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Luigi Berlinguer, il ritorno dell’ex ministro dell’Istruzione

Come funziona l’inventario dell’anticaglia politica secondo il vangelo di Matteo Renzi? Un politico di lungo corso come Luigi Berlinguer, per dire, ha titoli sufficienti per aspirare alla rottamazione? Sembrerebbe di no, a giudicare dall’accoglienza calorosa ricevuta alla festa per il primo compleanno del governo Renzi, celebrato a fine febbraio con una puntata monografica sulla scuola.

Ha preso la parola anche lui, l’ex ministro dell’Istruzione, che, con un accorato intervento, ha prevedibilmente rimbrottato gli insegnanti. Secondo lui i docenti della scuola italiana non hanno ancora capito che con l’attuale impianto educativo l’Italia non va da nessuna parte. Non c’è stato bisogno di spiegare perché, né avrebbe potuto far presa, in mezzo al risentimento contro gli insegnanti generato dall’ex ministro, l’obiezione che dell’attuale impianto educativo lui debba risponderne più degli accusati.

Nella riunione dei democratici le sue parole sono risuonate come quelle di un visionario che finalmente vede avvicinarsi la realizzazione del sogno per il quale ha combattuto una vita intera contro ignoranza e pregiudizi. Così si è detto entusiasta per aver colto l’intenzione di Renzi di rivoltare la scuola da cima a fondo. Poi ha esteso l’accusa di miopia politica a gran parte dell’opinione pubblica, che non ha capito che la scuola va assolutamente cambiata.

Ha urlato che la scuola non è più banchi e cattedra, anche se non ha spiegato che cosa dovrebbe essere. Infine ha attaccato chi ha bandito dalla scuola l’arte, la cultura, la creatività (per la precisione «chi ha mutilato l’emisfero destro del cervello»). E ancora chi ha sradicato quella bellezza che è dentro di noi. Perciò ha giustificato e difeso gli studenti, che a scuola «si spallano».

Pochi giorni dopo, tutt’altro che pago, è tornato alla carica con dichiarazioni pubbliche a favore di sconti fiscali per chi iscrive i figli nelle scuole private. Coerentemente con la legge da lui ispirata (62/2000) che ha rimescolato il sistema di istruzione, confondendo pubblico e privato. Con lui siamo in debito anche per una riforma scolastica monca, che ha comunque aperto la via alle distruzioni del centrodestra, e per una riforma universitaria nota come “tre più due uguale zero”, per la svalutazione del sapere e dei titoli di studio. Un curriculum che non poteva lasciare indifferente l’attuale classe dirigente, smaniosa di proseguirne l’opera. Altre opinioni che l’hanno reso simpatico ai rottamatori sono quelle sul ridimensionamento delle discipline umanistiche.

In particolare, lo studio delle lingue classiche dovrebbe, come propone anche Confindustria, diventare facoltativo e a pagamento. E, secondo Berlinguer, anche la storia antica dovrebbe essere sacrificata a vantaggio di materie più utili. Come ha notato Luciano Canfora, intorno al ruolo della Storia nella scuola si gioca una partita decisiva. Infatti, il vero obiettivo di una classe dirigente che vuole impoverire la scuola non è tanto l’accerchiamento nei confronti delle lingue classiche quanto insinuare la convinzione che sia inutile studiare la Storia.

Quella antica, che, osservava Marc Bloch, «si colora delle sottili seduzioni del diverso». O la storia in generale, che ci induce a pensare che nulla è inevitabile e nella quale, diceva Gramsci, riconosciamo l’unica spiegazione della nostra esistenza, senza cadere nelle braccia della religione.

Da folli lasciare andare alla deriva la Grecia

Nessun segnale che le trattative tra la Grecia e le istituzioni europee possano sbloccarsi. Sinora il governo greco non ha ottenuto niente, ma non è neppure arretrato. Ricordiamo i fatti.

Il 24 febbraio, l’Eurogruppo, che è composto dai ministri finanziari dei diciannove Paesi che hanno adottato l’euro, trova l’accordo con la Grecia per una proroga di quattro mesi dell’attuale piano di aiuti finanziari. Subordina tuttavia l’erogazione dell’ultima tranche di prestiti (7,2 miliardi), alla presentazione di un piano di riforme sul quale trovare un accordo entro la fine di aprile.

Il 5 marzo, in vista della nuova riunione dell’Eurogruppo convocata per il 9, il ministro delle Finanze greco Varoufakis trasmette un documento che elenca sette riforme da far partire in tempi brevi. Il progetto disegna i primi passi per la modernizzazione del Paese, per risollevarlo dalla situazione disastrosa in cui l’hanno gettato i governi irresponsabili che si sono succeduti dalla fine del regime dei colonnelli: una pubblica amministrazione lottizzata, clientelare e corrotta, il dilagare dell’evasione fiscale e delle frodi.

Tra le riforme proposte c’è quella di porre le basi per la costruzione di un’amministrazione finanziaria che sappia far pagare le imposte, che in Grecia non esiste. Considerato che non può farsi dall’oggi al domani, si prevedono una serie di azioni di tipo emergenziale, come quella di sguinzagliare per negozi e ristoranti, travestiti da “clienti”, ispettori fiscali non professionisti (studenti, casalinghe, anche turisti) attrezzati per documentare, con registrazioni audio e video, l’evasione fiscale. Potrà far sorridere, ma testimonia, da una parte, lo stato di sgretolamento delle istituzioni e, dall’altra, che la Grecia non può più permettersi di non far pagare le imposte: le casse sono vuote, da quando si è insediato il nuovo governo anche i contribuenti che qualcosa pagavano hanno smesso di farlo. Si tratta di combattere, scrive Varoufakis, la cultura dell’evasione: egli auspica che il piano possa rapidamente «cambiare gli atteggiamenti… diffondere nella società un senso di giustizia, generare una nuova cultura dell’adempimento fiscale».

Le altre riforme prospettate riguardano il rafforzamento delle procedure di bilancio, la riforma della pubblica amministrazione, le misure per fare fronte alle situazioni di estrema povertà. Niente di rivoluzionario dunque. Ma neppure alcun cedimento, per esempio in tema di privatizzazioni o di livello dell’avanzo primario. Ecco allora che il documento ha fatto letteralmente imbestialire la Germania e i suoi fedeli alleati.

Il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble ha usato toni sprezzanti, tornando provocatoriamente a parlare di Troika e dichiarando che la Grecia non vedrà un euro. Che il governo greco voglia tener duro sui punti qualificanti del proprio programma lo conferma Tsipras in un’intervista a Der Spiegel. Ricorda come oggi in Grecia il 35 per cento della popolazione sia in condizioni di povertà, come 600.000 bambini non abbiano sufficienti alimenti. È in tutto il Sud d’Europa, ci dice, che si deve cambiare corso. E richiama il problema politico: «Punendo Syriza in Grecia, non rallenterete la crescita di Podemos in Spagna, semplicemente lo costringerete a diventare un movimento antieuropeo, e rafforzerete Grillo in Italia, Marine Le Pen in Francia, Nigel Farage in Gran Bretagna». Ha ragione.

E si può aggiungere che, nell’attuale situazione internazionale, sarebbe da folli lasciare andare la Grecia alla deriva. Ma potrà mai questa Europa cominciare a pensare in grande? 

Juan Alberto “El Pepe” Schiaffino, l’immortale

Quando i dirigenti del Milan, nel ritiro svizzero dell’Uruguay ai Mondiali del ’54, ottennero il passaggio in rossonero di Juan Alberto Schiaffino detto el Pepe, la rivista ufficiale del Penarol di Montevideo titolò: “Il dio del pallone se n’è andato. Una perdita irreparabile”. Evidentemente qualcuno, in patria, lo considerava al capolinea con 29 primavere da compiere in luglio e senza speranze di una seconda gioventù milanese coronata da tre scudetti in sei anni e una coppa Campioni persa all’ultimo sangue contro il Real Madrid dell’argentino Di Stefano.

E pensare che l’Uruguay era campione del mondo in carica grazie al leggendario 1-2 in rimonta in casa del Brasile, al Maracanà, con reti proprio del grande Schiaffino e del piccolo Ghiggia, l’ala destra capace di saltare qualsiasi terzino e che, trasferitosi alla Roma, non poteva essere più convocato dal mister Fontana.

Favorita è l’Ungheria di Puskas, la squadra apparentemente imbatti-bile e di fatto imbattuta da tre anni. Il capitano della Celeste è sempre lui: Obdulio Varela, il vecchio libero che contende al Pepe stesso le chiavi del gioco e dello spogliatoio. Ma El Pepe è uno che fa di testa sua, come ha sempre fatto fin da ragazzino quando giocava sulla spiaggia di Pocitos e nascondeva la palla anche a quelli più grandi. Suo fratello maggiore, Raùl, era già il centravanti titolare del Penarol finché un giorno, durante una selezione, gli osservatori del club si accorsero che quello più forte era lo Schiaffino più piccolo. E non se lo fecero scappare. La classe del diciottenne era immensa, tipica del barrio Pocitos che, all’inizio del secolo, aveva sfornato il talento unico del Gran maestro Josè Antonio Piendibene: il primo fuoriclasse giallonero. E proprio per questo il Pepe era chiamato talvolta il Piccolo maestro.

La Celeste debutta a Berna il 16 giugno contro la Cecoslovacchia: 2-0 firmato Miguèz e Schiaffino. Tre giorni dopo, a Basilea, 7-0 alla Scozia. Il Pepe resta a secco ma è sempre il faro del gioco. Passa una settimana e si gioca ancora a Basilea: quarto jet di finale contro l’Inghilterra, chi perde è fuori. Bòrges porta in vantaggio l’Uruguay, Lofthouse pareggia e Varela riporta avanti i suoi prima dell’intervallo. Finirà 4-2 con il Pepe che marca il terzo gol. In semifinale, ecco l’Ungheria di Puskas senza Puskas. Il più forte d’Europa ha la caviglia ancora gonfia: frutto di una rappresaglia dei tedeschi dopo l’umiliante 8-3 di dieci giorni prima. A Losanna, 45.000 spettatori assistono a uno dei match più belli della storia del calcio, sia per lo spettacolo che per l’intensità di gioco. Ungheresi in gol con il sinistro di Czibor nel primo tempo e con un tuffo di Hidegkuti nella ripresa. Nei dieci minuti finali, Juan Hohberg, sempre servito da Schiaffino, suo compagno nel Penarol, prima accorcia le distanze di precisione e poi pareggia di prepotenza. Ai supplementari, tuttavia, Sandor Kocsis svetta due volte più alto dei mastini uruguagi orfani dell’infortunato Varela: 4-2.

L’Ungheria lascerà la coppa ai tedeschi imbottiti delle stesse anfetamine in dotazione ai fanti della Wermacht e la Celeste, demotivata, perderà la finale di consolazione contro l’Austria. È l’ultima partita dell’immenso Juan Alberto Schiaffino, detto el Pepe, con la maglia della Nazionale del suo Paese: il piccolo Uruguay due volte campione del mondo.

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Giovanni Truppi, un cantautore fuori di sé

Sul citofono nessuna indicazione e Giovanni Truppi non rispondeva al telefono. Poi ha aperto. Giovanni è un artista trentenne. Le sue canzoni verbalizzano quanto viviamo e spesso evitiamo di raccontarci. Il modo in cui lo fa è semplice, mai retorico, ma le parole che sceglie sono così personali (anche per chiunque le ascolti) che piovono addosso come pietre. Definirei la prima sensazione che si prova ad ascoltarle come un sano masochismo perché toccano lo strato più interno della pelle e danno il piacere della condivisione. L’emozione di sentire che quelle che credi essere le tue personali riflessioni inconfessabili sono le stesse di un altro. Un cantautorato classico e sperimentale allo stesso tempo, che a tratti stride, a tratti accarezza. Le due ore, trascorse insieme nel suo studio, prendono la forma di un dialogo in libertà. «Sono nato a Napoli e ci ho vissuto fino all’età di 23 anni», dice quando gli chiediamo di autopresentarsi. «Da dieci anni vivo a Roma, a Centocelle. Ho iniziato a studiare pianoforte a sette anni, poi, in adolescenza, ho cominciato a suonare la chitarra e a scrivere canzoni».

Nel 2010 pubblica il suo primo disco, C’è un me dentro di me, nel 2013 arriva il suo secondo lavoro, Il mondo è come te lo metti in testa, e, il 23 gennaio, è uscito Giovanni Truppi. Un album in collaborazione con il batterista Marco Buccelli, che è anche il produttore dei suoi ultimi due dischi.

Nel ritornello del primo brano dice: «Stai andando bene Giovanni, continua a fare male»…

Mi è capitato spesso di riflettere sul fatto che per alcune persone, per esempio per me, è difficile fare male. Nel senso di accettare anche una parte brutta, violenta, scomoda, fastidiosa di se stessi e di tutto quello che ci circonda, delle altre persone.

In altre parole è come dirsi: “Non sei perfetto ma accettati”.

Sì, è un po’ una paraculata, però, sì.

Farà anche male, ma ha tracciato un percorso.

In adolescenza, a un certo punto, ho realizzato che scrivere canzoni era la cosa più bella che potessi fare. Da lì ho cercato, a mio modo, con le mie incertezze, di farne la mia occupazione. A 14 anni ho scritto il mio primo pezzo. Era una cosa terribile, con la rima baciata. Descriveva una figura femminile, era proprio brutto.

Cosa c’è, invece, nel nuovo disco?

C’è roba intima, che sia mia o che abbia a che fare con l’intimità in generale. Nei mesi in cui lo scrivevo pensavo molto alla storia, a come noi esseri umani ci comportiamo da sempre. C’è il rapporto con il trascendente, con il male e con la morte. “Il Pilota”, in particolare, è un pezzo che lavora sul rapporto con la morte ma non per forza in senso fisico. “Superman” è un pezzo sul sesso, sull’estasi e anche qui c’è il fatto di uscire dal corpo, uscire dalla mente, uscire da se stessi. Non lo so spiegare perché, è più facile scrivere le canzoni… però mi incuriosisce molto quanto noi possiamo uscire da noi stessi, rispetto a come ci percepiamo e rispetto a quello che percepiamo. Poi c’è “Lettera a Papa Francesco I”.

Cosa gli chiede?

Di sciogliere la Chiesa. Ho scritto questa canzone con Antonio Moresco, è tratta da un suo libro che sia chiama Lettere a nessuno. Quando l’ho letto ho pensato che era una bellissima idea per una canzone. Ovviamente non c’è solo questo ma è una cosa nella quale mi riconosco molto proprio perché affronta certe questioni, che siamo abituati a vedere affrontate sulla piazza della politica, sul piano spirituale. Mi è sembrata una cosa molto giusta in questo momento storico.

Quanto lavori ai tuoi testi?

Molto. Ma lavoro anche sul far uscire una dimensione che sia istintiva. In realtà, questo disco è molto istintivo per la velocità con cui è stato scritto e arrangiato. Paradossalmente il mio disco precedente, che da ascoltatore percepirei come un disco più di pancia, è invece più ragionato.

Fragilità e relatività. Ne parli sempre.

La fragilità mi commuove, mi turba. E poi credo che mi interessino molto i rapporti, in generale, non solo tra le persone. Sulla relatività non ho una risposta perché è l’acqua in cui nuoto. Mi confronto tutti i giorni, umanamente, su quanto un evento possa essere diverso per me, per te, ora e tra mezz’ora. Sono cose che come uomo mi stanno a cuore e le ho portate nelle canzoni perché mi sembrava la cosa più interessante da fare.

La fine è un tema che ricorre nei suoi testi, ma senza essere apocalittico: i protagonisti delle storie la vivono, ci si confrontano, prendono le misure con il mistero delle cose.

Sono contento che tu non percepisca i miei pezzi come apocalittici. Spero che tra le cose con cui mi confronto nella vita e che in qualche modo racconto emerga anche la bellezza. Tendenzialmente nella vita cerco di stare bene e quindi provo ad avere un certo tipo di atteggiamento nei confronti del dolore, della morte.

Quindi non ha paura delle cose che finiscono?

Certo che sì. Più che altro provo sofferenza. Sono abbastanza pigro, quindi un cambiamento per me è uno stress. Ma so che è anche una cosa positiva e se non ci sono cambiamenti si muore davvero. Non lo voglio, ma lo voglio.

Quanto c’è di autobiografico in quello che scrive?

Le storie, gli argomenti di cui parlo e il modo in cui li affronto sono uno specchio di come li vivo.

Cosa vorrebbe che arrivasse alle persone di quello che fa?

La vitalità.

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Lenny Bottai sul ring con “No Jobs act!” parole come pugni

Ci sono dei no che lasciano il segno quasi quanto un pugno. Il più famoso rifiuto nella storia della boxe lo pronunciò a New Orleans nel 1980 Roberto Duràn nel match contro Sugar Ray Leonard. In palio, la cintura di campione del mondo Wbc dei pesi welter: l’americano non si faceva prendere, e Duràn abbandonò il ring all’ottava ripresa, all’improvviso, con un semplice “no más”, bastava così. Lo scorso dicembre un altro no l’ha detto la “Mangusta” Lenny Bottai, 37 anni, asso livornese della boxe nostrana: salito sul quadrato di Las Vegas per contendere allo statunitense Jermall Charlo l’accesso alla finale dei superwelter Ibf, ha sfoggiato una maglietta rossa con un pugno chiuso e la scritta “No Jobs act!”. Il match l’ha perso, guadagnando però l’attenzione dell’opinione pubblica.

Bottai, quella maglietta l’ha resa quasi più popolare delle tante vittorie in carriera.

Il mio era un messaggio di solidarietà alla classe alla quale appartengo, se c’è un Paese che fa più caso a una maglietta rispetto al fatto che un pugile italiano combatta a Las Vegas per una semifinale mondiale, beh, questo è il mondo.

Per esporsi così in un incontro molto importante, la riforma del lavoro non le dev’essere proprio piaciuta.

Renzi ha dimostrato quel che diceva Andreotti tanti anni fa, cioè che quando la sinistra andrà al potere lo farà perché nel partito non ci saranno più i comunisti ma i democristiani. Non credo serva aggiungere altro. A Renzi poi, come a tutti gli altri, farei vivere un bel reality: un anno di vita da operaio precario, e nel frattempo lo riprenderei. Sai che share…

Sul retro della maglietta c’era un altro messaggio: “Pane, dignità, futuro per tutti”. Un obiettivo ancora percorribile, in Italia?

Per raggiungerlo serve unità di intenti e di classe. Non amo fare il fantozziano Folagra, incarnazione del compagno che parla per dogmi, ma il succo è sempre lo stesso: chi ha la chiave delle decisioni leva al popolo per dare alla sua classe. Il compito del popolo, almeno in questa società, è quello di unirsi e prendersi i diritti: se si ferma il popolo, si ferma il mondo.

La boxe, in termini di unità di intenti e cooperazione, può insegnare qualcosa?

Pur essendo uno sport individuale non si prescinde mai dal gruppo e dalla condivisione. Quando combatti hai bisogno di un allenatore e di un angolo fidato, di persone che coadiuvano la tua preparazione, di tifosi che ti sostengono. Pensare di poter relegare tutto all’individualismo è un grosso limite.

Lei è fra i fondatori della “Spes Fortitude”, nata a Livorno nel 2006. Una palestra popolare contro la logica del profitto?

Lo sport è un diritto che deve essere esercitato, e la Spes Fortitude offre la possibilità di fare sport di qualità a prezzi accessibili o in casi particolari del tutto abbattuti, in un ambiente libero da ogni barriera sociale o logica individualista e di prevaricazione. È anche un luogo come un altro aperto a tutti quelli che vogliono fare sport in regola. Non deve essere un’estensione della militanza: in palestra ci si allena e basta, chi entra ha e deve avere – entro certi limiti – le sue idee, ma un aspetto fondamentale è la sensibilità sociale nell’offrire un avamposto sano ai quartieri in difficoltà. Questo è per me il significato di sport popolare.

Lontano dalla palestra e dal ring c’è sempre l’impegno politico.

L’impegno politico è prima di tutto ideologico, e consiste nel connettere sempre la propria concezione della società con quello che nel concreto si fa e si sceglie per se stessi. Qui sta l’impegno, nell’imporsi l’etica del rispetto delle proprie idee, facendo in modo che resistano nel tempo a qualsiasi evoluzione personale.

L’INTERVISTA INTEGRALE SU LEFT IN EDICOLA DA SABATO 14 MARZO

Maurizio Landini battezza la “coalizione sociale”

Una “coalizione sociale” a difesa dei diritti di cittadinanza, a partire da quello del lavoro, in tutte le forme. Questo è l’obiettivo di Maurizio Landini, che nei giorni scorsi con una lettera ha convocato associazioni e componenti di reti sociali ad una riunione a porte chiuse nella sede della Fiom, in corso Trieste, a Roma. In molti hanno pensato al battesimo di una nuova “cosa” di sinistra, ma per ora sono state cinque ore con tutti quelli che hanno risposto, da Emergency e Arci a Giustizia e Libertà, fino a Libera, Articolo 21 e componenti di altre associazioni. Nessun politico, tranne la senatrice ex M5s Maria Mussini.

«Chi pensa sia iniziata una fase preparatoria per la nascita di un nuovo partito sbaglia. E se ne vada a casa», ha detto il leader della Fiom, aprendo l’incontro. Lo scopo principale è infatti quello di costruire un’aggregazione che nasce dalla certezza che «la politica non è proprietà privata» e che due concetti come “la fine del lavoro” e “l’esistenza di singoli individui e del potere che li governa” hanno creato «lo spettro di un futuro con cui siamo chiamati a fare i conti in tutta Europa». Uno spettro che sta scatenando una guerra tra poveri, e una guerra tra i sindacati, in una fase in cui sembra svanire la confederazione delle associazioni dei lavoratori, spinte più che mai alla competizione fra loro. «Per impedirlo bisogna unire tutto ciò che stanno dividendo, e questo lo si può fare mettendo insieme tutte le forme di lavoro, non solo quello salariato».

La spaccatura con il Partito Democratico è sempre più netta, e i toni si fanno sempre più aspri. Al capogruppo alla Camera Roberto Speranza che accusa il leader della Fiom di essere «espressione di una sinistra massimalista che urla», Landini replica, «sono abituato a discutere di merito più che stare attento ai decibel. Una parte del Pd ha votato per la cancellazione dello statuto dei lavoratori. Quindi si può fare peggio di chi urla».

Nessun partito, giurano dalle parti di Corso Trieste. «Facciamo il nostro mestiere», aggiunge Landini: «agiremo contrattualmente per cambiare le leggi che cancellano i diritti dei lavoratori e creeremo il consenso per arrivare, se necessario, al referendum abrogativo di quelle stesse leggi». Poi lancia la manifestazione del 28 marzo a Roma, in continuità con quella della Cgil del 25 ottobre scorso. «E’ della Fiom ma è aperta a tutti quelli che condividono i nostri obiettivi».

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Un paese di disoccupati e workaholic

Due blockbuster di fantascienza suggeriscono quale sia la ricchezza più preziosa e “democratica” che esista sulla terra, dipingendo futuri distopici in cui capitalisti terrestri (in In time di Andrew Niccol) e colonialisti interplanetari (i Jupiter di Lana e Andy Wochowski), raffinati e cattivissimi, “rubano il tempo” alle persone per diventare immortali. Il tempo, ecco la nostra ricchezza, ed ecco il tema ignorato: c’è qualcuno che sta rubando, anzi comprando, il nostro tempo. Non in un film, non in un futuro, ma qui, ora.

Noi, complici, ci facciamo troppo raramente la domanda giusta, che è diventata un tabù: valgono di più i soldi o il tempo di vita? Per questo siamo sempre lì, al pane e alle rose, e questo pezzo può aprirsi con l’intramontabile slogan nato dalle parole di Rose Schneiderman, sindacalista, femminista e socialista.

«Ciò che la donna che lavora vuole è il diritto di vivere, non semplicemente di esistere, il diritto alla vita così come ce l’ha la donna ricca, al sole e alla musica e all’arte ». «L’operaia deve avere il pane, ma deve avere anche le rose». Era il 1911. Si parlava delle dimensioni non monetizzabili della vita. Un secolo dopo, c’è molto più pane di allora, ma troppi si sono scordati il profumo delle rose, tanto da non avvertirne più nemmeno il bisogno.

Per l’homo economicus il tempo è denaro, merce sul mercato del lavoro e fattore di produzione di ricchezza; e il ruolo di produttore si alterna poi a quello di consumatore, a cui votare il residuo tempo “libero”. E così, durante questi decenni di ubriacatura liberista, il tema della riduzione degli orari di lavoro pian piano scompare dai programmi dei partiti e anche dei sindacati, che pur lo dovrebbero conservare nel Dna, perché il Primo maggio nasce proprio come giornata di lotta per le otto ore di fatica quotidiana.

Ecco il punto. Esiste certo un problema di reddito per milioni di cittadini, ma altri milioni potrebbero ben identificarsi nella categoria sociologica dei money-rich, time-poor, di chi ha disponibilità di denaro che eccede i bisogni fondamentali, ma soffre una mancanza di tempo per coltivare relazioni e attività extra-lavorative. La sfida che abbiamo davanti è dunque quella di rispondere sia alla povertà di reddito sia alla povertà di tempo, e – sorpresa! – si tratta come sempre di redistribuire.

Non è certo per caso che, in Spagna, Podemos faccia delle 35 ore settimanali un asse portante del suo programma, che in Germania numerose personalità sottoscrivano un appello per le 30 ore, e che in Inghilterra la New Economic Foundation lanci addirittura la provocazione delle 21 ore. Si palesa la necessità di affrontare una dinamica strutturale: gli orari di lavoro medi sono già in calo da decenni, a ritmi diversi, in tutti i paesi avanzati (tutti!).

La riduzione degli orari non è dunque una scelta, o un’utopia, è una constatazione, e non si colloca nel futuro, ma nel presente. La scelta da assumere è dunque un’altra: governare questa tendenza, trainata dall’evoluzione tecnologica, o continuare a lasciarla all’arbitrio delle singole imprese, allargando così una forbice che la “media del pollo” nasconde?

Mentre molti non lavorano (disoccupati, scoraggiati, neet) o lavorano meno di quanto vorrebbero (contratti a termine e part time involontari, ormai i 2/3 del totale), altri devono lavorare sempre di più (orari contrattuali in aumento, taglio di riposi e pause, partite Iva a cottimo, slittamento delle pensioni). È noto come in Fiat-Fca, per fare un esempio, la cassa integrazione conviva con lo straordinario obbligatorio triplicato (!), ma anche altre categorie pubbliche e private lavorano di più che in passato, dai ferrovieri agli addetti al commercio, soprattuto se neoassunti. Spesso aumenta anche l’intensità della prestazione e la flessibilità dei turni: anche i nuovi riti del consumo domenicale peggiorano la vita sia dei lavoratori dipendenti sia dei piccoli commercianti, che si vedono costretti a lavorare un giorno in più senza potersi permettere di assumere qualcuno che lo faccia per loro, a solo vantaggio degli azionisti delle grandi catene.

L’ARTICOLO INTEGRALE SU LEFT IN EDICOLA DA SABATO 14 MARZO

Lavoro e libertà insieme. Perché se uno resta indietro salta anche l’altro

Ho sempre pensato che se nell’articolo 1 della Costituzione si era deciso di scrivere che la nostra Repubblica democratica era fondata sul lavoro, era perché del lavoro non si aveva la stessa concezione, per esempio, di Karl Marx. Non lo si immaginava per forza alienato, prodotto di un capitalismo efferato, né funzionale alla sola soddisfazione di bisogni materiali.

Per questo in quella stessa Costituzione – per me – subito dopo c’era l’articolo 2. Perché al contrario si riteneva il lavoro fonte di realizzazione, di “libero sviluppo della persona umana” che la Repubblica doveva tutelare per garantire uguaglianza e libertà. Per anni, non ho immaginato un altro modo di “concepire” il lavoro se non come “libero sviluppo della persona umana”.

Da piccola avevo un libro, una fiaba in cui si raccontava di un uomo povero, costretto a fare l’elemosina per sopravvivere e di un bimbo che chiedeva al padre i soldi da dare al povero. E poi del padre che invece dei soldi, decise di costruire una canna da pesca e di insegnare al povero a pescare. Il senso della fiaba era che continuando a fare l’elemosina avrebbe lasciato il povero, povero. Mentre insegnandogli a pescare, lo avrebbe reso un uomo libero. Sull’ultima pagina del racconto, indimenticabile, c’era l’immagine del povero che pescava felice. Si vedeva dal sorriso. (E io sapevo che non avrebbe più avuto bisogno di elemosinare).

Lavoro e libertà, insieme. Di pari passo, perché se uno restava indietro saltava anche l’altro. Lavoro inteso come garanzia di uguaglianza di libertà. E libertà intesa come possibilità di realizzarsi. Questa era la mia idea di “essere di sinistra” quando ero piccola. Tutti uguali e liberi. E per essere liberi non bisognava dover “elemosinare” nulla. Da nessuno. Lavorare ha voluto dire per anni studiare, specializzarsi, poi trovare “lavoro”. I bisogni certo, per vivere decorosamente, ma mai distinti da tutto il resto che era anche e soprattutto quello che si pensava nel tempo più o meno libero.

Non ho distinto per anni, non ho pensato neanche fosse giusto dover distinguere. Ho studiato e  lavorato pensando che il mio tempo libero sarebbe stato invaso dal lavoro, mia realizzazione, e il mio lavoro sarebbe stato invaso dal tempo libero (affetti, curiosità, passioni…), ugualmente mia realizzazione. Poi la vita. O meglio la realtà della vita che non è sempre la verità. Dalla realtà dei due tempi, prima il lavoro (per i bisogni) e poi il tempo libero (per le esigenze), alla distruzione di qualsiasi sintonia o sinergia tra lavoro e libertà, fino allo smantellamento progressivo di qualsiasi idea di lavoro “ricco”, qualificato, umano.

Il “lavoro” oggi, se c’è, è grasso che cola. E per la maggior parte è povero, precario, spezzettato, mercificato, globalizzato. Un lavoro «cattivo» scrive Craviolatti, a tal punto che c’è chi non lo cerca più (i famosi Neet) e chi invece vive solo di quello, eliminando il resto della vita. «Il problema – mi diceva un mio caro amico – non è quanto ti pagano ma se hai qualche ora in più per leggere Omero…». “Lavorare meno, lavorare tutti”, non è una frase fatta, non è un calcolo distributivo (certo utile di questi tempi), né una citazione tout court di Serge Latouche. È piuttosto, per noi, la fusione inedita tra il teorico della decrescita felice che da anni va dicendo “lavoriamo meno per essere più felici” con il segretario della Fiom Maurizio Landini che in un pomeriggio del 2013 chiuso in un teatro per colpa di Left, gli rispose “ma se non sono felice del mio lavoro non sono felice neanche fuori”.

Allora, senza retorica e con linguaggio asciutto proveremo a raccontarvi perché con il Jobs act i lavoratori saranno più uguali «nel peggio». Perché è pericoloso guardare al modello tedesco dei “piccoli lavoretti”. E perché «l’attacco al lavoro è in verità un attacco alla libertà», come ci raccontava l’eco-nomista Ernesto Longobardi non molto tempo fa, «se non c’è il tempo lavoro, non c’è neanche il tempo libero, semmai rimane quel “tempo vuoto” di cui parlava Bruno Trentin». “Non lavorare tanto”, allora, ma “in tanti” e “bene”. «E così torniamo alle rose», ha ragione Craviolatti.

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