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Sanità pubblica addio, con i feudi regionali

Il report della Fondazione Gimbe e l’appello di alcuni scienziati recentemente pubblicati offrono una visione molto negativa sullo stato del nostro Ssn che peggiorerà ulteriormente con l’approvazione – mentre andiamo in stampa è previsto il 29 aprile l’arrivo alla Camera – del Ddl Calderoli e delle intese regionali, condotte dal presidente del Consiglio, che rimetteranno alle regioni le competenze oggi dello Stato, tra cui la sanità, in parte già trasferita. L’autonomia potrà essere richiesta su tutte le 23 materie attualmente nella competenza totale o parziale dello Stato: se tale possibilità diventasse realtà, la Repubblica non esisterebbe più e lo Stato diventerebbe insignificante. Scelte così importanti, peraltro, si stanno compiendo senza rispetto alcuno della democrazia e della Costituzione. Negli ultimi mesi siamo stati intrattenuti dalla questione dei Lep, cioè i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale. Queste competenze, sostanziali per il benessere e il mantenimento della salute delle comunità, erano state già inserite nel nuovo Titolo V del 2001, ma in oltre 20 anni, non sono mai state individuate. I lavori sono in corso ma è presumibile che i Lep non vengano né individuati né applicati se non a livello minimo perché è stato ripetutamente escluso che possano essere mobilitate risorse per il loro finanziamento. Anche per i Livelli essenziali di assistenza (Lea), che esistono fin dal 2001 non furono mai introdotti specifici finanziamenti. Anzi, proprio il mancato finanziamento dei Lea per i territori in difficoltà ha contribuito all’ulteriore e progressivo impoverimento delle regioni del Sud, già penalizzate dalla ripartizione del fondo sanitario nazionale (Fsn) tra le Regioni sulla base della popolazione residente, solo in parte “pesata” per l’età, e non sulla base del reale fabbisogno.
Ciò è d’altronde in linea con quanto ripetuto nel Ddl Calderoli, e altrove, secondo cui l’Autonomia differenziata (Ad) e le singole intese non dovranno comportare costi per lo Stato, anzi, il ministero dell’Economia vigilerà che non vi siano finanziamenti per eventuali prestazioni aggiuntive necessarie a raggiungere i Lep.

Ripartiamo da Peppino Impastato

La polemica sull’intitolazione del liceo “Santi Savarino” di Partinico a Felicia e Peppino Impastato (che fu assassinato dalla mafia il 9 maggio 1978) ha sollevato un polverone che va oltre il dibattito su mafia e antimafia. La vicenda di Partinico – il parere contrario della giunta comunale al nuovo nome – non è un fatto di provincia, ma parte di una sfida culturale più ampia che si sta giocando in tutta Italia: è il tentativo di cancellare l’eredità di figure ed esperienze legate all’attivismo civile frontale, alla democrazia partecipata, e di evitare che queste storie possano diventare fonte di ispirazione per le future generazioni. La lotta per l’identità culturale di Partinico è, in ultima analisi, una lotta per l’identità di tutto il Paese perché, dopo la vittoria alle urne e dopo il maldestro tentativo di imporre un’egemonia culturale di destra, politicizzando qualche trasmissione di varietà e qualche fiction Rai e imponendo alla ribalta cantanti e presentatori compiacenti, adesso si sta provando a cancellare anche i simboli di un’eredità culturale di contestazione e insubordinazione.

Ma veniamo ai fatti: il 6 giugno 2022 il liceo di Partinico decide di cambiare il proprio nome, in considerazione del fatto che il giornalista al quale è intitolato, Santi Savarino, aveva sottoscritto durante il fascismo il Manifesto della razza e aveva avuto una corrispondenza con Frank Coppola, noto mafioso e figura chiave nel traffico internazionale di eroina. Seguendo la procedura prevista per la modifica del nome di una scuola, dopo le delibere del collegio dei docenti e del Consiglio di istituto, è toccato alla prefettura e al comune di Partinico fornire il loro parere. Il parere favorevole delle tre commissarie, che in quel periodo amministravano il comune sciolto per mafia, rimane sei mesi nei cassetti.

Mimmo Lucano: «Porterò in Europa l’utopia concreta di Riace»

Ci sono persone a cui la storia consegna un fardello da portare con rigore.
Che sia per ingenuità o caparbietà, che sia per coraggio o per ostinazione, queste persone non si fermano, non riposano, non poggiano a terra il peso di una battaglia per dire: basta, non posso più.
A Roma diremmo che “chi nasce tondo, non muore quadrato” e per quanto la vita sia un infinito rincorrere la dimostrazione che invece non sia così, che tutti noi cambiamo continuamente scossi dagli eventi e dagli incontri, questa piccola massima popolare per alcuni diventa un vestito magnifico e terribile, che non si può riporre. Ci sono, queste persone. Molte rimangono nell’anonimato, tante, proprio per questa straordinaria condotta, diventano icone, senza desiderarlo.
Mimì Lucano è una di queste.

Torniamo sulla vicenda di Domenico Lucano a distanza di qualche mese. Left non ha mai fatto mancare la sua attenzione alla battaglia di giustizia di questo combattente per l’accoglienza e la libertà ma nel preparare questo nuovo appuntamento con Mimmo, una notizia importante ha trasformato in verità giudiziaria una consapevolezza che non ha mai lasciato l’opinione pubblica del nostro Paese. Tra colloqui telefonici notturni, e incontri assolati tra Riace e Roma, abbiamo ripercorso insieme a Mimì la sua storia. Non un semplice esercizio di verità bensì ripartiamo da oggi. Da un tempo di guerra e da una sentenza d’assoluzione (il 12 aprile sono state pubblicate le motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria ndr) che finalmente mette nero su bianco la violenza di un impianto accusatorio originario, quello del processo Xenia del Tribunale di Locri, che è poco dire vessatorio.

«Voglio cominciare da una delle ultime iniziative a cui ho partecipato a San Giovanni in Fiore, il paese di Mario Oliverio, ex presidente della Regione Calabria. La persecuzione giudiziaria che ha subito Oliverio ha tanti tratti in comune con la vicenda giudiziaria che ho attraversato negli ultimi anni ma non li affronterò ora, si possono ritrovare nel libro di Adriana Toman Pregiudizio di Stato (Città del sole edizioni). Quello che voglio dire è che abbiamo subito assieme a Mario una persecuzione che non era personale, ma politica, perché in Calabria nulla doveva cambiare, né dall’alto, né dal basso. L’attacco che ho subito sta tutto qua.

Luigi Ferrajoli: La legge dell’ospite per accogliere i migranti

Immaginiamo un luogo dove gli stranieri che migrano dai loro Paesi a causa di guerre, carestie, persecuzioni politiche, disastri climatici, vengono accolti senza problemi. Immaginiamo anche che il loro arrivo generi un miglioramento del luogo stesso e delle condizioni di vita dei suoi abitanti. È «una concretissima utopia», basata su uno scambio tra pari, senza fini utilitaristici, nel nome della dignità delle persone, scrivono i promotori del movimento che sostiene la legge dell’ospite Xenia. Già il nome è un ribaltamento del senso comune. Xenia era infatti la parola usata per imbastire il processo a Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace (vedi intervista di Lucano su questo numero), un impianto accusatorio poi crollato perché basato su argomenti inconsistenti, come dimostrano le recenti motivazioni della sentenza.

Ed è proprio Riace il punto di partenza dell’idea della proposta di legge di iniziativa popolare promossa da Natura comune, associazione nata a Ventotene nel 2022 da un gruppo di giovani impegnati nell’arte, nell’insegnamento, nell’impegno politico e civico. Il percorso per arrivare alla stesura degli articoli di legge è frutto di un processo deliberativo dal basso. La piattaforma partecipativa Reprezentu, vuole essere, dicono i promotori di Natura comune, «un legislatore collettivo». Dopo assemblee, incontri con esperti sui temi specifici, un tavolo tecnico – in fase di costituzione – di giuristi, sociologi ed economisti scriverà il testo di legge. È dal 6 maggio 2023 che questo processo è iniziato, coinvolgendo vari studiosi, tra cui Luigi Manconi, Gianfranco Schiavone, tra i fondatori del sistema Sprar, la giurista Isabela Atanasiu, lo stesso Mimmo Lucano e Luigi Ferrajoli che è stato invitato a scrivere il Preambolo della proposta di legge.

Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto Unversità Roma Tre

Giurista e filosofo del diritto, Ferrajoli ha sempre affrontato il tema dei diritti delle persone che migrano con un pensiero potente e originale, a partire dal concetto di «popolo migrante come soggetto costituente di un nuovo ordine mondiale». Alle elaborazioni degli ultimi anni, in reazione ai fenomeni politici, sociali e climatici che affliggono il mondo, Ferrajoli ha aggiunto l’opera che forse riassume il senso della sua ricerca: Per una Costituzione della terra (Feltrinelli, 2022) in cui sono contenuti gli articoli di una Carta mondiale che già «viaggiano per il mondo».

Professor Ferrajoli, com’è nata l’idea della legge di iniziativa popolare Xenia?
È nata dall’esperienza di Riace, che ha mostrato che è possibile un’alternativa alle politiche e alle pratiche disumane – e a mio parere illegittime – di respingimento, di omissione di soccorso e di reclusione dei migranti.

Cittadini del mondo

Nel lungo periodo delle migrazioni umane del Paleolitico e di quelle dei sapiens prima del Neolitico si tende spesso a considerare sempre “nomade” la vita dei raccoglitori cacciatori; poi vi sarebbe la progressiva novità della stanzialità, con una presenza sempre più decrescente di residui di nomadismo (in termini quantitativi assoluti relativi alla sola popolazione non stanziale e molto anche in termini percentuali rispetto alla popolazione umana).
Oggi un approfondito bel testo suggerisce che il nostro futuro dovrà essere molto più nomade che negli ultimi diecimila anni. Certamente stiamo vivendo e vivremo in un secolo di migrazioni di massa, come si legge nel libro di Gaia Vince, Il secolo nomade. Come sopravvivere al disastro climatico (traduzione di Giuliana Olivero, Bollati Boringhieri).
Nel Sud del mondo e in molte zone costiere, i cambiamenti climatici estremi stanno spingendo e spingeranno un gran numero di sapiens ad abbandonare le proprie case, a trasferirsi per sopravvivere, con vaste regioni che diventeranno inabitabili.

La previsione realistica è che alla fine del secolo saranno complessivamente circa 3,5 miliardi i migranti. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni delle Nazioni Unite (Iom) stima che già nei prossimi trent’anni potrebbero esserci fino a 1,5 miliardi solo di profughi o migranti climatici. Tutti noi, o saremo tra di loro o tra coloro che li dovranno accogliere. In larga parte del Nord del pianeta, dove il clima è da millenni più confortevole, le economie faticheranno a sopravvivere ai cambiamenti demografici, con una forte carenza di forza lavoro e una popolazione anziana impoverita. Questa migrazione imponente e diversificata è già iniziata, non pianificata e male organizzata: gli spostamenti dovuti al clima si aggiungono alla massiccia migrazione in atto, in tutto il mondo, verso le città. Il nostro sarà il secolo di un movimento umano senza precedenti, almeno per entità assoluta degli umani coinvolti e per distanze complessivamente percorse da tanti nel corso di una sola esistenza. Non è una sfida che si possa affrontare a livello individuale: rischiamo crescenti miseria, guerre, morti. Mentre ripristiniamo l’abitabilità del pianeta, dobbiamo pensare adesso a dove poter rilocalizzare in modo sostenibile questi miliardi di persone, il che richiede un’azione concertata di diplomazia internazionale, negoziati sui confini e adattamento delle città esistenti. Forse è venuto il momento di maturare una certa mentalità geopolitica e superare l’idea che apparteniamo a un particolare territorio e che esso ci appartenga e ci identifichi. D’altra parte, sono le ingenti migrazioni antiche che ci hanno reso ciò che siamo, ovvero scimmie sociali e tecnologiche, ci siamo evoluti cooperando e migrando.

Riscopriamo quel mare di popoli e culture

Un giorno Europa, bellissima principessa fenicia, coglieva fiori lungo la spiaggia di Tiro, città sulla costa asiatica del Mediterraneo, quando vide un maestoso toro bianco, sotto le cui fattezze si celava Zeus. Era così bello che, affascinata, gli si avvicinò e poi gli montò in groppa. Quello, racconta in una delle sue più celebri Metamorfosi il poeta latino Ovidio, prese il mare e a nuoto la trasportò fino a Gortyna nell’isola di Creta dove, rivelatosi in forma di aquila, l’amò sotto un’antica quercia. Da quell’unione nacque Minosse, il futuro re di Cnosso.

Il fratello di lei Cadmo, stabilitosi nella Beozia, fondò la città di Tebe e introdusse in Grecia le lettere dell’alfabeto che, poiché le avevano inventate i Fenici, come scrive Erodoto furono chiamate “fenicie”: un’innovazione rivoluzionaria, che determinò una svolta storica della cultura, sottraendo il monopolio della scrittura alle potenti caste degli scribi. Fenice, altro fratello di Europa, partito alla sua ricerca si fermò infine sul fiorente promontorio della sponda africana del Mediterraneo proteso verso la penisola italiana. Là fondò Cartagine, dando il suo nome a quelli che nella storiografia romana ebbero il nome di Punici. I fenicio-punici, audaci navigatori che osavano spingersi fuori dalle Colonne d’Ercole e fino alle isole britanniche in cerca del prezioso stagno, che legato al rame dava il bronzo, a loro volta avevano costellato quel mare interno di numerosi insediamenti. Tra i più importanti Leptis sulla costa libica, Palermo, Mozia e Trapani nella Sicilia nord-occidentale, e in Sardegna Nora, Cagliari, Tharros: empori che mantennero a lungo l’iniziale vocazione commerciale. E che lasciarono su quei territori impronte dell’antichissima cultura mediorientale delle origini, su cui solo tardivamente l’archeologia ufficiale puntò i propri sguardi rapaci.

L’espansione greca ad Occidente ebbe inizio solo più tardi, alla metà dell’VIII secolo a.C., concentrandosi nella Sicilia sud-orientale con città prosperose come Selinunte, Agrigento, Siracusa, Taormina, Messina, e sulle fertili coste sud-occidentali della nostra penisola con Taranto, Locri, Crotone, Reggio, Napoli: una vasta regione agricola che allora dovette apparire ai Greci come il Far West, e fu detta Magna Grecia. Una terra piena di promesse, come da fine Ottocento furono le Americhe per i migranti dall’Europa. Si trattò infatti di una vera e propria colonizzazione a carattere stanziale: quando le città elleniche erano in crisi di sovraffollamento, la madrepatria provvedeva a fornire imbarcazioni e mezzi per nuclei di migranti che andavano a cercare fortuna verso terre nuove, pur mantenendo sempre un forte rapporto con le città d’origine.

I diritti conquistati dai migranti. Per tutti

L’evoluzione dell’immigrazione straniera in Italia nel corso degli ultimi 40 anni è stata accompagnata in modo intenso dal protagonismo dei movimenti sociali. Associazioni, sindacati, partiti politici, centri sociali hanno supportato in maniera costante il mondo dell’immigrazione. Può essere utile oggi tornare a mettere in fila alcune battaglie vinte, combattute da soggetti diversi e spesso molto eterogenei, che hanno saputo allargare le maglie della legislazione, hanno costruito convergenze che hanno permesso di ridurre e superare le frequenti strette repressive e hanno mostrato nel corso del tempo la possibilità di mettere all’angolo le pulsioni più razziste della società e delle classi dirigenti.

1986: la parità di trattamento
La prima legge sull’immigrazione, denominata Legge Foschi, risale al 1986. Si limita a governare soprattutto l’inserimento dei cittadini stranieri nel mercato del lavoro, tenendo fuori importanti tematiche quali il diritto d’asilo. La legge viene approvata sulla base di una spinta sociale molto forte, proveniente soprattutto dal sindacato. Alla metà degli anni 80 l’immigrazione iniziava a rappresentare una componente piuttosto diffusa nell’economia italiana, soprattutto in alcuni settori quali il lavoro domestico, l’agricoltura, la pesca. L’unico strumento che ne definiva le modalità di reclutamento e inserimento professionale era tuttavia una datatissima circolare del Ministero del lavoro, risalente al 1963: abusi, soprusi, sfruttamento erano quindi dilaganti. Il principio della parità di trattamento tra lavoratori italiani e lavoratori stranieri rappresentò la base per le denunce e le proteste di quella fase e venne riconosciuto finalmente insieme al principio della “piena uguaglianza” all’articolo 1 della legge.

1990: l’abolizione della riserva geografica per il diritto di asilo
Nell’agosto 1989 Jerry Masslo, cittadino sudafricano immigrato in Italia l’anno precedente, viene ucciso a Villa Literno, dove lavorava come bracciante, nell’ambito di una rapina a sfondo razzista. Pur provenendo dal Sudafrica dell’apartheid, Masslo non aveva potuto accedere alla tutela del diritto di asilo, che ancora era legata alla riserva geografica e pertanto limitata soltanto a coloro che fuggivano dai Paesi dell’Europa dell’est. La sua morte provoca un ciclo lungo e duraturo di mobilitazione antirazzista, a seguito del quale nel 1990 viene approvata la legge Martelli. L’articolo 1 dichiara la fine della “riserva geografica” e per la prima volta apre le porte a una tutela più ampia del diritto di asilo, che viene riconosciuto caso per caso indipendentemente dal continente di provenienza dei richiedenti. Immigrati, solidali, antirazzisti conquistano una vittoria importante, destinata a cambiare in profondità la storia dell’immigrazione in Italia.

Frontex ai confini della legge

Sta per concludersi la nona legislatura del Parlamento europeo che si accinge a inserirsi a pieno titolo nella lista di quelle che hanno attraversato alcuni degli anni più importanti e decisivi della storia dell’Unione europea e del continente europeo. Quando andammo alle urne l’ultima volta lo scorso 26 maggio 2019, durante il così detto governo Conte I, assistevamo all’exploit della Lega che otteneva il 34 per cento dei voti nazionali e sperava, con l’opinabile mossa di presentare in agosto una mozione di sfiducia nei confronti del proprio esecutivo, di giungere ad elezioni anticipate che le permettessero di concretizzare il consenso popolare.
Il contesto politico di cinque anni dopo è molto diverso, così come lo è la realtà sociale, politica ed economica che abbiamo intorno dato che al tempo di quelle elezioni, almeno in questa parte del mondo, sapevamo poco di pandemie, ritenevamo inimmaginabile lo scoppio di una guerra così vicina alle nostre vite e al nostro sguardo e si pensava lontano lo spettro dell’inflazione.

Con l’attuale legislatura europea, presieduta prima dall’italiano David Sassoli (Pse), scomparso prematuramente nel gennaio del 2022, e ora dalla maltese Roberta Metsola (Ppe), volge al termine anche l’esecutivo della presidente tedesca Ursula von der Leyen che ha dovuto condurre l’Unione europea attraverso le sfide presentatesi in questi cinque anni e che, con le scelte politiche effettuate e la contingenza delle problematiche, ha inequivocabilmente impresso una direzione precisa al percorso dell’Unione del futuro. Le sfide che si pensava la legislatura e l’esecutivo uscenti avrebbero ereditato erano il crescente populismo alimentato da alcuni partiti nazionali, il sentimento euroscettico rinforzato dalla Brexit, la crescita economica, il rafforzamento identitario dell’Unione europea agli occhi dei suoi cittadini e il cambiamento climatico.

C’era una volta il diritto d’asilo

Il ministro dell’Interno Piantedosi, a proposito del Patto europeo Migrazione e asilo, dopo l’accordo di premessa di Consiglio e Parlamento, il 20 dicembre scorso, aveva ringraziato con entusiasmo chi aveva contribuito a «superare il regolamento di Dublino per gestire in una forma veramente solidale la sfida delle migrazioni». In realtà, il testo approvato il 10 aprile non toccherà il regolamento Dublino e lascerà alla “buona volontà” degli Stati ogni approccio solidale. Più si prova a decriptare il testo approvato più lo si trova opaco, anche se una cosa è chiara. Dopo il lungo braccio di ferro, iniziato con la proposta in Commissione europea del 23 settembre 2020 non avranno benefici né le persone accolte né, tanto meno, i Paesi più esposti agli arrivi. Occorreranno comunque due anni per la piena attuazione del Patto e nel secondo semestre 2024 a presiedere l’Unione andrà Orbán, uno dei principali oppositori del Patto. La Commissione, in collaborazione con le agenzie competenti dell’Ue e dei suoi Stati membri, dovrà preparare un piano di attuazione per garantirne l’adeguamento comune. Il testo avrà sì valore dal giugno 2024 ma i necessari piani dei singoli Stati giungeranno sei mesi dopo l’entrata in vigore dei cinque regolamenti su cui il Patto si fonda.

Il primo riguarda norme per uniformare l’identificazione, nel momento dell’arrivo, di chi proviene da Paesi terzi, in nome della sicurezza all’interno dello spazio Schengen. Il secondo regolamento riguarda “Eurodac” (il database europeo delle impronte digitali) che oggi è incompleto e che servirà ad una banca dati comune e aggiornata per individuare e fermare i “movimenti non autorizzati” all’interno dell’Unione. Il terzo regolamento è quello sulle procedure di asilo per rendere più rapido il rimpatrio alla frontiera di chi risulta non aver diritto alla protezione. In Italia si sta già provando ad attuarlo e prevede che per chi giunge da Paesi ritenuti sicuri (casi in cui l’80% delle domande sono respinte), si possa usare la procedura accelerata: respingimenti in 28 giorni, salvo casi particolari. Il quarto regolamento prevede meccanismi di riequilibrio solidale fra gli Stati membri, per ovviare al fatto che le richieste di asilo sono concentrate in pochi Paesi fra cui l’Italia. Potenziare i ricollocamenti di chi ha diritto a protezione, ma senza poterli renderli realmente obbligatori è inefficace. Ci si potrà sottrarre infatti alla richiesta di accoglienza versando 20mila euro per ogni profugo non accolto, ma non si prevedono procedure di infrazione per il Paese che si oppone al ricollocamento e neanche per quello che non versa la quota richiesta.

Maurizio Ambrosini: La libertà di movimento è un diritto e la soluzione

L’emigrazione è un fattore evolutivo fin dai tempi di Homo sapiens (come scrivono Pievani e Calzolaio in Libertà di migrare, Einaudi). Si migra non solo per bisogno, ma anche per desiderio di incontro, di conoscenza, per ricerca. Sono molteplici i motivi che spingono a emigrare. Ma la narrazione che se ne fa è sempre è solo come pericolo, problema sociale ecc. Con i suoi libri il sociologo Maurizio Ambrosini ha lavorato alla decostruzione di questi stereotipi. Siamo tornati ora a chiedergli di aiutarci a leggere il presente, mentre l’Europa e l’Italia governata dalle destre alzano nuovi muri ed esternalizzano le frontiere negando i diritti umani.

Maurizio Ambrosini

Nel libro Stato d’assedio, come la paura dei rifugiati ci sta rendendo peggiori (Egea) lei scrive che troppo spesso gli immigrati, quando non apertamente respinti sono visti con la lente del pregiudizio e vittimizzati. In questo modo si nega la loro possibilità di iniziativa, la loro capacità di creare e realizzare progetti. Professsor Ambrosini così si inchiodano le persone a una posizione passiva?
È ciò che accade con le attuali politiche di accoglienza dei rifugiati. Il collo di bottiglia attraverso cui passa l’accoglienza è la vittimizzazione, portata alle estreme conseguenze. Pensiamo per esempio agli accordi di Dublino che obbligano i migranti a rimanere nel primo Paese di arrivo: si nega alle persone il potere di scegliere, si nega che possano avere delle aspirazioni, contatti, conoscenze in altri Paesi. Perché contrastare la loro percezione giusta che ci siano luoghi dove potrebbero avere maggiori opportunità? La stessa redistribuzione in questo non convince come strategia. Che senso ha mandare in Romania dei rifugiati che arrivano dal Senegal e obbligarli a stare lì? Al primo momento utile cercheranno di andare in luoghi dove possono avere una vita migliore.

L’Europa, quando vuole, è capace anche di politiche più avanzate, come quelle attuate per i profughi ucraini?
A loro l’Europa ha dato la possibilità di muoversi liberamente con l’applicazione nel 2022 della direttiva del 2001che era sempre rimasta inapplicata. Ciò che notiamo è un doppio standard: 170mila ucraini sono stati giustamente accolti, i 100mila sbarcati dal sud del mondo nel 2022 e i 157mila nel 2023, non hanno avuto la stessa accoglienza.