nascosta la violenza. Quella dell’uomo che incontra una donna e dalla prima uscita le rimprovera di non averla presentata gli amici come il fidanzato, marcando un territorio di possesso. E poi inizia a scavare il passato, a farle confessare amori, perfino atti di violenza subiti, rimanendo a sua volta nell’ombra, pronto a giudicare, a sentenziare, a dominare.

Alla violenza quotidiana, che arriva alle soglie (solo alle soglie) del femminicidio, è dedicato il nuovo spettacolo di Saverio La Ruina, quattro premi Ubu come attore e come drammaturgo per penetranti monologhi come “Dissonorata”, o “Italianesi”. Si intitola Polvere e del rapporto uomo-donna vuole illuminare il pulviscolo delle sopraffazioni quotidiane.

La pièce procede per brevi scene tra lui e Jo Lattari, sua spalla funzionale, la donna (non hanno nome i personaggi), intorno a un tavolo, a un quadro che ritrae con tratti non realistici lei seminuda. La Ruina oltre a essere attore fine è antropologo: nei lavori precedenti ha esplorato un certo sud di paese, dialettale, ferocemente maschilista e patriarcale (viene da Castrovillari, in Calabria, dove ha fondato la compagnia Scena Verticale e un bel festival, «Primavera dei teatri»).

Qui analizza dinamiche che si possono scatenare in una qualsiasi casa borghese, tra persone mediamente istruite e perfino orientate a sinistra (lui, capiamo da un accenno, fa il fotografo; lei è insegnante). I brevi flash incalzano, sempre più ossessivi, facendo pendere troppo presto, però, la bilancia verso la violenza: verbale, comportamentale, dichiarata, senza remissione, senza speranza. La Ruina lo troviamo più convincente nel monologo (e nel ruolo della vittima) che in questo dialogo che, nonostante le intenzioni, troppo presto esplicita tutti i propri intenti.

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I Leoni che guardano al futuro in concorso al Ca’ Foscari Short film festival

Dici Venezia, dici cinema. E non solo perché dal 1932 in Laguna arrivano registi, maestranze e star per la Mostra internazionale d’arte cinematografica, la più antica del mondo. Adesso, e per il quinto anno, sbarcano pure decine di registi giovani, giovanissimi. Dall’Australia al Portogallo, dalla Germania al Messico, arrivano dalle scuole di cinema di tutto il mondo per partecipare al Ca’ Foscari short film festival, la kermesse dell’università veneziana.

L’Auditorium Santa Margherita, dal 18 al 21 marzo, ospiterà l’unico festival d’Europa pensato e interamente realizzato da un’università pubblica. «Un crocevia di culture sul cinema», lo definisce Roberta Novielli, docente di Cinema giapponese e direttrice artistica del festival. In tempi di crisi del settore e scarsi finanziamenti pubblici, la Ca’ Foscari mette su un programma ricco di proiezioni, ma anche di sezioni speciali ed eventi paralleli.

Come? «Grazie a un budget mirato e soprattutto al contributo degli studenti», risponde Novielli. Quest’anno sono ben 220 gli studenti che parteciperanno ai lavori. Sfruttamento stile Expo? «No, attività didattiche», è sicura Novielli. Lo Short è pensato come momento professionalmente formativo per gli studenti volontari dell’ateneo. Accanto alle figure professionali d’esperienza gli studenti vengono coinvolti in tutte le attività: dal catalogo alla logistica, dall’ufficio stampa alla realizzazione dei sottotitoli. «Questo ci permette di superare le lacune del nostro sistema formativo, spesso molto teorico: gli studenti vengono guidati anche sul piano prettamente pratico. La loro esperienza personale si incrocia con quella di altri studenti di ogni parte del mondo».

Non manca chi, pur giungendo da paesi lontani, è italiano. Come Mathieu Volpe, italiano che studia e vive in Belgio. E come Andrea Iannetta, regista anche lui italiano che si è formato in India, al Film and television institute of India, oggi considerato un centro di eccellenza in tutto il mondo. Nel corso del focus dedicato al Ftii, Iannetta presenzierà alla proiezione del suo corto Allah is Great (2012).

Le opere in concorso sono selezionate tra i lavori e i saggi di diploma degli studenti di scuole di cinema o corsi universitari. E saranno tutti cortometraggi, ovvero film che normalmente non superano la durata di 30 minuti, anche se per la normativa italiana possono raggiungere i 75 minuti. È proprio un corto la prima ripresa cinematografica della storia, Roundhay garden scene: tre secondi realizzati dal francese Louis Aimé Augustin Le Prince, in cui si vedono Adolphe Le Prince, Sarah Whitley, Joseph Whitley e Harriet Hartley che camminano e ridono in giardino. Era il 14 ottobre 1888.

Perché, oggi, il corto? «Ha tanti vantaggi rispetto al lungo. Esiste una dicotomia per cui un corto rappresenta un film assolutamente sperimentale o l’opera di un autore che muove i primi passi. Noi vogliamo dimostrare che non è vero. Anche un cortometraggio può essere un film completo, da un punto di vista stilistico e narrativo. E poi è la soluzione più rapida e immediata, che meglio si adatta a un mondo più giovane».

Il regista del futuro, insomma, somiglia sempre di più a un giramondo. «Di solito riescono a lavorare, gradualmente, con progetti indipendenti. Grazie al digitale mandano in porto i loro lavori con budget esigui. È impossibile generalizzare, non possiamo certo pensare che i registi tedeschi abbiano le stesse opportunità di quelli indiani. Ma, in generale, non si fermano qui, continuano a girare il mondo».

Ancora una volta, il cinema rappresenta un sogno: «rappresentare una sede dove idealmente ci si possa incontrare per parlare di ciò che è stato, che è e che sarà il cinema». Venezia, quindi, si prepara a indossare l’abito di cittadella del cinema in modo capillare, oltre i magnifici giorni della Biennale. L’abito buono, perché non è detto che proprio da qui non passino i Leoni del futuro. «È quello che speriamo», conclude Novielli. Del resto, con la Mostra del Cinema diretta da Alberto Barbera, le collaborazioni sono in piedi da un paio d’anni. Gli studenti cafoscarini fanno parte della giuria Veneziaclassici, la sezione che dal 2012 presenta alla Mostra i migliori restauri di film classici, riscoprendo opere del passato trascurate. Per non sottovalutare il passato. E nemmeno il futuro.

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Tunisi, l’attacco al cuore della Primavera araba

Il Paese, il luogo, il momento. Non c’è nulla di casuale della strage al Museo del Bardo. L’orrore per l’uccisione dei nostri connazionali deve accompagnarsi ad una riflessione sui campanelli d’allarme risuonati da tempo nella sponda Sud del Mediterraneo e che l’Europa, e in essa l’Italia, non hanno inteso, sottovalutando la portata della sfida jihadista o, di converso, pensare di essere in campo con dichiarazioni “belliciste” buone per qualche titolo sui giornali ma che, come spesso accade nella politica nostrana, duravano lo spazio di un giorno, cosa inevitabile perché quelle improvvide “sparate” non avevano uno straccio di strategia alle spalle.

Così si è sottovaluto il fatto che la “somalizzazione” del Nord Africa potesse estendersi dal “non Stato” libico – dove a dettar legge sono oltre duecento milizie armate e altrettante tribù – agli Stati vicini, in particolare la Tunisia, un Paese simbolo di una “Primavera araba” non sfiorita, ma anche il Paese che, in rapporto alla popolazione, dà più miliziani allo Stato islamico di Abu Bakr al-Baghdadi. Si calcola che siano almeno 3mila i mujihaddin tunisini che combattono in Siria nelle fila dell’esercito del “Califfo Ibrahim”.

L’effetto domino è in atto

I confini potenziali del califfato maghrebino già si sono estesi dalla Libia ad alcune aree desertiche della Tunisia, dove agiscono, a volte in alleanza altre in competizione, cellule terroristiche affiliate all’Isis e fazioni locali che fanno riferimento al network qaedista, tutte e due in rapporto d’affari con le organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani (e di organi), di armi e di droga.

L’attacco alla Tunisia ha una fortissima valenza politica. Non solo perché si è inteso colpire l’unico Paese del Vicino Oriente nel quale le istanze di libertà, di giustizia sociale, che sono state alla base delle rivolte popolari che hanno cambiato il corso della Storia, non sono state cancellate da una restaurazione militare (Egitto) o dall’affermarsi di un radicalismo islamico armato che ha come obiettivo la costituzione e il consolidamento del primo Stato della Jihad al mondo. L’esperienza della transizione tunisina è unica anche perché il partito islamico che deteneva il potere nel dopo Ben Ali – Ennahda – ha scelto di non ostacolare ma di realizzare un governo di unione nazionale con le forze laiche,  mostrando così che l’Islam politico non è, come improvvisati neocon di casa nostra continuano a sostenere calzando l’emetto, inconciliabile con i principi propri di uno Stato plurale, uno Stato di diritto.

Tunisia obiettivo simbolico

L’esperienza tunisina è anche questo: dimostrare che è possibile coniugare modernità e tradizione, valorizzando, in questo quadro, il ruolo delle donne nella vita pubblica e facendo leva su una società civile strutturata, vivace, fatta di associazioni, gruppi di base e di un radicato e combattivo movimento sindacale. Tutto ciò per i fautori sanguinari della dittatura della sharia è una minaccia mortale. Da contrastare con le armi del terrore.

Il giorno dopo il massacro di Tunisi, ci si interroga su quale gruppo abbia portato a compimento l’attacco terroristico: la filiera Isis o al-Qaeda. La certezza è che, come ha tragicamente evidenziato la strage al “Charlie Hebdo” di Parigi, fra l’Isis di al-Baghdadi e le fazioni maghrebine e yemenita legate al successore di Osama Bin Laden, l’egiziano Ayman al Zawahiri, si è aperta una competizione, a colpi di attentati tanto più efficaci quanto più “mediatizzabili”, per la leadership nell’universo jihadista.

Colpire l’economia del turismo

Sul piano operativo, ad accomunare Isis e al-Qaeda c’è la convinzione, non da oggi, di poter minare regimi arabi moderati facendo venir meno una delle fonti principali della sussistenza economica: il turismo. In Tunisia, ad esempio, il turismo rappresenta il 7% del Pil e dà lavoro a 500 mila persone su una popolazione di 11 milioni. “Le nostre frontiere sono assolutamente impermeabili a qualunque tentativo di infiltrazione. Non c’è nessun problema di sicurezza, è tutto sotto controllo”, si era sbilanciata solo qualche settimana  fa la ministra del Turismo, Selma Ellouni Retik. La risposta è arrivata puntuale. Con una strage che ha fatto il giro del mondo, dando della Tunisia una visione molto diversa da quella “rassicurante” della ministra.

Sbaglia chi crede che siamo di fronte a un fatto isolato

Non è così. Il messaggio che giunge da una Tunisi ancora sotto shock è chiaro: l’offensiva jihadista si è estesa e per la prima volta si contano anche italiani. L’Italia, un’ora di volo da Tunisi. Sostenere le forze democratiche tunisine è oggi un investimento sul futuro, anche per noi. Senza cadere nella tragica illusione che per fermare Isis e al Qaeda ci sia bisogno di altri uomini forti, modello al-Sisi. La Tunisia uscita dalla “rivoluzione dei gelsomini” ci dice che il destino del Medio Oriente in fiamme non è quello di essere terreno di conquista di Califfi e Generali. Ma che esiste una terza via: quella di un sogno laico che va coltivato e aiutato a realizzarsi. Per questo, oggi più che mai, la Tunisia è una frontiera di libertà da presidiare.

@opificioprugna #leftweet della settimana