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#paroladilupetto I freelance “bombardano” Matteo Renzi

Si lavora per strada con lo smartphone – oramai una protesi del braccio – e si pranza con un panino o un’insalata davanti al computer. «Essere un freelance è la nuova normalità, è una nuova grande forza lavoro ed è qui per rimanere», ha detto Sarah Horowitz, fondatrice della Freelancers Union, l’organizzazione americana dei lavoratori autonomi che conta più di 200mila membri. E in Italia? Le fila della nuova “classe” lavoratrice – quella del lavoro autonomo – si ingrossano senza avere alcuna tutela.

Oggi – 13 febbraio – dalle 13 alle 14 Matteo Renzi è stato letteralmente “bombardato” da centinaia di tweet. La richiesta? Mantenere fede alla sua ‪#‎paroladilupetto. «Nei decreti delegati sul fisco c’è anche lo spazio per modificare in meglio le norme sulle partite Iva e spero riusciremo a correggere i nostri errori con la delega fiscale il 20 febbraio», ha annunciato il premier pochi giorni fa a Rtl 102,5.

Adesso partite Iva e freelance protestano contro gli aumenti delle tasse previsti nella Legge di Stabilità, quando mancano pochi giorni al prossimo Consiglio dei ministri, previsto per il prossimo 20 febbraio. Il governo deciderà del loro futuro senza averli prima consultati. «I provvedimenti del governo hanno creato una situazione opposta da quello che ci si aspettava», dice Anna Soru, presidente di Acta, l’associazione italiana dei freelance. «Vedendo nella partita Iva solo il ricco padrone e non il lavoratore, o considerando gli autonomi solo come false partite Iva o dipendenti mancati da riportare nel bacino della subordinazione». La richiesta, per sintetizzarla con uno dei tanti tweet, è questa: «Matteo Renzi approvi l’emendamento al Milleproroghe presentato da Chiara Gribaudo & co. per il blocco dell’aliquota GS al 27,72%».

Invece degli scioperi tradizionali, l’arma sindacale per questi lavoratori è il tweet bombing. Ma dietro gli hashtag ci sono persone in carne e ossa: Acta, Alta Partecipazione, Confassociazioni, Colap, sono i soggetti di rappresentanza del nuovo “popolo delle partite Iva”, un popolo che conta tra 1,3 a 3,5 milioni di persone. Che cresce (a dicembre 2014 si è registrato un +203%), che “ringiovanisce (oltre il 50% delle aperture nel 2014 riguarda under 35), e “rispetta” le quote rosa (circa il 40% sono donne). E che si caratterizza per la forte innovazione (l’incidenza del lavoro autonomo nel settore tecnico-scientifico è il più alto d’Europa, con il 15%).

Dove il sindacato non arriva, in tempi di social, ci si arrangia. E ci pensa twitter. ‪#‎refurtIVA ‪#‎siamorotti

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Can this man save Europe?

Questa settimana Left cita esplicitamente la copertina del febbraio 2012 del Time. Ma invece di Mario Monti troverete la storia di Yanis Varoufakis, neoministro delle Finanze del governo di Alexis Tsipras. Perché per noi “solo” chi si oppone al mantra reazionario dell’austerity “can save Europe”. Stefano Fassina, Nicolò Cavalli, Guido Iodice, Ernesto Longobardi, Anna Pettini e Andrea Ventura vi racconteranno dove ha studiato, quanto ha viaggiato, dove ha lavorato, e cosa sta facendo in questi giorni in giro per l’Europa Yanis Varoufakis.

Il 14 Left è in piazza #dallapartegiusta perché è vero che se cambia la Grecia, cambia l’Europa. Lo scrive Maria Pia Pizzolante di Tilt «la Grecia non è un pericolo ma un’incredibile chance da cogliere». Ma non solo, su questo numero parla il sindaco, Luigi De Magistris, che riparte dal territorio e dall’associazione Dem.a per tentare di ricostruire la buona politica non solo a Napoli.

Al centro del numero troverete uno speciale d’eccezione, “Allarme mafie”, firmato da Giulio Cavalli, Stefano Santachiara, Ilaria Giupponi e Sarah Buono dedicato al «nuovo sistema Emilia» pervasivo a tal punto da aver coinvolto un’intera regione, l’Emilia Romagna, in affari con la ’ndrangheta. Nessuno escluso.

E ancora Anonymous e Isis, un focus su “Polveriera Ucraina”, una lunga intervista a Francesco Lotoro che per ventidue anni ha trovato e raccolto, in tutto il mondo, 4mila opere musicali scritte da autori internati nei lager. Per finire con un’inchiesta sulle babymiss: un esercito di bambine modelle spinte dalle loro madri ad esibirsi; il racconto di una scoperta in Israele che parla di amore tra Neanderthal e un pizzico finale di Sanremo. Buona lettura.

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Migliaia i profughi annegati. L’incubo ritorna, ma l’Europa non vuole vedere

Le parole sono state svuotate, sventrate. Nessun commento, nessun pianto, nessuna sentenza sembra poter ridare una coscienza all’Europa. La fossa comune sotto casa nostra è ormai talmente profonda ed evidente che nessuno la vuole vedere, né arginare. Le vittime – i profughi annegati -, non sono solo i 350 di ieri e i 600 del 3 e dell’11 ottobre scorso a Lampedusa, ma anche decine di migliaia di dispersi invisibili, non conteggiati, non pervenuti, anche se secondo l’Unhcr sarebbero circa 3500 nel solo 2014. Lasciati annegare in quell’abisso tra Africa e Europa, non di mare ma di politica.

Fatti sparire. Non da comodi “trafficanti di morte”, come i media e Alfano & Co raccontano, ma da lucide scelte di burocrati e politici folli: con la sospensione di Mare Nostrum e il ritiro delle navi di salvataggio, si è decisa l’omissione di soccorso a tavolino. Quei crimini contro l’umanità hanno responsabilità e nomi precisi che la Storia e il Tribunale Permanente dei Popoli stanno già indagando.

Su questo nuovo fronte bellico, le vittime sono profughi che avrebbero diritto alla protezione internazionale. Siriani e Eritrei che fuggono dalle bombe e dai lager libici, uccisi due volte. Interi territori che abbiamo contribuito a dilaniare si stanno svuotando nel mare. Come sangue. Centinaia di barconi sono schiacciati tra due fronti, alle spalle trincee davanti a loro i muri dell’Ue; per non menzionare i nostri disastrosi interventi (come aver destituito Gheddafi, unico argine per i clan jihadisti in Libia, o aver lasciato che la Siria venisse distrutta totalmente dando il via all’esodo, tragico, di un intero popolo).

Bisogna indagare su una regressione collettiva che è epocale. Quella pulsione a non vedere, quella complicità di fronte ad una sparizione di massa, che precipita anche noi in questa voragine di inciviltà. Come spiegarla? Quale psicopatologia, quale morbo europeo, ha potuto avanzare a tal punto da farci trovare di nuovo di fronte all’incubo? Lo credevamo passato, circoscritto a quel periodo storico che non si sarebbe mai potuto ripresentare. Che non si poteva, non si doveva, che non si deve ripetere.

#DileSanremo al Dopofestival

Torna la tradizione del #Dopofestival come contraltare irriverente alla kermesse canora più seguita d’Italia. E svolge ancora meglio la sua funzione se incastonato in questa 65esima edizione, condotta un Carlo Conti che porta in giro tronfio il “ritorno alla gara” e di a un canovaccio più accademico del solito, specie se paragonato agli anni recenti.

Durante la prima puntata di ieri sera, rigorosamente online sul sito della Rai, il presentatore Saverio Raimondo, comico satirico dei più velenosi, ha colto la palla al balzo per ribattere al momento “grazieSignoregrazie” andato in onda nel corso della prima puntata: la famiglia Anania, la più numerosa d’Italia, durante l’ospitata ha ripetuto più volte i propri ringraziamenti al Signore, alla Provvidenza, a Cristo, e compagnia cantante.

Raimondo ha ripreso il tema in apertura di puntata: “Se il mondo sta morendo è per colpa della famiglia Anania. Alla famiglia Anania, ricordo che l’aborto è passato con il referendum. È evidente che a casa Anania non si pratichi il sesso anale”. Il conduttore, già noto per la sua rubrica all’interno de La gabbia di La7 e Satiriasi, sia live, sia in tv (Comedy Central, Sky).

Al suo fianco la brava Sabrina Nobile, che i più ricorderanno come iena, e nel cast anche Stefano Andreoli, fondatore di Spinoza insieme ad Alessandro Bonino, alle prese con la dimensione social. Lo studio è delizioso, gli ospiti tanti, anche se ce ne sono di più adatti a reggere il ritmo ironico della conduzione a due: Nek per esempio, lo è stato.

Alternanza di stand up, interviste, musica live: nel corso della prima puntata ci sono stati Giovanni Caccamo, delle Nuove Proposte, e Max Dedo (Dedo & The Megaphones).

Ma il #Dopfestival è anche Pre: sempre su www.sanremo.rai.it, un’anteprima streaming alle 20.20 con collegamenti live dall’ingresso dell’Ariston. Ospiti della seconda puntata saranno Arisa, il Volo, Bianca Atzei, Lorenzo Fragola, Marco Masini.

Sabato 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta per il popolo greco

Atene chiama. Si avvicina la manifestazione del 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta. Cioè a sostegno del popolo greco e del tentativo di Alexis Tsipras e del suo ministro Yanis Varoufakis di rompere la politica dell’austerity della Troika. Per la giornata di oggi – durante la quale si svolgerà a Bruxelles l’importante riunione dei ministri delle finanze dell’Eurozona (Eurogruppo) – presidi, dibattiti, conferenze stampa e volantinaggi a Milano, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Follonica, Pisa, La Spezia, Genova, Rimini, Trieste, Padova, Cuneo, Pordenone, Udine, Asti, Lucca, MacerataBologna, Pescara, Parma, Ferrara, Trieste, Mestre, Treviso, Reggio Emilia, Terni, Siena, Livorno, Rovigo, Bari, Firenze, Macerata, Perugia, Biella, Alessandria, Riva del Garda, Rovereto, Trento, Brescia, Ravenna, Ancona (ove alle 17.00 presso l’Anpi parleranno Luciana Castellina e Argiris Panagopulos ), Como. Domani 12 febbraio sarà la volta di Grosseto, Bergamo, Jesi, Passirano Franciacorta, Campobasso. Il 13 febbraio: Torino, Novara.

Il presidio di Roma è previsto oggi, 11 febbraio, dalle ore 18.30 in piazza Indipendenza nei pressi dell’Ambasciata tedesca. Da dove, alle ore 14, di sabato 14 febbraio partirà la manifestazione nazionale che si concluderà con diversi interventi al Colosseo.

Ci sarà una partecipazione attiva e numerosa dei Greci d’Italia alle mobilitazioni odierne. In particolare a Napoli interverrà il Presidente della Federazione delle Comunità e Confraternite Elleniche d’Italia Jannis Korinthios e il presidente della Società Fillellenica Italiana Marco Galdi.

Alla manifestazione di sabato 14 hanno aderito la Cgil, Flc Cgil, Fiom, Arci, Act, Rete della Conoscenza, Forum dei movimenti per l’acqua, Tilt. E come testate Il Manifesto e Left.

“Partecipo perché credo che un popolo debba sempre e comunque autodeterminarsi. Partecipo perché ho visto gli occhi disperati e affamati di chi non capisce le ragioni della propria sopravvenuta fame. Partecipo perché una cultura madre e sorella non debba essere immaginata povera, in nessun contesto e per nessuna ragione. Partecipo perché vinca la logica del sostenersi, e perché non è il mio continente questo luogo gretto ed egoista e vecchio e impotente che volta le spalle all’immensità della sua storia. Partecipo perché i debiti si pagano, ma i crediti si riscuotono senza voler vedere la fame dei debitori. Partecipo perché il forte non è mai forte se vuole vedere gli altri deboli e in ginocchio. Partecipo. E spero che si capisca che qualsiasi organismo corre alla velocità di cui è capace in ogni sua parte; altrimenti, tanto vale che sia fermo. Per sempre.”

Maurizio De Giovanni

 

“Il XXI secolo non è iniziato come ci aspettavamo. Basti pensare a come si è divaricata la forbice tra ricchi e poveri. Il patrimonio privato delle otto persone più ricche del mondo supera l’intero ammontare del debito greco. Un mondo in cui i privilegi di otto esseri umani pareggiano le sofferenze di un intero popolo ha qualcosa di mostruoso. Ancora più mostruoso che l’Europa (culla della democrazia e dei diritti civili) sia diventata in questi anni una fortezza gelida e amministrativa, un’espressione economica (finiti i tempi delle “espressioni geografiche”) che ha sempre meno a che spartire con le speranze del popolo che sta cessando sostanzialmente di rappresentare. Creare invece un”Europa dei popoli. Questo significa aderire alla manifestazione di sabato.”

Nicola Lagioia

 

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#ItaliaViva le proposte dei lettori dai territori

Su left in edicola due pagine dedicate alle proposte dei lettori dai territori. Segnalateci vertenze, iniziative, foto e soprattutto buone notizie alla mail [email protected] o sui canali social (Facebook, Twitter, Google Plus, Instagram) con l’hashtag #italiaviva.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/search?f=realtime&q=%23ItaliaViva” target=”on” ][/social_link] #ItaliaViva

Senza Pil non c’è ben-essere

Ilaria Bonaccorsi, nel numero precedente di Left, cita ampiamente una delle poche profezie errate di Keynes, quella contenuta in Prospettive economiche per i nostri nipoti. Secondo l’economista cantabrigense, il “problema economico” era in via di soluzione. Il futuro, non immediato, avrebbe riservato all’umanità molto benessere al prezzo di poco lavoro. Talmente poco che si sarebbe dovuto affrontare il problema psicologico dell’ozio. Tre ore al giorno, cinque giorni a settimana, sarebbero state, secondo Keynes, sufficienti a sedare la noia. Implicitamente, Keynes afferma che per gli scopi puramente economici sarebbero state persino troppe. Le cose purtroppo non sono andate così, e sul perché ci sarebbe molto da dire.

Le Prospettive sono la trascrizione di un discorso che Keynes pronunciò a Madrid nel 1930, all’inizio della Grande Depressione. In quell’anno Keynes è ancora convinto che si attraversasse una crisi passeggera: «Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro». Non era ancora maturata in lui la consapevolezza che ritroviamo invece nella Teoria Generale del 1936.

Nella sua opera maggiore, Keynes traccia un quadro molto più pessimistico del capitalismo moderno e della sua capacità di assicurare un duraturo benessere. Lo ritiene anzi incapace, da solo, di garantire non solo l’equa distribuzione dei redditi, ma anche i redditi stessi per una parte consistente della popolazione, quella che rimane disoccupata. Per correggere i difetti del capitalismo, spiega Keynes, è necessario che lo Stato intervenga attraverso una non piccola “socializzazione dell’investimento” e assicurare con vari mezzi l’equa distribuzione della ricchezza e dei redditi. In caso contrario, il rischio è quello di un prolungato stato di bassa attività e grande disoccupazione.

Nel 1940 Keynes diviene ancor più pessimista e ammette che la sua soluzione, l’intervento dello Stato nell’economia, incontra ostacoli politici quasi insormontabili, se non in casi eccezionali, come una guerra. Se non si abbandona il vecchio modo di pensare, le “prospettive economiche per i nostri nipoti” saranno quelle di una stagnazione secolare.

Keynes muore nel 1946, ma i 30 anni di Keynesismo successivi ci avevano regalato l’illusione di aver risolto non solo il “problema economico” (la sopravvivenza) ma persino quello macroeconomico (la disoccupazione ciclica). Se però oggi guardiamo la Grecia, i suoi malati senza cure, la povertà dilagante, ci rendiamo conto che il problema economico – la sopravvivenza stessa – è tutt’altro che risolto, per molti.

La Grecia ha visto calare il suo Prodotto Interno Lordo pro capite del 22% dall’inizio della crisi. È disoccupato un quarto della forza lavoro e il 60% dei giovani. L’Italia ha numeri un po’ meno drammatici, ma comunque pesantissimi. Certo, non siamo tornati al Medioevo e neppure alla povertà degli inizi dell’era del capitalismo industriale. Ma la vicenda europea ci dice esattamente che se il Pil – questo pur impreciso e parziale indicatore – non cresce o addirittura cala, è impossibile persino garantire il ben-essere raggiunto.

In fondo i 30 anni di Keynesismo cui accennavamo furono gli anni del tanto vituperato consumismo, alimentato soprattutto dai redditi e da una crescente eguaglianza sociale, com’era nei sogni di Keynes. Qualcuno potrebbe mai capirci se oggi dicessimo che quello non era ben-essere?

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Live tweet da Sanremo 2015 #DileSanremo

Live tweet da Sanremo 2015 di Diletta Parlangeli

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Sotto il logo niente

In principio ci fu la Dc. Tutto in Italia sembra avere inizio (e fine) nelle generose braccia della Balena bianca. «Esponente della Democrazia cristiana, è stato fondatore di alcuni (si noti) partiti d’ispirazione centrista»: così, l’incipit della pagina Wikipedia di Clemente Mastella. Fondatore e ispiratore di numerosi salti carpiati, al pluri ex ministro non si può dire che manchi l’inventiva. Ecco pronto dunque Popolari del sud, partorito a metà gennaio nel solco di una convinzione: «mai stare fermi». Europarlamentare dixit. Quinto partito in 20 anni, attualmente eletto con Forza Italia, Mastella rileva che «si avverte l’esigenza di un partito territoriale che dialoghi con la gente e che rappresenti un punto di riferimento certo nella crisi della politica».

Dev’essere effettivamente questo il bisogno che si avverte in Italia, se, a creare un partito, nell’ultimo mese ci hanno pensato in tre: oltre all’ex guardasigilli, l’imprenditore Diego Della Valle con Noi italiani e Corrado Passera che ha presentato il suo gioiello Italia unica il 31 gennaio all’Hotel Cavalieri Hilton di Roma.

Il patron della Tod’s ha registrato il marchio in gran segreto il 16 gennaio, e nonostante l’imperscrutabile scelta di strategia comunicativa, come ha scoperto l’Espresso, non si tratta di una nuova idea di azienda di cui proteggere il brand. Il suo prodotto manifatturiero del made in Italy questa volta è un soggetto politico pronto a “fare le scarpe” ai politici.

Non è da meno l’ex ministro del governo Monti, Passera, che sceglie un obiettivo di facile realizzazione e con uno slogan dal grande senso pratico: «La rivoluzione è possibile». Che non sia propriamente un’idea che nel nostro Paese trovi gran seguito, deve averlo presente anche il fondatore, e qualche dubbio sulla capacità (e intenzione) del popolo italico di smuovere il sistema deve nutrirlo, perché infatti punta tutto sulla comunicazione, come dimostrano convention, sito web e logo. Proprio quest’ultimo ha attirato la nostra attenzione, ma probabilmente non nella direzione sperata: i due uomini d’affari, nonostante ricoprano posizioni apicali, ci propongono simboli del tutto incomprensibili in quanto a semiotica. Scritta nera su sfondo giallo con bordino tricolore per l’imprenditore, e uno strano disegno – anche questo tricolore, sia mai il patriottismo venisse meno fra gli elementi di marketing – sotto scritta in raffinato grigio antracite (e non nera), per il banchiere.

«Il logo deve veicolare quello che sarà la sostanza. L’uomo d’affari lo deve sapere che il pacchetto non è il contenuto», spiega Giovanna Cosenza, docente di Semiotica all’Università di Bologna. Secondo la professoressa «la mediocrità accompagna la produzione comunicativa e politica ormai da diversi anni». Ma si badi bene, perché il limite è labile: «Operazioni troppo patinate, confezionate, artificiali, comunicano esattamente l’opposto, ovvero l’artificiosità del pacchetto che si sta proponendo. E questo va contro il bisogno di autenticità e immediatezza diffuso in questo momento». Soprattutto, va contro le dichiarazioni stesse dell’ex Ad di Banca Intesa, che invita a un ritorno alle origini della partecipazione politica, criticando aspramente il premier proprio sul fronte delle modalità comunicative: «Renzi viene da una buona scuola di potere e lo usa in modo spregiudicato. Il suo governo è affetto da annuncite grave».

Ma non sbaglia, perché è stato proprio il segretario del Pd a inaugurare l’impressione di una politica superficiale a causa delle sue dichiarazioni spot. Tuttavia, «di SpotPolitik hanno peccato tutti i partiti italiani con pochissime eccezioni», come descrive bene l’omonimo libro della Cosenza, SpotPolitik. Perché la casta non sa comunicare. Insomma, «una comunicazione troppo laccata non è una buona idea di questi tempi».

Meglio quindi il tentativo di Della Valle? Nemmeno per sogno: «Che dire, sembra fatta con photoshop da suo nipote», anche se forse, riflette Cosenza «la scelta graficamente rudimentale, l’estrema semplicità nella scelta di segni e colori, potrebbe essere stata fatta proprio per smarcarsi da aspettative di esagerata chiccheria». Uno stratagemma costruito appositamente per distogliere l’attenzione dal legame con il bisogno estetico che si potrebbe attribuire alla figura di Della Valle. Come a voler veicolare il messaggio: “Io vado ai contenuti”. «Il primo in questo senso fu proprio Berlusconi: i primi manifesti di Forza Italia erano manifesti in stile praticamente anni 80, con una matita che segnava una croce sul simbolo e basta. Proprio in antitesi alla campagna ricca d’immagini di Walter Veltroni».

E che dire del tema italico ridondante, nei nomi e nei colori? «Tutti si vogliono appropriare dell’Italia, e questo passa dai loghi che diventano immediatamente un simbolo». Difficile da decifrare, ma comunque un simbolo. Sarà un caso, ma il fu Cavaliere fu anche il primo a utilizzare, appropriandosene con il disappunto della tifoseria della Nazionale, la parola “Italia” nel nome del partito. Mentre a utilizzare il Tricolore, il primo fu proprio il Pd nel 2008, il cui logo incontrò aspre critiche di grafici, comunicatori e immancabilmente elettori. «Eppure, si noti: il simbolo è come un nome proprio di persona: anche se non ti piace, alla fine ti ci affezioni e nessuno ci fa più caso».

Resta il fatto che una comunicazione troppo curata, suggerisce il dubbio che sia pensata per supplire a una povertà contenutistica. Vero o no che sia, non è certo una buona trovata. «Il bravo venditore, è quello che non sembra un venditore», prosegue la coordinatrice del corso di Laurea in Scienze della comunicazione: «l’ostentazione, l’esagerazione, porta l’ombra del venditore, proprio com’è stato per Renzi all’inizio».

Ma non si creda: Passera e passerotti ci tengono a precisare che «non è solo una questione di stile», la fondazione di un nuovo soggetto politico. Credevamo, invece no: «L’Italia unica che vogliamo va costruita insieme»». Dev’essere per questo che il disegnino scelto è in realtà un gravatar, ovvero un’immagine composta graficamente da un algoritmo: «È un cosiddetto logo dinamico regolato da un algoritmo che permette di generare milioni di variazioni, in modo che ciascuno possa avere il suo logo personale, unico e irripetibile (come fosse una specie di codice genetico visuale). Milioni di loghi con una stessa identità e allo stesso tempo tutti diversi, così come lo sono milioni di Italiani (la maiuscola è un’altra scelta comunicativa del sito, ndr)».

Lo stesso concetto alla base dell’operazione “… è Bologna”, il logo “autogenerante” che il Comune di Bologna scelse dopo un concorso di idee, raccogliendo molte reazioni, soprattutto ilari, in tutta la città che però partecipò attivamente, sbizzarrendosi. Ma: «Un city brand è più complesso di uno di tipo partitico, e concede più possibilità», prosegue la docente. «In quel caso, fu un’operazione più raffinata. Tanto che», ammette, «non si è ancora riusciti a utilizzarlo per bene». Cosa che suggerirebbe la non perfetta riuscita del progetto.

Gravatar o non gravatar, quello che è certo è il carattere effimero della trovata dell’agenzia di comunicazione dell’ex ministro: «Nel caso di Italia unica, l’unico giochetto che puoi fare con un logo dinamico, è l’identificazione di ciascuno di noi: un’idea carina, ma resta un giochetto e agli elettori appare così. Non ti senti parte del partito solo perché scrivi il tuo nome con un algoritmo». Sul sito scintillante si legge: «Il simbolo di Italia unica nasce dall’idea di dare in modo innovativo e diverso un’identità grafica a un movimento politico che dell’unicità nella pluralità vuole fare la sua bandiera». Prego? Ce lo spiegano: «Il logo è composto da 20 elementi geometrici, come 20 sono le regioni che compongono l’Italia. Simbolizza un nuovo modo di far comunità, di star insieme, di esprimere connettività; è la visualizzazione di un movimento in continuo movimento, e di una società che non è mai uguale a sé stessa ma si rinnova continuamente». Perfetto. Utile e immediato, insomma.

E se una volta quell’unicità tutta italiana era racchiusa nel genio di designer e pubblicitari, da Depero a Munari, oggi, per sperare nel successo e dipingersi come nuovi nuovissimi agli occhi della gente, si punta (tutto) su una forma alchemica comunicativamente stanca, preferendo un algoritmo da Silicon Valley, certa quintessenza del Futuro, alla creatività sartoriale del Bel Paese ormai satura di slogan dalle belle speranze. Forse meno di contenuti.

Il patron della Fiorentina invece, pur rientrando nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, si direbbe non aver sguinzagliato (così ci auguriamo per lui almeno) fior fior di risorse economiche per creare il simbolo del suo partito. L’istitutore del fondo “Charme”, pare aver perso qualche colpo in fatto di gusti. Anche se, a giudicare dal successo che ancora riescono a ottenere le sue Hogan, discutibili coturni che spopolano nonostante i dubbi sul loro aspetto, potrebbe davvero trattarsi di una mossa vincente all’insegna del “brutto che piace”.

A primeggiare però, in fatto di fantasia acrobatica e strategia grafica, è proprio il popolare: Mastella, per non lasciare adito a dubbi, ha semplicemente rimpastato il logo dell’Udeur pregando i grafici di cambiare almeno la scritta. Cambiarla sì, ma si frenino gli entusiasmi: era il 18 luglio 2010 quando accompagnato dalla moglie Sandra Lonardo annunciava di voler «riportare alla ribalta nazionale il Sud» grazie al nuovo (sic!) partito, per l’appunto Popolari per il Sud. Dal “per” al “del” sono cambiamenti radicali, quelli che si nascondono dietro a una preposizione.

Quando si dice che la comunicazione è tutto.

Come se dio non ci fosse. Parola di Enrico Rusconi

La salita al Quirinale di Sergio Mattarella, cresciuto nell’Azione cattolica, esponente di spicco della Democrazia cristiana, potrebbe apparire come uno degli ultimi tasselli di un quadro inequivocabile: l’Italia è sempre meno un Paese laico. Tra l’esaltazione di papa Francesco, la scomparsa dalla scena politica degli ex comunisti e i privilegi della Chiesa che invece rimangono ben saldi, adesso arriva dal passato addirittura un seguace di Aldo Moro. Cosa vogliamo di più?

Gian Enrico Rusconi, politologo, fine studioso di religioni e secolarismo e cultore della laicità, non è eccessivamente preoccupato. «Sicuramente fa una certa impressione, soprattutto per il modo imbarazzato con cui i media hanno costruito l’agiografia dell’uomo: si ha come la sensazione che rimanga sempre tutto uguale», afferma il professore emerito di Scienze politiche. Che aggiunge: «Per dare una risposta su Mattarella presidente dobbiamo aspettare; dobbiamo capire se reagirà nel caso questo governo osi toccare dei punti delicati – coppie di fatto, omosessualità – su cui lo stesso Renzi elude molto. Con la scusa del Jobs act e delle riforme, il presidente del Consiglio su questi temi non ha aperto bocca», sottolinea il professor Rusconi.

L’allarme per la laicità quindi lo vede coinvolto ma fino ad un certo punto. Intanto perché per lui laicità ha un significato che va oltre quello che in genere si intende in Italia. «Fino a oggi  – spiega – la laicità si è trovata schierata a combattere questioni – certo sacrosante – di etica personale come se ormai si fosse ridotta al riconoscimento dei diritti delle persone». Che ruotano, continua il professore, attorno al medesimo, atavico, problema: il sesso e la famiglia, la famiglia e il sesso, un’ossessione per la Chiesa cattolica. È chiaro, i problemi della soggettività non devono essere abbandonati, si può scendere anche in piazza per difenderli, continua il professore, ma occorre affrontare i problemi di fondo.

Quale dovrebbe essere quindi il vero senso della laicità? «La laicità dovrebbe essere un discorso di fondo sull’uomo, sull’universo, una sorta di filosofia, di idea del mondo e dell’uomo. Non dovrebbe combattere su ciò che è una risposta arretrata ad una fede arretrata», risponde Gian Enrico Rusconi. Queste battaglie, precisa lo studioso torinese, accadono da noi, non in Paesi come l’Inghilterra o la Germania dove la pluralità delle confessioni religiose ha fatto superare tanti equivoci.

Una volta però risolti i problemi legati ai diritti civili e al nodo della sessualità, chissà che non si apra una nuova stagione. «La laicità nel nostro Paese era una specie di subordinata del pensiero liberale, socialista e democratico di sinistra. Adesso deve diventare il pensiero tout court, la spina dorsale di un nuovo discorso.

L’intervista integrale su left in edicola da sabato 7 febbraio 2015