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La fiducia nello sconosciuto

I dati sulla natalità italiana ed europea sono ormai gli stessi da tanti anni. La popolazione è in netta decrescita, si fanno meno figli e di conseguenza diminuiscono gli “italiani”. È una tendenza che va avanti da tanti anni. Anche se apparentemente la riduzione della popolazione sembra poca cosa in realtà la riduzione percentuale nella fascia di giovani è più alta. Per recuperare la “popolazione persa” sarebbe quindi necessario che le donne in età fertile si dedicassero sostanzialmente solo a fare figli, cosa evidentemente impensabile e irrealizzabile.

Problemi analoghi affliggono la gran parte dei Paesi europei con l’Italia penultima superata solo dal Portogallo come decrescita demografica. Ma lo stesso problema lo troviamo negli Stati Uniti, in Cina, in Russia e più in generale in tutte le economie avanzate. I governi si trovano di fronte al problema che il tempo necessario per recuperare la popolazione mancante è lunghissimo, parliamo di decenni, sempre che le politiche di incentivazione a fare figli funzionino, cosa niente affatto scontata. Ma perché sarebbe necessario opporsi al calo demografico? La risposta degli esperti è la necessità di avere più persone in età lavorativa. Uno scopo materiale, di sussistenza economica e anche sociale visto che sono le tasse sul lavoro che pagano il welfare, le pensioni ma anche la sanità, il sistema di assistenza sociale sul territorio e tutto ciò che riguarda i bambini e i ragazzi, cioè la scuola e poi l’Università. La soluzione proposta è chiedere alle donne di fare più figli. Gli si chiede di tornare indietro nel tempo, di rinunciare, per lo meno in parte, ad una vita che sia anche di realizzazione personale per dedicarsi ad essere produttrici di figli. Quando ormai è chiaro a chiunque che l’immigrazione è la vera soluzione al problema con tempi di realizzazioni molto più brevi. Anche perché, per lo meno in Europa, c’è una fortissima “offerta” di immigrazione e c’è una enorme “domanda” di immigrati nell’economia. Perché allora non la si favorisce? Perché non si pensa a rendere possibile l’arrivo di coloro che vogliono costruire la loro vita in Italia e in Europa e invece si cerca solo di ostacolare violentemente queste aspirazioni, provocando tragedie quotidiane?

L’Homo sapiens è comparso nell’Africa orientale circa 300mila anni fa e poi, circa 70mila anni fa ha iniziato a spostarsi e ha “colonizzato” il mondo intero. In questa migrazione originaria durata decine di migliaia di anni, la selezione naturale darwiniana conseguenza dell’adattamento ai diversi ambienti naturali, ha determinato una variabilità grandissima dei tratti somatici: il colore della pelle, degli occhi, l’altezza, la forma del viso e degli occhi, il colore dei capelli, la muscolatura. Le generazioni si sono susseguite e insieme all’adattamento dei caratteri somatici si sono sviluppate lingue e culture diverse, sono state inventate religioni e sono state inventate storie di origine diverse tra loro. I diversi gruppi di homo sapiens, nel corso di decine di migliaia di anni, hanno dimenticato la loro origine comune. E probabilmente hanno iniziato a pensare di non essere più tutti uguali.
La storia è costellata di azioni e pensieri che sostengono la superiorità di una determinata etnia rispetto ad un’altra, pur essendo la diversità soltanto l’esito di selezione naturale ed evoluzione culturale.

Una quantità incommensurabile di esseri umani ha subito le violenze più terribili per una presunta superiorità affermata da qualcuno rispetto a qualcun altro che sarebbe stato “meno uguale degli altri”. E questo non ha riguardato solo etnie diverse tra loro. Anzi forse dobbiamo pensare che la prima diversità che è stata pensata come qualcosa di “meno” è stata quella tra uomo e donna e tra uomo e bambino.
La donna deve essere pensata inferiore perché… non è uomo. Il bambino finché non diventa adulto viene pensato inferiore perché… non è adulto.
Diversità insanabile per la donna che per di più ha la possibilità e capacità di fare figli. Forse dobbiamo pensare che sia questa prima “diversità” che ha fatto impazzire i maschi della specie e gli ha fatto teorizzare una superiorità astratta dell’uomo sulla donna. Questa superiorità sul diverso è stata poi traslata a tutti gli altri diversi, a tutti quelli che non sono identici, che non fanno parte dello stesso gruppo, quelli fuori dai confini, i barbari, quelli che non parlano come noi, non pensano come noi, non hanno il nostro stesso dio o addirittura non hanno affatto un dio.

Non voglio addentrarmi in discorsi troppo complessi ma è significativo che le politiche regressive della destra – e il governo attuale conferma in pieno questa “regola” – si accaniscono sempre contro le donne, contro i giovani e contro gli immigrati.
Così come le tre grandi religioni monoteiste sono accomunate dal non aver mai accettato un’uguaglianza tra uomo e donna perché la donna è pensata inferiore, costola di Adamo. E quindi la sua libertà deve essere sempre limitata.
Accettare l’esistenza del diverso significa riuscire a fare un pensiero non razionale: che il diverso da sé sia un essere umano anche se non lo capiamo. Accettare che ci possa essere un rapporto con questo diverso da noi anche se apparentemente non ci si capisce per nulla. Accettare che ci possa essere un futuro comune anche se il nostro modo di vivere è del tutto diverso. Accettare che c’è un’origine comune, che ci può essere un presente comune e che ci possa essere un futuro comune in cui la nostra esistenza significa l’esistenza degli altri e viceversa. Che ci sia in altre parole un vita tua, vita mea.
Avere fiducia che ciò che non si conosce sia simile a noi. Avere la fantasia sufficiente per pensare questa possibilità.

Il pensiero razionale occidentale, il logos, oggi prevalente nel mondo, ha chiuso gli occhi sul diverso, si è chiuso nei confini della polis e poi della nazione. Le religioni hanno stabilito che la donna deve fare figli da donare al pater familias, cui chiedere di accettarli e non ucciderli, la donna deve essere al suo servizio per soddisfare le sue necessità, quelle della famiglia e quelle della nazione che si definisce “patria”, la terra dei padri. È il padre, il maschio razionale, che definisce la nostra identità, la nazione che definisce la nostra cittadinanza, il credo religioso che stabilisce la nostra “umanità”. Gli “altri”, quelli fuori dal confine, non sono. Non ci può essere uguaglianza né quindi fiducia e viceversa. Bisogna credere invece di pensare, credere che ci sia il male dentro e fuori di noi, dentro e fuori dai nostri confini. Quello dentro di noi deve essere controllato con il credo religioso. Quello fuori di noi deve essere individuato e contenuto, obbligato a non nuocere alla tranquillità apatica della nostra società, al non doversi mettere in crisi di fronte al nuovo che non si conosce e non si capisce. In una recente presentazione del libro Welfare per le nuove generazioni è stato ricordato che da sempre nella storia si dice che i giovani di oggi non siano altrettanto “bravi” di quelli di un tempo. Ed è così anche oggi. Chi è più vecchio se la prende con i più giovani. Perché sono diversi, perché parlano linguaggi diversi e nuovi, perché forse pensano in modo diverso. Perché in fondo sono incomprensibili.

In quella presentazione è stato anche detto quanto sia fondamentale dare loro fiducia. Perché saranno loro che costruiranno un mondo migliore e un’umanità migliore di quella di oggi. Perché è la storia che ci dice questo: c’è un’evoluzione lenta, complicata, terribile e poi veloce e meravigliosa, affascinante, che con tempi lunghi e poi con accelerazioni, con sterzate che riportano indietro e idee che travolgono e accelerano in avanti, l’umanità ha costruito e sta sempre costruendo un mondo che sia sempre meglio di come è.

So che può apparire un pensiero ingenuo in questo momento tragico per il mondo. Ma è anche vero che se guardiamo al passato vediamo che il mondo attuale è per molti versi migliorato. E però va visto che questo non basta e non basterà mai. Non esiste la società ideale così come non esiste un punto di arrivo nella realizzazione personale. La ricerca personale è continua così come la ribellione all’ingiustizia, al negativo del mondo e dell’essere umano non ha mai fine. È un divenire infinito in cui siamo tutti protagonisti ma in particolare lo sono i giovani. Perché l’ambizione di tutti i giovani, sempre, è quella di ribellarsi al costituito e cambiare il mondo. Dobbiamo avere sempre fiducia nel diverso da noi. La storia è costellata da tragedie ma è anche costellata da imprese straordinarie, dalla genialità di “giovani” che hanno cambiato il mondo e il corso della storia. Così come è straordinaria ogni storia personale. Nessuno può e deve essere considerato poco importante. L’esistenza di ognuno è importante per gli altri. Vanno pensate soluzioni che siano impossibili per il pensiero attuale ma che siano possibili per un pensiero futuro. Io penso che così come era impensabile una unione europea soltanto un secolo fa, oggi dobbiamo pensare che la soluzione del problema economico e di identità dei Paesi europei è immaginare una nuova Europa che abbatta i propri confini e abbracci il Mediterraneo per realizzare una Unione Europa-Africa.

Che si pensi e poi si realizzi una Politica che immagini un mondo nuovo e affermi quella unica origine comune di esseri viventi che, ad un certo punto, hanno deciso di migrare, di andare incontro al nuovo perché avevano fiducia nel futuro anche se assolutamente sconosciuto.

L’aborto non è un omicidio. Basta violenza sulle donne

Più realisti del re. Dopo la carrellata di soli politici maschi attovagliati da Vespa per parlare di aborto (compreso il Pd Zan), la vicedirettrice del Tg1 Incoronata Boccia il 20 aprile scorso ha detto nel programma di Serena Bortone su Rai 3 che «l’aborto è un delitto non un diritto», esprimendosi così contro una norma dello Stato, la legge 194. E poi, come se non bastasse, ha sciorinato come un rosario le parole di madre Teresa di Calcutta che, nel 1979 durante la cerimonia dei Nobel, alla domanda su quale fosse per lei il pericolo maggiore per l’umanità rispose: «Il pericolo più imminente non è la guerra ma l’aborto». Per sapere quanto lievitassero i conti all’estero della suora grazie a donazioni mentre privava i bambini di farmaci salva vita per mandarli dritti “in paradiso” rimandiamo al libro inchiesta La posizione della missionaria di Christopher Hitchens pubblicato in Italia da Minimum fax. Documentatissimo. Non c’è da aggiungere altro.

Quel che più ci indigna oggi è che sulla tv pubblica si possano fare affermazioni antiscientifiche e religiose sull’aborto e senza contraddittorio. La legittimazione viene indirettamente da Fratelli d’Italia, partito della presidente del Consiglio, che ha presentato un emendamento perché associazioni pro vita, in gran parte legate al movimento integralista neocatecumenale, possano fare propaganda religiosa nei consultori. La collega del Tg1, più realista del re, è andata in scia (come il dirigente Rai che ha censurato il monologo di Scurati costringendo poi Meloni stessa a intervenire per provare senza successo a metterci una toppa).

Lo ribadiamo. Decenni di acquisizioni scientifiche che da sempre divulghiamo su Left, ci dicono che la vita umana inizia alla nascita. «La donna che ha deciso di abortire non uccide una vita umana come si vuol far credere – ha detto la neonatologa e psicoterapeuta Maria Gabriella Gatti su queste pagine -. Il feto ha una realtà puramente biologica e quindi anche sul piano etico e giuridico l’aborto non può essere equiparato a un omicidio». E ancora: «Affermare che il “concepito”, cioè l’embrione, è un soggetto di diritto deriva da un pregiudizio ideologico di natura religiosa cristiana: così l’identità umana sarebbe rappresentata dal solo genoma. È assurdo considerare l’embrione “vita umana” quando ancora non si sono realizzate strutture anatomo-funzionali nel sistema nervoso che possono sostenere un’attività di pensiero: prima delle 22-24 settimane se il feto nasce, la corteccia cerebrale non è pronta per reagire ad uno stimolo esterno e non ci può essere alcuna reazione e quindi nessuna possibilità di pensiero».

Se in Italia non c’è stata contromossa politica all’iniziativa clericale di Fratelli d’Italia a parte un emendamento del Pd che è stato bocciato, una voce si è alzata dall’Europa segnalando l’inopportunità di quel blitz imbarcato in un provvedimento che riguarda il Pnrr, ovvero fondi elargiti all’Italia per fare riforme che ammodernino il Paese. Meloni da sempre dichiara di non voler mettere mano alla Legge 194, ma intanto quasi ovunque la percentuale di ginecologi obiettori negli ospedali pubblici che mediamente è del 70% impedisce di fatto l’interruzione volontaria di gravidanza. Come se non bastasse, nelle Regioni guidate dal centrodestra è quasi impossibile ricorrere all’aborto farmacologico con la Ru486, definita salvavita dall’Oms e che la ministra Roccella da anni stigmatizza come strumento di aborto chimico. E in molte Regioni a guida destra-destra, come l’Umbria, si è addirittura cercato di imporre alle donne di ascoltare il battito del cuore del feto incuranti dei danni che potrebbe provocare.

«Oltre all’evidenza che si tratti di una proposta populista, è anche inapplicabile per diversi motivi» ha osservato il ginecologo e divulgatore scientifico Salvo Di Grazia citando le raccomandazioni della Società britannica di ecografia. «Concentrare il fascio dell’ecografo per sentire il battito embrionale dal punto di vista medico configura un possibile danno. Il fascio di ultrasuoni fa aumentare la temperatura nel piccolissimo cuore (e in altri organi) dell’embrione. Questo non crea per forza danni al feto formato ma può crearne alle cellule embrionali, se l’esame si prolunga oltre pochi secondi. Ciò autorizzerebbe migliaia di richieste milionarie di risarcimento. Chi le pagherà?».

Se l’obiettivo della proposta inserita nel Pnrr, come affermano fonti di Fratelli d’Italia, era dare piena applicazione a una possibilità già contenuta nella legge 194, allora perché non elaborare emendamenti per garantire l’accesso all’aborto? E invece no, si calpestano i diritti delle donne. Come già con l’antiscientifica proposta di legge per il riconoscimento di una impossibile personalità giuridica dell’embrione avanzata dal forzista Gasparri che si genuflette ai diktat vaticani, l’obiettivo è chiaro: criminalizzare le donne che decidono di interrompere una gravidanza. Spingerle in depressione, come auspicavano alcuni gruppi religiosi anti abortisti che qualche anno fa diffondevano fake news su una inesistente sindrome del boia che, a loro dire, sarebbe stata il destino delle donne che decidono di abortire. All’epoca fu un grande ginecologo come Carlo Flamigni a farci scoprire la truffa.

Ora è tempo che la sinistra si mobiliti contro tutto questo, con argomenti certi, scientificamente fondati, perché altrimenti si resta sul piano delle opinioni e non si è convincenti. Non basta dire che il diritto delle donne a interrompere una gravidanza lo stabilisce la legge. Bisogna argomentare le ragioni per cui una donna che decida di interrompere una gravidanza non è un’assassina. Certamente è necessario fare campagna per la contraccezione, ma quando la scelta della donna è di abortire bisogna non solo far sì che possa praticare questo suo diritto ma anche fare informazione perché le donne possano affrontare quel momento senza sensi di colpa. Gli strumenti come detto ci sono, li offre la moderna neonatologia che ha confermato anche sul piano biologico l’esattezza della Teoria della nascita di Massimo Fagioli. La vita umana, come è stato dimostrato, comincia alla nascita, l’embrione e il feto hanno una vitalità biologica, ma non sono ancora vita umana. Solo intorno alle 22-24 settimane il feto comincia ad avere possibilità di vita autonoma, fuori dell’utero. Un seme di una pianta, caduto casualmente sul terreno – affermano gli scienziati -, avrebbe più possibilità di vita.

Oltre i confini di un’Italia che il governo Meloni vuole sempre più arretrata culturalmente, queste sono ormai solide acquisizioni . La Francia, che da secoli ha separato Stato e Chiesa, ha introdotto il diritto all’aborto in Costituzione e l’Europa punta a inserirlo nella Carta fondamentale per iniziativa dei partiti progressisti.
Pensiamoci quando voteremo alle elezioni di giugno.

Foto di Renato Ferrantini, presidio di Non una di meno, Roma, 8 settembre 2023

Ritorno all’Africa tra elettronica e griot

“Il jazz è morto!”. Questa stanca ed inutile affermazione si ripresenta ciclicamente nel dibattito tra appassionati ed “addetti ai lavori” alludendo all’eterno scontro sotterraneo tra nostalgici e propugnatori del nuovo verbo.
Il jazz è per propria intrinseca natura, musica di ricerca e contaminazione e trae nutrimento dalle culture, dalla storia e dalle condizioni sociali dell’intera popolazione, ivi compresi gli artisti ed i musicisti che si muovono in quel contesto. Pertanto, come un’araba fenice, il jazz ciclicamente risorge dalle proprie ceneri assorbendo e rielaborando le influenze esterne che, in una società ormai globalizzata, possono arrivare da tutte le parti del mondo in tempo reale. In questo scenario non desta stupore il fatto che alcune delle suggestioni più interessanti del jazz contemporaneo arrivino da luoghi un po’ “eccentrici” rispetto alla più consueta provenienza statunitense o europea. Le linee di confine tra i generi musicali, un tempo ben definite ed anche geograficamente circoscritte, si fanno sempre più sfumate e spesso scompaiono nell’attitudine all’ascolto delle nuove generazioni, abituate ormai ad assorbire suggestioni e stili che la rete mette facilmente a portata di mano. Ecco allora che musicisti caraibici, sudafricani, orientali o sub-sahariani arrivano ad influenzare i nuovi ascoltatori ormai abituati all’incontro con musiche “altre”.

Tra gli artisti affermatisi negli ultimi anni Nduduzo Makhathini, pianista compositore e band leader, viene dal Sud Africa, e dopo una serie di lavori registrati nel Paese di origine, ha inciso due album per la prestigiosa Blue Note che, con il suo ultimo lavoro In the spirit of Ntu, ha voluto inaugurare una nuova specifica collana denominata Blue Note Africa. Makhatini, influenzato dall’approccio contemplativo di Coltrane e McCoy Tyner, si riaggancia comunque ad una tradizione jazzistica sudafricana di grande spessore, portata avanti non senza difficoltà – a dispetto dei lunghi anni di terribile apartheid – da un gruppo di illustri musicisti costretti all’espatrio come il pianista Abdullah Hibrahim (Dollar Brand), in arrivo a maggio in Italia (v. box), il trombettista Hugh Masekela e l’indimenticabile Miriam Makeba.
Anche in America ci sono molte novità interessanti che si muovono all’interno o al contorno del cosiddetto Bam (acronimo per Black american music), un movimento radicale lanciato dal trombettista Nicholas Payton, che rivendica con forza le radici afroamericane della propria musica, rifiutando a priori l’appellativo ormai consunto di “jazz”.

Ada Montellanico e Il canto proibito delle donne

Ada Montellanico, musicista, cantante e didatta è da sempre fortemente impegnata nella difesa dei diritti dei musicisti, ed in particolare del “fare musica”. Dal punto di vista artistico la sua ricerca espressiva si è sempre indirizzata verso nuovi confini e sperimentazioni, nelle quali è stata affiancata da partner illustri ed ogni volta diversi per attitudine e sensibilità. Basterà ricordare la sua lunga frequentazione con il repertorio di Luigi Tenco, riletto a fianco di Enrico Rava prima ed Enrico Pieranunzi poi, e gli omaggi alle grandi cantanti afroamericane, Billie Holiday nel 2008 e Abbey Lincoln con l’album Abbey’s Road del 2017.
Proprio a quel progetto si ricollega la formazione del nuovo album Canto proibito (Giotto/Egea 2024) che presenta la cantante accompagnata nuovamente da un ensemble con soli strumenti a fiato e sezione ritmica, senza alcuna presenza di strumenti armonici, guidato magistralmente dalla tromba e dagli arrangiamenti di Giovanni Falzone, in un sodalizio artistico più che decennale, iniziato con l’album Suono di donna del 2012, dedicato ancora una volta alle donne, artiste e compositrici in particolare.
Una formazione del tutto particolare, che, lavorando per sottrazione, permette alla voce di Ada, ambrata, flessibile e ricca di sfumature, di improvvisare liberamente sulle melodie originali, alternando aperture melodiche ad affilate incursioni nel canto “scat”, sia in contrappunto, che all’unisono con tromba e trombone: quindi non lo schema usuale di una cantante solista accompagnata da un quartetto, ma un vero e proprio quintetto con la voce di Ada come terzo strumento a fiato.
Incurante dei rischi, Montellanico ha voluto ancora una volta alzare l’asticella con un progetto quantomai visionario e del tutto inedito, andando a rivisitare il repertorio del canto barocco in chiave jazzistica. Come spiega il musicologo Francesco Martinelli nelle note di copertina: «In questo progetto la scelta è caduta su un periodo meno esplorato, quello del barocco maturo, con brani composti tra il 1649 e il 1724, simbolicamente proprio dopo la scomparsa di Monteverdi».
«L’idea è nata come la sintesi di tutto il mio percorso artistico – ci racconta Ada Montellanico – che parte da lontano e che potremmo riassumere in tre strade che sono andate poi a confluire in questo progetto. La prima riguarda i miei esordi con la ricerca e lo studio della musica popolare italiana, un repertorio al quale ha spesso attinto anche la cosiddetta musica “colta”. La seconda riguarda i miei studi di conservatorio che, non essendo ancora previsto a quel tempo l’insegnamento del canto jazz, giocoforza mi hanno condotto allo studio ed all’esplorazione del canto lirico, ed infine il jazz, che è il terreno nel quale mi sono cimentata, nella mia definitiva maturazione artistica».

La radice africana nell’opera di Picasso

Picasso, Donna nuda (1907)

«Al pittore Picasso che arriva a Parigi manca qualcosa; qualcosa che gli permetta di volare con le proprie ali e di esplorare quelle strade che lo porteranno a porsi alla guida dell’arte parigina e, per estensione, europea», scrivono Malén Gual e Ricardo Ostalé Romano, curatori della mostra Picasso la metamorfosi della figura al Mudec di Milano fino al 30 giugno.
«In questo processo, la sua mente di artista è come una spugna che assorbe tutto, lo filtra, lo restituisce al mondo con la sua particolare visione e un modo assolutamente unico di intendere le forme». Dal vivo, nelle sale del museo milanese quelle forme danzano in un flusso ininterrotto di schizzi, di disegni, di abbozzi. Sono i sorprendenti disegni preparatori de Les Demoiselles d’Avignon che, squadernati qui senza soluzione di continuità, mostrano come in una sequenza cinematografica la continua ricerca di Picasso sul movimento, sul corpo femminile fuso alla realtà interiore. Emerge potentissimo il suo tentativo di coglierne la dimensione irrazionale attraverso visioni che disarticolano la figura, cercando il punto di vista molteplice, mai univoco e frontale.
I due curatori hanno impaginato questa mostra costruendo un affascinante palinsesto di immagini: accanto ai disegni picassiani dell’Album n.7 maggio-giugno 1907 e a una selezione di quadri, fra i quali la fiammeggiante Femme nue (1907) il cui volto emula una maschera maliana Suruku, compaiono alcune magnetiche sculture di arte africana che Picasso collezionava.

Picasso, testa indiana variopinta (1907-08)

Colpisce in particolare un elegante guardiano di reliquiario proveniente dal Gabon assonante con una cilindrica bambola che Picasso incise nel legno nel 1907 e- almeno per chi scrive – del tutto inedita. Poco più in là una iconica Testa triste dal volto bianco (detta il clown, 1907) attira il nostro sguardo e fa pensare a una scultura che fa parte del patrimonio artistico della popolazione Kota del Gabon, che si trovava nello studio di Picasso e ha tutta l’aria di essere stata l’ispirazione di questo olio su tavola appartenente a un privato. E ancora appare fortissimo il richiamo fra la forma a clessidra della donna nuda di spalle che Picasso tracciò con il carboncino nel 1908 e una splendida figura antropozoomorfa in legno proveniente dalla popolazione Chamba della Nigeria.

Scuola, salute mentale e benessere sociale

Welfare per le nuove generazioni nasce dal tentativo di comporre prospettive e contributi che nascono in ambiti diversi in un momento storico in cui le nuove generazioni stanno mostrando una solida consapevolezza circa il loro diritto al benessere mentale.
Nella parte prima, il libro si concentra sul “problema di policy” – su quanto cioè il nostro sistema di welfare sia tradizionalmente poco rivolto verso le nuove generazioni -, su chi sono i giovani, i principali problemi che li riguardano e le politiche che possono essere introdotte a loro favore. Nella parte seconda, affronta invece il tema delle possibili soluzioni, con uno sguardo particolare alla scuola come presidio del loro benessere e luogo nel quale le differenti politiche dedicate ai giovani in età scolare possono essere definite e implementate. Pur mettendo al centro la scuola, l’analisi esula dalla mera attribuzione a essa di nuovi compiti e funzioni. L’idea è guardare al suo rapporto con il territorio e considerarla come la sede in cui i diversi attori locali che si occupano di giovani possono contribuire a definire e attuare strategie e interventi volti a promuoverne il benessere. La scuola, quindi, non è intesa esclusivamente come spazio di apprendimento e istruzione ma come ambito nel quale gli studenti possono crescere e sviluppare la propria personalità anche grazie alla sua apertura al territorio.
Il volume si articola in nove contributi. Nel primo, delineo il framework all’interno del quale si sviluppa la riflessione complessiva. L’analisi muove dall’evoluzione dello Stato sociale mostrando che, solo nella storia più recente, bambini e ragazzi sono diventati un target specifico di welfare e l’istruzione la principale leva attraverso cui dovrebbe essere garantita l’uguaglianza e promossa la mobilità sociale. Poi l’accento è posto sui processi di innovazione che hanno interessato i sistemi di welfare locale e sull’idea di benessere cui la protezione sociale dovrebbe tendere. L’attenzione si concentra sulla necessità di proporre una distinzione fra bisogni ed esigenze, sulla scorta di quanto elaborato in ambito medico dallo psichiatra Massimo Fagioli e successivamente esteso al campo dell’economia. Infine, si afferma l’importanza di ripensare la scuola come istituzione fortemente connessa al territorio e come volàno collettivo attraverso il quale gli attori istituzionali e sociali possono promuovere il benessere dei giovani.

Addormentarsi e sognare un colpo di genio

Il volume intitolato Coscienza e attività onirica scritto da Francesca Fagioli, pubblicato dalla casa editrice L’Asino d’oro nella collana Bios Psychè, all’interno della serie “Percorsi di ricerca con Massimo Fagioli” viene presentato l’11 maggio al Salone internazionale del libro di Torino. Questo lavoro critica profondamente le concezioni tradizionali nel campo del sonno e dei sogni, introducendo un approccio innovativo. Attingendo alla Teoria della nascita proposta da Massimo Fagioli a partire dal suo primo volume Istinto di morte e conoscenza, il libro esamina con rigore scientifico e un linguaggio chiaro e coinvolgente due questioni centrali: il metodo più appropriato per studiare un fenomeno estremamente soggettivo come il sogno, e la definizione e il ruolo dei sogni nella psiche umana. Inoltre, si discute come l’interpretazione dei sogni possa avere una significativa valenza medica, offrendo strumenti diagnostici e terapeutici fondamentali nella pratica clinica. Questo testo innovativo dimostra come la ricerca sui fenomeni onirici possa aprire nuove frontiere nella comprensione delle dinamiche psichiche.
Un esempio storico che illustra l’eccezionale potenziale dei sogni nel guidare scoperte scientifiche si trova nella vicenda di Otto Loewi. La notte prima di Pasqua del 1921, lo scienziato Otto Loewi si addormentò mentre leggeva. Ebbe quindi un sogno in cui visualizzava un esperimento che avrebbe potuto porre fine al dibattito su come i neuroni comunicassero tra loro. Si svegliò di notte, annotò rapidamente il suo sogno e si riaddormentò. Al risveglio, con grande frustrazione, non riuscì a decifrare le sue stesse note. La notte seguente, Loewi ebbe lo stesso sogno alle 3 del mattino. Questa volta, decise di non rischiare e si diresse direttamente al laboratorio per eseguire l’esperimento. Il risultato fu tale che portò alla scoperta della natura elettrochimica della trasmissione nervosa, un’impresa che gli è valsa il Nobel nel 1936. Questo evento, oltre a rappresentare una svolta nello studio neuronale e nella comprensione dei neurotrasmettitori, è celebre per il suo insolito metodo di scoperta: fu il pensiero inconscio, non quello cosciente, a guidare Loewi. La storia di come il sogno abbia giocato un ruolo cruciale in questa scoperta scientifica è diventata forse più famosa dell’evento stesso. In maniera totalmente opposta al metodo positivistico, che prediligeva logica ed empirismo, il sogno di Loewi ha rivelato un aspetto più intuitivo e meno tangibile della ricerca scientifica, dimostrando come il pensiero non cosciente potesse arrivare là dove la ragione non riusciva.

Lu Min: Racconto la mia infanzia nella Cina operaia

«Mi interessano le persone. Spero che nei miei romanzi i lettori possano vedere il volto di ognuna di cui scrivo», dice la scrittrice cinese Lu Min, autrice di Cena per sei (Orientalia editrice) che sarà a Milano (università Cattolica e Statale il 6 e 7 maggio), al Salone del libro di Torino il 9 maggio, a Roma (Dipartimento studi orientali de La Sapienza), il 13 maggio.
Lu Min, prima di diventare scrittrice, ha fatto molti lavori: impiegata alle poste e poi in un ufficio, progettista aziendale, reporter, segretaria e funzionaria statale. Qual è stato il punto di svolta che l’ha portata a scrivere per professione?
La scelta di scrivere per professione è stata un vero punto di svolta, un colpo di scena. Avevo più o meno 24 anni, stava calando la sera e io compilavo noiosi documenti nel mio ufficio in un palazzo di trenta piani. Dalla finestra vedevo i giochi di luce del tramonto. Nuvole scure galleggiavano nel cielo sopra le teste dei passanti: impiegati statali, venditori ambulanti, poliziotti, fattorini dell’acqua, camerieri, mamme che spingevano passeggini e così via. Avevo l’impressione di vedere anche me stessa tra la folla, correvo ansimando senza una meta. Osservavo la gente e al contempo mi guardavo. Era come se tutte quelle teste ondeggiassero in un oceano. Capii che non vedevo quelle persone per come realmente erano. L’esteriorità celava sentimenti, esperienze. Come lunghe ombre si trascinavano dietro segreti, dolori e fantasie. Ne rimasi colpita, provavo il desiderio disperato di avvicinarmi alle loro vite, ai loro cuori. Mi serviva uno strumento legittimo per farlo, un telescopio ad alta definizione o una corda da mago. Quel giorno lo trovai: la narrativa. La scrittura mi avrebbe dato la libertà e il diritto di frugare nei loro segreti. Tornai alla scrivania, chiusi il documento di lavoro, aprii un file vuoto e digitai le mie prime righe da scrittrice.
Com’è diventata una scrittrice?
Il tramonto che sembrava essere arrivato all’improvviso era stato preceduto da una lunga gavetta. Non ho ricevuto una buona istruzione, non ho frequentato l’università e ho iniziato a lavorare a 18 anni. Mi è sempre piaciuto avere a che fare con gli estranei. Le loro vite, i loro dolori e le loro gioie sono state la mia scuola. L’infanzia trascorsa in campagna ha avuto un impatto significativo su di me, ho un ricordo romantico di quella vita povera e lenta. Mia madre, una maestra elementare dal carattere forte, tirò su me e mia sorella da sola. Mio padre, poco presente da vivo e morto presto, ha plasmato la mia sensibilità con la sua assenza. Ero ottimista e pessimista allo stesso tempo, la povertà non mi toccava ma mi lasciavo entusiasmare dal destino degli altri. Forse sono stati fattori accidentali e irrilevanti come questi a fare di me una scrittrice. A volte penso di essermi spinta sulla strada della scrittura non grazie al talento ma per indole.

Ilan Pappé: «Il progetto di Tel Aviv in Palestina fallirà»

«La Palestina non era un deserto che aspettava di sbocciare; era un paese pastorale sul punto di entrare nel XX secolo come società moderna, con tutti i benefici e le problematiche di tale trasformazione. La sua colonizzazione da parte del movimento sionista avrebbe trasformato questo processo in una catastrofe per la maggior parte dei nativi che abitavano quelle terre», così Ilan Pappé nel suo 10 miti su Israele (Tamu edizioni, traduzione Federica Stagni). Docente all’ateneo di Exeter nel sudovest britannico, il rinomato studioso di origine israeliana è tra le voci più abrasive nella ricostruzione critica dei fatti di Palestina e dei misfatti compiuti dal sionismo. La sua analisi è invisa a vasti settori dell’accademia ebraica e del mondo politico israeliano. Forte della sua storia di ex docente universitario a Haifa, di attivista nella compagine di sinistra Hadash e per la tenacia e ricchezza della sua ricerca storica, il professor Pappé sviluppa argomenti che demoliscono il compatto monolite occidentale in difesa della condotta israeliana, mentre da oltre sei mesi è ancora in pieno svolgimento lo sterminio dei palestinesi di Gaza. Lo abbiamo contattato a pochi giorni di distanza da un suo recente intervento a Palazzo Vecchio nell’ambito di una conferenza internazionale promossa dal consiglio comunale di Firenze e dall’Anpi Firenze.

llan Pappé al festival di Edimburgo, 2012 Pic by Pako Mera

Professor Pappé, il discorso egemone in Occidente respinge l’equazione tra sionismo e colonialismo d’insediamento. Nella sua produzione storica e scientifica lei inquadra il sionismo come ideologia che sottende un processo colonialista volto a eliminare il popolo palestinese nativo e indigeno. Può chiarire le basi su cui si fonda il suo pensiero?
Sì, è vero che definisco il sionismo un’ideologia alla base del colonialismo d’insediamento. Si tratta di qualcosa di ben diverso da ciò che comunemente s’intende per colonialismo classico. Questo afferisce infatti all’iniziativa delle grandi potenze imperiali finalizzata a raggiungere territori più o meno lontani per stabilirvi colonie che, in un primo tempo, mirano allo sfruttamento di risorse, materie prime, quindi assoggettando i nativi, fino a esser poi spazzate via dai grandi movimenti di lotta anticoloniale. Il sionismo dà vita invece al colonialismo d’insediamento in Palestina: rifugiati ebrei, emarginati e indesiderati in Europa, cercano di costruire uno Stato ebraico europeo in un territorio dove è già presente e radicato un altro popolo. Inizialmente supportati dalla Gran Bretagna, hanno via via occupato territori trasferendo o espellendo il maggior numero possibile di popolazione indigena. Ribellatisi poi agli stessi britannici e con la creazione di Israele, persistono nel sanguinario conflitto contro il movimento anticolonialista degli indigeni palestinesi.

Dietro al premierato c’è il padre-padrone

Con l’approdo in Senato del testo del premierato, il dibattito sulle riforme istituzionali, rimasto finora in sordina, ha cominciato ad alzare la voce. Protagonisti sono ovviamente i costituzionalisti che hanno preso in larga parte posizione contraria sulla base di solidi argomenti giuridici. Un contributo nuovo, da una prospettiva diversa, può venire invece dall’antropologia politica, un ramo dell’antropologia culturale nato per indagare le possibili forme di organizzazione politica attuate nelle comunità umane.

L’antropologia culturale fin dai primordi poté constatare che i cosiddetti “selvaggi” non erano affatto schiavi di istinti incontrollati e non vivevano in comunità prive di regole, come sembrava suggerire il termine con cui venivano designati. In particolare la ricerca etnografica mostrò che i popoli “selvaggi” erano stati capaci di sviluppare una varietà di organizzazioni politiche perfettamente funzionanti anche in assenza della forma Stato. La distinzione fra società statuali e società prive di Stato o “acefale”, divenne la pietra angolare su cui l’antropologia politica iniziò a costruire il suo edificio teorico.
In tempi recenti una nuova dicotomia, che ricalca solo in parte la precedente, è stata introdotta dal collega e compagno di ricerche Alberto Cacòpardo in un volume dall’intrigante titolo Chi ha inventato la democrazia? (Meltemi 2019). La nuova dicotomia è quella fra due poli di un continuum, caratterizzati come “modello fraterno” e “modello paterno”. A un estremo abbiamo forme politiche a struttura orizzontale, basate su un rapporto paritario fra i membri del gruppo. All’estremo opposto troviamo invece forme a struttura verticale, che conoscono la gerarchia e la frattura fra dominatori e dominati, come gli assolutismi e le dittature. L’autore illustra la genesi e le articolazioni dei due modelli nell’ottica della domanda posta nel titolo, per indagarne poi le vicende nella zona delle nostre ricerche, la regione afghano-pakistana-indiana del Hindukush-Karakorum.

Il modello fraterno, che l’etnografia ha costantemente riscontrato nelle società acefale, senza Stato, ha con ogni probabilità caratterizzato le comunità della nostra specie homo sapiens per il 95% dei circa 200.000 anni della sua storia. È ragionevole presumere che per decine di migliaia di anni gli umani abbiano conosciuto solo il modello fraterno, di cui sono esistite, ed esistono ancora, innumerevoli varianti. In società di questo tipo possono emergere dei leader, ma dotati di influenza e non di potere: non possono imporre la loro volontà con la forza, e per acquisire e mantenere la loro posizione, devono assolvere a una serie di obblighi nei confronti della comunità, in primis quelli di distribuire beni e di risolvere dispute; mentre le decisioni che riguardano tutti – ovvero quelle della sfera politica – in sistemi di questo tipo vengono prese tipicamente da consigli di anziani o in pubbliche assemblee aperte a tutti gli interessati.