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On line va di moda il video

Le foto dei gattini non bastano più: sono i video a mostrare un nuovo giro di boa online. Non storca il naso chi la reputa un’osservazione datata.

Il cambio di paradigma è evidente, e lo si legge nell’impegno dei maggiori social network nel migliorare, e in qualche caso modificare, le tecnologie a supporto dei propri prodotti. Twitter, poco dopo aver annunciato il suo servizio nativo per le clip, continua ad alzare la posta: la notizia più recente riguarda l’introduzione della funzione “embed”. Consente di incorporare i video creati su siti e blog, aumentandone quindi la portata, in un’ottica di maggiore diffusione.

Instagram dal canto suo introduce il loop, che prima era dell’app Vine: un video, una volta finito, riparte da solo. Senza contare i numeri più interessanti, che riguardano facebook. Business Insider ha riportato una ricerca molto chiara in merito. Socialbakers ha dimostrato che adesso, il modo migliore per raggiungere gli utenti, sono proprio i video. L’analisi ha riguardato 4.445 pagine di brand e più di 670.000 post tra ottobre 2014 e febbraio 2015, e non lascia spazio ai dubbi: i video hanno ottenuto un portata organica media del 8,7%.

La classifica vede addirittura le foto scivolare in fondo: i post di successo, in ordine, contenevano video, solo testo, link, e solo alla fine immagini. E si sa, Zuckerberg non si muove mai a caso. Tra le nuove iniziative anche degli avvisi che mettono in guardia gli utenti da clip particolarmente violente.

Intanto, prosegue la sua opera il social network per eccellenza dei video, cioè YouTube: oltre all’annuncio di una prossima versione a pagamento, senza le pubblicità, ha rilasciato, il 23 febbraio, YouTube Kids, dedicato espressamente ai più piccoli (per ora, su Android).

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/Dile” target=”on” ][/social_link] @Dile

Facciamo fermentare le virtù del territorio

Prendi l’orzo e il riso, coltivati nel Parco del Ticino, aggiungi un gruppo di persone appassionate di qualità e sostenibilità e un depuratore unico nel suo genere: ottieni il primo birrificio artigianale a Km zero d’Italia.

Paolo Carbone, 36enne informatico con master in Tecnologie birrarie a Perugia, è uno dei cinque soci della Srl agricola che da circa un anno produce la birra Hordeum nella ex Centrale del latte alle porte di Novara. «Il primo passo è stato “riusare” questo pezzo di storia di città – racconta Carbone -, ma noi vogliamo che tutta la filiera sia sostenibile ». Così la squadra si è messa al lavoro, ciascuno con le sue competenze e specificità, per ottenere una birra prodotta con materie prime locali, caratterizzandola con i cereali raccolti nei campi della zona, come il riso venere o il carnaroli. Per giunta a prezzi ridotti grazie alla distribuzione prevalentemente locale (anche attraverso lo spaccio aziendale) e alla disintermediazione.

Anche per ottenere il malto ci si sta attrezzando. «Per ora lavoriamo il nostro prodotto in una malteria austriaca, l’unica che ci garantisce la tracciabilità del nostro orzo, ma contiamo al più presto di aprirne una nostra qui», riprende l’agrobirraio. I progetti di Hordeum non si fermano alle diverse varietà di birra. Un filone di sperimentazione in collaborazione con il Centro di ricerca sulla birra di Perugia ha portato a mettere a punto una bevanda fermentata fatta esclusivamente con il riso.

«Probabilmente non potremo chiamarla birra di riso, ma si tratta comunque di un prodotto eccellente per le qualità organolettiche, per l’assenza di glutine e soprattutto perché sostiene e diversifica una produzione di eccellenza del territorio, il riso appunto, minacciata dalla concorrenza di altri Paesi che non puntano sulla qualità ma soltanto sul prezzo ridotto. Noi invece vogliamo che assieme ai nostri prodotti “fermentino” anche le specificità e l’economia sostenibile del territorio». Fiore all’occhiello, la depurazione delle acque di lavaggio delle cisterne, che avviene grazie a una sorta di lavatrice con 430 chili di tappi di plastica e colonie batteriche che “mangiano” le impurità. Il depuratore costa come uno tradizionale, ma consuma un decimo di energia e l’acqua che ne esce può essere usata per irrigare.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/RaffaeleLupoli” target=”on” ][/social_link]  @RaffaeleLupoli

#Blockupy La protesta c’è. Anche in Europa

«Let’s take over the party»: roviniamogli la festa. Questa mattina, a Francoforte, più di 10.000 attivisti e militanti da tutta Europa hanno sfilato per le strade della città tedesca contro l’austerità. La festa in questione è quella di inaugurazione del nuovo Palazzo della Bce: l’Eurotower costata un miliardo e 300 milioni di euro. Alla faccia dell’austerity.

Cinque cortei sono partiti da cinque diversi punti della città. In uno di questi i manifestanti hanno costruito barricate e incendiato cassonetti e mezzi delle forze di polizia. La polizia ha risposto con gas lacrimogeni e idranti. Il bilancio: 8 agenti feriti e circa 350 persone arrestate.

Migliaia di europei sono scesi in piazza a costo di prendere le botte per chiedere un’altra Europa, quella che passa necessariamente dallo stop all’austerity. Perciò, “protesta” in Europa diventa sempre più sinonimo di “lotta all’austerity”.

Nel Vecchio Continente, la mobilitazione prende il nome di Blockupy: «Una rete europea di movimenti sociali che riunisce attivisti, disoccupati, migranti, lavoratori precari e dell’industria, politici e sindacalisti da diversi paesi d’Europa», come si definisce lo stesso movimento. Tanti Paesi, inclusa l’Italia, che oggi era lì anche con le delegazioni di Act (Agire, costruire, trasformare) e alcuni rappresentanti della sinistra europea istituzionale (il Gue). «Le forze dell’ordine hanno identificato, senza alcuna reale motivazione, molti manifestanti italiani che infatti sono stati tutti rilasciati», denuncia Eleonora Forenza, eurodeputata dell’Altra Europa con Tsipras, che oggi era lì tra i manifestanti. E annuncia: «Parteciperemo anche alla mobilitazione prevista nel pomeriggio: contro la Bce e contro la troika».

Su Left di sabato 21 marzo Naomy Klain, l’ispiratrice del movimento No global, che oggi dice: No austerity.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Caro Matteo arrenditi. Cosa nostra ha perso

Caro Matteo, arrenditi. Cosa nostra ha perso. Il concetto di mafia ha perso. Lo dimostrano gli esiti di inchieste come “Minotauro” (‘ndrangheta in Piemonte), gli arresti di Mafia capitale a Roma, siete una cultura malata in difficoltà, alle corde.

Lo dimostreranno le migliaia di persone che sabato prossimo, 21 marzo, da tutta Italia, raggiungeranno Bologna per la giornata della memoria delle vittime innocenti delle mafie, organizzata dalla rete di Libera.

Presto, caro Matteo, anche tu, ultimo capo dei capi in circolazione, raggiungerai gli altri tuoi colleghi nelle patrie galere, al 41 bis, il regime carcerario più duro, quello che quasi non ti permette di respirare, che ti annienta il cervello nel silenzio del nulla. Una condizione tremenda, inumana, ma l’unica possibile per quelli come te. La tua latitanza, 21 anni in fuga dallo Stato e dalla giustizia, è destinata a finire.

Non puoi farla franca in eterno. Adesso c’è anche un tuo parente, Giuseppe Cimarosa, cugino di secondo grado, che prende le distanze dalla vostra famiglia. Registriamo la cosa, diffidenti e guardinghi, ma speranzosi di non dover avere a che fare con un altro caso Ciancimino padre (don Vito) e figlio (Massimo).

È passata, invece, abbastanza inosservata nei giorni scorsi l’intercettazione ambientale, registrata a fine 2013, di un altro tuo parente, Luca Bellomo, ora agli arresti. «Lo zio si è fatto rifare tutte cose in Thailandia». A intendere che il tuo volto ha preso altre sembianze, che è impossibile riconoscerti ormai per quello Stato che t’insegue disperatamente ma non troppo forse. Ma che tu stia passeggiando sotto il bel sole della Sicilia, per le strade di Trapani, della tua Castelvetrano, o lungo la spiaggia di Tre Fontane, Campobello di Marsala, vicino ai sette vani di villa dove avresti trovato rifugio per qualche tempo, nonostante questo volto rifatto, qualcuno prima o poi ti verrà a prendere.

Non ti potrai nascondere dietro i Ray ban d’ordinanza, quelli sfoggiati nelle poche foto-identikit che girano da anni per redazioni e commissariati. Stragi, bambini ammazzati, donne strangolate, quanti sono gli omicidi che pendono sulla tua testa? Come puoi dormire la notte con questi fantasmi, sicuro di aver fatto sempre la cosa giusta, la Cosa nostra? Tu, che tra i boss ti sei voluto distinguere, hai voluto studiare, ergerti da quelle condizioni di contadini sanguinari che ben raffigurano Totà Riina o Bernardo Provenzano, loro sì al 41 bis da anni ormai e in precarie, così ci dicono, condizioni di salute, tra le carceri di Parma e Opera.

Tu che hai voluto costruirti l’immagine del campione della mafia colto, colletto bianco, capace di fare affari miliardari in giro per il mondo come un grande manager, sai che la giustizia arriva, bussa alla porta e non può darti scampo.

Il tempo stringe, le lancette dell’orologio corrono veloci verso la tua cattura. Fai un bel gesto Matteo, sorprendi tutti, ancora una volta. Consegnati. Con la tua bella faccia, ancora siciliana o thailandese che sia, orgogliosa e senza traccia di pentimento nello sguardo. Non è il pentimento che ti chiediamo, esigiamo soltanto un po’ di giustizia. Il falso mito della tua latitanza deve potersi concludere nel modo meno leggendario possibile.

Perché non meriti affatto leggenda, Cosa nostra è un fenomeno umano, come tutti i fenomeni umani destinato ad avere un inizio e una fine. Ricordi queste parole del giudice Giovanni Falcone? Considerale bene, rifletti sulla loro importanza. Esci da casa, calpesta ancora una volta la sabbia a piedi nudi, goditi un’altra passeggiata sotto il sole. Entra in un commissariato, siedi e limitati a formulare questa frase: “Sono Matteo Messina Denaro”.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/viabrancaleone” target=”on” ][/social_link] @viabrancaleone

I Punkreas festeggiano 25 anni di punk

Quando i Punkreas sono nati, i Sex Pistols si erano sciolti da dieci anni. Era il 1989: a Berlino cadeva il muro che divideva la città, al processo d’appello per la strage di Piazza della Loggia venivano assolti tutti gli imputati, Anna Oxa e Fausto Leali vincevano al Festival di Sanremo con la canzone “Ti lascerò”. Duri e puri, come la loro musica, sono arrivati con costanza e determinazione al traguardo di 25 anni di attività. Per l’occasione, hanno pubblicato un cofanetto contenente i primi quattro album che ne hanno fatto la storia e hanno iniziato il Paranoia Domestica Tour, partito ufficialmente il 17 gennaio dal Leoncavallo di Milano. I Punkreas hanno continuato a dire la loro, anche quando il punk e il metal lasciavano sempre più spazio al pop anni 90. E in questo quarto di secolo, la band ha avuto solo due cambi di formazione. Oggi, i Punkreas sono Cippa (voce), Flaco (chitarra), Paletta (basso), Noyse (chitarra) e Gagno (batteria).

Come avete iniziato?

Abbiamo iniziato dopo che io (Paletta, ndr) e Cippa, affascinati da una serie di concerti punk visti al Leoncavallo, a Milano, siamo stati presi dalla voglia di “cavalcare” un palco. Abbiamo convinto Mastino, che insieme a Cippa suonava nella banda del paese, a unirsi a noi nella nuova avventura e siamo andati alla ricerca di un chitarrista. Dopo varie audizioni, incominciammo con Claudio che fu ufficialmente il nostro primo chitarrista. Storica la prima data in teatro a un concorso canoro dove arrivammo penultimi con la media del 4,5. Era il 1989 e già avevamo un seguito di “pogatori” da fare paura.

Come siete cambiati?

Con il tempo si cambia un po’ in tutto… Nel nostro caso, siamo cambiati molto in ambito musical-tecnologico approfittando dei vantaggi che il progresso ha creato. Ma le idee e quello che vogliamo far conoscere non sono mai cambiati.

Qual è il vostro pubblico?

Siamo stati testimoni di un cambio generazionale e non è raro trovare qualcuno che ci segue dall’inizio e che ora accompagnala figlia a vederci. In 25 anni insieme cosa avete scoperto l’uno dell’altro? Virtù, pregi e difetti. Tutto quello che si scopre dopo una lunga convivenza.

A quali gruppi vi siete ispirati?

Personalmente la voglia di suonare mi è venuta vedendo Steve Harris e i Maiden ma indubbiamente le influenze sono venute anche dall’amore che abbiamo per i Ramones, per i Clash e per i Pistols.

Come vi immaginate tra altri 25 anni?

Davanti a qualche cantiere a commentare i lavori scuotendo la testa (ride, ndr).

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/PaolaMentuccia” target=”on” ][/social_link] @PaolaMentuccia

Clem Sacco, il francobollo

Tra chi , per sfortuna, fato, o semplice sfiga, non ha raccolto i frutti di ciò che di grande ha seminato, troviamo un sottoinsieme di avanguardisti, genialoidi incompresi che hanno anticipato talmente tanto tempi, mode e categorie sociali da essere addirittura derisi e isolati. Uno di questi è stato Clemente Sacco.

Nato a Il Cairo nel 1933 da genitori italiani, compagno di classe di una certa Yolanda Gigliotti. Quando gli italiani abbandonarono l’Egitto, Yolanda si trasferì in Francia dove, con il sogno di diventare attrice, si diede il nome d’arte di Dalida. Clemente si trasferì nell’esplosiva Milano dei primi anni ’50, s’iscrisse a scuola di canto lirico, pagandosi gli studi insegnando “cultura fisica” nelle palestre e scaricando cassette ai mercati generali.

Al suo primo provino importante Clem arrivò secondo. Piazzamento che fece scattare in lui la scintilla rock, cui si dedicò anima e corpo diventando uno dei pionieri delle nuove sonorità Usa. Nasceva così l’epopea di Clem Sacco, il più matto e spericolato degli artisti italiani dal secondo dopoguerra. Sacco teneva testa a tutti: insieme a Ghigo Agosti era tra i pochi che poteva competere in termini di apprezzamento con Celentano, mandando in visibilio il pubblico nonostante cantasse come un deficiente di uova alla coque, vene varicose, quarti di leone come colazione e denti del giudizio da ciucciare.

Fin quando una sua esibizione in mutandoni leopardati gli costò il sigillo della censura, con conseguente messa al bando anche dalla sua casa discografica. Clemente non si diede per vinto e accettò qualunque lavoro gli fosse proposto. Per sei mesi si trasformò in Clementina Gay, attrazione all’Alexander Bar, ritrovo esclusivo degli omosex dell’epoca. Fondò una sua etichetta musicale e continuò a scrivere canzoni trash e avanguardiste vendendone i risultati dalla sua abitazione negozio: un camper perennemente parcheggiato di fronte alle Messaggerie musicali.

Oggi, a 81 suonati, continua a suonare la sua folle musica e a cantare i suoi sudici testi nei night club delle Canarie dove vive da più di vent’anni. A lui si deve la rivoluzione culturale che ha contribuito al successo degli Skiantos o degli Squallor, antesignani a loro volta di in regno musicale il cui scettro è oggi detenuto da Elio e le storie tese. Clem Sacco, ti siamo grati per aver dimostrato che non si è mai soli con la propria follia. Siamo tutti con te, nel corpo e nello spirito.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/SaroLanucara” target=”on” ][/social_link] @SaroLanucara

[social_link type=”facebook” url=”https://www.facebook.com/antoniopronostico” target=”on” ][/social_link] Antonio Pronostico

Renzology, tutte le maschere del presidente

Tutto scorre. L’universo politico e comunicativo di Matteo Renzi è fluido, scivola via veloce, inafferrabile, cambia forma a seconda del recipiente da riempire, sa travolgere gli avversari con la violenza di uno tsunami. Soprattutto, nel grande mare renziano, tutto si mescola in un magma unico, una grande poltiglia che, come un prodotto di marketing, tenta di accontentare il più vasto pubblico possibile. Almeno a parole.

Da Barack Obama a Lorenzo il Magnifico, dai boy scout a Twitter, da Google a Steve Jobs, Matteo è il nuovo premier contemporaneo. Nel Brand Renzi, come spiega Nello Barile, professore di Comunicazione e Pubblicità allo Iulm, «prosegue il progetto comunicativo berlusconiano nel suo essere un mix dirompente tra spontaneismo e pianificazione, concretezza e speranza, tra vita quotidiana e marketing». Il mondo incantato di Matteo, infarcito di futuri dove tutto cambia e presenti costellati da svolte buone e traguardi storici – perché il rottamatore arriva sempre primus, non troppo inter pares -, è caratterizzato da luoghi comuni che gli permettono di fare breccia nel cuore dell’italiano medio. Oltre che in quello di finanzieri e imprenditori pronti a investire, in Leopolde e cene da 1.000 euro, ora che con l’ex sindaco di Firenze hanno trovato il prodotto vincente.

Parola di boy scout

L’attuale presidente del Consiglio ci tiene molto a ricordare il suo passato in bermuda e fazzolettone. «Il mito del boy scout rappresenta un immaginario pop facilmente comprensibile da gran parte del suo elettorato» spiega ancora Barile, quello di un mondo cattolico lontano dai giochi di potere che Renzi ama chiamare, con un tono da Piccolo mondo antico: «L’Italia per bene». «Lascia il mondo migliore di come lo hai trovato», «dare un calcio all’impossibile », sono solo alcune delle massime da retorica motivazionale dello scoutismo. Il premier le riutilizza spesso per dare forza ai suoi discorsi e connotarsi come l’outsider, rottamatore genuino e dunque affidabile. L’altra faccia dell’Agesci è però quella di un’organizzazione dove esiste una rigida gerarchia di comando e si insegna a diventare leader di un gruppo. Un gruppo chiuso però. Chi non rispetta le regole è invitato a uscire. Insomma quelli che non la pensano come te sono per forza gufi.

Firenze culla dell’Italia

Da sindaco di Firenze a sindaco d’Italia, Renzi gioca sullo stereotipo del Bel Paese di cui il capoluogo toscano è un simbolo indiscusso. Dalla Merkel in Germania arriva con una maglia della Fiorentina, a Digital Venice parla un inglese maccheronico ed è sempre il momento buono per sfoderare un orgoglio patriottico da cartolina, o da piccolo amministratore, che lo rende provinciale. D’altronde l’Italia è per la maggior parte provincia e la retorica di Matteo fatta di «abbiamo la grande occasione di cambiare il paese più bello del mondo» è il corollario perfetto del teorema dell’elettore mediano con cui si acchiappano la maggior parte dei voti. Non è strano dunque che ci ricordi il Berlusconi del 1994 con il leit motiv «L’Italia è il Paese che amo». O che The Economist l’abbia raffigurato con in mano un cono gelato, gelato che poi “il Renzi”, per rispondere alla testata inglese, ha ben pensato di offrire, rigorosamente brandizzato, ai giornalisti riuniti a Chigi in conferenza stampa.

Tutto cambia

La cifra del renzismo è il mutamento, «il tempo del cambiamento». Il premier è “il più giovane della storia repubblicana”, si fa chiamare Matteo e si rivolge a tutti per nome, twitta alle 6.45 del mattino, corre e, sempre twittando, ci dice #arrivoarrivo. Inoltre è cool, un “fico” che si veste come Fonzie – giubbotto di pelle e wayfarer in bocca – o completi griffati Scervino. In quasi tutti i suoi discorsi utilizza la parola futuro o afferma che «per l’Italia è un momento storico ». Per dirla con Bauman è un premier “liquido” e, come tale, per natura fisica privo di una forma politica univoca. Le larghe, larghissime, intese diventano la logica conseguenza di una natura dilagante alla ricerca del consenso. Il cambiamento renziano ha come guida la Speranza, spesso personalizzata. «Il principio della speranza professato da Renzi ha in sé qualcosa di paradossale e per questo forse di ancor più convincente. Si tratta di un principio estremamente utopico che intende scagliarsi contro i mulini a vento di uno stato tendenzialmente non riformabile» spiega sempre Barile e continua: «La speranza che irrora la vision renziana è un’operazione di time design. Mira a ridisegnare il presente attraverso l’invenzionecontinua del suo cronoprogramma».

Diventare pop guardando la tv

Se Berlusconi con le sue tv ha costruito la carriera di un ventennio politico, interpretando e plasmando come editore i gusti degli italiani, Renzi si avvicina ancora di più al pubblico generalista perché, mentre il Cavaliere popolava i talkshow dietro le telecamere, lui era seduto con noi sul divano davanti allo schermo a guardare Happy day, Drive in e La ruota della fortuna in cui ha anche assaporato i suoi primi 15 wharoliani minuti di celebrità. Il premier è pop perché gioca sul background culturale della maggior parte degli italiani – tanto andare da Maria De Filippi ad Amici – e parla con lo stesso linguaggio, fatto di stereotipi e opposizioni, dei programmi tv. Ci sono i buoni e i cattivi, i brutti e i belli. Se per Berlusconi l’uso delle televisioni era associato all’abuso dei sondaggi, Renzi al piccolo schermo unisce i social. E rompe la quarta parete della propaganda interagendo con noi su Twitter con l’immancabile hashtag #matteorisponde.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link] @GioGolightly

Nel romanzo di Vittorio Giacopini il naufragio della ragione cartografica

Dove si è andato a nascondere il pensiero critico del nostro tempo? Nei discorsi dei leader di sinistra? Nel giornalismo d’assalto? Nei documenti dei no global? Certo, anche un po’ anche in tutto questo, però lo ritroviamo imprevedibilmente anche nella letteratura, e ad esempio in questo romanzo di idee e di avventura, La mappa di Vittorio Giacopini (Il Saggiatore).

La geografia ha due anime: da una parte l’egiziano Tolomeo (inventore della cartografia) e dall’altra lo stoico Strabone, che critica la cartografia, la riduzione del mondo a una mappa. E oggi vince Strabone perché internet e la globalizzazione ci costringono a pensare il mondo come rete, circolarità, relazione. Così il geografo Franco Farinelli: «Se la Terra è una tavola, le cose che oltrepassiamo rimarranno dietro di noi per sempre. Se invece ci muoviamo sulla superficie di una sfera, allora tutte le cose che credevamo superate, prima o poi, ritorneranno fatalmente di fronte a noi».

20150316_Libri_Vittorio_Giacopini_La_MappaIl protagonista della Mappa è un cartografo, Serge Victor, figlio dei lumi, impegnato a riprodurre nel disegno geografico le fogge difformi della realtà, a «organizzare qualsiasi cosa». Certo, intende dominare il mondo senza violenza e dall’alto, «a distanza selenita», ma come tutti i cartografi anche lui va appresso agli eserciti e qui lo troviamo al fianco di Napoleone nella campagna d’Italia.

Bene, da quel momento a Victor, che si innamora a Milano di una stregante zingara, non gliene va bene una. Lungi dal controllare la realtà la subisce rovinosamente. Lo ritroviamo senza una gamba, con le stampelle, in una Parigi occupata, abbandonato da tutti, intento a decorare con i luoghi geografici zuppiere e servizi da tè, a imbalsamare la storia su superfici di smalto.

L’apologo filosofico si dispiega attraverso il piacere della narrazione, quasi da romanzo d’appendice. La ragione (cartografica) dovrà rinunciare alle sue pretese, e la politica dovrà abbandonare il sogno napoleonico di riplasmare l’intera realtà.